l’Unità 24.9.12
Camusso: «Non è cambiato nulla rispetto a prima»
La delusione Fiom: «Una favoletta che non convince. Da Fiat dobbiamo pretendere certezze»
di Lu. Ven.
Ci sembra che non sia cambiato nulla rispetto a prima». Questo è il dato di realtà rilevato dalla segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso. Nonostante la sede ufficiale Palazzo Chigi e nonostante l’insistenza dell’interlocutore un governo intenzionato come non mai ad ottenere rassicurazioni sulla permanenza Fiat in Italia l’amministratore delegato de Lingotto non ha fornito nemmeno sabato sera quelle risposte certe e definitive che il Paese gli chiede da anni.
LA DELUSIONE DELLA CGIL
Dunque, anche per il sindacato di Corso Italia la strategia non cambia: continuare a richiamare l’azienda alle proprie responsabilità, chiedere chiarezza sulle strategie future, e sollecitare il governo a farsi parte attiva nella definizione di una politica industriale che
non disperda il tessuto produttivo nazionale. «La Fornero aveva preannunciato un incontro con le parti sociali subito dopo quello che si è svolto ieri. Credo sia il caso di accelerare i tempi e invitare all’incontro anche l'azienda» ha aggiunto la Camusso.
Apertamente critica la reazione dei metalmeccanici della Fiom: «Siamo molto delusi, l’unico documento che abbiamo è solo un comunicato generico. La favoletta dei mancati investimenti in tempo di crisi non ci convince» ha sottolineato il responsabile auto della categoria, Giorgio Airaudo. «Se vogliamo salvare l’industria automobilistica dobbiamo pretendere qualcosa da Fiat che non è più l’azienda nazionale che abbiamo conosciuto, ma è una multinazionale dalla quale dobbiamo avere certezze».
Fuori tono rispetto al generale panorama delle reazioni politiche e sindacali, tutte improntate a scetticismo, quando non a manifesta delusione, sono state le prime parole del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che fin dalla presentazione in pompa magna dell’ormai defunto progetto Fabbrica Italia ha concesso all’ad del Lingotto ampissimo credito.
LA SODDISFAZIONE DI BONANNI
Così, anche stavolta: «I gufi sono stati smentiti. Marchionne ha confermato che la Fiat non andrà via dall’Italia ma punterà nei prossimi mesi sull’export in attesa che si riprenda il mercato interno» ha commentato. Augurandosi a breve una convocazione da parte dell’azienda: «L’incontro tra la Fiat e il governo è stato un fatto positivo, ma ora la Fiat deve incontrare nei prossimi giorni anche i sindacati che si sono assunti le proprie responsabilità per gli investimenti peraltro già realizzati di Pomigliano e Grugliasco». Bonanni ha applaudito l’auspicato potenziamento delle esportazioni: «Questa è una strada giusta in un momento difficile della nostra economia, in cui il governo e le parti sociali dovranno stipulare un patto sociale per far ripartire la crescita, i salari e i consumi». E ha giustificato la cancellazione degli investimenti: «Il mercato dell’auto piange per tutti. Gm e Peugeot licenziano, fortunatamente Fiat ancora no. Marchionne ha tutte le attenuanti del mondo per ritardare il Piano Fabbrica Italia anche se spero che lui lo riconfermi qualora il mercato dovesse riprendere».
Ben più prudente la reazione del segretario generale della Uil: «Non era realistico attendere dei miracoli, quindi rimane tutto un lavoro da fare per capire che modelli vuole produrre la Fiat in Italia. La mia delusione è stata modesta perchè le mie aspettative sull' incontro erano basse» ha commentato Luigi Angeletti, che pure, insieme a Bonanni, ha sostenuto la strategia di Sergio Marchionne che ha portato agli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori. «Non ho mai creduto che Marchionne potesse andarsene dall’Italia perchè l’Europa è un mercato troppo importante per l’auto». Certo, «la Fiat deve rischiare un po’ di più, gli imprenditori non possono investire solo quando si vende. Serve un confronto serrato per capire quali sono i modelli e quando li vorranno produrre in Italia».
La Stampa 24.9.12
Stefano Fassina: “Quante fabbriche resteranno aperte?”
Stefano Fassina, responsabile economico del Partito democratico. Lei ieri era sembrato un po’ scettico sull’incontro tra Fiat e governo.
Abbiamo capito male?
«Guardi: Fiat è entrata a Palazzo Chigi con un deficit di credibilità. Quando aveva annunciato Fabbrica Italia aveva presentato un piano che, oggettivamente, già allora sembrava improbabile. Tant’è che poi è andato a finire come sappiamo. Ora, capisce bene, che l’opinione pubblica si aspetta una parola di chiarezza. Tutto qui».
Quindi lei non sarà convinto finché non vedrà dei fatti?
«Io dico che il governo ha fatto bene a incontrare Fiat (anzi, mi faccia dire Fiat-Chrysler che è più corretto), ma avrebbe dovuto farlo prima. Perché nel precedente incontro, quello tenuto in primavera, si era usciti da palazzo Chigi con poco più di una pacca sulla spalla. Ora il contesto mi sembra diverso, il paese chiede chiarezza e il governo fa bene ad esigerla. Tant’è che si è deciso di aprire un tavolo e so che su Fiat-Chrysler ci sono ormai punti chiari e ben definiti da affrontare, e a questi l’azienda non può sottrarsi».
E quali sarebbero questi punti?
«Intanto osserviamo che in questa fase di ristrutturazione globale del comparto auto, Fiat ha deciso di fare una scelta passiva: vediamo come va e poi ci muoviamo. Non mi pare una posizione rassicurante. Secondo, la crisi per intanto si scarica sui lavoratori con la cassa integrazione, e anche questo mi lascia perplesso, a dir poco. Terzo, l’azienda ha detto che resterà in Italia, ma questo ci può tranquillizzare? Resterà con tutti i suoi stabilimenti attuali? Ecco, questi punti, in sede di tavolo al ministero, vanno chiariti».
Ammetterà che un governo non può chiedere ad una azienda privata di investire solo perché lo chiede la politica.
«Ovviamente. Non può imporre una linea ad un soggetto privato, ma deve sapere quali sono le strategie, quali sono le prospettive e, beninteso, cercare una via comune di interventi che facciano incrociare l’interesse del paese con quello dell’azienda».
Insomma, secondo lei, questa azienda dovrebbe venire allo scoperto con maggiore chiarezza?
«Assolutamente sì. Sui punti che dicevamo sopra, ma anche su una questione di grande rilevanza politica, rispetto alla quale il governo deve avere delle risposte. Mi riferisco al fatto che Fiat deve sanare un vulnus democratico all’interno dei suoi stabilimenti. Su questo il governo deve avere delle assicurazioni: le regole ci sono e valgono per tutti».
Si è parlato di sostegno, alla ricerca, all’export... che ne pensa?
«Ho il timore che eventuali risorse, in questa fase, possano essere assorbite soprattutto dagli ammortizzatori sociali e dalla cassa integrazione in deroga».
Lei insiste molto sul fatto che Fiat deve assumersi degli impegni. E il governo?
«Ripeto quanto detto all’inizio: un deficit di credibilità c’è. Ciò detto, e dato che il settore dell’automobile ha un peso rilevante nella costruzione del nostro Pil, è importante che il governo sappia esattamente cosa vuole fare o cosa non vuole fare Fiat in Italia. Altrimenti ha il dovere di non lasciare l’Italia sguarnita di una propria industria automobilistica. In concreto penso che non si debba far cadere l’ipotesi di un interesse di Volkswagen per il marchio Alfa e i relativi stabilimenti italiani. Semmai dovesse servire, si capisce».
l’Unità 24.9.12
Luciano Gallino: «Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007»
«Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo»
«Se anche il mercato si riprendesse Fiat arriverebbe in ritardo»
di Oreste Pivetta
Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto.
Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora.
«Chi ha mai letto – commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia – una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto,in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una possibilità del genere».
Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia?
«Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti».
Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi...
«È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto». Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana?
«Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce,chifornisce,chi(daigommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro...».
Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi?
«Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia... Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria».
L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente...
«Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».
l’Unità 24.9.12
2005-2012, i gazebo spingono la partecipazione ma non mancano le contraddizioni
Quattro primarie Ma nessuna somiglia all’altra
di Carlo Buttaronipresidente Tecnè
I dati non lasciano spazi a dubbi: le primarie sono uno strumento in grado di attivare un’ampia partecipazione. Uno studio Tecné sulle primarie nazionali che si sono svolte tra il 2005 e il 2010 (una di coalizione e due di partito), stimò un tasso di corrispondenza molto elevato (tra il 97% e il 99%) tra gli elettori delle elezioni politiche e quelli delle primarie. Veniva, infatti, confermato il rapporto tra i votanti delle primarie e delle politiche con una percentuale rilevante: tra il 23% e il 29%: circa un elettore su quattro, presumibilmente, partecipa a entrambe le consultazioni con un voto coerente.
Anche se si è trattato di primarie molto diverse tra loro in termini di offerta e situazione politica, dal punto di vista della partecipazione il riscontro è andato di là delle attese degli stessi promotori e organizzatori.
Due studiosi di prestigio come Giovanni Sartori e Piero Ignazi nutrono, però, dubbi sull’effettiva utilità delle primarie. Sartori evidenzia il rischio di selezionare candidati perdenti incapaci di attrarre i voti dell’elettorato moderato; le primarie, inoltre, producono un elevato livello di competizione che incrementa la frammentazione interna.
Sulla stessa linea anche Piero Ignazi, secondo il quale le primarie contribuiscono a rivitalizzare i partiti, ma il loro utilizzo, in una logica di frontale contrapposizione alle oligarchie partitiche, finisce col comprometterne la funzione coesiva di appartenenza. Il rischio di selezionare candidati perdenti è ampiamente sconfessato dai risultati delle elezioni (da Prodi a Pisapia, in primarie nazionali e locali), mentre i rischi di frammentazione vanno ricondotti alle cause che li rendono possibili. Come osserva Arturo Parisi, le primarie non devono essere intese come una competizione in nome e per conto dei partiti, ma come un confronto tra leader che si propongono alla guida di una coalizione e che, a partire dall’ambizione di tale candidatura, sono la proposta politica da offrire ai cittadini. È semmai l’esasperata conflittualità tra partiti sempre più fragili a rendere le primarie un terreno di scontro, esaltando la frammentazione e comprimendo la politica in rigidi equilibri di potere. È questo che ha determinato la caduta del governo Prodi e le conseguenti lacerazioni nel centrosinistra che hanno prodotto effetti negativi duraturi anche nel corpo elettorale.
LO STRUMENTO GIUSTO?
Qual è dunque il punto chiave di riflessione rispetto alle primarie? Occorre chiedersi se sono lo strumento giusto per recuperare quel ruolo di rappresentanza sociale che, negli ultimi anni, i partiti hanno perso. Una crisi che affonda le radici in un sistema sempre più verticistico, elitario ed elettorale. E che, di volta in volta, ha assunto le sembianze di partito personale, di plastica, mediale, liquido e leggero, di partito-azienda.
Al posto della burocrazia politica interna, tipica dei partiti della prima Repubblica, ha preso corpo una crescente professionalizzazione del personale di staff, consulenti e collaboratori nominati discrezionalmente dal leader, che hanno sostituito i vecchi organismi dirigenti. È cresciuta la dipendenza dalle risorse pubbliche, l’esaltazione del ruolo e dell’immagine del leader ha indebolito la rete territoriale, sostituita dall’uso smodato dei media e della comunicazione pubblicitaria. Con l’affermarsi del partito personale e del leader carismatico, la membership ha perso il ruolo cruciale che svolgeva nei tradizionali partiti di massa e alimentava quei processi democratici interni che controbilanciavano la forza della leadership. La democrazia interna, nel partito di Berlusconi, non serviva perché il consenso elettorale doveva nascere dal dare risposte alle domande degli elettori e non a quelle degli iscritti. L’impostazione verticistica ha contagiato, seppur in forme diverse, quasi tutte le forze politiche, che hanno aperto i loro perimetri a idee e rappresentanze sociali molto diverse tra loro, ma unite da un fattore comune che è stato il riconoscimento di una leadership indiscussa (si pensi non solo a Berlusconi ma anche a Bossi, Fini, Di Pietro e, in parte, Vendola e Casini).
IL PARTITO MONOCRATICO
L’Ulivo prima, e il Pd poi, hanno il merito di aver rotto l’impostazione monocratica del sistema e introdotto le primarie nella vita politica italiana come strumento di democrazia interna al partito e tra i partiti. Uno strumento di partecipazione vera e attiva, capace di stimolare un orientamento civico e un apprendimento che, partendo dal «piccolo», tutela la democrazia in «grande».
Le primarie sono una sfida, perché costringono i candidati, e i partiti che li sostengono, a confrontarsi in maniera aperta con un elettorato il cui responso non è per nulla scontato. E tale sfida è particolarmente impegnativa per il Pd che, come sottolinea giustamente Parisi, le primarie può soltanto perderle, dato che al massimo può vedere confermata quella leadership che ir apporti di forza le riconoscono già ai blocchi di partenza. Ma il successo dipende dal modo con cui si affrontano. Se, da un lato, sono la scommessa su cui si è costruito il Pd, dall’altro rappresentano la sfida di un modello di partito in grado di rinnovare la politica italiana, nella prospettiva di un sistema che riporta nelle mani dei cittadini il potere di scegliere. Un passo necessario, che suggerirebbe la sua adozione da parte di tutte le forze politiche, per dare corpo a una riforma sostanziale del sistema politico italiano. Una guarigione che necessita, però, di un mix di cure, dove le primarie sono solo uno degli elementi necessari. Occorrono anche (e soprattutto) progetti, visioni e pensieri alti che le primarie possono soltanto misurare in termini di appeal dei candidati. Solo così le primarie diventano un percorso di vera aggregazione e non di perimetrazione dell’elettorato dei rispettivi candidati, cosa che, alla lunga, può avere solo ricadute negative sul sistema politico, che si troverebbe una cambiale in mano da non poter riscuotere al momento del voto.
La risposta alla domanda se le primarie sono lo strumento giusto per recuperare quel ruolo di rappresentanza sociale, non può che essere affermativa. Ma sono uno strumento, da sole non bastano. Per evitare che diventino l’appuntamento di legittimità delle leadership è necessario che siano riempite di politica e che la competizione esprima posizioni anche molto diverse ma convergenti in un campo comune.
Il Partito Democratico ha dimostrato di aver intrapreso questa strada, ma il percorso non è ancora terminato e le prossime primarie saranno decisive: in gioco non c’è solo la leadership del centrosinistra ma il ruolo dei partiti dopo la fine della seconda Repubblica. Il Pd è un passo avanti. Adesso spetta agli altri decidere se scendere nel terreno di gioco, restare in tribuna o giocare un’altra partita. Perché è evidente che togliere il nome dal simbolo non basta a porre fine alla stagione dei partiti personali e aprirsi alle domande che la società ha bisogno di esprimere in termini politici.
l’Unità 24.9.12
Bindi: «Sì a Bersani ma non mi farò rottamare»
La presidente Pd rinuncia a candidarsi, ma condiziona il suo sostegno al segretario: «Basta inseguire Renzi»
di Andrea Carugati
ROMA Alla fine ha deciso che alle primarie lei, Rosy Bindi, non ci sarà. Che sosterrà Bersani, come ha fatto fin dal congresso Pd del 2009. Ma lo sosterrà davvero, e dunque con impegno, «solo se» il segretario rispetterà le condizioni che la presidente Pd e la sua area dei «Democratici davvero» hanno dettato ieri dal loro summit a Milano marittima.
«Siamo pronti a dare una mano, ma vogliamo chiarezza», ha detto Bindi nel suo intervento conclusivo. «Non ci coinvolgeremo un’ora in più in questa campagna elettorale se Bersani non accetta una sfida ben più ampia rispetto al tema della rottamazione che ha imposto Renzi. Il segretario deve dettare l’agenda, vogliamo sentire parlare di Italia, lavoro, giovani, Europa». La presidente Pd non ha nascosto tutto il suo malessere per la piega che stanno prendendo le primarie. Partite prima, e non dopo la nuova legge elettorale e le decisioni sulle alleanze. In particolare, Bindi non ha gradito che il sindaco fiorentino abbia imposto l’agenda e focalizzato la discussione quasi solo sul rinnovamento del gruppo dirigente Pd. «Non c’era alcun bisogno di questa ulteriore iniezione di populismo e di demagogia. Al centro della proposta di Renzi non ci sono la Fiat, l’Ilva, il lavoro, la Siria o l’Europa, ma solo il tema della rottamazione».
NO A MODIFICHE ALLO STATUTO
a richiesta di Bindi a Bersani è di invertire questo trend. «Non possiamo accettare che le primarie della coalizione si trasformino surrettiziamente in un congresso di partito», si legge nel documento approvato dai bindiani. Di qui le proposte a Bersani: un «albo pubblico degli elettori delle primarie», anche se assai sgradito ai renziani. E, soprattutto, «l’impegno a non svolgere le primarie se ci saranno solo candidati del Pd». E ancora: Bindi non vuole che all’assemblea del 6 ottobre venga modificato lo statuto per consentire a Renzi e agli altri di correre. «Bersani rinunci ad avvalersi di quelle norme, ma lo statuto non sia modificato». A Renzi un avvertimento chiarissimo: «Se anche lui vincesse, Bersani resta segretario e io presidente e fino al congresso del prossimo anno le decisioni nel Pd le prendiamo noi. E io come presidente sono il garante delle regole».
Bindi lancia la sua sfida: «Accanto ai giovani voglio vedere una squadra di esperienza». Non le sono certo sfuggite le uscite di tanti quarantenni vicini a Bersani, a partire dalla neo portavoce del comitato Alessandra Moretti ma anche molti «Giovani turchi», che chiedono uno stop alle deroghe «per chi ha più di tre mandati». E citano esplicitamente il nome di Bindi tra quelli che, insieme a Veltroni e D’Alema, andrebbero messi in panchina.
L’”ULIVO PRIDE” DI ROSY
Lei raccoglie la provocazione a modo suo. E ripercorre con orgoglio la storia del centrosinistra di questi ultimi 16 anni, a partire dall’Ulivo. «Il tentativo di mettere sullo stesso piano i nostri governi e quelli di Berlusconi è una delegittimazione del Pd come tale e del segretario, che di quei governi è stato ministro». «Così non si mette in discussione solo un giudizio su alcuni leader» incalza la presidente, «ma si fa un regalo alla destra e ai populismi. Qualcuno (Renzi, ndr) sta tentando un’operazione pericolosa, quella di farci fare una compartecipazione alla pari delle responsabilità che ha avuto Berlusconi». «Ma noi attaccaabbiamo fatto parte di governi che hanno portato l’Italia in Europa, non di quelli che hanno rischiato di farla uscire».
Bindi sposa la linea di Bersani sul centrosinistra che apre a un’alleanza di governo con i moderati «che da tempo si sono affrancati dal giogo di Berlusconi». Ma anche su questo punto avverte: «Questo obiettivo non si raggiunge se il Pd si limita a ricostruire il campo dei progressisti mortificando le altre culture e tradizioni politiche cofondatrici». Il messaggio a Bersani è chiaro: «Bisogna tradurre la ricchezza delle culture in una nuova organizzazione e gestione quotidiana del partito». Insomma, Bindi fa capire che non ne starà zitta e buona a subire due mesi di campagna delle primarie in cui, sia dal team Renzi che da quello di Bersani, ogni giorno piovono richieste di rottamazione. E al segretario ricorda il cammino svolto insieme dal 2009,rivendicando il suo ruolo. «Siamo stati essenziali per costruire un partito nuovo, popolare, nazionale e plurale».
Infine, Bindi ha ricordato la sua contrarietà a una legge elettorale proporzionale: «Solo con un impianto maggioritario si salva il bipolarismo e si può avere il ritorno a un governo politico». Dal palco, la presidente Pd ha letto una lettera a lei indirizzata da Bersani che ha duramente condannato le contestazioni subite da Bindi per le sue posizioni sulle unioni gay. «Tu, nel tuo ruolo e con le tue idee, hai contribuito in modo determinante a condurre in porto un avanzamento della posizione del Pd», scrive il segretario. E aggiunge: «Nei tuoi confronti si è oltrepassato il segno di un dissenso legittimo per arrivare a forme inaccettabili di contestazione».
Enrico Letta plaude alla decisione di Bindi di non candidarsi «La sua scelta di sostenere Pier Luigi è coerente con tutto il faticoso ma essenziale lavoro che insieme abbiamo fatto negli ultimi tempi».
l’Unità 24.9.12
Vendola sogna «un unico partito» ma ancora non dice se si candida
Alla festa Pd di Milano confronto con il leader di Sel. Pollastrini: la base è la Carta d’Intenti
di Maria Zegarelli
«Il mio sogno è un unico grande partito, la nuova casa della sinistra del futuro: una sinistra post ideologica, plurale, popolare, profondamente segnata da una capacità di innovazione e di connessione con i linguaggi giovanili». Nichi Vendola parla dal palco della festa Pd di Sesto San Giovanni, a Milano, sabato sera davanti ad una sala gremita, posti in piedi. È un dibattito tra il governatore della Puglia, la parlamentare Barbara Pollastrini e il responsabile Diritti del Nazareno, Ettore Martinelli. Un unico partito, non ora certo, ma sul quale dopo questa tornata elettorale si potrà iniziare a lavorare.
Vendola, ci sta dando una notizia? «Chi mi conosce sa che la penso così», risponde. La domanda a cui non dà una risposta certa è se parteciperà alle primarie. «Nichi, noi vogliamo che tu sia nostro alleato e vogliamo che partecipi alle primarie», insiste Pollastrini. «Per ora non sciolgo la riserva perché devo capire se si tratta di primarie di partito o di coalizione. Io non sono iscritto al Pd, se è una gara tutta interna, facciano pure», spiega. La riserva la scioglierà il 6 ottobre quando l’Assemblea dei democratici stabilirà le regole interne per giocare la partita, «nello stesso momento io annuncerò quale sarà la mia decisione», spiega più tardi.
Il tema del dibattito sono i diritti, non soltanto quelli civili: innanzitutto quelli umani, centrati sulla dignità, il valore della persona. E tutti hanno un nome: lavoro, welfare, eguaglianza, cittadinanza, rispetto delle donne, riconoscimento delle coppie di fatto, diritto di scelta sulla propria vita, compreso il fine vita. «Non voglio mai più che i miei diritti siano nascosti da un acronimo, Pacs, Dico. Voglio poter chiedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso». Matrimonio e adozioni: obiettivo difficile da immaginare in Italia, eppure concreto in molti altri Paesi d’Europa. «Pier Luigi Bersani ha preso un impegno chiaro, lo ha detto il segretario del più grande partito: durante la prossima legislatura il Pd presenterà un disegno di legge sul modello tedesco» ricorda Pollastrini. «Se stavolta il Pd non riuscirà a mantenere fede all’impegno preso anche sul testamento biologico, per il quale si è impegnato a che si rispetti la volontà della persona, allora avrà fallito, non avrà più senso» incalza Martinelli.
L’intesa Vendola-Pollastrini-Martinelli ha gioco facile, «un unico partito, se discuto con Barbara, è davvero possibile», un po’ meno se i conti si fanno con tutte le altre anime del Pd. Ma prima del partito unico, ora c’è un’altra urgenza: dare un contorno preciso al programma di governo e costruire un’alleanza. «Non dirò mai ai miei alleati o fate così o vado da un’altra parte, sono ostinatamente impegnato a tessere la tela del centrosinistra e ad accorciare le distanze», spiega Vendola all’indomani dell’appuntamento a Vasto con Antonio Di Pietro.
Sa bene che accorciare le distanze tra Bersani che stasera chiuderà la festa Pd milanese e Di Pietro è in questo momento molto difficile. Ma è al Pd che parla il leader di Sel: «Non si può immaginare di parlare di cambiamento in campagna elettorale per poi entrare nei palazzi del potere e non cambiare nulla. È già accaduto che governi di centrosinistra abbiano dimenticato i programmi elettorali e poi fatto il contrario di quello che avevano promesso». Per questo, «il centrosinistra deve mettersi d’accordo su alcuni punti, perché la riforma delle pensioni deve produrre miglioramenti della vita dei pensionati, non peggioramenti, e quando si parla di riforma del mercato del lavoro bisogna capire se si usa il linguaggio di Marchionne (stoccata a Renzi, ndr) o della Cgil».
Per il Pd risponde Barbara Pollastrini: «Partiamo dalla Carta d’Intenti per scrivere l’alfabeto del programma e usiamo le primarie per aprire l’alleanza ad associazioni, movimenti e persone. L’orizzonte è l’Europa, non regge la disciplina dei conti se non si rilancia la storia migliore della civiltà del nostro continente. Parliamo di uguaglianza, cittadinanza e ancora una volta di diritti umani. Il tuo sogno, caro Nichi, lo condivido e lavoro per questo. Guardando al mondo diventa urgente l’incontro dei progressisti, dei democratici e della sinistra in unico grande partito europeo capace di un riformismo intransigente».
l’Unità 24.9.12
Primarie, scintille tra gli staff di Renzi e Bersani
Ancora scintille tra gli staff di Bersani e Renzi sulle regole delle primarie. E se sabato il sindaco di Firenze aveva spiegato che «vogliono cambiare le regole perché qualcuno ha paura di perdere», ieri è arrivata la replica degli uomini del segretario. «Vorrei rassicurare Renzi che Bersani non conosce la parola paura», ha detto Nico Stumpo. «E per questo ha scelto primarie aperte. Sarebbe meglio cambiare vocabolario e mettersi a parlare di cose serie che interessano tutti i cittadini». Sulla stessa linea Alessandra Moretti, neoportavoce del comitato Bersani: «Oltre gli slogan sui comunisti, Ceausescu, le coltellate e la paura, Renzi e Reggi cos’hanno da dire all’Italia? Non è forse arrivato il momento di parlare dei problemi veri anziché nascondersi dietro ai lamenti? Per esempio, cosa pensa Renzi di Marchionne e della scomparsa “senza se e senza ma” del piano Fabbrica Italia? Bersani non ha paura di nulla. Per troppi anni in Italia sono le regole ad aver fatto paura. Ma chi fa parte del Pd, che è il partito della Costituzione, non può avere paura delle regole». Controreplica Simona Bonafè dello staff del sindaco: «No Alessandra, dai. Se inizi così che tristezza! Le polemiche vecchio stile non servono a nessuno: informatevi sulle idee di Renzi».
Repubblica 24.9.12
Il j’accuse della Bonino “Nel 2010 il Pd mi isolò e salvò la spartizione”
“Polverini piaceva molto anche a sinistra”
intervista di Concita De Gregorio
ROMA—
La distribuzione di pani e pesci fra tutti i gruppi consiliari del
Lazio, Pd compreso, la chiama “grande spartizione inevitabile”. Su
‘inevitabile’ sorride ruvida. “Beh, sì. Alla luce della “grande
spartizione inevitabile” si capisce qualcosa di più sulla sorte della
mia candidatura alla Regione Lazio”. Emma Bonino, vicepresidente del
Senato, sta partendo per New York: è attesa stasera a chiudere la
sessione di lavoro con le leader del Benin e del Burkina Faso sulla
lotta alle mutilazioni genitali femminili.
Mi scusi, ma dovremmo parlare
invece dei toga party con teste di suino a Roma Nord…
“Prego, non si
imbarazzi. Non è mica colpa sua. E’ l’Italia, la conosco”.
E dunque
vorremmo ricordare la sua campagna elettorale nel 2010, quando perse per
pochi voti contro Renata Polverini…
“Quella campagna elettorale fu
davvero particolare, per così dire”.
Diceva che l’intervista ad Esterino Montino, capogruppo Pd in Regione, ne illumina la storia a posteriori.
“Illumina
è un verbo nobile. Fu una campagna elettorale opaca, invece. Ho letto
Montino con attenzione. Non dubito che con quei soldi il Pd non abbia
fatto festini, magari avrà fatto concerti di musica classica. Tuttavia,
vede, non è una questione — come dire — di eleganza. Il nodo è che i
soldi quando arrivano al gruppo vengono utilizzati come fossero di
proprietà privata. Sono destinati alle esigenze dei consiglieri, ma non a
quelle della comunità. Poi se queste esigenze sono di farsi una
biblioteca, pubblicare opuscoli o di ingaggiare escort questo dipende
dai gusti che, per definizione, sono personali. Dire ‘non potevamo darli
indietro’ è penoso. Potevano. Anzi: dovevano”.
E in che modo questa “spartizione inevitabile” dice qualcosa della sua sconfitta?
“Avevo
concentrato la campagna sulla trasparenza. Chiedevo anagrafe pubblica
degli eletti e dei nominati nelle aziende che fanno capo alla Regione.
Molti compagni anche del Pd mi dicevano vacci piano con la trasparenza.
Spaventi. Non capivo: spavento chi? Dal meccanismo di spartizione
unanime ora si capisce meglio che spaventavo tutti: i beneficiati e i
beneficiandi. A tutte le latitudini politiche”.
Dice: anche a sinistra?
“Senta,
parliamoci chiaro. La mia fu un’autocandidatura, ricorda? Il Pd non
aveva candidato nessuno. Polverini in quel momento era la candidata di
Fini, e una parte della sinistra corteggiava Fini perché si decidesse a
mollare Berlusconi. Renata piaceva molto a questa sinistra dei calcoli,
era molto gradita ai salotti degli strateghi, del resto la sua
popolarità è nata a Ballarò. Giganteggiava la sua candidatura solitaria,
il Pd non faceva nomi da opporle. Strano, no? Così, il 3 di gennaio, mi
sono candidata da sola”.
E poi?
“E poi silenzio. Gelo. Prima che
reagissero è passata una settimana. Alla fine Bersani ha detto: è la
nostra candidata. Ci hanno pensato Franceschini e Bindi ad aggiungere:
‘non certo la candidata ideale’. Dal Pd romano, molto legato a D’Alema a
partire dallo stesso Montino, arrivavano segnali di freddezza di cui
conservo tracce. Le dico solo che il comitato elettorale è stato
costituito il 2 febbraio, a un mese dal voto”.
Soprattutto si diceva che la sua candidatura fosse sgradita al Vaticano.
“Lasci
stare i preti. Il tema sono sempre i soldi. Gli interessi, le rendite.
Una partitocrazia vorace, bulimica, spudorata. Non c’è solo il Lazio. La
Calabria, la Lombardia. Dove ci sono i soldi c’è corruzione. C’è un
libro, “La casta invisibile delle Regioni”. Lo legga, è impressionante.
Un senso di impunità arrivato a livelli grotteschi”.
Da cui il ribellismo politico, la rivolta, il “sono tutti uguali”.
“No,
tutti uguali no. Qualcuno ha fatto esplodere lo scandalo, o no? Sono
anni che i radicali denunciano. Ma nessuno ascolta, l’assuefazione è
ormai endemica. Alla festa dei porci c’erano duemila persone: possibile
che nessuno l’abbia trovata scandalosa? C’era anche qualche giornalista,
non si sono accorti di niente? Non è solo la casta della politica. C’è
una collettiva assuefazione al peggio”.
Intende: è come se fosse considerato normale comportarsi cosi?
“Certo.
Se non lo fai sei strano: io mi accorgo anche al Senato che mi guardano
un po’ così, mi trattano come una stravagante, mi approvano gli ordini
del giorno e fanno vuoto attorno. Ma vogliamo parlare del bilancio di
Roma?”
Parliamone.
“Una voragine. Chi se ne occupa? Noi abbiamo 8
referendum su Roma, uno riguarda la trasparenza del Comune, il 5 ottobre
dobbiamo consegnare le firme. Per favore firmateli. Lo so che costa
crederci ancora, ma facciamo un sforzo”.
Lei è d’accordo con l’iniziativa dell’opposizione: dimettersi per far cadere la giunta?
“Intanto
serve che si dimetta anche l’Udc e una parte della maggioranza. Ma poi
no: facciano il favore di assumersi le loro responsabilità politiche
adesso. Andare a nuove elezioni significa rinviare tutto a primavera,
rubare il rubabile, prendere tempo, sperare che l’opinione pubblica
dimentichi magari saturata da un nuovo scandalo. No, non si deve
rinviare tutto. Si deve fare pressione perché facciano subito tre leggi,
proprio loro, proprio gli ospiti della festa dei maiali. Polverini lo
pretenda”.
Quali leggi?
“Primo: anagrafe pubblica di eletti e
nominati. Che vuol dire curriculum, redditi, intrecci societari. Come in
Europa, come nel mondo. Non è interessante chi va a letto con chi. E’
importante il profilo degli interessi economici degli eletti”.
Questo lo dice pensando, a posteriori, anche al caso Marrazzo?
“Certo,
il confronto con quel che accade oggi è impietoso. L’abuso dell’auto di
servizio, sì, si potrebbe ripensare anche al trattamento che gli fu
riservato. Ma possiamo guardare avanti? Vogliamo dire: eliminiamo i
vitalizi?”
I vitalizi. Sandro Frisullo, ex vicepresidente della
Puglia coinvolto nell’inchiesta sulle escort di Tarantini, prende molte
migliaia di euro pubblici di vitalizio. E’ la legge.
“Appunto. Molte
di queste delibere non passano nemmeno dall’aula, vanno solo in ufficio
di presidenza. Si faccia una legge regionale, subito, che elimina i
vitalizi. E poi, terzo: abolire i fondi a pioggia per i gruppi. Facciano
questo subito se non vogliono che la politica sia travolta dallo
sdegno, alle prossime elezioni”.
Il rischio è alto, in effetti.
“Altissimo.
Però bisogna ostinatamente fare appello alle intelligenze. Non siamo
tutti uguali, no davvero. Certo: costa remare contro la corrente del
comune sentire. E’ faticoso e si paga un prezzo. Lo avverto ogni giorno
sulla pelle. Per me però è molto importante mantenere accesa la fiaccola
delle istituzioni. E’ fondamentale. E’ come tenere accesa una luce:
guardate, questa è un’istituzione, vedete? Sapeste quanto è importante,
in democrazia”.
Corriere 24.9.12
Così i partiti decidevano come dividersi i soldi
Anche Pd e Idv d'accordo per passare da 1 a 14 milioni
di Fiorenza Sarzanini
Novembre
La delibera dell’8 novembre 2011 permette lo stanziamento di altri 2,5
milioni di euro, come richiesto soli sei giorni prima. In quel periodo
Fiorito comincia a disporre bonifici senza specificare nelle distinte il
nome del destinatario e la causale
La delibera dell'ufficio di
presidenza del 5 aprile 2011 in cui si determina uno stanziamento
aggiuntivo di 3 milioni di euro: sono presenti Abbruzzese (Pdl),
D'Ambrosio (Udc), Gatti (lista Polverini), Rauti (Pdl), Claudio Bucci
(Idv)
ROMA — Le erogazioni ai gruppi politici della Regione Lazio
sono lievitate senza che fosse fornita alcuna giustificazione
specifica. Le decisioni dell'ufficio di presidenza, poi ratificate dal
consiglio regionale — che hanno consentito di passare da un milione di
stanziamento ratificato il 26 gennaio 2010 (la giunta all'epoca è
guidata dal centrosinistra) ai 14 milioni dell'8 novembre 2011 — sono
sempre state motivate con una generica esigenza di denaro. E adesso pure
su questo si stanno effettuando controlli. La legge prevede infatti che
si specifichino i motivi delle variazioni di bilancio, soprattutto se i
fondi devono essere sottratti ad altre «voci». Nonostante la norma
fissi criteri precisi per la gestione dei soldi pubblici, le delibere
che determinavano i nuovi stanziamenti sono sempre passate
all'unanimità, vale a dire con il consenso di maggioranza e opposizione.
«Il presidente Mario Abbruzzese decideva d'accordo con il segretario
generale Nazzareno Cecinelli e tutti votavano senza effettuare alcuna
obiezione o verifica», ha raccontato durante il suo interrogatorio della
scorsa settimana l'ex capogruppo Franco Fiorito, ora indagato per
peculato. A dimostrarlo ci sono adesso le copie degli atti acquisiti la
scorsa settimana nella sede della Pisana dagli uomini del Nucleo
Valutario per ordine dei magistrati.
Il voto all'unanimità
Il
primo provvedimento preso dopo l'elezione della nuova giunta guidata da
Renata Polverini risale al 14 dicembre 2010. Il denaro messo a
disposizione dei partiti viene aumentato fino a 5,5 milioni di euro. Il
10 febbraio 2011 l'ufficio di presidenza decide all'unanimità che quello
stanziamento è congruo. Cecinelli «vista» la pratica. Sono presenti
Abbruzzese, il vicepresidente Raffaele D'Ambrosio dell'Udc, e i
consiglieri Gianfranco Gatti della lista Polverini, Isabella Rauti del
Pdl, Claudio Bucci dell'Idv. Ma due mesi dopo, il 4 aprile, arriva una
nota firmata dal funzionario Maurizio Stracuzzi che segnala come «la
disponibilità attuale del capitolo 5 non consente, nei prossimi mesi, di
soddisfare le obbligazioni». Non viene effettuata alcuna verifica
ulteriore visto che in appena 24 ore si riunisce l'ufficio di presidenza
e si determina uno stanziamento aggiuntivo di 3 milioni di euro. La
composizione è identica a quella della precedente riunione. E anche
questa volta tutti sono d'accordo.
Il 19 luglio 2011 si segue la
solita procedura. A cambiare è solo la «formazione» dell'ufficio di
presidenza. Assente D'Ambrosio, è presente l'altro vicepresidente: Bruno
Astorre del Pd. Ma il risultato è identico. Anche questa volta la
«segnalazione» che le casse sono vuote arriva da Stracuzzi. È stato lui,
cinque giorni prima dell'incontro, a sottolineare la necessità di
disporre di altri 3 milioni. Detto, fatto. Grazie alla sintonia che
regna nell'ufficio di presidenza tutti i gruppi avranno i soldi in più.
Gli stanziamenti prenatalizi
Si
arriva così al 2 novembre 2011. Stracuzzi usa la stessa formula
generica per chiedere altri 2,5 milioni di euro. L'organismo guidato da
Abbruzzese procede, senza sollecitare chiarimenti, sei giorni dopo.
Nella delibera numero 86 dell'8 novembre 2011 ci si limita a scrivere di
«dover procedere per stanziamento da legge di bilancio di previsione
esercizio 2011 non sufficiente come dimostra la lettera dell'ufficio
preposto». Anche questa volta non c'è D'Ambrosio e manca pure Rauti. A
ratificare la decisione ci pensano gli altri rappresentanti che votano
per conto di Pdl, Pd, Udc e Idv.
Nelle casse dei gruppi arrivano
dunque ulteriori fondi e proprio in quel periodo Fiorito comincia a
disporre bonifici senza specificare nelle distinte il nome del
destinatario e la causale. Una girandola di accrediti che alla fine
supera il milione e mezzo di euro. Parte dei soldi è certamente finita
nelle sue tasche. Ma il resto? Era stato l'avvocato Carlo Taormina a
sollecitare verifiche sulle procedure adottate dall'ufficio di
presidenza «perché è in quella sede che si decide la destinazione dei
fondi pubblici e dunque, in caso di irregolarità, si commette peculato».
Ora anche la Corte dei Conti sta verificando se le procedure seguite
nella distribuzione del denaro siano regolari o se le scelte effettuate
nel corso degli ultimi due anni abbiano causato danni all'Erario.
l’Unità 24.9.12
Guido Milana: «L’Udc tolga l’appoggio, è un’emergenza morale»
L’ex
presidente del Consiglio regionale: Polverini dice falsità, i costi
sono lievitati a dismisura rispetto al passato. Il Pd doveva essere più
fermo
di J. B.
ROMA Guido Milana, oggi parlamentare
europeo del Pd, è stato il predecessore di Mario Abbruzzese come
presidente del consiglio regionale del Lazio. Renata Polverini ha
ereditato, come dice, una regione spendacciona? «Polverini dice tre cose
false, con noi il finanziamento ai gruppi non superava i due milioni di
euro l'anno. Avevamo ereditato da Storace un bilancio per il Consiglio
di 90 milioni, lo abbiamo portato a 70. Io ridussi del 30 per cento lo
stipendio dei dirigenti. Inoltre, una serie di costi, come la
guardiania, che prima erano a carico della giunta, passarono al
consiglio. Ci fu una riduzione drastica dei costi. Soprattutto, non è un
teorema affermare che Polverini non poteva non sapere».
Perché?
«Perché
si tratta di atti prodotti dalla sua stessa giunta. E, se non sapeva
lei, sapeva il suo assessore al bilancio. Nel 2011, la proposta di
bilancio della giunta aveva importi di minori, poi si è messa in piedi
la trattativa, in Aula i consiglieri hanno esercitato il loro ricatto. E
nella notte è stato approvato un sub – emendamento che solo la giunta
poteva presentare».
I consiglieri di opposizione non hanno fatto molta resistenza.
«Si sono limitati a votare contro, è stata una reazione tiepida mentre si poteva essere più fermi».
C’è un forte malcontento nel Pd
«Non
va dimenticato che è stata la maggioranza a votare quelle norme.
Rinunciare unilateralmente sarebbe stato come decidere di combattere con
dei coltellini chi ha a disposizione dei cannoni. Risorse eccessive e
spropositate ma dal Pd sono state utilizzate in modo leale, il bilancio è
pubblico e ha le pezze d’appoggio, le spese discutibili sono poche
mentre la gran parte dei soldi è stata utilizzata per i fini di
iniziativa politica a cui erano destinati».
Gasbarra ha proposto le dimissioni
«La
responsabilità politica dell'uso distorto di quelle risorse è tutta
sulle spalle di chi lo ha fatto, ma c'è una responsabilità oggettiva che
comporta un atto molto forte e il risultato deve essere le dimissioni
dell'intero consiglio. Il Pd deve legare direttamente questa scelta alle
alleanze future, che si potranno fare solo con chi oggi firma per lo
scioglimento del Consiglio».
Sta parlando all'Udc?
«È vero che
l'Udc ha una tradizione di alleanze locali articolate, ma in questo caso
c’è da prendere le distanze da chi ha la responsabilità di un disastro
che porta vantaggio solo all'anti politica. Chi non compie oggi questa
scelta, non condivide l'esigenza moralizzatrice di riduzione dei costi» .
Rocco Buttiglione ha fatto una richiesta in questo senso all’Udc romana
«Per
sciogliere il consiglio ci vogliono 36 firme, senza Udc, Api e Fli la
partita non si vince. Però, anche in questo caso, il ministro
dell'Interno potrebbe valutare se vi siano le condizioni dello
scioglimento. Sarebbe il primo caso in Italia ma sarebbe anche la prima
volta che ci si trova di fronte a un consiglio incompleto e a ruberie di
dimensioni inaudite, che non si possono ignorate».
L'assessore Ciocchetti (Udc) dice che al posto dei dimissionari andranno i primi o secondi non eletti.
«L'iniziativa
del Pd deve essere tanto forte da far dimettere tutti, fino a creare un
vulnus istituzionale che né il governo né il ministero dell'Interno
potranno ignorare. È importante anche perché non si devono
criminalizzare le Regioni. Nella passata legislatura ero il coordinatore
dei presidenti di consiglio, regioni come l'Emilia Romagna, le Marche,
l'Umbria, la Toscana, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia dimostrano
che si può amministrare senza sperpero».
Nell’ufficio di presidenza ci sono anche esponenti dell'opposizione.
«Oltre
al presidente Abbruzzese (Pdl) ci sono i due vicepresidenti Udc e Pd e i
segretari del Pdl, Lista Polverini e Idv. Ma, una volta destinati i
fondi ai gruppi, avevano in parte le mani legate. Però c’è stata mancata
vigilanza, non si doveva aspettare l’esplosione dello scontro
Battistoni-Fiorito».
Dai gruppi un flusso enorme di denaro è andato a tv, siti, giornali
«È
la cosa più grave e la Corte dei conti deve andare in fondo, è giusto
che a emittenti locali arrivino risorse pubbliche, ma solo sulla base di
procedure pubbliche, bandi e trasparenza».
La Stampa 24.9.12
Esterino Montino Il capogruppo del Pd alla Regione Lazio: “Casini intervenga Ora sono loro l’ago della bilancia”
Montino fa la conta: “Il confronto è serrato: mancano sette firme”
«Votammo l’aumento ma non come il Pdl doveva spenderlo»
di Antonio Pitoni
ROMA
Siamo già a quota 29, l’obiettivo è raggiungere la maggioranza a 36».
Il capogruppo del Pd alla Pisana, Esterino Montino, guida il fronte
anti-Polverini con l’obiettivo di costringere la governatrice del Lazio
alle dimissioni. «Alla raccolta di firme avviata del Pd hanno già
aderito i cinque consiglieri dell’Idv e i due di Sel, con i quali
avevamo concordato l’iniziativa - prosegue -. Poi ci sono anche il verde
Bonelli, la Federazione della sinistra, i Radicali e la civica della
Bonino. Ma anche Pascucci, eletto nella lista Polverini e ora Mpa, ha
sposato l’iniziativa».
Quindi ne mancano ancora 7 all’appello: l’Udc diventa ago della bilancia?
«È
in atto un confronto molto serrato. Mi limito ad osservare che a fronte
di una posizione così netta sostenuta a livello nazionale dall’Udc nei
confronti del Pdl, non vedo come possa adottarne una opposta a livello
regionale».
Però Casini si è chiesto come mai solo ora il Pd si sia
accorto degli sprechi e, sull’ipotesi di dimissioni, il vice presidente
dell’Udc in Regione Ciocchetti frena...
«Premesso che dell’Udc debba
interessarsi Casini, la sua posizione sulla questione mi sembra debole.
Sarebbe davvero un esempio di strabismo politico se si lasciasse
trascinare in Regione nella crisi del Pdl a fronte di posizioni opposte
in ambito nazionale. Quanto al rimprovero di Casini, noi non sapevamo
cosa il gruppo del Pdl facesse con i finanziamenti. Noi sapevamo
dell’esistenza di norme che mettono a disposizione dei gruppi
determinate somme di denaro. Che noi, come credo anche l’Udc, abbiamo
utilizzato in modo corretto».
Ma perché avete deciso solo ora di presentare le dimissioni?
«Nelle
ultime ore, per dare un segnale chiaro e concreto, evitando di apparire
come quelli che la buttano in politica lasciando tutto come prima,
abbiamo deciso di votare innanzitutto i tagli. Noi, in realtà, ci siamo
posti il problema già all’atto della variazione di bilancio 2011 che ha
aumentato di sette milioni di euro le dotazioni per le attività
divulgative e le iniziative istituzionali. Preso atto che esiste un buco
normativo sui controlli, ridotti ad una sorta di autocertificazione,
abbiamo proposto di istituire la figura di un tesoriere e di affidare la
revisione contabile a società esterne di verifica».
Intanto la Polverini ha incontrato Monti. Perché?
«Non
credo per discutere la vicenda giudiziaria apertasi in Regione. Ma per
confrontarsi su questioni politiche serie. Ad esempio, ricordo che già
per tre volte il tavolo tecnico sulla Sanità ha bocciato il piano della
Polverini».
l’Unità 24.9.12
Polverini da Monti per arrendersi
Il Pd via dal Consiglio
Anche l’Udc spinge per lo scioglimento. Si dimettono tutti i consiglieri Pd
In serata la presidente a Palazzo Chigi. Alemanno ammette: «Centrodestra da azzerare»
di Jolanda Bufalini
In serata la presidente della Regione Lazio sale a Palazzo Chigi per un consulto. Le dimissioni sono ormai all’ordine del giorno. «C’è un’emergenza morale, l’Udc tolga l’appoggio»: è l’appello che Guido Milana, ex presidente Pd del Consiglio regionale, lancia a Casini dopo che Buttiglione si è schierato per lo scioglimento. Tutti i consiglieri Pd intanto hanno già dato le dimissioni.
ROMA Batman imperversa sulle reti nazionali, porta Gotham City alla ribalta ogni giorno, ieri a “in onda” su la 7. Il protagonismo televisivo di Franco Fiorito, bulimico anche in questo, moltiplica l’effetto dell’assedio a Renata Polverini.
È stata una domenica frenetica di riunioni e di pressing, mentre l’ingombrante consigliere di Anagni consumava anche le ultime briciole di credibilità del centro destra. In serata Renata Polverini è andata a palazzo Chigi, a consulto dal premier Monti.
Subito ha ripreso quota la carta delle dimissioni, mentre va avanti l’iniziativa Pd per andare al più presto al voto. Il gruppo democratico, Idv e Sel si sono pronunciati all’unanimità per le dimissioni dei consiglieri e sono cominciate le prime defezioni nella maggioranza, pronto a dimettersi anche Rocco Pascucci, Mpa. Esterino Montino, capogruppo Pd, si dice convinto che «l’Udc non può rimanere insensibile» mentre, aggiunge, «le dimissioni della Polverini sarebbero una vittoria dell’opinione pubblica». Nella traumatica conclusione della consiliatura attraverso le dimissioni della presidente, un peso decisivo avrebbe l’orientamento dell’Udc e quello, espresso con chiarezza, del cardinale Bagnasco..
Franco Fiorito in Tv accusa insieme all’ineffabile avvocato Taormina: a proposito della festa di UlisseDe Romanis, i proci-porci e gli illustri ospiti come Renata Polverini: «Che De Romanis abbia pagato la festa con i soldi suoi, lo dice lei. Vada a controllare i bilanci di una associazione che si chiama 'Amici dei giovani del Ppe’ e veda come hanno speso i soldi». Spiega: «Io sicuramente ho finanziato l'associazione. A quella festa io sono l'unico a non essere andato. Lui dice che quella festa non c'era mai stata: mi era arrivato un preventivo da 48mila euro da Cinecittà che io ho respinto. È la stessa festa, ma andava fatta a Cinecittà al costo di 48 mila euro». Quanto alla vacanza in Sardegna da 29.000 euro, «è uno schiaffo alla miseria, di questo mi pento».
Domenica di pressing e riunioni dopo la proposta fatta dal segretario del Pd Enrico Gasbarra: dimissioni dei consiglieri con l’obiettivo di andare al voto anticipato. Dalle 9 alle 12 della mattina si è riunito il Pdl, ma qui alla fine è passata la linea del «restare in sella». Il sindaco di Roma Alemanno difende Renata Polverini, che secondo lui è la persona «che sapeva di meno perché non è in consiglio», ma poi chiede «un azzeramento totale all’interno del centro destra», in nome di una rifondazione «sui valori». Replica il Pd romano: «si ricordi di parentopoli». Riunione serale per il gruppo democratico conclusa con la risoluzione di firmare le dimissioni e di iniziare la raccolta delle firme fra le forze del centro sinistra ma non solo, «la differenza spiega il consigliere Claudio Mancini con la mozione di sfiducia che abbiamo presentato è che si possono volere le elezioni anticipate anche senza condividere il nostro giudizio negativo sulla giunta Polverini».
Il nodo è quello dell’Udc, il vicepresidente della giunta Luciano Ciocchetti vuole fermamente restare. In Aula, dagli scranni del governo, è arrivato a negare cose che tutti conoscono, come l’indagine in corso nei confronti dell’assessore Birindelli. Ma Ciocchetti non è consigliere e, nel dibattito assembleare, era palpabile la disperazione di alcuni consiglieri dell’Unione di centro, nell’ essere accomunati al ladrocinio e anche allo stile dei loro forzati alleati.
Nell’Udc che punta all’immagine di un partito rinnovato, che guarda a Passera e a Marcegaglia, l’alleanza degli spreconi laziali è motivo di notevole imbarazzo. Rocco Buttiglione ha dichiarato che lui «si sarebbe dimesso», Pierferdinando Casini ha preso tempo: «C'è un disagio profondo», ma questo non lo porta a trarre conclusioni. Elogia la presidente Polverini però aggiunge: «Se è riuscita a far risparmiare 20 milioni di euro al consiglio regionale, questo significa che c'è uno spreco che sfugge ai partiti nazionali». La «vergogna insiste non deve gettare discredito su chi fa politica seriamente». Però nessuna decisione è presa, nessun dado è tratto, anche se sa che questa vicenda può rendere impossibile l’alleanza con il centro sinistra nel Lazio. Il «profondo malessere» espresso da Buttiglione è probabilmente condiviso anche nelle file del gruppo dell’Udc.
Oggi è prevista la riunione dei capigruppo alla Pisana, è la sede nella quale saranno formalizzate le dimissioni dei consiglieri. Resta l’incognita Udc alla quale si aggiungono quelle dell’Api e di Fli. Convocate anche la segreteria e la direzione del Pd del Lazio, si annuncia un dibattito abbastanza infuocato ma riguardo all’opposizione troppo morbida sull’assegnazione dei fondi ai gruppi, sulla decisione di puntare allo scioglimento del consiglio e al voto, invece c’è l’unanimità.
La Stampa 24.9.12
Il lungo giorno di Renata sempre più vicina all’addio
Quando capisce che la maggioranza sta franando, va dal premier Il sindaco Alemanno si smarca: “Il centrodestra è da azzerare”
di Mattia Feltri
ROMA Una passione senza fine. Quattro giorni dopo essere andata dal ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, la governatrice del Lazio, Renata Polverini, ha sentito la necessità di comunicare i propri disagi più in alto, sempre più in alto: anche al presidente del Consiglio, Mario Monti, senza che al colloquio seguissero delle dimissioni a questo punto già tardive per motivi di decenza, oltre che politici. Così almeno pareva, e da più fonti, quando s’era fatta notte. L’unica vaga notizia risiedeva in un dispaccio che la Polverini ha diffuso alle 23.30 e nel quale ha sostenuto di aver informato il premier per motivi economici ed istituzionali. Traduzione: alla seduta non mancavano ragioni di pura ciccia, perché la sanità (di cui la Polverini è commissario straordinario) e la tassazione regionale sono regolate da un tavolo tecnico fra Palazzo Chigi e le regioni in disavanzo, quale il Lazio è. Da quello che si è capito, la Polverini aveva già chiesto delucidazioni alla Cancellieri ed è stata la Cancellieri a suggerire colloqui più alti.
Piuttosto suscitano impressione (ma fino a un certo punto, ormai ci si è fatto il callo) le modalità dell’incontro, richiesto dalla Polverini e ottenuto intorno alle 19.30 di domenica sera, quando sarebbe bastata e avanzata una telefonata; e poi pubblicizzato con una certa enfasi, di modo che in tre minuti si è diffuso il trecentesimo allarme settimanale sulle dimissioni, e per la trecentesima volta rientrato anche piuttosto rapidamente. La perfetta conclusione di una settimana arlecchinesca, riempita di pugni battuti sul tavolo, orazioni di ringhiera in consiglio regionale, quasi un’azione di bullismo, e poi scatti d’isteria, misteri patetici, rientri nei ranghi, e una conclusione inconcludente: i tagli pretesi e ottenuti per farne una lapide sul passato, come se i milioni spartiti e bevuti non interessassero più a nessuno.
Della chiacchierata di ieri sera si sa poco altro, se non che Monti è stato piuttosto sbrigativo, per indole. Lui aveva poco da spiegare. Lei qualcosa di più, già che aveva chiesto confessione, ma non pare in questo momento una donna votata alla concretezza. E nonostante la situazione sia ormai decisamente chiara. Le responsabilità politiche della governatrice (non poteva non sapere è un abnormità giuridica, ma non della dialettica democratica) sono lampanti. I suoi più stretti collaboratori, dall’assessore al Bilancio, Stefano Cetica (come lei uscito dal sindacato di destra Ugl), ai membri del suo gruppo, sono nella migliore delle ipotesi collaboratori infedeli, se proprio si vuole conservare la certezza della buona fede del presidente. Il rischio che nel giro di qualche settimana il consiglio regionale si ritrovi con quindici o venti o trenta membri sotto inchiesta non è una previsione fantasiosa. E ieri, dalla mattina al tardo pomeriggio, la Polverini era apparsa rabbuiata, persino pentita di non aver mandato tutti al diavolo al momento giusto. Ora si ritrova avviluppata al disastro più di prima. Ce l’aveva con gli amici che non l’hanno ben consigliata e coi collaboratori che badano soltanto a sé stessi. Ce l’aveva pure con il partito, che galleggia nella melma, non decide su nulla, pensa che restare sul pero a guardarsi attorno sia una strategia di sopravvivenza. E poi il quadro si è velocemente aggravato. Prima il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, (in verità un altro che politicamente non gode di una salute di ferro) si è smarcato dalla dirimpettaia, ha detto che serve «un azzeramento totale all’interno dell centrodestra», di modo che si vada alla ricerca di persone nuove e valori più solidi. Le immagini provenienti dalla Regione, ha detto, sono «bruttissime» e tesimoniano una separazione devastante fra la politica e il paese. Benvenuto nel club. Ma per la Polverini non era finità lì. Prima le è arrivato velocemente alle orecchie il requiem alla forlaniana pronunciato (in una labile riservatezza fra amici) da Pier Ferdinando Casini, azionista importante con l’Udc della maggioranza laziale: non chiedo le dimissioni, sostiene Casini, ma se la Renata molla non mi suicido. Infine la reiterata e irrevocabile intenzione dei consiglieri del Partito democratico di mollare tutto per tempo, sempre che tempo ci sia. La maggioranza non c’è più. Rimane soltanto da chiudere la porta.
l’Unità 24.9.12
Chiaretta, l’ex cubista «acqua e sapone». E miti fascisti
La giovane Colosimo, neo presidente del gruppo Pdl e le citazioni antisemite del rumeno Codreanu
di Maristella Iervasi
L’avevano
presentata come il volto pulito del Pdl. Chiara Colosimo, 26 anni,
romana, laurenda in Scienze politiche alla Luiss ha preso il posto di
Fiorito dopo lo scandalo Laziogate. E appena «scelta» capogruppo alla
Regione Lazio ha detto chiaro e tondo: «Sarò la paladina
dell'anti-casta». Voglio una Regione di vetro in cui tutto ciò che passa
si vede».
Ecco dunque la sua «vetrina» . Nonostante l'età, la
Colosimo ha un ricco e inquietante curriculum politico. Appena due anni
fa, intervistata da Mtv, sceglie come immagine e citazione quella di
Corneliu Zelea Codreanu, il nazista rumeno fondatore del movimento
legionario Guardia di Ferro. Da quel che si capisce la giovane
neo-capogruppo sarebbe una fan proprio di questo movimento degli anni
'30: antisemita, anticapitalista e ultranazionalista.
Altro che
«acqua e sapone»! Chiaretta, come la chiamano alla Garbatella, il suo
quartiere romano, quell'intervista imbarazzante l'ha fatta nella sede
storica dell'Msi, in via Guendalina Borghese, oggi uffici Pdl. Del
resto, non c'è da meravigliarsi. Il suo politico di riferimento è Fabio
Rampelli, storico capocorrente degli ex An della Capitale. Sulla mano ha
tatuato un gabbiano stilizzato. E ne va orgogliosa. Tosta? Determinata?
Lo è, certo. Prima di arrivare alla Pisana, con la benedizione e
l'abbraccio della Polverini, ha avuto la sua scena al Gilda, dove ha
fatto la cubista nella discoteca dei vip capitolini. Mentre alla fine di
ogni estate la tosta Chiaretta la incontravi alle spalle del Colosseo,
dove faceva la buttafuori ad Atreju, di cui ne recita ancora a tutti un
motto: «Vai avanti senza paura».
Così all'indomani, della notizia
choc sulla «fanatica nazista», replica secca: «Mi state facendo le
pulci, eh? dice a un cronista -. Ma io non ho alcuna difficoltà a
condannare, senza se e senza ma il nazismo e il fascismo. E Codreanu so
che in quel disegno veniva esaltato per un suo libro che parlava della
sua visione del Cristianesimo».
La Comunità ebraica non ha gradito
quell'effige e muove forti critiche alla giovane politica pidiellina.
Mentre Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, la difende a
spada tratta: «L'attaco a Colosimo è da respingere nel modo più netto».
Ma
chi è Codreanu? Basta sfogliare le citazioni più note del politico
rumeno, leader nazionalista molto popolare nella Romania del primo
dopoguerra: «Il nostro movimento legionario ha soprattutto il carattere
di una grande scuola spirituale. Esso tende ad accendere fedi
insospettate, esso mira a trasformare, a rivoluzionare le anime.
Gridate
ovunque che il male, la miseria, la rovina vengono dall'anima. L'anima è
il punto cardinale sopra il quale si deve operare nel momento attuale.
L'anima dell'individuo e l'anima del popolo. Sono una menzogna tutti i
programmi nuovi e i sistemi sociali fastosamente ostentati al popolo, se
alla loro ombra ghigna la medesima anima malvagia, la medesima mancanza
di coscienza verso l'adempimento del dovere, il medesimo spirito di
tradimento verso tutto ciò che è rumeno, la medesima dissolutezza, il
medesimo spreco e il medesimo lusso. Chiamate l'anima della stirpe a una
vita nuova».
L'obiettivo della Guardia di Ferro era quello di
contrastare il bolscevismo, che minava i confini del paese, e «il
capitalismo degli ebrei» che, secondo i 'guardisti', controllavano la
vita economica e politica del paese. Secondo Codreanu, bolscevismo e
capitalismo erano due facce della stessa medaglia, e gli ebrei venivano
individuati come i fondatori ed i principali beneficiari del sistema
capitalista. Ma questo, la povera Chiaretta, acqua e sapone, non lo
sapeva...
Corriere 24.9.12
L’epilogo ritardato di un’istituzione compromessa
di Gianna Fregonara
L'epilogo non è mai apparso tanto vicino come ieri sera. Renata Polverini è stata a un passo dal gettare la spugna, dal dire addio ai sogni di «poter rialzare la testa».
Lo aveva sperato ancora sabato pomeriggio, con un'euforia già fuori luogo, alla sagra del vino incitando i suoi sostenitori di Velletri.
Ieri sera, dopo ore concitate, non sono arrivate decisioni definitive. E così una delle vicende più brutte e umilianti della Regione Lazio resta ancora aperta. Renata Polverini continua a resistere: eppure è una scelta che ha un prezzo. Renata Polverini che solo lunedì scorso aveva sfidato la sua maggioranza, ormai devastata dalla guerra interna, e tutto il consiglio regionale da 103 milioni all'anno a fare pulizia, che aveva cercato con il suo discorso drammatico sulla Concordia e sui tumori di separare il suo destino da quello dei Fiorito da Anagni, è stata travolta come loro.
Travolta non tanto dalle carte della Procura (le indagini non l'hanno toccata, né lei né il suo gruppo) che inguaiano la maggioranza, ma dalle critiche sgomente della Chiesa che l'aveva sostenuta in campagna elettorale contro Emma Bonino, dall'altolà degli imprenditori, dalle faide interne al suo partito, dalla fragilità politica del suo alleato più importante, l'Udc. E anche dall'opposizione che, pur senza numeri per far dimettere il consiglio, ha trovato in questa situazione un'insolita unità: oggi il consiglio resterà monco con quasi metà dell'aula dimissionaria. Una situazione che fotografa plasticamente l'impossibilità di resistere ancora a lungo.
In questa settimana, dal discorso della Concordia a ieri, si è scoperta non solo la dimensione del sistema di abuso dei soldi pubblici per impegni politico-personali dei consiglieri. Ma si è alzato il velo su un certo modo di intendere le istituzioni. Le foto della festa imperial-cafonesca di De Romanis per celebrare la sua elezione a consigliere resteranno come il sigillo di questa vicenda, qualsiasi ne sia la scena finale. E avrebbero dovuto suggerire l'epilogo anche ai più convinti sostenitori della giunta: può un rappresentante delle istituzioni vestito da Ulisse chiedere ai cittadini di tirare la cinghia per risanare i conti, di rinunciare ai posti letto negli ospedali pubblici, di non indignarsi se per andare al lavoro usare i mezzi pubblici diventa una prova di abilità?
Corriere 24.9.12
Al Senato i bilanci restano segreti. Mistero sui 22 milioni ai gruppi
Bocciate le proposte per rendere pubblici e certificare i conti
di Sergio Rizzo
ROMA — La prima diga è dunque stata abbattuta e non è stato facile. I gruppi parlamentari della Camera dovranno rendere pubblico il bilancio, che sarà certificato da un soggetto esterno. Per la prima volta sapremo come viene spesa anche questa fetta di finanziamento pubblico dei partiti. Ci si attende adesso il crollo della seconda diga. Quella del Senato. Che cosa farà la Camera alta? L'assemblea di Palazzo Madama si è sempre tenuta accuratamente alla larga da questo problema, del quale il suo attuale presidente, a differenza di Gianfranco Fini, ha esperienza diretta. Per otto anni Renato Schifani è stato infatti il capo del gruppo parlamentare di Forza Italia a Palazzo Madama. E negli ultimi tempi, da presidente dell'assemblea, non ha lesinato appelli alla trasparenza. «La politica» ha dichiarato pubblicamente il 26 maggio scorso alla festa della polizia a Padova, «deve saper ricomporre il divario con la gente e non soltanto a parole. Essere vicina agli italiani significa soltanto un verbo: fare presto e bene, uscendo dal tunnel nebuloso e mostrando di aver capito, di voler andare avanti nel pieno rispetto delle norme e della trasparenza».
Finora, però, nessuno è riuscito a fare breccia nel muro impenetrabile che copre i finanziamenti ai gruppi parlamentari del Senato. Il 3 agosto dello scorso anno, durante la discussione sul bilancio interno, sette senatori del Partito democratico fra i quali, oltre al tesoriere del gruppo Vidmer Mercatali c'era anche quello della Margherita Luigi Lusi finito poi nei guai giudiziari per la distrazione dei rimborsi elettorali del partito di Francesco Rutelli, presentarono un ordine del giorno che avrebbe condizionato l'erogazione dei contributi «alla presentazione del bilancio, alla sua certificazione in forme opportune e alla sua pubblicità sul sito internet del Senato». Respinto. Come bocciato fu pure un altro ordine del giorno analogo presentato dai dipietristi che mirava a obbligare i gruppi alla «rendicontazione annuale dei contributi loro assegnati» e alla «pubblicità di tale rendicontazione». Il primo agosto scorso, un ordine del giorno simile a questo, partorito sempre dall'Italia dei Valori, ha invece avuto il parere favorevole dei questori. Ma poi non è successo niente.
I bilanci sono così rimasti segreti. E non parliamo di pochi denari. Nel 2012 le previsioni assestate indicano una cifra superiore a quella pubblicata ieri dal Corriere. Si è arrivati a 38 milioni 350 mila euro, 750 mila euro in più rispetto al 2011. È una somma superiore anche a quella stanziata dalla Camera (quest'anno circa 35 milioni) ma perché a differenza di Montecitorio comprende anche 16,2 milioni destinati ai collaboratori, che a Palazzo Madama vengono assegnati ai gruppi. I soldi utilizzati per il funzionamento dei gruppi parlamentari del Senato ammontano così quest'anno a 22 milioni 150 mila euro, vale a dire 69 mila euro in media per ogni seggio, compresi i senatori a vita, contro i 55.550 euro della Camera.
Con quei denari si pagano per esempio i dipendenti. Ma anche, e qui sta uno degli aspetti forse di maggiore sensibilità, le indennità aggiuntive per i senatori che ricoprono cariche all'interno del gruppo: il presidente, i suoi vice, i componenti del direttivo e altri ancora. Senza un bilancio, siccome ogni formazione politica decide in autonomia il livello di questi bonus, non se ne possono conoscere pubblicamente le entità. Né sapere in quali forme queste indennità vengono erogate. E la cosa, trattandosi di fondi pubblici distribuiti a persone che ricoprono cariche elettive, è francamente curiosa. Di più. I gruppi parlamentari sono di fatto vere e proprie associazioni, assimilabili a quelle private non registrate. Per le quali, è vero, la pubblicazione del bilancio non è obbligatoria. C'è solo un piccolo particolare, sempre lo stesso: maneggiano soldi dei contribuenti. Il che rende ancora più impellente la necessità di far cadere il velo che finora non consente di sapere come quei gruppi impiegano i contributi. Soprattutto dopo quello che è saltato fuori al consiglio regionale del Lazio, dove con quei soldi non si pagavano soltanto i conti astronomici del ristorante o si acquistavano lussuose Bmw X5, ma c'era perfino chi ci comprava un quintale e mezzo di mozzarella di bufala, a giudicare dalle ricevute di un caseificio sulla via Casilina.
Ecco perché ora ci aspettiamo che dopo la Camera anche il Senato imponga la trasparenza dei bilanci dei gruppi parlamentari. Con la stessa regola del controllore esterno, per favore. Come dimostra il caso di Montecitorio, la storia che questo lederebbe l'autodichìa, cioè il principio di autonomia del Parlamento, non sta in piedi. La cosiddetta autodichìa riguarda l'istituzione, non associazioni private al suo interno. La dimostrazione? Spiegano gli esperti, che mentre le controversie fra i dipendenti del Parlamento e l'amministrazione delle due Camere viene regolata da organi interni, le cause fra il personale dei gruppi parlamentari e i gruppi stessi finiscono davanti al giudice ordinario. Più chiaro di così...
Repubblica 24.9.12
L’elettroshock della moralità
di Nadia Urbinati
«C’È BISOGNO di un elettroshock», ha detto il segretario del Pd laziale, «di un nuovo grande progetto di ricostruzione, di rigenerare la politica»
Da quanto tempo sentiamo ripetere che c’è questo bisogno?
E quanto tempo ancora ci vorrà affinché l’indignazione e le dichiarazioni di principio lascino posto, finalmente, a pratiche politiche alternative? Alternative non perché ci devono portare verso chissà quale città ideale, ma nella forma e nello stile di praticare la politica, con onestà e senso del limite: è questo il “grande progetto” di cui c’è bisogno. L’alternativa è nel modo di concepire la moralità della politica rispetto a quella cinica sufficienza di chi crede che nulla di nuovo ci sia mai sotto il sole. In dosi massicce, questa visione fatalistica e corrosiva della responsabilità ci è stata lasciata in eredità dalla Prima Repubblica e dalla sua fine ingloriosa, per ingigantirsi con gli anni, coprendo come una ragnatela tutto il Paese, da nord a sud, e tutte le generazioni. Né si tratta della sola eredità.
Vale la pena ricordare che la Seconda Repubblica è stata inaugurata dalla decapitazione di quasi un’intera classe dirigente per mano della giustizia penale, non di quella politica. Quella faraonica politica delle grandi opere pubbliche che ha foraggiato ingordi politici e imprenditori senza scrupoli (e che preferivano non rischiare la competizione) non è stata rovesciata nelle sue fondamenta. A cambiare è stata una classe dirigente, non la politica (i tentativi troppo poco incisivi e troppo brevi dei governi Prodi non sono bastati a favorire questo cambiamento). La politica non si è allenata abbastanza nel lavoro dell’autocritica, del ricambio del personale e della riscrittura dei codici morali. E di questa debolezza la Seconda Repubblica si è alimentata. Nuovi tessuti fatti con stoffe riciclate. Stessi disvalori, ma ora coperti dietro il giustizialismo roboante e, questo sì, moralistico. Con l’esito prevedibile che le ragioni che portarono la vecchia classe politica al collasso non vennero toccate. Enrico Berlinguer parlò di “questione morale” e venne sommerso dalla critica, quasi unanime, di moralismo. La sua morte ha sepolto insieme alla sua denuncia anche la riflessione sulla differenza tra morale e moralismo, sul perché una democrazia non può fare a meno della morale, la quale è basilare e indispensabile consapevolezza della differenza tra il giusto e lo sbagliato, un giudizio che deve poter operare quotidianamente, nel pubblico e nel privato, e senza il quale la giustizia è la ragione del più forte.
La Seconda Repubblica è nata su questa massima. Aggravata dall’arroganza dei nuovi caporali nel voler togliere ogni ostacolo dalla loro strada, prima di tutto quello che aveva fatto saltare la Prima Repubblica, la giustizia. Conosciamo la storia di questi ultimi anni. I governi Berlusconi hanno impostato il loro successo su un attacco durissimo alla magistratura, alla stampa, e a ciò che restava della forma partito. Domare la prima, imbavagliare la seconda, e fare del partito un’azienda. L’antipolitica si è strutturata su questi tre progetti, trampoli sui quali si sono arrampicati i gestori della Seconda Repubblica. Ammini-stratori pubblici che si rivelano lestofanti, enormemente esosi per le finanze sconquassate di un Paese sotto tenda d’ossigeno. La disoccupazione dilagante fa addirittura balenare ad alcuni l’idea di trattare la carriera politica come un lavoro, le cariche elettive come una fonte di stipendio.
C’è bisogno di nuova linfa, di una nuova generazione, di nuove facce... eppure si ha l’impressione che più che un cambiamento si auspichi una rotazione, come a voler a turno approfittare di quegli stessi privilegi. Questa è l’impressione che si ha leggendo delle nefandezze della nuova destra al governo della Regione Lazio, o che si ebbe leggendo del sistema di corruzione della Lega. Vecchia musica con nuovi orchestrali. Il timore è che come la Prima Repubblica impregnò di sé la Seconda, quest’ultima lasci il suo marchio su quel che verrà; il sospetto è che la proclamata rigenerazione della politica consista in un rinnovato vecchio modo di gestire il potere. A prescindere dall’età dei praticanti.
I cittadini hanno buone ragione di dirsi scettici delle promesse. Scettici delle dichiarazioni di rinnovamento radicale — un proposito che concretamente non si sa proprio in che cosa debba consistere se non nel rispetto, appunto, della legge e delle regole. È sano avere diffidenza in chi opera in nostro nome nelle istituzioni, sano non dare cambiali in bianco a chi si candida con la promessa di promuovere rinnovamenti epocali e fare piazza pulita del vecchio. Anche perché tra i lasciti della Seconda Repubblica vi è come ho detto l’erosione di legittimità dei partiti politici, di quei corpi intermedi capaci di tenere insieme partecipazione e rappresentanza, di impedire che il potere degli eletti diventi quasi assoluto, arbitrario e incontinente. Senza questi strumenti di sorveglianza politica, la diffidenza e l’indignazione sono come grida al vento: muovono l’aria ma non la risanano. Movimenti salvifici non ce ne sono, e nemmeno (per fortuna) uomini della provvidenza. Se di un elettroshock c’è bisogno, questo non potrà che significare ritornare a far parlare i princìpi del nostro vivere civile, la costituzione e le leggi, con la consapevolezza che la differenza tra il giusto e lo sbagliato ha un senso non sofistico e relativo a chi ha potere, e che chi fallisce si deve ritirate. Questa è la moralità della politica, normale e ben poco eroica come si vede; eppure sembra richiedere leader eccezionali e interventi straordinari.
Repubblica 24.9.12
Il Vaticano
Né con Silvio né con il Pd la Chiesa sceglie la neutralità “Favorevoli al Monti-bis”
La svolta dopo la tregua Bagnasco-Bertone
di Claudio Tito
NÉ CON il centrodestra, né con il centrosinistra. Ma soprattutto a favore di Mario
Monti.
Una decisione maturata negli ultimi mesi e suggellata nei colloqui che il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha avuto con il Papa in vista della riunione del Consiglio permanente della Cei che si riunirà proprio oggi. Una nuova rotta che si basa anche sulla “tregua” siglata dai “due grandi avversari”: il capo dei vescovi italiani e il segretario di Stato, Tarcisio Bertone.
L’assemblea di oggi sarà solo il primo degli appuntamenti che la Conferenza espiscopale avrà in vista delle elezioni della prossima primavera. Ma avvierà di fatto il percorso di «equidistanza» che ha un unico perno: il ruolo dell’attuale presidente del consiglio. Basti pensare che nella prolusione di Bagnasco, i riferimenti alla necessità di «far compiere uno scatto al Paese» è stato interpretato – da chi ha potuto già leggere gli appunti del cardinale – come un chiaro segnale nei confronti del premier. Un messaggio che dovrebbe porre anche fine alle incomprensioni dei mesi scorsi. Tutte scaturite dalla introduzione dell’Imu per gli immobili commerciali della Chiesa e dai sospetti che una parte della Cei ha coltivato nei confronti dei ministri tecnici.
Una «svolta», dunque, che è passata anche per il tentativo – compiuto in primo luogo dall’ex capo dei vescovi italiani, Camillo Ruini – di convincere Berlusconi a rinunciare alla candidatura. Gli ambasciatori dell’ex premier si sono sentiti rivolgere ripetutamente da Oltretevere l’invito a «deberlusconizzare » il centrodestra. Condizione imprescindibile per ricomporre una sintonia che dal “caso Noemi” in poi è andata via via scemando. Quando “Don Camillo” «spiega» la politica italiana ai vertici della Cei, non nasconde che per i cattolici la soluzione migliore sarebbe un centrodestra «senza Silvio», con Casini e Monti. «Ma quello è allo stato il migliore dei mondi impossibili».
Al momento, invece, il «mondo possibile» è quello del Professore. Tanto che nelle ultime settimane c’è stato anche un contatto diretto tra il capo del governo e il presidente della Cei che ha reso meno formale il rapporto tra i due. Sembrano allora lontani i tempi in cui Romano Prodi, presidente del consiglio, veniva “bocciato” proprio da Bertone. Nel 2007, infatti, l’allora premier chiese un colloquio al segretario di Stato per illustrare i fondi messi a disposizione dall’esecutivo a favore dei ceti più poveri. «Ma si tratta di così poco», fu la risposta algida del Segretario di Stato. «Adesso – osserva Pierluigi Castagnetti, uno dei pochi del Pd che mantiene contatti con i Vescovi – il mondo della Chiesa è soprattutto paralizzato da quel che è accaduto al loro interno, dai corvi.
Sono solo in condizione di stare fermi ». Tanto è vero che i timori per una politica “laicista” da parte dei Democratici non sono affatto dissipati. Anzi le ultime uscite dell’alleato di Sel, Nichi Vendola, stanno inducendo a piantare qualche paletto in largo anticipo. Basti pensare che nel comunicato con cui la Cei ha convocato il Consiglio permanente vengono indicati esplicitamente due argomenti che richiamano i «valori irrinunciabili»: le unioni di fatto e il biotestamento. Qualcosa di più di un segnale. Un avvertimento: «Almeno su questo non possiamo transigere». Anche se un Vescovo attento alle dinamiche della Curia ricorda un episodio di Giovanni XXIII: «Quando fu nominato vescovo da Pio XI, si lamentò per l’incarico di andare in Bulgaria. E un altro “collega”, accanto, gli disse: “Ma che ti importa? Ti ha fatto vescovo». Un modo per dire che anche il centrosinistra si deve accontentare.
Del resto, bocciata l’opzione della nascita di un “partitino” cattolico (oggi non a caso è stato convocato un convegno dal ministro Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio che in sostanza archivia la cosiddetta operazione “Todi2” che mirava a riunire tutti i movimenti cattolici), la scelta a favore di Monti e per l’imparzialità nei confronti di Pd e Pdl è stata stavolta accompagnata con decisione in primo luogo dal Pontefice. Che ha instaurato un rapporto diretto con Palazzo Chigi. E che ha imposto, appunto, una “tregua” a Bagnasco e Bertone. L’Appartamento aveva già “ordinato” da qualche mese alla Conferenza episcopale di frenare le critiche verso l’esecutivo tecnico e
di riconoscere il buon rapporto tra la Santa Sede e Palazzo Chigi. E così, dopo gli scontri dei mesi scorsi, adesso i due cardinali hanno trovato un “modus vivendi” che si fonda su un architrave “politico”: l’addio al centrodestra come l’abbiamo conosciuto in questi ultimi anni. E su un tassello diplomatico: la “non interferenza reciproca”. Il Segretario di Stato non interverrà sulle vicende italiane. E il leader dei vescovi italiani non premerà più per le dimissioni di “Don Tarcisio” che a dicembre prossimo compirà 78 anni e dovrebbe andare “in pensione”. Anzi uno dei punti dell’armistizio fa riferimento proprio al mandato di Bertone. Che ha chiesto di utilizzare come punto di riferimento l’esperienza del suo predecessore: il cardinal Sodano. Il quale ha lasciato l’incarico il 15 settembre 2006, ossia all’età di 78 anni 8 mesi e 22 giorni. Un record che l’attuale Segretario di Stato può eguagliare con il placet di Benedetto XVI. Proseguendo così l’incarico almeno fino al prossimo agosto. Quando le elezioni italiane si saranno tenute e il nuovo governo si sarà formato.
Ma la guerra di questi mesi ha comunque lasciato il segno nella Santa Sede. Non caso Ratzinger ha iniziato una “piccola rivoluzione” nella Curia. Ha avviato un processo di rinnovamento e soprattutto di bilanciamento degli uffici più delicati in Vaticano. Come quella di Monsignor Paglia, “ministro” della Famiglia, e quella, più recente, del cardinal Mueller come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non solo. In vista del prossimo Concistoro straordinario, poi, che potrebbe essere convocato in tempi brevi, Benedetto XVI starebbe studiando una serie di nomine per rendere meno egemonica la presenza di cardinali italiani e andare incontro al pressing della “vecchia guardia” straniera choccata dagli scandali che hanno colpito il Vaticano, a partire dalla guerra per “corvi” scatenata dallo scandalo “Vatileaks” e dall’arresto del cameriere del Papa, Paolo Gabriele. Una tattica che sta dando il via alla grande battaglia per la successione.
La Stampa 24.9.12
Santa Sede e politici cattolici contro il ministro Profumo: “L’ora di religione resti com’è”
Il Vaticano: insegna la pacificazione dell’identità nelle scuole
La proposta del ministro dell’Istruzione Profumo sull’insegnamento della religione ha fatto scattare la polemica
di Giacomo Galeazzi
E il sito «Cultura cattolica» protesta: «Cambiare l’ora di religione? No, cambiare il ministro».
«L’insegnamento deve cambiare per restare al passo con un Paese sempre più multietnico»
Altolà cattolico alla proposta del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, di cambiare l’ora di religione per «rimanere al passo con le trasformazioni di un Paese sempre più multietnico».
Dalle autorità vaticane ai politici cattolici di ogni schieramento è un coro «bipartisan» di no. «La Santa Sede sta preparando un documento sull’educazione interculturale in cui si affronta proprio l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole commenta il viceministro vaticano dell’Educazione cattolica, Angelo Zani -. Vanno evitati due estremi: relativizzare ogni cultura o favorirne una a discapito della altre». E aggiunge: «In Italia l’ora di religione (regolata da un’intesa tra Stato e Chiesa) dà un importante contributo alla pacificazione e non all’esaltazione di un’identità». Dunque, «non è giusto chiedere ai cattolici di rinunciare ad essere se stessi: non è accaduto neppure in altri paesi ancora più multiculturali».
Da tempo, precisa monsignor Zani, «nei programmi scolastici l’ora di religione non ha un taglio da catechismo, bensì pedagogico-culturale e già offre un inquadramento sulle religioni». Inoltre «chi sceglie di non avvalersene potrebbe usare quel vuoto per approfondire altre fedi, in Germania ogni studente sceglie quale insegnamento religioso frequentare, spetta alle istituzioni attrezzare un’alternativa a chi adesso ha semplicemente un’ora in meno di lezione». Roberto Rao (Udc) taglia corto: «Cambiare l’ora di religione non è in agenda, è un’uscita “fuori tempo” che crea confusione. Sono altre le urgenze per l’istruzione e cioè il tempo pieno, le risorse, l’adeguamento tecnologico, il concorso pendente sui precari». Critico anche Giuseppe Fioroni, leader dell’ala cattolica del Pd: «La nostra legislazione è molto avanzata nel recepire la multietnicità e consente già oggi sia di non frequentare la lezione, che di pretendere un insegnamento alternativo. Perciò quello di Profumo è un esercizio lessicale, ma un ministro dovrebbe risolvere i problemi invece di crearli». Infatti, «basterebbe dare agli istituti i mezzi per allestire le ore alternative».
L’ex ministro e cofondatore del Pdl, Gianfranco Rotondi prende le distanze dalla proposta. «Un governo tecnico non può porre una questione che deve passare attraverso una campagna elettorale- afferma-. E’ un tema fondamentale che tocca le radici cristiane dell’Italia, non si può stravolgere l’ora di religione per farne una generica lezione di storia delle fedi o di etica. La crescente presenza di studenti stranieri nelle classi elementari e medie non deve servire da pretesto ad una scristianizzazione della nostra istruzione».
Rotondi prende a modello Benedetto XVI per ribadire: «Lungi dal costituire un’interferenza o una limitazione della libertà, la presenza degli insegnanti di religione nella scuola italiana è anzi un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul dialogo leale». Quindi «la piena dignità scolastica dell’insegnamento della religione cattolica contribuisce a dare un’anima alla scuola e assicura alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell’educazione».
l’Unità 24.9.12
Pisapia apre alle adozioni dei gay Il caso-Milano preoccupa la Cei
Il sindaco: «Meglio avere genitori, anche se omosessuali, che non averli»
di Pino Stoppon
ROMA Pochi giorni dopo l’apertura del registro delle unioni civili, è ancora Milano a fare da battistrada sui temi dei diritti. È stato il sindaco Giuliano Pisapia, ospite dell’Idv a Vasto, a lanciare una proposta che farà discutere, ma che conferma l’orientamento e l’apertura della sua giunta verso certe tematiche. «Sono d’accordo con la possibilità di far adottare dei figli anche alle coppie omosessuali» ha detto il primo cittadino durante il meeting in Molise. «Meglio avere dei genitori, anche se omosessuali, piuttosto che non averne affatto». «Il primo interesse da tutelare, quando si parla di minori, è sempre quello dei bambini ha spiegato il sindaco di Milano E non ho dubbi nel dire che un bambino adottato e amato da una coppia crescerà sicuramente meglio che un bambino senza genitori». Quando si affrontano questioni delicate come questa aggiunge -, è necessario avere bene in mente la realtà senza pregiudizi. E nella realtà, come dimostra l’esperienza di molti paesi anche europei, i bambini possono essere cresciuti da ottimi genitori, sia etero che omosessuali, mentre al contrario possono esserci pessimi genitori in entrambi i casi». Pisapia poi prosegue: «Le richieste di adozione vengono vagliate e valutate con attenzione da psicologi, esperti e giudici. E questa è una procedura importante e necessaria che va mantenuta, perché solo così si può valutare il bene del bambino e se chi fa richiesta di adozione sia persona idonea a educare e crescere un figlio».
SASSO NELLO STAGNO
Le reazioni alla proposta di Pisapia, che rilancia una volta di più un argomento che resta un tabù per tutte le forze moderate, non si sono fatte attendere. Così, ecco puntuale la risposta di Ignazio La Russa, coordinatore nazionale Pdl. «Ma Pisapia che vuole dare a un bimbo genitori adottivi dello stesso sesso con la scusa che è meglio una coppia gay che essere senza genitori, non sa o fa finta di non sapere che sono migliaia le coppie etero in attesa di ottenere bimbi in adozione oltre a quelli esclusi per antiquati limiti di età? Chi parla di matrimonio e adozioni di coppie gay fa un pessimo servizio al totale superamento di ogni ingiusta discriminazione per motivi sessuali».
Il «tabù» che ha sollevato Pisapia, rilanciando il tema dell’omosessualità e delle adozioni, ha suscitato una dura reazione anche nella Chiesa. L’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, aveva espresso toni piuttosto fermi a proposito del registro delle unioni civili appena inaugurato nella città della Madonnina, rivolgendosi ai politici di area cattolica. «Chi ha quelle responsabilità amministrative e si dice cristiano dovrebbe confrontarsi seriamente sul valore della sua appartenenza politica, esprimere in modo netto e pubblico il suo dissenso ha dichiarato Scola fare di tutto perché il provvedimento non venga approvato, ed eventualmente, se passa la decisione che mette in discussione i nostri valori fondanti, porsi la domanda: mi trovo nel contenitore politico giusto?».
VESCOVI PREOCCUPATI
L’argomento rimbalza dalla curia milanese alla capitale dove, da oggi a giovedì, è riunito il Consiglio permanente della Cei. Tra i temi centrali dei lavori del Consiglio Episcopale che preoccupano più i vescovi c’è senz’altro quello dei registri comunali delle unioni civili e anche delle dichiarazioni anticipate di trattamento, a proposito delle quali il «parlamentino» dei vescovi «analizzerà la situazione» in Italia.
Visto dalla Cei, il caso-Milano pare decisamente un primo passo in direzione delle nozze gay, come confermerebbero le parole da Vasto del sindaco Giuliano Pisapia. Proprio l’altro giorno, tra l'altro, Benedetto XVI ha richiamato i politici cattolici a non arretrare mai nella difesa della vita in ogni sua fase e della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Un richiamo che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, farà suo aprendo il Consiglio dei vescovi.
Nei giorni scorsi intanto, come detto, ha debuttato ufficialmente il registro delle unioni civili del comune di Milano. Nella prima giornata sono state 18 le coppie che metteranno nero su bianco negli uffici comunali di Via Larga il proprio nome sul registro fortemente voluto dalla giunta Pisapia: 14 etero e 4 omosessuali. È stata proprio una coppia gay la prima a registrarsi: l’unione civile numero uno di Milano è quella formata da Paolo Hutter, storico attivista dell’Arcigay, e dal compagno Paolo Oddi.
La Stampa 24.9.12
A Milano i Picasso che piacevano a Picasso
Da Parigi a Palazzo Reale duecento opere del toreador della pittura che duellava di tela in tela con lo spettro della morte
di Marco Vallora
Genio, sempre. Scriveva, Picasso (assai vicino a Proust: uno dei pochi contemporanei che l’aveva capito. Altro che fermo a Vermeer, Watteau, massime Monet!): «Ho sempre meno tempo, e sempre più da dire. Al punto in cui il movimento del mio pensiero m’interessa più del mio pensiero stesso». Il cinematografo accelerato del capire-dipingere. Non già la deposizione e la cova diligente delle uova d’oro utili solo al mercato. «Ho l’impressione che il tempo fluisca sempre più vertiginosamente. Sono un fiume che scorre, travolgendo con sé gli alberi divelti dalla corrente, i cani decomposti, rifiuti d’ogni tipo ed i miasmi che quelli diffondono. Raccatto tutto e tiro dritto». È con questa idea fissa del vampiresco fluire eracliteo, che ci si può sciogliere nella magnifica, finalmente, mostra, che ci concede, a rallentato bout de souffle, di tracannarci questa dionisiaca cavalcata picassiana di oltre 200 opere (tra pifferi, sistri, mandolini, cubo-fisarmoniche e bucrani sonori). Stregata galoppata, che attraversa quasi un secolo, brevissimo, fulminante. Di fattiva, artigiana, somma genialità, neanche più pittorica: conoscitiva. È noto: sono, in parte, i «Picasso di Picasso», disseminati nei suoi vari atelier, spesso coevi, entro cui compulsivamente tratteneva tutto di sé. Anche i biglietti usati del metro NordSud (che poi si sarebbero metabolizzati in pittura-collée) od i feticci adulterini dei suoi vari amori simultanei, che talvolta si tradiscono, sprizzando dalle sue tele, come cavallette voraci. Pezzi talvolta più sentimentali, intimi, frammenti privati di sé, che non capolavori «maggiori» e per tanto tanto più rivelatori. Brani d’un arazzo fiammante, prelevati qui e là (sotto gli occhi vigili del Ministro Malraux) per formare la «dation» fiscale, alla morte di Yo, el Rey de la Pintura, e dar vita al sontuoso Museo parigino, ancor in rifacimento.
Certo, vien meno qui l’allure barocco-molieresca dell’Hotel Salé, l’aura aristocratica-ferrobattuto degli arredi di Diego Giacometti, scenografia alla Christian Bérard, il ritmo sincopato di saloni, stanzette, scale camini e trabocchetti. Ma forse è un’ottima potenzialità, poter vedere queste opere «nude». Vederle s/correre, quasi frettolosi fotogrammi braccati, verso il fermo-immagine della Morte, sempre in agguato. Ad ogni arresto, provvisorio, di tela (questo pantagruelico vitalista che fu in realtà perennemente tallonato dalla nera, Unica Signora. Abbandonato lui, el Rey, da Françoise Gilot, vero trauma, si dipinge come un’ombra, una larva sgomenta). Rileggerle snudate, come granate sempre pronte a riesplodere (tesi di Apollinaire). Grazie anche all’ammirevole pulizia dell’accrochage, curato da Lupi, Migliori, Servetto, con quella lunga, parca panca da pellegrinaggio, che accompagna, come un disponibile bordone, il respiro affannato dello sguardo. Strattonato dalla voracità del reincontro, con pezzi venerati, la Celestina, Olga seduta ed il mondo intorno, svanito in uno schermidare di pennellessa, impeciata d’attesa. La malevitchiana, essenziale Chitarra di Cèret, fatta di nulla. Il dissanguato Pittore e la modella del ’14. La micro- formidabile Corrida e via così, rischiando l’ovvietà (possiamo domandarlo al grafico Ghilardi o a chi per lui: ma perché la scelta d’un icona d’affiche, così furba eppur poco gaudiosa?). Certo, ognuno sceglie, Picasso stesso l’ha autorizzato: «Io dipingo esattamente come altri redigerebbe la propria autobiografia. Le mie tele, finite o non risolte, sono come pagine del mio diario. Il futuro sceglierà le pagine preferite». Ci pare che Anne Baldassari, conservatrice del Museo, abbia scelto assai bene, evitando l’ubbia dei «periodi» obbligatorio-didattici, rosa-blu-ingresque-ecc. (tanto invisi al toreador dell’imprevedibile) individuando un «fil rouge», dipanato in un saggio assai sottile. In fondo questo Narciso assoluto, ch’era troppo preso dal mondo (e vittima della pittura: una sposa-tiranna, che «gli faceva fare quello che voleva») troppo bulimico dell’Altro, per potersi specchiare unicamente sul rivo di se stesso, ha continuato a fare autoritratti, ma appunto di questo Sé diffuso, inteso come Mondo-specchio scuoiato. Che lo seduce, strattona, travolge e domina («Beve ogni volta il suo otre sino alla feccia e poi l’otre si ricarica», parola di Gertrude Stein). Picador e toro-torero di sé, che rischia ogni volta la vita, seduttore anche degli amici, stupratore e cannibale-Barbablu (come assicurano le sue troppe mogli, suicide o disarticolate a vita, come nei suoi ritratti) procreatore di figli-quadri o viceversa, e persino, ermafrodicamente (tanto era «pantos») odalisca di sé, come certificava l’interessato Cocteau. Che sapeva bene come negli specchi «si vede la morte è al lavoro»: un alveare gorgogliante di luttuosa vitalità. Anche Picasso, il velazqueziano, che per certi versi corteggiava pure gli specchi. Ma ne aveva un sacro terrore ancestrale, di reverenza e insieme paura (li vediamo spesso spuntare nelle sue fotografie, o negli autoscatti, in mostra). E allora eccolo in maschera, si trucca, si sottrae, istrioneggiando: collage di Arlecchini interiori. Proprio per allontanare lo spettro del doppio, dell’Inquietante freudiano. Già a sedici anni, profetico, una parrucca settecentesca. E poco prima di morire, sussulto apotropaico, già auto-teschio-ritratto. O, tornato giovanissimo, spiritello mercuriale, con paglietta e pennello vangoghiano.
Questo carnascialesco «scoronatore» del mondo (avrebbe detto Bachtin) ci accoglie ab initio sotto le fatture-Max Jacob d’un bronzeo giullare: periclitante acrobata, quasi uno Zarathustra appiedato ed irridente. Passa salamandra attraverso lo spettro blu-venoso del doppiosuicida Casemas, si purifica nel rosa-sabbia, adamitico, di Gosòl, poi lo shrappnel prospettico del cubismo e la fiammata ideologica (che riverbera nella sezione «italiana», memoria della mostra del ’53, affidata a Francesco Poli). Pare avesse avuto notizia della morte dell’amico Apollinaire, radendosi. Divorzio dagli specchi. Ma giovane, aveva confessato al fotografo Brassai: «Bisognerebbe fare un buco nello specchio, affinché l’obiettivo possa cogliere il nostro volto più intimo di sorpresa». La sua pittura, in fondo, è stato questo. Un foro sontuoso inflitto alla storia della pittura, che ci aiuta a vedere meglio. A ritessere, come in un gioco stellare, il profilo di questo Minotauro, insieme dominatore e dominato: Edipo cieco e tenero mostro, dallo sguardo, che non finisce di toreare con la nostra miopia filistea.
Repubblica 24.9.12
Macho che passione
Almudena Grandes: “Perché gli spagnoli sono ossessionati dalla virilità”
di Leonetta Bentivoglio
L’autrice dell’“Età di Lulù” spiega quali sentimenti profondi rimangono dai tempi della dittatura franchista a determinare fino a oggi l’identità del suo paese
Da adolescente ero insicura sempre infatuata dei ragazzi sbagliati
Molto meglio la maturità
Eppure ho visto anche tanti uomini sensibili e innamorati trattati male dalle donne
Rivelatasi al grande pubblico una ventina d’anni fa col best-seller Le età di Lulù, colmo di un applauditissimo erotismo, Almudena Grandes è diventata da tempo un’autrice tutt’altro che “scandalosa”, definendosi come una delle esponenti più notevoli e profonde dell’attuale letteratura spagnola. Oggi il suo obiettivo sta nell’interrogarsi sull’identità del suo paese a partire dalla dittatura franchista e dalla guerra civile, scavando nei segni che l’affresco movimentato della Storia traccia negli individui e negli affetti. Da Cuore di ghiaccio a Inés e l’allegria, i suoi libri più recenti immettono il privato dei personaggi in quadri d’epoca e in digressioni sulla realtà spagnola. L’ultimo romanzo, Il ragazzo che leggeva Verne, pubblicato come gli altri da Guanda (Almudena ne ha parlato ieri nella giornata finale di Pordenone-legge), conferma questa sua vena. Protagonista è Nino, che nell’Andalusia nel ’47, grazie ai propri viaggi nella fantasia letteraria, si salva l’anima dal clima violento della caserma di suo padre, che di mestiere fa la guardia civile. Almudena Grandes: perché si è tanto distaccata dall’erotismo dei suoi esordi? «A dire il vero la politica è stata sempre il mio interesse fondamentale. Anche la vicenda di Lulù conteneva accenti politici: Pedro, il suo amante, era un comunista coinvolto nella resistenza alla dittatura. Il tema della memoria storica domina la mia generazione. Sono nata nel ’60, e faccio quindi parte della grande famiglia dei nipoti di coloro che attraversarono le sofferenze della guerra civile. Ora siamo in grado d’interrogarci su quel passato doloroso senza più complessi né ambiguità». Comunque l’amore è sempre un tema centrale della sua prosa.
«È quello che mi ha formato. Quand’ero una ragazzina mi facevo travolgere dalla passione di Anna Karenina e dai romanzi ottocenteschi dello spagnolo Benito Galdos. Poi c’è stato lo svelamento decisivo della letteratura latino-americana: autori come Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa mi hanno fatto capire cos’è la sensualità in letteratura e come può svilupparsi un’idea dell’amore nutrita dalla carnalità». Il cinema ha contribuito alla sua percezione dell’amore? «Molto. Da giovane ho vissuto felicemente il superamento della barriera del sesso da parte dei film di qualità. Se prima la sessualità sullo schermo si limitava alla pornografia, in seguito si è scoperto che l’erotismo poteva essere immesso in un cinema di alto livello. Mi riferisco a film come L’impero dei sensi e soprattutto a Ultimo tango a Parigi.
Mi è rimasta impressa la sua storia triste, bella, poetica e priva di scandalo nelle intense scene di sesso. Secondo me il vecchio e sfatto Marlon Brando, in Ultimo tango, è l’uomo più sexy esistito sulla terra. Un altro film significativo, nella mia vita di spettatrice, è stato Viridianadi Luis Buñuel, del 1961. Quando nel finale la protagonista si unisce alla partita a carte del cugino Jorge, chiudendosi dietro le spalle la porta della stanza da letto, è facile fantasticare che tra loro ci sarà una relazione sessuale. Nella Spagna della dittatura militare, segnata da un potente influsso del cattolicesimo sullo Stato, la censura negava visibilità a qualsiasi passaggio scabroso. Ma l’immaginare risuona in noi come una perturbazione tanto più forte del vedere».
In Spagna la tradizione culturale dell’amore è ancora impregnata di machismo?
«Certo. La lirica del sesso e dell’amore ne è condizionata alle radici. Un autore omosessuale e moderno come García Lorca, ben distante dall’universo machista, non s’è sottratto a questo genere di lirismo. Un altro esempio è Almodovar, cineasta alieno da ideologie machiste. Ciò nonostante le scene d’amore dei suoi film sono dominate dalla visione archetipica del macho, pur senza la minima apologia. E’ un’icona irrinunciabile della nostra cultura».
Crede che sia diverso l’amore declinato al maschile o al femminile?
«No. Ho conosciuto un numero di uomini innamoratissimi e sensibili, trattati male dalle loro amate, pari a quello delle donne. Tra i due generi ci si somiglia molto più di quanto vogliano farci credere certe convenzioni e certi quadretti pubblicitari».
La serie delle Cinquanta sfumature, dell’inglese E. L. James, è in testa alle classifiche. Perché, secondo lei, riscuote tanto successo questa saga amorosa condita di sadomasochismo?
«Ricorda il Lato Oscuro della Forza in Star Wars? Il sadomasochismo è questo: la parte buia dell’amore. L’ultima barriera del sesso. L’opposto del sesso “sano”. E in quanto tale può sedurre. Come ogni estremismo. Quel tema, comunque, mi è piuttosto indifferente». Tuttavia c’è una parte sadomaso anche ne Le età di Lulù.
«Il romanzo è la storia di un incesto simulato, dove il sadomasochismo è solo la frontiera finale della provocazione di un’adolescente nei confronti di un uomo molto più vecchio. E’ insomma solo un aspetto di un rapporto ben più complesso. Il sadomasochismo, inteso in modo meccanico, non mi attira».
Considera legittima la gelosia?
«Penso che sia una conseguenza naturale dell’amore, se non si converte in patologia. In ogni legame amoroso c’è una dose ragionevole di senso della proprietà. Però mi sembra che l’amore abbia a che fare più con la voglia di appartenere a un altro che con quella di possederlo».
Il sesso è una condizione dell’amore?
«Sì. Ma preferisco parlare di desiderio, ovvero di un processo più interiore e mentale che non fisiologico. Difficile che una storia vada avanti se manca il desiderio».
Quanto è cambiato l’amore nella Spagna odierna?
«Dopo la morte di Franco, noi spagnoli eravamo molto fiduciosi. Uscivamo da una situazione soffocante e da una dittatura crudele, e ci illudevamo che diventare europei ci avrebbe aperto al mondo e dato accesso a un futuro migliore. Ma la crisi economica ha sconvolto ogni parametro e infranto ogni ottimismo anche nel privato e soprattutto nei rapporti tra i giovani, che non sono più sicuri di niente. Il senso di precarietà incide sulle relazioni affettive ».
Da Le età di Lulù a Malena, lei ha parlato spesso di amore nell’adolescenza.
«Credo di averlo fatto perché sono stata un’adolescente grassa e priva di appeal, proprio la classica sfigata. Ero una teen-ager piena d’incertezze, infatuata sempre di ragazzi che non mi volevano. Sono convinta che l’idea del primo amore sia sopravvalutata. Il buon amore non è il primo, ma l’ultimo. Quello che arriva quando si è adulti e consapevoli».
Oggi vive un buon amore?
«Ottimo. Sto da diciotto anni con lo stesso uomo, un poeta andaluso. E le frustrazioni sono lontane».