La Stampa 1.9.12
Disoccupazione record al 10,5% come nel ’99: tre milioni i precari
I senza-lavoro sono 2,7 milioni e i precari quasi 3 milioni Per i giovani il tasso è del 35%, per le giovani al Sud del 48%
In un anno persi 133 mila posti di italiani mentre sono cresciuti di 85 mila gli stranieri
Un giovane su tre senza lavoro
di Luigi Grassia
La disoccupazione non allenta la presa facendo segnare nuovi record, soprattutto tra i giovani, e chiudendo le porte al posto fisso. I dati Istat parlano chiaro: tra aprile e giugno il tasso di disoccupazione ha toccato quota 10,5%, il livello più alto dal 1999. Monti convoca le parti sociali: ma niente concertazione.
La curva della disoccupazione continua a salire. Il suo tasso nel secondo trimestre 2012 è cresciuto al 10,5% della forza lavoro, in netto rialzo del 2,7% rispetto al corrispondente periodo del 2011. L’Istat segnala che il nuovo dato è il peggiore dal secondo trimestre del 1999.
Fa ancora più impressione citare i numeri assoluti: i disoccupati aumentano di 758.000 unità a 2.705.000. E bisogna sempre ricordare che ogni unità è una persona che cerca lavoro e non lo trova.
Come al solito la mancanza di lavoro colpisce più le donne che gli uomini, ma il peggioramento nel secondo trimestre c’è per tutti e due i sessi: per gli uomini il tasso di disoccupazione passa dal 6,9% del 2011 al 9,8% del 2012 mentre per le donne si sale dal 9% all’11,4%.
Un’altra categoria di persone che paga per la crisi un prezzo più alto della media sono i giovani, che l’Istat definisce come le classi di età fra i 15 e i 24 anni: il tasso di disoccupazione giovanile a luglio risultava del 35,3%, in aumento di 1,3 punti percentuali su giugno e di 7,4 punti su base annua. Lo rileva l’Istat. In numeri assoluti, i giovani in cerca di lavoro sono 618 mila.
La crescita della disoccupazione è diffusa su tutto il territorio ma chi assomma la caratteristica di essere giovane, per di più donna e per di più abitante nel Sud Italia subisce un tasso di disoccupazione del 48%. Dal punto di vista del lavoro questo è il segmento di popolazione più debole in assoluto.
Guardando le cose da un punto di vista opposto, cioè considerando non il numero dei disoccupati ma quello degli occupati (e si noti bene non c’è un semplice simmetria, il rapporto fra i due gruppi è più complesso) il numero delle persone che hanno un lavoro diminuisce nel secondo trimestre dello 0,2% (-48.000 unità) rispetto allo stesso periodo del 2011. Il risultato sintetizza il nuovo calo dell’occupazione maschile, a fronte del protrarsi del positivo andamento di quella femminile (questo anche perché fra le donne è più alta la quota di dipendenti pubbliche il cui lavoro dipende poco dagli alti e bassi dell’economia).
C’è anche una contrapposizione fra classi di età, perché l’Istat registra un aumento degli occupati fra le persone con più di 50 anni (oltretutto in questa categoria cresce la quota di quelli pre più precari. Dice l’Istat che nel secondo trimestre i dipendenti a tempo erano 2 milioni 455 mila, il livello record dal 1993. Sommando i lavoratori con contratti a termine e i collaboratori si arriva a più di 2,9 milioni.
Il problema della disoccupazione non è solo italiano, anzi nella media dei Paesi dell’euro le cose vanno peggio: il tasso nell’Eurozona a luglio ha toccato un nuovo massimo, l’11,3%. Ma in economia il mal comune non è mezzo gaudio.
Corriere 1.9.12
I falsi miti del lavoro e il secondo welfare
L'Italia è in ritardo nella creazione di posti nei servizi rispetto a Francia o Gran Bretagna
di Maurizio Ferrera
La disoccupazione è salita ancora, in particolare fra i giovani. Tutti dicono: c'è la crisi, dobbiamo rassegnarci e aspettare che l'economia riparta. Il governo assicura che sta facendo il possibile e ha appena presentato un'articolata agenda per la crescita. Benissimo, ma possiamo fidarci? Coi tempi che tirano in Europa e considerando la nostra bassa capacità di attuare le riforme, la ripresa non potrà essere né rapida né impetuosa. La creazione di «posti fissi» da parte di industria, trasporti, edilizia, pubblica amministrazione, commercio (i settori tradizionalmente più dinamici dal punto di vista occupazionale) non sarà perciò sufficiente per assorbire lo stock di giovani inattivi, disoccupati e precari.
Su che cosa puntare? Ci sono altri settori capaci di creare occupazione, con prospettive di crescita più favorevoli e più influenzabili nel breve dalle politiche economiche e fiscali? Si, ci sono i servizi: alle imprese, ai consumatori, alle famiglie. È su questo fronte che dobbiamo concentrare gli sforzi per affrontare seriamente l'emergenza lavoro.
L'Italia ha un forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Prendiamo i «giovani» fra i 15 e i 39 anni. Da noi il tasso di occupazione è 57%. In Francia è il 62%, in Inghilterra il 70 per cento. Il divario italiano è quasi interamente spiegato dal «vuoto» dei servizi. Su cento giovani lavoratori inglesi, sei trovano impiego in questo settore: in Francia più di cinque, in Italia solo 4. E che lavori fanno questi giovani stranieri? I comparti trainanti sono sanità, istruzione, finanza, informatica e comunicazione, turismo, cultura. Si stenta a crederlo, ma in quest'ultimo comparto il tasso di occupazione giovanile inglese è tre volte più alto di quello italiano: un vero paradosso, per un Paese con le tradizioni e le ricchezze italiane.
Certo, non tutti i posti di lavoro sono «di qualità»: negli ospedali o negli alberghi c'è chi fa le pulizie o chi sta in cucina, nella cultura c'è chi fa il guardiano di museo o chi stacca i biglietti. E moltissimi impieghi sono flessibili: a termine, part time, interinali e così via. Ma sono comunque lavori. Una fonte di reddito, di integrazione sociale, un punto di inizio verso posizioni più stabili e gratificanti. I servizi necessitano anche (e in misura crescente) di personale altamente qualificato, molto spesso con buona formazione tecnico-scientifica.
Il buco particolarmente vistoso nel nostro Paese riguarda i servizi sociali alle persone. Qui trovano occupazione solo 600 mila giovani italiani, di contro al milione e mezzo di Francia e Inghilterra. I mestieri più diffusi sono: assistenti all'infanzia, ai disabili, agli anziani fragili, para-medici, animatori, educatori, operatori sociali, formatori. Le professioni, insomma, di quel «secondo welfare» che accompagna e integra il sistema pubblico e che in Italia stenta a decollare, penalizzando in particolare le donne con figli (si veda il sito www.secondowelfare.it).
Come sono riusciti gli altri Paesi a espandere i servizi? Un ruolo di primo piano è stato svolto dai governi, attraverso un mix intelligente di sgravi contributivi per i datori di lavoro, agevolazioni fiscali e in qualche caso sussidi per i consumatori, coordinamento e regia da parte dell'amministrazione pubblica.
L'elemento più importante di queste esperienze straniere è che, una volta decollati, i servizi «tirano» da soli. Secondo un recente rapporto del governo francese, l'incremento occupazionale dei prossimi dieci anni si concentrerà quasi tutto nel terziario. Sanità, assistenza, istruzione, cultura, turismo, servizi alle imprese potranno creare in dieci anni un milione e 300 mila posti. Serviranno medici, infermieri, insegnanti, tecnici, informatici, ingegneri «dei servizi», esperti di gestione (e anche qualche «creativo»). Industria, edilizia, trasporti apriranno poco più di 200 mila accessi. Certo, la struttura economica francese è diversa dalla nostra, qui l'industria pesa di più. Espandere i servizi non significa però affatto comprimere l'industria in termini assoluti (ci mancherebbe) ma solo relativi, come peraltro sta avvenendo in tutta Europa.
L'agenda per la crescita elaborata dal governo Monti contiene qualche misura indirettamente volta a far crescere il nostro arretrato settore terziario: liberalizzazioni, semplificazioni, piani per il turismo, coesione sociale, non autosufficienza, riordino delle agevolazioni. Ma servirebbe una strategia più mirata e sistematica. Se la nuova economia dei servizi non decolla, dobbiamo davvero rassegnarci a convivere molto a lungo con una disoccupazione giovanile a due cifre.
Repubblica 1.9.12
Giovani disoccupati, record da 20 anni pesa anche la riforma delle pensioni
Tasso al 35,3%. Agricoltura in controtendenza: +10%
di Roberto Mania
Ad agosto rimane alta l´inflazione: i rincari di carburanti e trasporti tengono l´indice dei prezzi al 3,2%
L´utilizzo degli ammortizzatori sociali attenua appena gli effetti di un´economia ancora in caduta
Dall´inizio della nuova recessione il livello dei senza lavoro è salito di 2,5 punti
Quasi tre milioni di disoccupati e circa tre milioni di lavoratori precari perlopiù giovani. Sono gli ultimi numeri da brividi dell´Istat sul mercato del lavoro italiano che progressivamente sta tornando a livelli addirittura di due decenni fa. Nell´ultimo anno, da quando è cominciata la nuova recessione, la disoccupazione è aumentata di 2,5 punti percentuali, toccando nel luglio scorso il tasso del 10,7 %. Da record il livello di disoccupazione nella fascia di età 15-24 anni che per la prima volta ha superato la soglia psicologica del 35 %, arrivando al 35,3.
LA RECESSIONE DISTRUGGE IL LAVORO
Se l´economia italiana continuerà a non dare segni di ripresa (la Banca d´Italia stima che a fine anno il Pil scenderà del 2%), tanto più con un´inflazione che ad agosto ha raggiunto il 3,2 % (+0,4 in un mese) trainata dagli aumenti dei carburanti e dei trasporti, è difficile immaginare che qualcosa possa muoversi nel mercato del lavoro. Dove l´utilizzo massiccio degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in primis) finisce per attenuare la drammaticità della situazione. L´ha ammesso il presidente dell´Istat, Enrico Giovannini, secondo il quale se da una parte l´economia italiana «sembra aver interrotto da fase di caduta», dall´altra «gli ammortizzatori sociali hanno attutito il colpo». «Ma - ha aggiunto - questo è un fenomeno che non può durare a lungo». Scenario negativo, dunque. E le vertenze sarde dell´Alcoa e della Carbosulcis sono solo le due più clamorose di questa fine estate. Non è per caso che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, abbia parlato di un autunno difficile. In sei casi su dieci a ingrossare l´esercito dei senza lavoro sono coloro che hanno perso una precedente occupazione. Va in controtendenza l´agricoltura, dove nel secondo trimestre dell´anno si è registrato un aumento significativo dell´occupazione: + 10,1 %. Nel settore - dice la Coldiretti - uno su quattro dei nuovi assunti ha meno di 40 anni.
I GIOVANI PRIME VITTIME DELLA CRISI
Resta il fatto che i giovani si confermano le prime vittime della recessione: lavorano in pochi e in percentuale altissima con contratti a tempo determinato. E fa impressione leggere nell´ultima rilevazione dell´Istat che dal luglio del 2011 al luglio di quest´anno il tasso di disoccupazione giovanile sia cresciuto di 7,4 punti. Ci sono 618 mila giovani che cercano lavoro, vuol dire il 10,2 % di quella fascia di età. Nel Mezzogiorno i disoccupati giovani arrivano al 46,6 %, quasi il 50 % tra le ragazze.
Chi entra nel mercato del lavoro lo fa nella stragrande maggioranza dei casi con un contratto a scadenza. Così nel secondo trimestre del 2012 i contratti a termine sono aumentati del 4,5 % rispetto a un anno fa, raggiungendo quota 2 milioni e 455 mila, il livello più alto da quasi un ventennio. Se a questi si aggiungono gli oltre 460 mila collaboratori si arriva a circa tre milioni di lavoratori precari. Continua il declino del posto fisso: nel secondo trimestre del 2012 i rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti del 2,3 % (in termini assoluti, 439 mila posti).
GLI OVER 50 RESTANO AL LAVORO
Si riduce sempre più il ricambio tra giovani e anziani. È anche l´effetto della riforma pensionistica che ha innalzato i requisiti per l´accesso alla quiescenza. L´Istat certifica che «l´aumento dell´occupazione più adulta con almeno 50 anni, soprattutto a tempo indeterminato, si contrappone al persistente calo su base annua di quella più giovane e dei 35-49 enni».
l’Unità 1.9.12
L’attenzione ai non credenti
di Carlo Sini
HO INCONTRATO PER LA PRIMA VOLTA IL CARDINALE MARTINI IN OCCASIONE DELLA preparazione dei programmi per la Cattedra dei non credenti. Mi accolse nel suo studio in Arcivescovado, in ora serale. Nella penombra mi venne incontro con quel fare semplice e cordiale, mai affettato e mai impostato, che tutti coloro che lo conoscevano ricordavano e ammiravano in lui.
Il tratto accogliente contrastava, senza che lui certo se ne avvedesse, con quella sua figura singolarmente alta e ieratica che non poteva non colpire chi per la prima volta lo incontrava e che comunque restava impressa poi nella memoria.
Parlammo del dialogo che, qualche giorno dopo, ci avrebbe visti insieme nell’aula magna della Università degli studi di Milano. L’argomento di quell’anno, per la Cattedra, era il tempo e io avevo proposto di concentrare il mio intervento su Agostino. Mi aspettavo qualche discreta domanda relativa alla impostazione che intendevo dare al discorso, ma con signorile distacco e discrezione Martini non vi fece il minimo cenno.
Si trattava semplicemente di un contatto preliminare per conoscerci un po’ e fu soprattutto lui a parlare di sé, del suo amore per gli studi teologici, purtroppo da tempo limitati dai suoi incarichi pastorali, della sua convinzione che la ricerca vive di libertà: l’iniziativa della Cattedra dei non credenti era pensata appunto in questo spirito di carità e di apertura.
Parlava con una modestia non affettata e con una serenità di tono che da un lato attraevano alla confidenza, dall’altro e nel contempo imponevano un istintivo riserbo. Da tempo avevo maturato una meditata stima per questo arcivescovo di Milano che coraggiosamente si adoperava e si esponeva in favore dei diritti del lavoro e della giustizia sociale e si batteva per l’accoglienza dei fratelli che venivano da lontano.
Per la mia relazione all’università mi preparai con molto impegno, naturalmente: anche i non credenti hanno, a loro modo, un’anima; ma Martini, prendendo dopo di me la parola, disse letteralmente: «Il professor Sini ci ha messo in parete!» Alludeva scherzosamente, con questa metafora da scalatori, ai passaggi forse troppo ardui della mia relazione. Per parte sua, abbassò considerevolmente il livello e il tono: parlava per i suoi credenti e per il buon popolo di Dio, senza nessuna pretesa di ben figurare. Anche in questo lo ammirai: a ognuno la sua parete e la sua parte, con reciproco rispetto e trasparente one-
stà. Un seconda volta incontrai Martini in occasione della enciclica «filosofica» di papa Woityla: si trattava di un convegno organizzato dalla diocesi milanese per il quale ero invitato a portare una interpretazione «laica» del testo. Non feci mistero della mia posizione critica su certe tesi, ma Martini non mi ascoltò: dopo aver aperto i lavori e ringraziato i presenti, se ne andò, adducendo impegni improrogabili.
Aveva fatto il suo dovere, organizzando al meglio la manifestazione; ebbi però l’impressione che dell’enciclica non fosse entusiasta. Se ripenso alla conversazione privata all’Arcivescovado e ai suoi riferimenti al modo di intendere gli studi religiosi, l’insistenza dell’enciclica in favore di una filosofia universale che caratterizzerebbe l’intera umanità, consapevole o inconsapevole, non poteva trovarlo consenziente, o così mi parve e mi pare.
La grande e nobile figura di Martini mi ricorda ciò che disse Enzo Paci in occasione del discorso di Paolo V all’ONU: se un papa parla così, noi non possiamo che rallegrarcene. Lo spirito soffia dove vuole e non chiede a noi di decidere dove, come e per chi. La Cattedra per i non credenti ne è stato un segno indelebile.
Repubblica 1.9.12
La fede e il dubbio
di Eugenio Scalfari
OSO pensare che sia stato un momento sereno o addirittura felice quello di Carlo Maria Martini quando ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita e consentirgli di entrare nel cielo delle beatitudini, se Dio vorrà.
Ne abbiamo parlato spesso nei nostri incontri. Lui diceva che la sua fede era salda ma si confrontava ogni giorno con i dubbi. Non sulla fede ma sul modo di usarla, di farla vivere con gli altri e per gli altri. La fede - così diceva - è al tempo stesso contemplazione e azione, ma sono due movimenti dell´anima intimamente collegati. La contemplazione è solitaria, l´azione è solidale e pastorale.
Io, da tutt´altro punto di vista, obiettavo che il dubbio sull´azione finisce per coinvolgere la fede nella sua interezza. Lui, quando gli feci quest´osservazione, rispose che infatti ogni giorno chi ha fede deve riconquistarla; questo è il compito del cristiano e in particolare del vescovo, successore degli apostoli: mettere la sua fede al servizio degli altri, quindi metterla in gioco e insieme agli altri, insieme alle pecore smarrite, riconquistarla.
Un giorno gli domandai quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù: il discorso della montagna, oppure l´ultima cena o la preghiera nell´orto del Getsemani o l´interrogatorio dinanzi a Pilato o le «stazioni» della Passione o infine la crocifissione e la morte. «No - rispose - il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena. E poi, trasfigurato, agli apostoli ai quali affida il compito di andare e predicare».
Martini è andato e ha predicato; si è confrontato, ha privilegiato i giovani preti e i laici più lontani ed ha considerato la morte come l´attimo in cui si varca la porta che conduce alla contemplazione eterna nella luce del Signore. L´anima abbandona il corpo dov´era rinserrata, ha fatto l´esperienza dei peccati, si è misurata con le tentazioni, ha pregato per gli altri in attesa di quel momento supremo. Per questo oso pensare che decidere di andare in pace sia stato l´attimo felice della sua vita.
Io non ho la fede nell´oltremondo e non la cerco. Lui lo sapeva e non ha mai fatto nulla per convertirmi. Non era questa la sua pastoralità, almeno con me. Voleva offrirmi la sua esperienza e forse utilizzare la mia. Ma quale esperienza? Non certo quella del mondo ma quella dell´anima, degli istinti, dei sentimenti, dei pensieri.
L´ultima volta che ci siamo incontrati, lo scorso inverno, gli portai il mio ultimo libro intitolato a Eros che non è certo una divinità cristiana. Lui non parlava già più, sussurrava e il suo assistente don Damiano leggeva il moto delle sue labbra e lo traduceva. Ma dopo aver rigirato tra le mani tremanti il libro, mi chiese (e don Damiano tradusse) se il protagonista del libro fosse l´amore e io risposi che sì, era un libro sull´amore e soprattutto l´amore per gli altri. E lui fece sì con la testa, per dire che gradiva il dono.
L´amore per gli altri è il modo che Gesù indicò come il solo che conduce a Dio, la «caritas» l´«agape». Quello è il compito della Chiesa apostolica: la «caritas» per arrivare a Dio attraverso il figlio che si è fatto uomo.
Quando ci lasciammo lui mi sussurrò nell´orecchio: «Pregherò per lei» e io risposi: io la penserò. E lui sussurrò ancora: «Eguale».
Oggi penso molto a lui. Lui, nell´immagine di quell´attimo finale, ha certo pensato che stava varcando la porta della vita eterna. E io penso che lui l´abbia pensato e questo mi consola della sua perdita.
Repubblica 1.9.12
Un uomo di Dio
di Vito Mancuso
Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l´arcivescovo per oltre vent´anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.
Un biblista all´origine dell´edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora. Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio.
Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all´inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita. A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l´intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l´espressione "nobiltà dello spirito", tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l´esperienza suscitata dall´incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.
Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell´ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere. Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama "casa del Padre".
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l´ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere "dell´altro mondo". Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull´uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l´autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c´era veramente qualcosa di sacro nell´esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.
Repubblica 1.9.12
Quel no alla medicina che fa soffrire
di Umberto Veronesi
Di fronte al mistero e la dignità della morte di un uomo straordinario come il Cardinal Martini potremmo tacere e meditare. Oppure, pensando alla sua figura pubblica, che rimarrà un punto di riferimento per il pensiero moderno, forse invece dovremmo riflettere sulla lezione illuminata che ha voluto lasciarci anche nella sua ora suprema. Martini incarnava la Chiesa ecumenica, aperta al dialogo sia con le altre religioni che con il mondo laico. Martini si è costantemente impegnato a trovare i punti di incontro fra pensiero laico e pensiero cattolico ed ha identificato, fra questi, la situazione che lui stesso ha vissuto nei suoi ultimi giorni: quando una medicina tecnologica che cura di più, ma di più non sa guarire, si ostina (qualcuno dice «si accanisce») a intervenire con trattamenti che non hanno altro effetto se non prolungare una sofferenza e un´esistenza che non è più definibile come vita. In questo momento, ha dichiarato e scritto Martini, è lecito per ogni uomo, credente o non credente, rifiutare le cure eccessive. Così ha fatto quando è toccato a lui decidere, con coerenza, e con quel coraggio che viene dalla forza e dalla libertà del pensiero. Io, laico e non credente, avendo avuto la fortuna di confrontarmi con lui molte volte su questo ed altri temi di scienza e fede, so bene che non è mai stato facile difendere questa sua convinzione.
Certo, aveva dalla sua Giovanni Paolo II secondo il quale «quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all´eutanasia... ma esprime l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte». Ed anche filosofi cattolici di grande levatura, come Giovanni Reale. Ma una parte della sua Chiesa ha visto questa accettazione piuttosto come una crepa nel principio incrollabile della sacralità della vita, in base al quale la vita umana è dono e proprietà esclusiva di Dio e solo Dio può decidere come darla e come toglierla.
Martini ha risolto questo dilemma facendo appello a due pilastri del pensiero cristiano: la dignità e l´amore per l´uomo. «Non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate». La dignità. «Questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni. Anzi, è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina». L´amore. Non un sentimento retorico e universale, ma, al contrario, un amore molto concreto e personalizzato, come quello che la medicina esprime con le cure palliative, di cui Martini è stato un forte sostenitore.
Il termine «palliativo» deriva da Pallium, che significa mantello e la palliazione ha il senso di avvolgere amorevolmente il malato, per proteggerlo dal dolore fisico che può annullare, appunto, la sua dignità. «Forse sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei trattamenti» ma di «limitazione dei trattamenti». Risulterebbe così più chiaro che l´assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche», ha scritto Martini recentemente. Nella dignità di ogni uomo e nell´amore per i più deboli, i sofferenti e i morenti, pensiero laico e cattolico possono trovare un terreno comune di intesa e insieme ricondurci a quell´accettazione della morte di cui parla papa Giovanni Paolo II: un evento naturale, parte di un ciclo biologico, che è oggi un valore perduto. Credo che, dopo averci insegnato molto sul significato della vita, il Cardinal Martini abbia voluto insegnarci molto anche sul significato della morte.
Repubblica 1.9.12
Il ricordo di Massimo Cacciari che fu coinvolto in quegli incontri su etica e fede
"Fondò la Cattedra dei non credenti contro le resistenze dei conservatori"
"È sempre stato antitetico alle idee di Cl: un altro mondo rispetto al suo"
di C. Br.
MILANO - «Non ci sono credenti e non credenti, ma solo pensanti e non pensanti. Il cardinale Carlo Maria Martini amava spesso citare, con ironia, questa frase di Norberto Bobbio. Era per lui la prima distinzione. E però aggiungeva subito: "Poi tra i pensanti ci sono i pensanti credenti e quelli non credenti..."».
Il filosofo Massimo Cacciari ricorda con emozione la straordinaria stagione della "Cattedra dei non credenti", che lo vide coinvolto in prima persona, tra gli organizzatori. Un´esperienza fortemente voluta dal cardinale Martini tra il 1987 e il 2002. In mezzo alle mille contestazioni, particolarmente dure, della parte più conservatrice della Chiesa, che non sopportava l´idea di veder salire in cattedra degli atei a dialogare di etica, fede, religione, cultura, giustizia, con dei cattolici. «Si trattava di una serie di incontri al centro dei quali c´era soprattutto il dialogo. Questo cercava Martini, più di ogni altra cosa».
Martini diceva che "ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda".
«Appunto. Lui credeva in una fede dialogante. Viveva intensamente il dramma della fede. Al punto che chi gli stava vicino avvertiva fisicamente questo suo dramma interiore, umano».
Chi potrà portare avanti, nella Chiesa, lo stile di Martini, capace di coinvolgere i non credenti in grandi progetti comuni.
«Credo che il cardinale Gianfranco Ravasi, con la sua "Corte dei Gentili", stia proprio portando avanti questo progetto culturale: creare uno spazio di incontro».
Il cardinale Martini ha polemizzato non poco, nella sua vita, con il mondo di Comunione e Liberazione.
«Le idee di Comunione e Liberazione sono l´opposto esatto di quelle di Martini. Cl è attratta dal potere, in tutte le sue forme. Il potere della Chiesa, il potere politico, il potere economico e quello degli affari. Niente a che vedere con la profonda spiritualità di Martini».
C´è un episodio che i milanesi non possono dimenticare. Quando, nell´84, le Brigate Rosse decisero di consegnare a Martini le loro armi.
«Si arresero all´autorità spirituale della città. Non erano vinti, ma convinti da Martini».
il Fatto 1.9.12
Monti e colli vaticani
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, ma che cosa è andato a fare il presidente del Consiglio italiano in una improvvisa visita al Papa?
Valeria
LA DOMANDA non ha neppure sfiorato il giornalismo italiano, forse perché sono molte le cose nuove o diverse o irrituali a cui ci ha abituato questo primo ministro, che si consulta abitualmente con il Presidente della Repubblica, come se il sistema italiano fosse identico a quello francese. Chi non ha dimenticato da dove viene l’Italia e deve constatare che tuttora le incertezze sul candidarsi o no di Berlusconi paralizzano ogni giorno mezzo giornalismo italiano, non può che provare ogni volta sentimenti di gratitudine per i due presidenti. Ma certe domande restano in sospeso. Una riguarda la visita al Papa. Si può fare senza un annuncio e un comunicato stampa che dicano la ragione, gli argomenti e il senso di un evento tutt'altro che consueto, e tutt'altro che irrilevante, in Italia? Sappiamo che il Presidente della Repubblica è stato indotto dagli autori del disastro italiano, a operare ai margini estremi – e a volte al di là – dei suoi poteri e prerogative. Ma il Papa? È potente, è capo di un altro Stato ed esercita un’influenza grandissima, direttamente sulle leggi e sui legislatori. Non è routine andarlo a trovare e non è né normale né tranquillizzante non dire il perché. L’episodio non è rispettoso per il Papa o per l’Italia, che appare colonia. E non dice bene del nostro lavoro giornalistico, dove tutti si contentano di non spiegazioni, del tipo di comunicazione degli adulti con i bambini. I grandi hanno da fare. Fino al prossimo maggiordomo infido.
La Stampa 1.9.12
Bersani chiama l’Udc “Alleanza non settaria”
E stoppa Di Pietro: non possiamo coalizzarci con chi ci insulta
di A. Rossi e M. Tropeano
Il freddo, e la massiccia presenza di forze dell’ordine, congelano le proteste annunciate dai No Tav e dal Movimento 5 stelle. I primi distribuiscono un volantino mentre ai due consiglieri comunali grillini viene impedito l’accesso alla festa. Ma il freddo che si abbatte sulla festa democratica di Torino rafforza la convinzione di Pierluigi Bersani: «Non ci alleiamo con chi ci insulta». Discorso chiuso, almeno per il segretario democratico e poco importa che Nichi Vendola lanci molto più di un ponte nei confronti di Antonio Di Pietro e chiuda invece la porta in faccia a Pierferdinando Casini. Bersani invece manda un messaggio di apertura all’Udc: «Stiamo chiedendo che questa alleanza non sia settaria e chiusa. Poi le forze di centro decideranno cosa ritengono meglio».
Tradotto: non ci si può candidare alle elezioni schierando un’armata brancaleone con il rischio che si sfaldi dopo pochi mesi. Bisogna fare chiarezza subito. E per il leader del Pd chiarezza significa chiudere il recinto delle alleanze: «Agli italiani questa volta dobbiamo far capire che la nostra è una proposta seria. E se ci alleassimo con chi ci insulta non lo capirebbero». Chi insulta, va da sé, è il leader dell’Idv Antonio Di Pietro. «Da mesi mi da la percezione di voler stare fuori, non impegnarsi nella sfida per cambiare l’Italia. Attacca il Pd e mette in discussione un’istituzione come la presidenza della Repubblica e una persona come Giorgio Napolitano. Basta restare con un piede dentro e uno fuori».
Logica conseguenza è che l’ex pm di Mani pulite abbia ormai un piede fuori. Quel che più angoscia il segretario del Pd è lo spauracchio dei governi Prodi, le alleanze innaturali che si sfaldano alle prime patate bollenti da affrontare. «A Vendola vorrei provare a chiedere come sia possibile che lui difenda il Colle mentre Di Pietro continua a sparargli addosso». Ecco perché stavolta i democratici vogliono presentarsi ai nastri di partenza senza esporre il fianco all’obiezione di schierare una coalizione troppo vasta e anomala. «Dovremo caricarci di un’enorme responsabilità nei prossimi mesi. Chi viene su viene su, gli altri se vogliono salire bene, altrimenti questa volta restano giù».
Ma il campo del centrosinistra è tutt’altro che sgombro da nubi. Mentre il segretario del Pd conferma il patto con Vendola, il governatore pugliese leader di Sel annuncia la sua presenza a Vasto, alla corte di Di Pietro. E ribalta il teorema: guai a gettare a mare l’Idv, piuttosto sarebbe il caso valutare attentamente l’alleanza con i centristi. «Con Casini non si può governare il Paese. Lui cerca l’egemonia dell’area moderata, la sua storia è un pezzo di storia del centrodestra, non del centrosinistra». Casini, a distanza, ringrazia: «Mi preoccuperei se Vendola volesse avere rapporti più stretti con me».
Certo, Vendola sposa la linea del Pd quando striglia Di Pietro, che «fa male ad attaccare il Quirinale». Ma l’ex pm resta «un interlocutore privilegiato della sinistra, molto più di Casini. Il fronte progressista è più forte se si presenta con chiarezza».
Chiarezza è parola ricorrente nel vocabolario dei leader del centrosinistra. Eppure il quadro sembra magmatico. A Bersani chiedono conto del caos Sicilia, là dove il Pd si prepara a presentarsi con l’Udc mentre Sel e Idv vanno a braccetto e Di Pietro come al solito impugna l’ascia: «Il Pd ha venduto l’anima al diavolo alleandosi con quelle forze che con Cuffaro prima e Lombardo poi hanno portato l’isola al disastro». E annuncia: «Dalla Sicilia parte la costruzione di una alleanza per un nuovo centrosinistra e che sarà formalizzata a Vasto».
Non è un caso che tra gli stand della festa di Torino si faccia strada la domanda: è il Di Pietro pensiero o anche quello di Vendola? Un dilemma anche per Bersani, alle prese con un’altra grana che si chiama Renzi, e anche qui dal segretario arriva un altolà al sindaco di Firenze che il 13 settembre annuncerà la sua candidatura alle primarie. «Gliel’ho spiegato ieri e lo ripeto, visto che dice di voler ribaltare tutto. Non è che ha sbagliato primarie? Perché quelle per la segreteria del Pd sono l’anno prossimo. Qui c’è in gioco l’Italia, non le beghe del Pd. Qui non si ribalta niente». "Polemico su Renzi «Hai sbagliato primarie? Qui si parla di Italia, non di Pd» Protesta dei consiglieri del Movimento 5 stelle «E’ una festa privata, ci hanno tenuti fuori»"
La Stampa 1.9.12
Casini: “Se Renzi vince le primarie il Pd si spacca”
“E fa ridere immaginare lui, e non Monti, a parlare alla Merkel”
«Nonostante le differenze, i “quattro dell’Ave Maria”, Bindi, Fioroni, Letta e Franceschini, restano insieme»
di Federico Geremicca
L’ auto fila lungo l’autostrada tra Bologna e Reggio Emilia, Pier Ferdinando Casini è di buon umore, veste degli originalissimi pantaloni rossi e non è vero che sentirsi rispondere ad una domanda con un’altra domanda sia una cosa che lasci necessariamente insoddisfatti: soprattutto se la domanda è che succede se le primarie del Pd le vince Renzi e la risposta del leader Udc è «lei lo vede D’Alema che va alle elezioni nel partito di Matteo Renzi? ». Effettivamente, si fa fatica... «Se vince Renzi è il caos - aggiunge Casini -. Anzi: un big bang, come direbbe Matteo. Potrebbe succedere di tutto. A cominciare, naturalmente, dall’inevitabile spaccatura del Pd».
Qualcuno potrebbe considerarla una entrata a gamba tesa nelle vicende - delicatissime - di un altro partito: un’ingerenza, insomma - e anche di quelle rudi - visto che “carica” l’ipotetico successo del sindaco di Firenze alle primarie di un effetto collaterale che molti considererebbero devastante. Ma Pier Ferdinando Casini è l’alleato numero uno di chiunque vincerà quelle primarie e la sua opinione, dunque, non è precisamente irrilevante. Il “bel Pier” fa il tifo per Bersani: pur ammettendo che in questa scelta ci sia qualcosa di paradossale, e non nascondendo molti timori circa quel che potrebbe accadere.
«Io con Renzi ho un ottimo rapporto, intendiamoci: ci sentiamo spesso, ci scambiamo messaggini e come è evidente ho con lui, per origini e formazione, perfino p i ù punti di contatto di quanti ne abbia con Bersani - dice Casini -. Ma ho un rapporto solido anche con Pier Luigi ed è con lui, soprattutto, che ho un percorso comune, un patto, intorno alle cose da fare». Insomma: troppo tardi per virare e cambiar rotta. E anche troppi rischi all’orizzonte in caso di vittoria di Renzi alle primarie...
«Ragioniamo - dice il leader Udc mentre la sua auto sfreccia ed è ormai quasi a Reggio Emilia, dove lo attende Dario Franceschini -. Se Matteo vincesse, sarebbe inevitabile una scissione ‘da sinistra’ nel Pd: e l’effetto paradossale sarebbe quello di rapporti ancor più stretti tra noi e il Pd targato Renzi. Ma io non me lo auguro, perchè alzo lo sguardo oltre lefaccende di partito e dico che rischiamo grosso. Fa ridere immaginare che al prossimo vertice con la Merkel l’Italia non mandi Monti ma Renzi. E finchè rido io, non c’è problema: ma se cominciano a ridere in giro per l’Europa, altrochè se il problema c’è... ». Dunque, prudenza e piedi di piombo: anche perchè lo scenario immaginato da Casini in caso di vittoria di Renzi non pare fantapolitica...
Pierluigi Castagnetti, per esempio, concorda con l’ex compagno di viaggio degli anni democristiani. E’ seduto in prima fila ad ascoltare il faccia a faccia tra Casini e Franceschini e dice: «Il Pd non tiene se vince Renzi: si spacca. Capisco che è un argomento ai limiti della correttezza, se fatto piombare sulle primarie magari per condizionarle, ma è così. Molti tra noi che provengono dalla Magherita non sono certo contenti del Bersani ultima versione, ma ripeto: lo vede lei un Pd che resta compatto dietro Renzi? Io no, e aggiungo che restare uniti - invece - oggi è fondamentale. Non per niente anche i “quattro dell’Avemaria” - Bindi, Fioroni, Letta e Franceschini - pur pensadola diversamente su tante cose restano assieme dove stanno... ».
Insomma: con Bersani per restare uniti, con Renzi per un gigantesco big bang. Ma in ogni caso, l’orizzonte di Casini - in questa confusa ripartenza autunnale - resta lo stesso: e continua a escludere ipotetiche alleanze con gli antichi partner del Pdl. «Il riapparire in campo di Berlusconi - dice il leader Udc - ci riporta all’età della pietra... Ora temo una radicalizzazione nelle posizioni del Pd, e non sarebbe una buona cosa, anche se aprirebbe a noi moderati uno spazio immenso». E’ lo spazio che vorrebbe occupare la cosiddetta “cosa bianca”, l’ennesimo tentativo di “parto centrista” che, inizialmente, era parso perfino concorrenziale - se non conflittuale - proprio con l’Udc. Casini non nega: «Qualcuno ci ha pensato, ma poichè nessuno è autolesionista, alla fine ha capito che è difficile prescindere dall’Udc e dai suoi voti».
L’Udc, dunque, è dentro il progetto. Che il leader centrista spiega così: «Lo spazio politico è quello, enorme, che va da Berlusconi a Bersani; la forma potrebbe essere quella della lista alle elezioni e non certo quella di un nuovo partito, per il quale non c’è tempo; il contenuto è un’alleanza tra cattolici dell’associazionismo e del sindacato, e laici moderati; i nomi quelli più o meno noti, da Passera e Bonanni in giù; l’obiettivo, almeno il mio obiettivo, è fare in modo che l’esperienza del governo Monti sia ripetibile, come espressione politica, nella prossima legislatura. Il che avrebbe molti effetti: compresa la liquefazione del Pdl, perchè lei li immagina giovani come Fitto e altri restare a fare l’opposizione per altri cinque anni...? ».
E queste, dunque, sono le preoccupazioni, le speranze e la rotta lungo la quale Pier Ferdinando Casini organizzerà la ripartenza autunnale. Ripartenza che solo l’effervescenza di Matteo Renzi sembra turbare. Non a caso, in un incontro col sindaco di Firenze svoltosi qualche settimana fa, il “bel Pier” provò a convincerlo: «Dai Matteo, tu sei giovane. Facci fare l’ultimo giro e poi tocca a te». Attese speranzoso una risposta. Attese. Ma la risposta non arrivò...
La Stampa 1.9.12
“Gramsci e Dossetti? Sono miti da superare”
Nel libro di Morando e Tonini manifesto dei democratici liberal
di Fabio Martini
Dossetti Eroe dell’antifascismo cattolico e della Resistenza, nel ’56 prese i voti. Fu alfiere di una concezione evangelica e di una visione politica contrapposta al pragmatismo degasperiano
Gramsci Antonio Gramsci nel ’21 fu tra i fondatori del partito comunista. Incarcerato nel ’26 dal fascismo, uscì solo nel ’34, gravemente malato. Tre anni dopo morì
Le scelte quotidiane di un grande partito come il Pd sono invisibilmente impastate dal pensiero e dall’ideologia di due grandi personaggi della storia nazionale, Antonio Gramsci e Giuseppe Dossetti, fino ad oggi intoccabili icone, senza la cui rimozione però il centrosinistra faticherà a dotarsi di un partito veramente riformista. Lo sostengono Enrico Morando e Giorgio Tonini, autori del libro «L’Italia dei democratici», una sorta di manifesto politico per un Pd a vocazione maggioritaria, di fatto il programma di un «altro Pd», molto diverso da quello attuale. Per spessore culturale e attitudine allo spirito critico, Morando e Tonini sono figure atipiche nello scenario politico e provengono da tradizioni culturali diverse: il primo è erede del filone «migliorista» del Pci, la filiera Amendola-Napolitano, mentre il secondo è stato presidente della Fuci, dagli Anni Trenta il principale crocevia dell’élite cattolica italiana. Provenendo da tradizioni nelle quali è sempre stata centrale la battaglia delle idee, Morando e Tonini ritengono decisivo aggiornare il patrimonio culturale, ridimensionando alcuni miti. A cominciare da quello (finora intonso) di Antonio Gramsci. Non per discuterne lo spessore intellettuale e storico, ma per sottolineare quanto sia totalizzante e antica la sua concezione del partito come moderno Principe che, per dirla con Gramsci, «prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico».
E dunque, scrivono gli autori, «l’eredità di Gramsci che sopravvive nella cultura della sinistra italiana» è «la riduzione di ogni altra dimensione», a cominciare da quella economica, «ad un ruolo minore» rispetto all’interesse del partito. Impostazione capovolta rispetto all’insegnamento di un personaggio, l’ex segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio, verso il quale Morando e Tonini simpatizzano, citando il Piano del 1949, nel quale si arrivava a sostenere che il sindacato socialcomunista era pronto «a dare il suo appoggio ad un governo che dia le dovute garanzie per la sua attuazione». E, dunque, «gli effetti di lungo periodo del prevalere dello storicismo gramsciano» contrastano con «l’affermarsi nel Pd di un riformismo liberale e pragmatico». Altrettanto ingombrante sarebbe l’eredità di don Giuseppe Dossetti, trasferita nel Pd dagli ex popolari. Padre costituente, nella prima Dc contrapposto al pragmatismo atlantista, europeista e riformatore di De Gasperi, Dossetti viene ritenuto l’ispiratore di una «robusta diffidenza nei confronti del mercato», «del merito, della competizione» e invece portatore di una «concezione forte dello Stato». Una concezione che, secondo Morando e Tonini, in alcuni degli eredi di Dossetti sarebbe precipitata «in un diffuso mix di andreottismo, doroteismo e dossettismo», per dirla con le parole di Luca Diotallevi.
Altrettanto innovative l’analisi della crisi e le ricette per uscirne con un approccio da sinistra liberale: da quelle già proposte e in buona parte adottate dal Pd o da Monti (spending review radicale e spalmata negli anni, pareggio di bilancio, patrimoniale, alienazione e valorizzazione del patrimonio pubblico) ad altre più originali, come l’adozione di speciali sgravi fiscali per le donne e per i giovani. O come la proposta di un sistema presidenzialista, superando «il complesso del tiranno» che da anni paralizza la sinistra italiana. Idee e analisi diverse da quelle prevalenti nel Pd di Bersani, ma espresse senza asprezze polemiche. Anche se i due autori mai avrebbero immaginato che mentre il loro libro andava in stampa, nel mondo del Pd sarebbe iniziata una corsa a ritroso nella storia, proponendo l’elogio di un personaggio che nessuno aveva mai pensato di proporre come padre nobile del partito: Palmiro Togliatti.
"Senza la rimozione di due icone storiche, dicono i due esponenti liberal, il partito non avanzerà"
il Fatto 1.9.12
Vendola-Udc, i giovani contestano
Vendola giura: “Mai con l’Udc”. E la base dice “Meglio Tonino”
In Sicilia Orlando sostiene Fava alla presidenza
di Paola Zanca
Marina di Grosseto Davanti ai cartoni della pizza, in una di quelle cene dove non esiste il piatto mio e il piatto tuo, la ragazza lo racconta con gli occhi sorridenti: “Ho incontrato uno che mi ha detto: ‘Sai che vi invidio? Ancora ci credete, ancora avete coraggio.. ’”. Io gli ho risposto: ‘Se vuoi facciamo a metà’”. Magari si potesse fare come con le fette di margherita, eppure qui, in una pineta della Maremma, i ragazzi di Tilt ci stanno provando. Da tre giorni sono nel “loro” campeggio - completamente autofinanziato - per discutere di diritti, di lavoro, di crisi. Vengono da associazioni diverse, molti sono iscritti o simpatizzanti di Sinistra e Libertà, qualcuno ha la tessera Idv. Per questo è interessante guardarla da qui, la costruzione del nuovo centrosinistra.
“Non ci piace ma ci serve”
Loro vogliono “giocare per vincere”: “Basta vedere gli ospiti che abbiamo invitato”, spiega Maria Pia Pizzolante, portavoce di Tilt. C’è Antonio Di Pietro, ci sono i sindaci Massimo Zedda e Luigi De Magistris, c’è Nichi Vendola, c’è Ivan Scalfarotto. Guarda caso, manca solo l’Udc. Qui l’ipotesi di un centrosinistra allargato al partito di Casini non è nemmeno da nominare. E nemmeno il rapporto privilegiato che Nichi Vendola ha deciso di intraprendere con il Pd non è che sia visto esattamente di buon occhio. Ma giocano per vincere, e sanno che da soli non si va da nessuna parte. Così, quando arriva Antonio Di Pietro lo accerchiano: “Presidente, questa è la maglietta della nostra associazione, la vuole? ”. Lui si fa prendere dalla voglia di piacere: sfila immediatamente la camicia e indossa la t-shirt sui pantaloni a vita alta. Il leader Idv parla per due ore. E di certo non blandisce la platea: dice che se tornasse indietro direbbe ancora no alla commissione d’inchiesta sul G8 di Genova (perchè non può vedere uno “con un estintore contro una camionetta della polizia”) così come non chiuderebbe la società Stretto di Messina, come fece da ministro. Quando gli chiedono se è di destra o di sinistra, si perde in ricostruzioni storiche che arrivano fino “alle foibe”. Ma sono gli stessi ragazzi di Tilt a riconoscere che è l’unico, insieme alla Fiom, ad aver cominciato a raccogliere le firme contro la riforma Fornero. E a riconoscere che, piaccia o non piaccia, “Di Pietro ci serve”. Lui spiega che sta tentando l’operazione impossibile: convincere il “fronte dei non allineati” (Sel, Idv, Fiom) a confluire in un’unica lista, abbandonando i simboli di partito. Ammette che anche tra i suoi incontrerebbe più di una resistenza. Eppure è convinto che questo sia l’unico modo per costringere il Pd a girare le spalle a Casini. Se Bersani si ritrova una forza di sinistra così importante, è a quella che dovrà chiedere di fare da stampella. A Tilt l’idea piace anche se temono possa rivelarsi “un bluff”, con le sigle di partito che scompaiono per riapparire un minuto dopo le elezioni (con tutti i distinguo del caso). Sempre meglio, insistono, che pensare anche solo di prendere un caffè con gli amici di Cuffaro.
“Mai con Casini”
Tutto però sembra risolto (o quanto meno rinviato). Ieri, l'assemblea nazionale di Sel ha votato praticamente all'unanimità (il contro-documento di Alfonso Gianni ha preso 8 voti) la linea Vendola. Ovvero: nessuna alleanza con l'Udc, né prima né dopo il voto e accordo con il Pd su un programma preciso. Vendola avrebbe chiarito molti dei punti critici su cui ci si era arrovellati nelle ultime settimane. Compreso quello dell'ipotesi della lista “unica” con il Pd. “Si ripercorrerebbe pari pari la storia del voto utile che è già successa con Veltroni – spiega Luigi Nieri, capogruppo di Sel nel La-zio – Sarebbe la morte del nuovo centrosinistra, per questo dobbiamo bloccare una legge elettorale che premia il partito che vince”. Il rischio è uno, confessa qualche vendoliano deluso: i nomi di Sel candidati nelle liste del Pd servirebbero solo a “ridare un posto alle vecchie guardie, pronte a spartirsi posti in Parlamento”.
La “vittoria” siciliana
Mentre a Roma si discute, a Palermo il “sogno” di Tilt è già nato. Ieri, Leoluca Orlando e l’Idv hanno ufficializzato il sostegno a Claudio Fava, candidato di Sel alla presidenza della Sicilia. “Si riparte anche da qui”, spiega Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo. Nessun imbarazzo per il Pd che invece sta dalla parte di Rosario Crocetta e dell'Udc: “Purtroppo gli equilibri territoriali sono molto diversi da quelli nazionali: è il Pd che deve chiedersi perchè, in Sicilia, non riesce a esprimere gruppi dirigenti capaci di rappresentare le esigenze di cambiamento dei cittadini”.
il Fatto 1.9.12
Sansonetti “Mi resta Di Pietro, che tristezza”
Nichi, non farlo!”. Piero Sansonetti, ieri, ha lanciato il disperato appello dalla prima pagina del suo settimanale, Altri
Troppo tardi. Alla assemblea nazionale di Sel, Nichi, ha confermato la linea: sta con il Pd
di Pa. Za.
Sansonetti, però Vendola ha detto che con l’Udc non si allea, né ora né mai.
E chissenefrega! Il punto non è Casini, nella vita può anche succedere di allearsi con l’Udc, ma quello che non mi spiego è come si fa a farsi annettere da un Pd che oggi è Monti, è la rappresentanza parlamentare di Monti, è la destra!
Deluso?
È una follia, è la liquidazione di tutta l'esperienza di Sel, è un cedimento totale.
Vendola dice che non vuole essere il “miglior perdente”.
Io capisco che Nichi sia figlio di una vecchia idea tatticistica della politica, del Pci, di Togliatti, di Berlinguer. Ma la sua scelta non ha nulla a che vedere con tutto questo. Questa è gente che è uscita dal Pci, dal Pds perché li riteneva governisti. Perché non sono andati con Occhetto? Hanno aspettato 15 anni per fare una operazione peggiore.
Per la sinistra è un brutto colpo?
A sinistra non c’è più niente, c’è solo Di Pietro. Lo sapete, tra me e lui c’è un abisso sui temi del garantismo: Di Pietro è forcaiolo, Il Fatto ancora di più, ma sul piano economico e sociale oggi vedo solo lui. E, confesso, questo mi spinge verso la depressione più profonda.
Ha pure lasciato la direzione di un giornale per colpa della frattura interna a Rifondazione...
Io me ne sono andato da Liberazione perchè aveva preso il potere un gruppo di vetero comunisti. Fui cacciato come un venduto alla borghesia, ma tutto lo scontro nacque dal fatto che il giornale criticava il governo Prodi. Che queste stesse persone ora vogliano entrare nel governo Monti mi sconvolge. Se lo sapevo restavo con Prodi. Professore per professore era meglio lui, almeno andava in bicicletta. (pa.za.)
Corriere 1.9.12
Patto con l'Udc, Vendola gela il Pd «Impossibile governare con Casini»
di Alessandro Trocino
«È antitetico a Sel». Il leader centrista: la sinistra risolva i suoi equivoci
ROMA — Contrordine compagni. Se finora l'Udc era un diavolo con il quale non ci si poteva alleare in campagna elettorale, ma che non si escludeva di incrociare il giorno dopo le elezioni, ora la prospettiva è categoricamente esclusa: «Con Casini non si può assolutamente governare. Siamo oggettivamente incompatibili, anzi antitetici». Nichi Vendola sceglie l'assemblea generale del suo partito, Sinistra Ecologia e Libertà, per imprimere una svolta improvvisa. Che trasforma la matematica del centrosinistra in un'equazione irrisolvibile: perché se Sel si allea con il Pd ma non vuole governare con l'Udc, il Pd, che si vuole alleare con Sel, ha già annunciato che vorrebbe governare con l'Udc. Aporia che non sfugge a Pier Ferdinando Casini: «Mi preoccuperei se Vendola volesse rapporti più stretti con me. Ma tra Bersani e Vendola c'è un abisso. La sinistra risolva l'equivoco se vuole essere credibile». Pier Luigi Bersani invoca apertura mentale: «Casini non è nel campo dei progressisti, ma non bisogna essere settari, né chiusi». E Massimo D'Alema, di rincalzo: «Siamo più affini a Vendola, ma non vuol dire che non dobbiamo collaborare con Casini». Convitato di pietra, Antonio Di Pietro, evocato più volte da Vendola, che rispolvera la foto di Vasto, dove annuncia che andrà anche se non ci sarà Bersani (il quale ieri, a domanda sull'Idv, rispondeva: «Non posso dire agli italiani che mi alleo con chi mi insulta»). E il leader dell'Idv si fa sentire con forza da lontano, con l'appoggio al candidato di Sel in Sicilia, Claudio Fava, preferito a Rosario Crocetta, su cui puntano Pd e Udc.
Vendola, maglietta bianca immacolata a maniche corte, prepara la svolta in un'assemblea puntellata da forte sostegno alla sua leadership, ma anche da qualche critica, come quelle di Alfonso Gianni e Fulvia Bandoli (che però prendono solo 8 voti su 157 presenti). E la puntura di spillo di un ex celebre, Achille Occhetto: «Siamo con Vendola, ma non diventeremo mai una succursale del Pd». Contro chi critica l'alleanza con i democratici, e preferirebbe una coalizione con Idv, Fds e movimenti sociali, il leader di Sel rivendica il suo no a «recinti identitari»: «Sel nasce per rimescolare le carte del riformismo e del radicalismo e affascina solo se esclude derive minoritarie e nostalgiche. Noi non vogliamo operazioni di pura testimonianza. La candidatura di Fava, come quelle di Pisapia, Zedda, Doria, Pietrangeli, è nata per vincere le elezioni e non per testimoniare alterità». Da qui l'appoggio al Pd: «Si sono accorciate le distanze anche per merito nostro. Chi, un anno fa, avrebbe immaginato che Bersani tra Casini e Vendola, scegliesse Nichi? E ora abbiamo chiarito che dopo Monti non ci sarà un governo con le stesse caratteristiche, ci sarà discontinuità». Per questo, continua, «quella che rischia di essere maciullata non è la foto di Vasto ma quella, mai scattata, con l'Udc». E la scelta siciliana «riapre il quadro delle alleanze anche nazionale»: «Non fatemi dire nulla su Crocetta, per carità di patria».
L'ultima ragione addotta per stare a sinistra ed escludere Casini (oltre al fatto che «senza di lui pigliamo più voti») è orgogliosamente personale: «Badate, a 54 anni compiuti, parlo per me: ho diritto a diritti pieni, non dimezzati». E parla di unioni di fatto, evidentemente: «Non si può andare avanti con chi propugna Monti in eterno e il bigottismo di Stato».
Quanto a Di Pietro, certo, «è un errore l'assedio continuo al Quirinale, che è stato lo sport berlusconiano, dare calci agli stinchi dell'arbitro. Ma se con l'Idv c'è un solco profondo su alcune questioni, c'è un solco ancora più profondo con il Pd su altre». Vedi «montismo» e «centrismo», anche se Vendola difende Bersani dagli attacchi di Grillo.
Insomma, sembra di capire, se messo alle strette tra Bersani e Di Pietro, Vendola potrebbe scegliere «Tonino», come lo chiama con affetto. Non è quello che pensano in molti e molti di questi sono nel Pd. Anche se tra i democratici la preoccupazione cresce. L'ostilità a Casini, rende matematicamente impossibile governare. Come sa Dario Franceschini: «Senza l'Udc non saremo maggioranza». Ma anche l'antimontismo di Vendola acuisce un nervo scoperto nel Pd. Tanto scoperto che Francesco Boccia attacca i «giovani turchi» antimontiani, a cominciare da Matteo Orfini, accusandolo di «arroganza», «spregiudicatezza», «egotismo ingiustificabile» e di una «evidente ossessione culturale per la restaurazione socialdemocratica». Poi conclude: «Se Bersani condivide Orfini, serve un congresso».
Repubblica 1.9.12
Casini-Vendola, il dilemma del Pd
di Umberto Rosso
qui
Repubblica 1.9.12
Gelo Vendola-Casini: "Insieme non si governa"
Anche Bersani e Di Pietro sempre più distanti
qui
Repubblica 1.9.12
Casini incalza il Pd sulle alleanze "Tra voi e Vendola c’è un abisso"
E lancia Monti al Colle. Il leader Sel: niente governo con l’Udc
Qualche fischio al leader centrista alla festa del Pd Bersani: "Noi non siamo settari"
di Giovanna Casadio
REGGIO EMILIA - «Pier, non è che dobiamo essere d´accordo su tutto…», interrompe Dario Franceschini. «Però il Pd deve chiarire con Vendola l´equivoco su Monti, altrimenti è poco credibile: altro che piccole distinzioni, c´è un abisso tra voi e Sel», attacca Pier Ferdinando Casini. C´erano tutti gli ingredienti perché scorresse liscio ieri pomeriggio il dibattito, alla Festa nazionale del Pd, tra due ex avversari dc - forlaniano Casini, della scuola di Zaccagnini l´altro - ora insieme nell´alleanza Pd-Udc, per raccogliere nel 2013 l´eredità di Monti. Ma il leader "rosso" di Sel ci ha messo lo zampino, aprendo il fuoco dalla mattina: «Con Casini non si può governare il paese, senza Casini il fronte progressista prende più voti».
Così il Pd di Bersani si ritrova tra l´incudine e il martello. «Ci vuole chiarezza», chiede Vendola elencando alcuni punti fermi. Tanto per cominciare «le nostre politiche sono il contrario del montismo, dell´austerity, dei totem e tabù del liberismo». «Ci vuole chiarezza», chiede Casini, arrivando alla Festa di Reggio con pantaloni rossi, militanti Udc al seguito e i fedelissimi Enzo Carra e Renzo Lusetti. Esordisce dichiarando stima per il Pd perché ha avuto senso di responsabilità appoggiando Monti, però precisa: «Non sono tra noi solo rose e fiori». Ecco il mazzo d´ortica: «Franceschini mi pare liquidatorio con il governo Monti e affrettato quando dice che con Vendola ci sono solo alcune cose che li dividono». Insomma, il Pd si è liberato «finalmente» di Di Pietro, accorgendosi di quanto fosse incompatibile, ora rifletta anche sul rapporto con Vendola. Dalla platea qualche fischio a Casini, ma applausi quando dice: «Sul tema giustizia Di Pietro ha una visione addirittura corrosiva nei confronti del capo dello Stato… ».
Bersani dalla Festa democratica di Torino rassicura Casini: «Il centrosinistra non è settario». Però, promette: «Basta rigore, non si può vivere solo di pane e spread». Quindi, il governo del Professore è una parentesi? Franceschini risponde: «Il percorso del governo Monti è transitorio per ragione sociale, ma non ci sarà dopo nessuna cesura: ha posto le basi per il lavoro successivo». Non basta a Casini. Anche se «il montismo non è mutismo» - precisa il leader centrista, invitando l´esecutivo in questo scorcio di legislaturaa a far 2 o 3 cose e non il libro dei sogni - tuttavia Monti vale più di tutti. «Lo vedrei bene ovunque - afferma Casini - a Palazzo Chigi e al Quirinale. L´Italia non può rinunciare a una personalità come la sua e il governo Monti non è una parentesi da cui si può tornare indietro come se nulla fosse». Il "gauchista" Vendola è perciò un problema da risolvere, poiché «il tema Monti dopo Monti c´è ancora». Franceschini parla di «dichiarazione tattiche di Vendola, che pensa al consenso al proprio partito più che all´interesse del paese, che ha bisogno di un´alleanza larga». A rilanciare il leit motiv democratico anche Massimo D´Alema al Tg3: «È l´unica prospettiva realistica». Vendola sta nel campo dei progressisti, che si è peraltro ristretto «non potendo utilizzare pezzi di sinistra e la mina vagante di Di Pietro», spiega Franceschini con Casini accanto. Però per essere maggioranza nel paese ci vuole un´alleanza con l´Udc, anche un matrimonio di non lunga durata: un patto di legislatura e marciare divisi per colpire uniti. Casini, dal canto suo, dichiara l´amicizia per Bersani e non per il montiano Renzi («Prima di sostituire Monti con Renzi ci penserei due volte». Ma la questione generazionale nel Pd tiene banco dopo l´uscita dei trenta/quarantenni che vogliono discontinuità su tutto. I lettiani s´inalberano. Francesco Boccia: «Bersani prende le distanze da Orfini che gioca al piccolo leader con arroganza o ci vuole un congresso».
l’Unità 1.9.12
«Curate Celeste con le staminali»
La decisione del giudice del Lavoro di Venezia: «È una cura compassionevole». Il trattamento era stato bloccato dall’Aifa
La bambina veneziana di due anni è malata di atrofia muscolare spinale
di Pino Stoppon
Le cellule staminali possono essere utilizzate per curare un malato? E più in particolare possono essere adoperate per dare una speranza a una bambina affetta da atrofia muscolare? Secondo l’Agenzia del farmaco no. Quelle cure non hanno ricevuto un’adeguata sperimentazione e non si sa che effetti, se mai ci saranno, possano avere. Secondo il giudice del Lavoro di Venezia Margherita Bertolaso, invece, sì. Perché, come ha spiegato, in una sentenza che farà discutere la cura è da «considerarsi compassionevole prevista dal decreto ministeriale Turco-Fazio».
La decisione del giudice veneziano riguarda la vita di una bambina di due anni, Celeste Carrer. Celeste, residente con i genitori a Tessera (Venezia), ha solo due anni e due mesi ed è malata di atrofia muscolare spinale conosciuta anche come morbo di Werdnig-Hoffman. Da qualche tempo era in trattamento sanitario a Brescia, un percorso bloccato però a maggio dall’Aifa per l’inchiesta che coinvolge la onlus Stamina Foundation e la sua presunta inadeguatezza del laboratorio.
Il padre di Celeste, Giampaolo Carrer e la madre, nel tentativo di aiutare la piccola, con il concorso dei legali di fiducia Dario Bianchini e Marco Vorano e del pediatra Marino Andolina, si sono rivolti così al Tribunale di Vene-
zia e proprio il Giudice Bortolaso il 22 agosto scorso aveva dato il via libera ad un trattamento con un’ordinanza che aveva permesso a Celeste di tornare a Brescia per una infusione in attesa della decisione definitiva. Tutto era legato all’acquisizione di una serie di documenti ed atti a carico dell’Aifa e dagli Spedali riuniti di Brescia. Proprio alla luce di questa documentazione, ieri, è arrivata la nuova Ordinanza che dà il via libero definitivo al trattamento con staminali adulte per Celeste. Nell’ordinanza il giudice rileva come «secondo l’Aifa il trattamento in questione, di cui è stata bloccata la somministrazione, non costituisce sperimentazione clinica, bensì rientra tra gli interventi di terapia avanzata a uso non ripetitivo». Per il giudice poi, nelle sei pagine di dispositivo, «il trattamento in questione costituisce, in assenza di valida alternativa terapeutica, l’unico possibile mezzo di rallentamento della evoluzione della malattia neurodegenerativa, a esito infausto, da cui è affetta la piccola».
Così la definizione di cura compassionevole toglie ogni dubbio e conferma la tesi degli avvocati della famiglia di Celeste, che si opponevano a quella della «sperimentazione» sostenuta dall’Agenzia del Farmaco (Aifa). «La famiglia Carrer e i suoi legali hanno fatto sapere gli avvocati esprimono piena soddisfazione per quella che è da ritenersi una legittima tutela di un diritto costituzionalmente garantito, e cioè il diritto alla salute». «Applicheremo quanto ordinato», fanno sapere dall’ospedale di Brescia, dove Celeste era stata ricoverata lo scorso 24 agosto, mentre per il Governatore del Veneto Luca Zaia «il provvedimento apre anche un nuovo scenario riguardante la questione del farmaci salvavita» ricordando che è «una vergogna che persone debbano andare all’estero dove sono in vendita farmaci testati che non sono ancora nella disponibilità italiana».
Nonostante siano conosciute da mezzo secolo solo negli ultimi anni si è riusciti a superare i problemi tecnici per l’uso della staminali adulte, e a iniziare sperimentazioni cliniche autorizzate. Dei 3500 prove fatte in giro per il mondo non fa però parte la terapia di Celeste, la bimba di due anni curata dal pediatra Marino Andolina. Con il termine staminali si intende un gruppo di cellule «progenitrici» che hanno il compito di rimpiazzare quelle che vengono perse. A partire da queste cellule si sono già ottenuti organi interi, dalla trachea sviluppata dall’italiano Paolo Macchiarini alla vescica, e si stanno tentando sperimentazioni per patologie come il diabete o l’Alzheimer, come quella iniziata da Angelo Vescovi. L’unica cura però che è ben sperimentata è il trapianto di midollo usato per le malattie del sangue, che altro non è che un «iniezione» di staminali del sangue.
Repubblica 1.9.12
Troppo entusiasmo
Il farmacologo Silvio Garattini, consigliere d´amministrazione dell´Aifa
"Una terapia non si approva per sentenza rischiamo il boom dei rimedi fai-da-te"
La colpa è anche dei troppi ricercatori che hanno parlato con eccessivo entusiasmo di queste cellule
di Michele Bocci
«Le decisioni su casi di questo tipo non le devono prendere i magistrati, ma le persone competenti». Silvio Garattini, farmacologo del Mario Negri e, ancora per pochi giorni, membro del cda dell´Agenzia del farmaco, è amareggiato da quello che sta succedendo intorno al caso di Celeste.
La famiglia crede in quella cura, perché non dargliela?
«Siamo di fronte a una situazione comprensibile, con una famiglia disperata che vede la bimba stare male e vuole fare qualsiasi cosa per curarla. Così si affida a qualcuno in cui per varie ragioni crede. Dall´altro c´è un gruppo di persone che opera senza autorizzazioni, né per utilizzare, né per produrre cellule staminali. Una situazione completamente anomala».
Cosa succede dopo questa sentenza?
«Adesso chiunque potrebbe dire: io voglio usare le cellule staminali per questa o quella malattia perché penso che vadano bene. Ma non si procede così in uno Stato di diritto. Ci sono regole da seguire per sperimentare e usare i farmaci. C´è l´Aifa, ci sono gli organismi sanitari, che tra l´altro hanno fatto una relazione molto dettagliata spiegando tutto quello che non andava a Brescia. Non ci dobbiamo dimenticare che se rompiamo le regole ci troviamo con prodotti di cui non solo non sappiamo se fanno bene, ma nemmeno se fanno male».
Il giudice ha detto che si tratta di un intervento compassionevole.
«Lo è, ma in questi casi bisogna essere ragionevoli. Siamo tutti contro l´accanimento terapeutico, quando poi capita il caso concreto lo giustifichiamo. Il problema è che questa decisione l´ha presa un magistrato, mentre spettava a persone competenti in materia».
Dopo il caso Di Bella, finiscono in una storia simile le staminali. Perché?
«La colpa è anche dei troppi ricercatori che in questi anni hanno speso parole di eccessivo entusiasmo su queste cellule. Come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi. Alla fine i pazienti ci credono. E anche in questo caso purtroppo ha vinto l´emotività sulla razionalità».
l’Unità 1.9.12
Importante è poter agire secondo coscienza
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Ho letto il commento alla lettera di un lettore a proposito del pronunciamento della Corte di Strasburgo sulla diagnosi pre impianto vietata dalla legge 40. Non capisco perché anche Lei cada nella retorica supponendo che i contrari lo facciano in nome di Dio. Io non sono praticante, sono madre di un figlio down e sono contraria sia alla diagnosi pre impianto, sia all’aborto terapeutico che prevede la possibilità di eliminare embrioni o feti con qualche problema.
LETIZIA SPANNER
Considero più che legittima e assai importante una posizione come la sua e lei, cara signora, ha assolutamente ragione. Non tutti coloro che sono contrari all’aborto lo sono per motivi religiosi. Io del resto avevo scritto, prudentemente, che ad esserlo sono «molti» di loro e prendo atto con grande rispetto di questa sua precisazione. Quello che vorrei dirle però è che
inaccettabile, per me, è solo l’atteggiamento di chi utilizza dei motivi «religiosi» per dire agli altri, che non la pensano come lui, quello che possono o non possono fare. In tema di aborto e di fecondazione assistita, di testamento biologico o di divorzio, quella da cui si dovrebbe partire è l’idea di rispettare le opinioni di tutti perché la coscienza parla dentro ognuno di noi e perché quello di cui c’è bisogno per ascoltarla è il silenzio rispettoso degli altri. Nel caso specifico della coppia che voleva evitare il rischio dell’embrione e poi del figlio malato, la Corte di Strasburgo ha detto semplicemente che sono loro a dover scegliere, non Berlusconi o il cardinal Bagnasco, nel momento in cui pensano al figlio che verrà: nella loro casa, accanto a loro. Tutto qui. Ad essere pericolosa, per loro e per noi tutti, infatti, non è un’opinione diversa ma solo la pretesa di impedire a loro due di scegliere nel modo indicato dalla loro coscienza.
l’Unità 1.9.12
Libere donne d’Arabia
Film manifesto di una regista saudita contro i tanti divieti
Anche le suore di Liliana Cavani reclamano l’uguaglianza con i maschi e una religione più «femminista»
Ma a fare notizia è il crocifisso in scene di sesso di «Paradise: Glaube»
di Gabriella Gallozzi
DONNE E RELIGIONE. DUE TEMI CHE SI INTRECCIANO A QUESTA MOSTRA COME DUE BANDOLI DI UNA STESSA MATASSA. DOVE L'INTEGRALISMO NELLE SUE ESPRESSIONI PIÙ VIOLENTE TROVA NEL FEMMINILE IL SUO BERSAGLIO. Il «nemico» da sottomettere, da escludere da ogni attività sociale. È in questa chiave che ieri il Festival si è tinto di rosa. Portando alla riflessione collettiva un termine ormai desueto e avversato: femminismo. Sì, inteso esattamente come un percorso di liberazione e di dignità, così come è stato storicamente e come si sta riproponendo nei paesi delle primavere arabe. Ma non solo. Spiazzante, infatti, è sentire rivendicare «pari opportunità» tra uomini e donne alle suore di clausura del monastero di Urbino intervistate da Liliana Cavani nel suo Clarisse, una folgorante intervista a cuore aperto, passata fuori concorso. Donne che ti immagini fuori dal mondo, parlare invece di preti e quindi «maschi» incapaci di aprirsi a quel messaggio di uguaglianza che Francesco aveva reso realtà nel rapporto con Chiara. Di una chiesa, arretrata, vecchia e quindi ingiusta, vissuta da loro stesse che ne fanno parte come «una sconfitta».
UNA SCELTA DI LIBERTÀ
E come non giudicare «femminista», Wadjda, il primo film girato in Arabia Saudita da una regista donna, Haifaa Al Mansour, in un Paese dove le donne non possono neanche votare? Passato ieri in Orizzonti, Wadjda è davvero il film «caso» di questa Mostra numero 69. È un canto di libertà, un film-manifesto sulla segregazione femminile in Arabia Saudita, un Paese diviso tra modernità e medioevo, dove le donne non possono guidare, non possono camminare per strada accanto ad un uomo che non sia un familiare, dove c'è la poligamia e dove i cinema sono vietati per legge.
Frutto di una coproduzione con i tedeschi di Walzer per Bashir e Paradise Now, il film ci accompagna nella vita di Wadjda, appunto, una ragazzina appassionata di musica (del diavolo, ama i Clash), curiosa del mondo come ogni sua coetanea e per questo giudicata una ribelle. Il suo sogno è quello di avere una bicicletta, ma anche questo è negato alle donne in Arabia Saudita. Wadjda però non si arrende. Nonostante anche sua madre la scoraggi. Bella, ancora giovane e innamorata di suo marito, la mamma della ragazzina è comunque osservante delle leggi coraniche. Persino quando si tratta di «subire» il nuovo matrimonio del marito con una seconda moglie in grado di «dargli finalmente un figlio maschio» che lei non può avere. Attraverso un racconto scarno e minimalista assistiamo così allo svolgersi delle giornate delle due donne, cogliendo a poco a poco tutte le privazioni di libertà: la madre che deve avere l'autista per andare al lavoro, Wadjda presa di mira dall'integralista insegnante della madrassa (per lei è peccato persino fare braccialetti di filo colorato), le donne costrette a nascondersi agli sguardi degli uomini, anche nel cortile di scuola. E poi quei burqa neri che coprono dalla testa ai piedi. E che per la prima volta, in un film mediorientale, non vediamo indossare in casa. Così com'è nella realtà, ma impossibile da riprodurre nella finzione: in Iran, per esempio, non si contano le attrici arrestate per essersi mostrate in pubblico senza velo. Il contrasto tra il privato – la casa dove le protagoniste vivono tra schermi al plasma e videogiochi – e il pubblico, la strada dove ogni libertà è negata, risulta così ancora più forte.
È in questo clima che la piccola Wadjda compie la sua «rivoluzione»: mettere da parte i soldi per comprare la sua bicicletta. Una cifra enorme per la quale arriva persino a «fingere» una folgorante conversione per ottenere il premio in palio per una gara di Corano. Il premio lo vincerà, ma davanti al suo annuncio di voler comprare una bicicletta col denaro vinto, le sarà portato via per «i fratelli palestinesi». Ma sarà sua madre, allora ad intervenire, regalandole la bicicletta. Contagiata, finalmente, dal desiderio di libertà di sua figlia. Più forte di ogni fede e di ogni integralismo religioso. A dire, insomma, di «un cambiamento in atto – spiega la stessa regista che poco a poco sta avvenendo pure in Arabia Saudita, dove le donne stanno trovando la forza di credere in loro stesse e nei loro desideri».
Un tema di riflessione forte, quindi, che come un filo rosso sta attraversando questa Mostra. E che poco ha a che fare, invece, con quello che è già stato accolto come il primo film «scandalo» del Festival a tema religioso. Quel Paradise: Glaube dell'austriaco Ulrich Seidl che ci trascina nelle morbosità di una integralista cattolica (scena incriminata la masturbazione col crocifisso), buono giusto per attivare la grancassa dei media.
l’Unità 1.9.12
Clint, eroe della Hollywood conservatrice
di Giulia Soncini
Cinque anni fa, la rivista letteraria McSweeney’s pubblicò una lista di dodici titoli, invitando i lettori a indovinare quali fossero titoli di film porno del settore gay. Erano, altrimenti il gioco non avrebbe avuto senso, tutti plausibili. La soluzione era: nessuno. Erano tutti film di Clint Eastwood.
L’equivoco era al tempo stesso assurdo e ovvio. Un po’ come scambiare Eastwood per uno di sinistra, e quindi stupirsi quando, giovedì sera, ha parlato al congresso del partito Repubblicano in Florida.
È un repubblicano dichiarato da sempre. E, professionalmente parlando, non è mai stato Tom Hanks o Angelina Jolie. Sì, in una lunga carriera gli è capitata la lacrimevole storia d’amore (I ponti di Madison County), ma non per quello ha smesso l’aria da cowboy, non per quello è mai sembrato meno ontologicamente America-di-destra, e non per quello verrà ricordato; non un centesimo di quanto lo sarà per «Coraggio, fatti ammazzare», lo slogan che l’altra sera i delegati hanno preteso scandisse (lui l’ha iniziato e poi, consumata popstar, l’ha fatto finire alla folla), uno slogan che pare incredibile George W. Bush non abbia mai adottato per alcuna campagna elettorale.
Eppure ieri era tutt’un trasecolare di cinefili perché Eastwood non è mica un Charlton Heston qualunque, ormai da decenni cinematograficamente dimenticato e quindi più facilmente archiviabile in quota avversari, lui e quella mania da destrorso senile per la lobby delle armi. Eastwood è il regista americano che piace a coloro che usano «americanata» come dispregiativo. Mica faceva film di sparare: faceva i film di Sergio Leone. Mica fa i kolossal: fa i film da festival. Mica può essere davvero repubblicano, fino a che non è davvero comparso su quel palco potevamo credere facesse tanto per dire. E invece.
IL DIALOGO CON LA SEDIA VUOTA
I semplificatori perché, diamine, una star di Hollywood che non sta con Obama dev’essere una notizia, no? Nell’industria del cinema americano son tutti democratici, no? Si sa: Hollywood è in mano alla sinistra e alla lobby ebraica. E invece. E invece Eastwood stesso l’ha detto: «Lo so che
pensate che quelli del cinema sian tutti di sinistra, più a sinistra di Lenin» (gli spauracchi di sinistra son gli stessi nei congressi di destra di tutto il mondo). Ma no, li ha rassicurati: «Per natura i conservatori sono più cauti nel palesarsi, ma ci sono». Per natura l’elettorato parrebbe più sensibile alle leggende che ai fatti, più che altro: le star di Hollywood poi elette in ruoli d’un certo rilievo si sono chiamate Ronald Reagan o Arnold Schwarzenegger, e in comune hanno avuto il partito d’appartenenza quello Repubblicano.
Ma quelli che maggiormente trasecolavano erano i saperlalunghisti. Quelli che a fine discorso hanno decretato la sconfitta di Clint: parlava al fantasma di Obama su una sedia vuota, santo cielo. Sconfitta, altrimenti detta uva acerba: per le 24 ore successive il dibattito è stato monopolizzato dal ticket Clint-Sediavuota.
I saperlalunghisti che avevano, a febbraio, sancito la democratizzazione del fu cowboy. Nell’intervallo del Superbowl, la più importante serata per la tv e lo sport americani, era stato trasmesso uno spot di Eastwood per la Chrysler. Tutt’un marchionnismo sulla rinascita di Detroit, e l’ambiguo e furbissimo slogan «È l’intervallo anche in America: il nostro secondo tempo sta per cominciare». Quando gli avevano chiesto se fosse un messaggio obamiano, Clint Mano Fredda aveva risposto che era aperto a chiunque ci si volesse riconoscere. Eravamo troppo impegnati a equivocare, per sentire l’ovvio: se proprio ci tiene, ci stava dicendo Clint, Obama può diventare eastwoodiano.
La Stampa 1.9.12
Eastwood a ruota libera imbarazza il partito
Battute pesanti e gaffe mentre si rivolge alla sedia vuota di Obama
di Paolo Mastrolilli
L’«intervista» a Tampa Clint Eastwood sale sul palco in Florida e comincia una incalzante intervista al presidente Barack Obama, che però non c’è. Clint si dà le risposte da solo La replica di Barack Arriva su Facebook: una foto mostra la sedia del presidente durante una riunione alla Casa Bianca, con la scritta «Questo posto è occupato» Go ahead make my day Avanti, dà un senso alla mia giornata L’ispettore Callaghan Frase, tratta dal film Coraggio Fatti Ammazzare. Citata anche da Reagan
Cosa ricorderanno di più gli americani della Convention di Tampa, il discorso ispirato di Mitt Romney, o la macchietta borbottata da Clint Eastwood sul palco? Il problema, forse, sta già nel fatto che il giorno dopo troppi discutono questa domanda.
Come si sospettava, «Dirty Harry» è stato l’ospite a sorpresa del congresso repubblicano. Introdotto dalle note de «Il buono, il brutto, il cattivo», lui ha scelto di interpretare soprattutto il terzo ruolo. Ha sistemato vicino al podio una sedia vuota, per condurre una conversazione con l’invisibile Obama: «Mi ricordo quando vinse le elezioni. Non ero un grande sostenitore, ma tutti accendevano candeline e piangevano. Piangevo pure io. Non ho pianto così intensamente da quando ho scoperto che in questo paese ci sono 23 milioni di disoccupati. Questa è una cosa per cui bisognerebbe piangere, perché è una disgrazia nazionale».
Era il messaggio per cui la campagna di Romney aveva ingaggiato Eastwood, diversi mesi fa. Doveva redimersi dallo spot televisivo girato per la Chrysler in occasione del Super Bowl di football, in cui aveva dato l’impressione di appoggiare Obama, e denunciare la disoccupazione generata dalle politiche del presidente. Connettersi con l’elettore bianco e sfiduciato della classe media, per spingerlo a licenziare il capo della Casa Bianca. In teoria doveva parlare cinque minuti, ma l’emozione e lo ha preso e l’ha fatto andare oltre il doppio. «Qualcuno aveva avuto la stupida idea di processare i terroristi al centro di New York», ha detto Clint, rimproverando ad Obama la promessa di chiudere Guantanamo, e l’annuncio di una data precisa per il ritiro dall’Afghanistan. A quel punto la parte gli è sfuggita di mano: «Cosa vuole che dica a Romney? No, non posso. Non può fare a se stesso una roba del genere. Tu sei assolutamente pazzo», ha continuato Eastwood, con una battuta per niente velata sull’auto erotismo. Ha detto che non è una buona idea avere un avvocato per presidente, perché gli avvocati hanno la lingua biforcuta, e ha sfottuto l’ecologista Obama perché inquina andando in giro col suo aereo a fare comizi. Ha aggiunto che sarebbe ora di avere un «uomo d’affari stellare» alla Casa Bianca. Poi è tornato all’attacco: «Noi siamo i proprietari di questo paese. I politici sono nostri impiegati. E quando qualcuno non fa bene il suo lavoro, dobbiamo lasciarlo andare», accompagnando questa frase col gesto del dito che taglia la gola. «Non bisogna essere masochisti, e votare per qualcuno che non vogliamo, solo perché sembra una persona simpatica». Ovvio, a quel punto, cedere al pubblico che gli chiedeva di rimettere i panni del detective Callaghan, e chiudere con la frase che «Dirty Harry» pronunciava quando ammazzava i criminali: «Go ahead... », ha intonato Clint, «Make my day! » hanno urlato i delegati, come quando Reagan usava queste parole per minacciare il veto contro gli aumenti delle tasse.
Obama è stato al gioco, e poco dopo ha messo su Twitter una foto della sua sedia presa di spalle, accompagnata da una battuta: «This seat’s taken», questo posto è occupato. Ma la polemica sul «rantolo del vecchio zio ubriaco» è scoppiata lo stesso. Ann Romney lo ha difeso, dicendo che Eastwood «è unico e siamo orgogliosi del suo appoggio». Durante lo show, però, nessuno l’ha vista ridere e sembrava scocciata di dover parlare di Clint invece che di Mitt, mentre all’interno della campagna è scoppiata la polemica per la gestione dell’intervento e l’assenza di controlli. Il critico cinematografico Roger Ebert ha giudicato «Dirty Harry» «triste e patetico», e il politologo Larry Sabato lo ha bollato come una «Clintastrophy». L’idea era che Eastwood avrebbe pompato l’americano medio contro Obama; il rischio è che abbia offeso il pubblico e distratto l’audience da Romney. «Non credo - ha detto Sabato - che sposterà molti voti, ma verrà ricordato come uno dei punti più bassi della campagna».
La Stampa 1.9.12
Clint, il cowboy anarchico alla fine si schiera a destra
di Massimiliano Panarari
C’era una volta, prima della Convention repubblicana di Tampa, il Clint Eastwood «bipartisan». O, quanto meno, l’idolo cinematografico nel quale entrambe le Americhe, la rossa dei repubblicani e la blu dei democratici, si riconoscevano indifferentemente e orgogliosamente. A fare da denominatore comune ci ha pensato, nel tempo, la capacità speciale di Eastwood di dare un volto ai sogni e agli incubi più ideal-tipici degli statunitensi, che Hollywood ha poi convertito in immaginario globale. Perché Clint rappresenta «l’american cowboy» (quello per antonomasia, oltre l’eredità di John Wayne) protagonista dei film di Sergio Leone, solo contro tutti, che attraversa un Far West hobbesiano pieno di animal spirits. La perfetta incarnazione dello spirito anarco-individualista che si fa giustizia da sé e ha il grilletto facile, come nella serie dell’Ispettore Callaghan o nel western «Impiccalo più in alto» roba, insomma, da leccarsi i baffi per una certa destra e per i seguaci di Robert Nozick e del suo Stato minimo. Un duro, populista e «libertario» (espressioni che negli Usa e in Europa hanno significati diversi), supporter di Nixon e, successivamente, di Arnold Schwarzenegger, ma pure un campione dei diritti civili, mai a suo agio con l’etichetta di conservatore. Eastwood, infatti, è anche quello di «Gran Torino» e di «Invictus» su Nelson Mandela, molto amati dal pubblico liberal, e della pubblicità per la Chrysler interpretata anche quale spot pro-Obama. Un’autentica icona bipartisan, dunque, per tanto, tantissimo tempo. Fino a una manciata di ore fa, quando questo idem sentire si è sgretolato di fronte alla beckettiana sedia vuota escogitata per supportare, con uno show postpolitico per certi versi magistrale, la campagna presidenziale di Mitt Romney e del Grand Old Party. D’altronde, così è anche, e sopra ogni altra cosa, l’America, dove esistono, assai più che dalle nostre parti, i swing voters, che cambiano schieramento politico e preferenza elettorale a seconda delle volte. E chi c’è di più americano del vecchio Clint, pronto, ancora una volta, a stupirci sul finale di partita?
il Fatto 1.9.12
Elezioni Usa, Clint e gli altri
Non è l’economia, stupido: in Usa si vince con star e spot
di Giampiero Gramaglia
Una campagna di spot, più che di idee: una campagna dove anche l’economia deve diventare immagine, tanto la gente legge niente e ascolta poco. Sul palco delle convention conta ben più un’espressione che un’affermazione: gli strateghi della campagna rivale sono in agguato per catturare una smorfia, o un lapsus, e trasformarli in micidiali contro-spot. La festa repubblicana a Tampa si congeda con un Romney che recita da moderato, dopo che il suo vice Paul Ryan aveva galvanizzato l’elettorato conservatore. Ma l’immagine che resta è quella di Clint Eastwood che dialoga come in un film triste con la sedia vuota del presidente Obama. Il quale percepisce il pericolo e risponde più a Clint che a Romney: l’uomo che fu l’ispettore Callaghan della 44 Magnum ha ancora in canna il colpo letale. Tutto è studiato, nel discorso d’investitura di Romney, ma non tutto è studiato bene: lo spot finale, per esempio, quello della famiglia, propone sul palco di Tampa lui, lei e i figli cresciuti, tutti perfetti, tutti bianchi, biondo prevalente.
Una scena da modello America anni Cinquanta, una famiglia – diremmo noi – Mulino Bianco (loro pensano a una famiglia da minestre in scatola Campbell). Provate a confrontarla con la famiglia di Obama sul palco della vittoria a Chicago quella notte di novembre 2008: lui e lei, le bimbe ancora piccole, tutti neri, decisamente interprete dell’America multiculturale del XXI secolo. Come avevamo facilmente ipotizzato, Romney non abbandona gli indecisi di centro al campo rivale: non ricalca i toni di Ryan e fa un discorso complementare a quello del vice, cercando di stare vicino all’americano medio: promette impegno per un’America migliore, contrappone il suo pragmatismo a quello che definisce “l’idealismo inconcludente” del presidente democratico, dice che “Obama vuole salvare il mondo”, mentre lui vuole salvare “le famiglie”. Poi rimpiazza lo ‘Yes we can’ dell’antagonista con uno slogan senza ambizioni, ‘possiamo fare qualcosa’.
A QUEL PUNTO, Obama poteva quasi credere allo ‘scampato pericolo’: la convention repubblicana è passata, l’uragano è stato Isaac e non Romney e lo stesso Ryan non potrà diventare più di una tempesta tropicale, perché non può certo sovrastare per intensità il suo capo. Ma la ‘tramvata’ che il presidente non s’aspetta è arrivata da un amico suo, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, uno nominato da Bush, ma da lui confermato e che Romney gli ha già fatto una croce sopra, semmai divenisse presidente. Bernanke parla a Jackson Hole, nel Wyoming, pensatoio annuale della Fed: dice che la stagnazione del mercato del lavoro preoccupa e che la situazione dell’economia non è per nulla soddisfacente; e non esclude il ricorso a “politiche non convenzionali” –proprio così: la stessa espressione usata da Mario Draghi-. Tutte cose che, se le dice Ryan a Tampa, uno fa spallucce e le mette fra gli spot della politica. Ma se le dice Bernanke ai suoi pari, uno ci crede davvero. E se sei Obama ti preoccupi: perché peggioramento dell’occupazione e raffreddamento dell’economia di qui a novembre darebbero la Casa Bianca al ticket repubblicano. Che ora ci prova, fabbricando, con i soldi che ha – tanti, grazie al sostegno della finanza e della grande industria –, spot che mirano ad annichilire l’immagine di Obama più che a promuovere quella di Romney. Fin dalla prossima settimana, quando l’assise democratica a Charlotte dovrebbe, sulla carta, permettere al presidente di rimettere a distanza il rivale, avvicinatosi nei sondaggi nei giorni di Tampa. Nonostante alla convention sia giunto terzo: dietro Eastwood e Ryan, medaglia di bronzo ex aequo con la moglie Ann, brava all’apertura.
Corriere 1.9.12
La «sedia vuota» di Eastwood scatena l'ironia della Rete
Diluvio di critiche sul dialogo fra Clint e un «invisibile Obama»
di Paolo Valentino
TAMPA — Ora gli strateghi repubblicani sono in croce. Pentiti di aver sprecato 12 preziosi minuti di prima serata televisiva, deviando clamorosamente l'attenzione dal candidato e dal suo messaggio. Ann Romney prende le distanze, con un commentino gelido gelido. Mentre il popolo dei social network, contagiato dalla performance come da un virus, dilata a dismisura l'episodio, spaccandosi in una discussione senza capo né coda.
Ma è scorretto e ingiusto, come purtroppo sta in parte accadendo, prendersela con Clint Eastwood, per la surreale improvvisazione con cui il celebre attore e regista ha riempito il più bizzarro quarto d'ora di una convention americana a memoria d'uomo.
Apparso invecchiato e fragile, l'artista più volte premio Oscar, icona dei conservatori, si è inventato un dialogo immaginario con un «invisibile» presidente Obama, conversando con una sedia vuota.
Battute molto efficaci, ma erratiche. E soprattutto non sempre in linea con le posizioni repubblicane. Come la critica a Obama per non aver già ritirato tutte le truppe dall'Afghanistan, quando Romney gli rimprovera esattamente l'opposto. O l'accusa al presidente di andare in giro con un aereo «divora-carburante», davanti a una platea che considera il riscaldamento del clima una barzelletta.
Ma i delegati lo hanno ugualmente osannato. Specie quando ha infilzato il vice-presidente Biden, definito ironicamente «l'intelletto del partito democratico, una specie di ghigno con dietro un corpo». O quando ha esemplificato in una battuta da film, le ragioni per votare Romney: «Quando uno non fa bene il suo lavoro, lo si manda a casa. È tempo che venga qualcun altro a risolvere il problema». Ovviamente la platea è esplosa quando, alla fine, Clint ha risuscitato per un attimo il celebre Ispettore Callaghan: «Go ahead» ha gridato. E tutti in coro: «Make my day». Battuta che nella molto libera traduzione italiana recitava: «Coraggio, fatti ammazzare».
Un'ora dopo la perfomance, il profilo Twitter «Invisible Obama», apparso come d'incanto sul social network, era seguito da 20 mila persone, più che raddoppiate nelle ore successive. Le reazioni erano molto variegate, oscillando tra il genere «Clint, il mio eroe, è diventato triste e patetico» e le lodi incondizionate. La sedia vuota è diventata un tormentone, immortalata in cento guise, perfino con animali domestici impegnati in un finto dialogo. Anzi il presidente Obama è intervenuto, inviando un ironico tweet all'attore: «Quella sedia è occupata». Il regista Michael Moore si è scagliato contro Eastwood, definendolo «il vecchio pazzo che ha preso in ostaggio il più importante congresso di un partito politico, per poter dire al presidente di andare a quel Paese».
Così, alla campagna di Romney si è subito posto un problema politico, accusata addirittura di «malpractice», negligenza colposa dal politologo Larry Sabato: «Hanno mandato sul podio un Eastwood erratico e sconclusionato, che ha oscurato il più bel discorso della serata, quello del senatore della Florida Marco Rubio. Sarebbe già un miracolo se questa distrazione durasse solo pochi giorni».
Messi in difesa, gli strateghi repubblicani si sono giustificati dicendo che «non si può giudicare un'icona americana come Clint attraverso una lente politica classica, la platea ha gradito e si è divertita». Ma il punto è proprio questo. Eastwood ha fatto esattamente quello che sa fare. E secondo questo cronista lo ha fatto anche con grazia e geniale ironia. Era ovvio che sarebbe stato impossibile tenerlo strettamente «on message», come si dice. Perché allora lo hanno invitato? La risposta tutto sommato non è complicata. Da sempre i repubblicani non fanno carte con Hollywood, domaine privilegiato dei democratici. Attori e registi conservatori si contano sulle dita. E nell'ansia di dare glamour e lustrini a una convention molto noiosa e prevedibile, il vecchio Clint faceva perfettamente al caso. Se danno c'è stato, i colonnelli di Romney se lo sono inflitti da soli.
Corriere 1.9.12
Aborto e altri tabù, quei Repubblicani così Democristiani
di Maria Laura Rodotà
TAMPA — «Da presidente, proteggerò la sacralità della vita», ha detto il candidato Romney dal palco; fermandosi un attimo; per ricevere l'applauso e per calcolare, con rapidissima valutazione dei dati da uomo della finanza, quanti voti rischiava di perdere dalle elettrici indipendenti e quanti repubblicani della destra religiosa avrebbe, se non entusiasmato, rassicurato. Ha emesso un sospiro, poi ha sorriso con l'aria di chi ne esce con un lieve margine di guadagno. Forse ha ragione. Per capirlo bastava fare due chiacchiere subito dopo, nei locali intorno alla convention. Dianne Shaw, delegata super-anti-abortista dell'Alabama (spiega con dolce voce da insegnante di musica che le vittime di stupro o incesto potrebbero venire convinte a dare i pupi in adozione) era soddisfatta, ma concludeva: «Naa, nessuno farà mai niente sull'aborto, però bisogna affermare il principio». Poco più in là Lee Blow, businessman di Tampa con un cocktail dall'aria poco mormona, dichiarava così il suo voto per Romney: «Sono fiscalmente conservatore e socialmente liberal. Se solo pensassi che Romney ha intenzione di limitare i diritti delle donne lo manderei» eccetera. Magari è vero; magari un candidato presidente cauto, compunto ed educatamente ambiguo come Romney sta rendendo i suoi potenziali elettori meno diretti, meno all-american; in Italia si direbbe — riduttivamente — più democristiani. Anche perché, per davvero, l'ambiguità maggiore è sull'aborto, sulla copertura assicurativa (delle assicurazioni sanitarie) della contraccezione, sulle nozze gay. In questa convention non se ne è quasi parlato (ha insistito solo Rick Santorum). E anche al padiglione Woman Up! della convention la direttrice Mary Ann Carter tagliava corto: «Noi non discutiamo di politiche sociali. Parliamo di economia, di sanità e di energia». Come da «talking points» elettorali.
Con qualche eccezione forse programmata per tranquillizzare moderate/i. Jane Romney ha giurato che con suo fratello Mitt alla Casa Bianca «non succederà mai» che il diritto all'aborto venga cancellato. Il finanziatore miliardario supercattivo David Koch si è dichiarato — a sorpresa, sparigliando o facendo gioco di sponda — favorevole ai matrimoni gay. E intanto, alla convention è stato fatto uno sforzo titanico per presentare più donne possibile, possibilmente non bianche. Con qualche vero successo: il discorso alto dell'ex segretario di Stato Condoleezza Rice, la rivelazione Susana Martinez del New Mexico, primo governatore donna e ispanica in America. Ovviamente: intanto, nel centro di Tampa, giravano furgoni con gigantesche immagini di feti abortiti. Intanto, sui media indipendenti liberal, prosegue il tam tam preoccupato: il prezzo da pagare alla destra religiosa, per Romney, rischia di essere la nomina di giudici antiaborto alla Corte Suprema. Intanto i repubblicani, maschi e femmine, ripetono che è un'elezione in modalità «it's the economy, stupid», cercando di essere, più che democristiani, clintoniani (i repubblicani non estremisti ora rimpiangono sia Hillary che Bill).
Repubblica 1.9.12
Lo show di Eastwood infiamma gli Usa il presidente: "La mia sedia è occupata"
La star sul palco di Tampa fa infuriare Hollywood
Ha inscenato un immaginario dialogo con il presidente per sostenere Mitt
di Angelo Aquaro
TAMPA - Clint Eastwood si è deciso a bruciare sessant´anni di premiatissima, e bipartisan, carriera molto tempo prima di rivolgersi all´"Obama Invisibile" di una sedia vuota, qui sul palco della Convention repubblicana, urlando al presidente che «chi non sa fare il suo lavoro va licenziato» perché «i padroni del Paese siamo noi» e «i politici sono solo i nostri impiegati». «Vi chiederete che cosa ci fa quassù un uomo di cinema: non è tutta gente di sinistra, più a sinistra di Lenin?», scherza questo ribelle di 82 anni, che dovrebbe parlare solo per 5 minuti e invece si allunga a braccio. «Stai diventando matto come Joe Biden», dice trattando Barack come i suoi amici - politicamente avversi - facevano con George W. Bush, e confessando di aver pianto, ma non di gioia, alla sua elezione: invitandolo infine a sparire, «puoi tenerti l´aereo, se vuoi», dice alludendo ai viaggi elettorali sull´Air Force One «un po´ più piccolo però....». Dal web a Twitter è la rivolta dei fan traditi, da Michael Moore a Mia Farrow tutta Hollywood è in subbuglio. E il primo a replicare sul web è proprio Obama, che mostra su Facebook la foto della sua poltrona con la scritta «Occupata»: altro che vuota. Ma come siamo arrivati fin qua?
Non è un tranquillo lunedì mattina il 6 febbraio a Detroit. Sergio Marchionne, il Ceo di Fiat e Chrysler, giura che lo spot in cui l´Ispettore Callaghan spiega all´America che «siamo solo alla fine del primo tempo» - la pubblicità è andata in onda la sera prima nell´intervallo del SuperBowl - ha «zero contenuti politici». Ma tutto il mondo legge nella seconda metà del match un´allusione al secondo mandato di Barack, il presidente che ha salvato l´auto: e Clint, che si considera un libertario ed è stato sindaco indipendente nella sua Carmel, California, è furioso. Karl Rove, il consigliere e finanziatore ieri di George W. Bush e oggi di Mitt Romney, lo attacca a testa bassa dal Wall Street Journal di un altro grande nemico di Barack, Rupert Murdoch. Ma è l´offesa risentita dell´amato tradito: e l´inizio di un corteggiamento che porterà Romney a riuscire dove non era riuscito George W. H. Bush, che Clint l´avrebbe voluto addirittura come vice.
In realtà, a febbraio, la battaglia delle primarie è ancora aperta, e il divo ha appena confessato a Repubblica di non sapere scegliere, «Newt Gingrich conosce bene la politica, Mitt Romney conosce bene l´economia: ma mettermi lì a pensare mi fa venire il mal di testa». Confessa perfino un debole per Herman Cain, il re della pizza e degli scandali sessuali, «ma il solo ad avere un progetto chiaro sul fisco». L´unica cosa che sa bene è che ce l´ha con Obama: «Lo so che è carino, che ha una famiglia carina: ma perché non lavora invece di fare solo campagna elettorale?». Di Mitt gli piace, come rivela poi sul palco di Tampa, l´idea di questo "businessman stellare": «Me l´ha insegnato mio padre - aveva detto a Repubblica - serve un businessman per gestire il business più grande che abbiamo, il governo federale».
Il primo endorsement è discreto, Clint si fa vedere a una raccolta fondi nell´Ohio, e siamo agli inizi di agosto. Ma l´attesa per la convention cresce, e Romney che cerca il botto ora alza lui stesso il telefono e chiama il regista che aveva conosciuto quando era governatore a Boston e lì girava "Mystic River". Il resto è cronaca, col gran finale. Clint invita la platea a seguirlo urlando con lui lo slogan più famoso dell´Ispettore Callaghan: "Go ahead, make my day". In inglese vuol dire "Forza, dammi questa soddisfazione", e rivolto a Obama sarebbe togliti dalle scatole. Ma in italiano l´abbiamo tradotto già nel titolo con una frase che adesso mette i brividi: "Coraggio, fatti ammazzare". Che disastro, grande Clint.
Repubblica 1.9.12
Clint, cowboy di Romney con le pistole scariche
Non più Callaghan ma un vecchio pazzo
di Michael Moore
La leggenda di Hollywood che grugnisce in direzione di una sedia vuota resterà il ricordo più infamante del momento nel quale un vecchio pazzo ha dirottato il raduno più importante di un partito nazionale per rimproverare il presidente.
La notte scorsa, rivolgendosi a un invisibile Obama, durante una performance che pareva scritta da Timothy Leary e recitata dal duo comico Cheech and Chong, Clint Eastwood è riuscito a portare nelle case di decine di milioni di spettatori il messaggio centrale della Convention nazionale repubblicana di quest´anno: «Noi deliriamo e siamo del tutto sconnessi dalla realtà. Votate per noi!».
La scena nella quale Eastwood, farneticando e borbottando, si rivolge al suo "Harvey" - il presidente Obama - tra cent´anni sarà trasmessa al pubblico come il Momento-più-stravagante-che-ci-sia-mai-stato-in-una-Convention. In futuro la gente non saprà niente dell´Ispettore Callaghan, il caso è tuo o del Texano dagli occhi di ghiaccio o di Million dollar baby, ma saprà di quella sera nella quale un vecchio pazzo ha dirottato il raduno più importante di un partito nazionale per poter dire esplicitamente al presidente un «vaffa».
In quei pochi momenti (e di questi tempi bastano davvero solo pochi istanti, come insegna la vicenda di Anthony Weiner), egli ha completamente capovolto e ridefinito il modo con il quale sarà ricordato dalle prossime generazioni e da quelle più giovani.
Alcuni anni fa, sono andato alla cerimonia annuale di consegna dei premi cinematografici del National Board of Review, che si svolgeva a New York al Tavern on the Green. Dovevo io stesso consegnare uno dei premi. Quando è arrivato il turno di Clint Eastwood di ritirare il suo, si è avvicinato al microfono e di fronte al pubblico, rivolgendosi a me, ha grugnito: «Se ti fai vedere a casa mia con quella telecamera ti sparo all´istante». Il pubblico ha riso, io ho riso, ma chi aveva pronunciato quella minaccia non stava ridendo. Questo mi ha fatto rabbrividire un po´. E da allora ho fatto in modo da non trovarmi mai e poi mai sul prato di casa di Clint Eastwood.
Come ho detto, però, il risultato migliore dell´incidente dell´altra sera è che ci ha dimostrato quanto i repubblicani siano completamente distaccati dalla realtà, di questi tempi. È come se intendessero divorziare da noi, gli americani mainstream, così da poter vivere nella terra degli stupri legittimi e delle calotte polari che non si squagliano. La maggior parte degli americani non vive sul Pianeta Kookoo. E non penso che in molti andranno a far loro visita tanto presto.
Grazie, Clint, ci hai fatto felici!
Repubblica 1.9.12
Non un pugno di dollari
di Angelo Aquaro
Non ci voleva Clint Eastwood per ricordare agli americani che Mitt Romney è arrivato fin qui per un pugno di dollari: e qualche miliardo in più. In questo, l´ultima puntata della Convenshow è stata da manuale. A esaltare il modesto Mormone, sul palco sono saliti, nell´ordine: il presidente di un´azienda miracolata dagli aiuti di Romney, l´ex assistente di Romney e l´ex vicegovernatrice del Massachusetts di Romney. Giusto per garantire la pluralità, è poi seguito il manipolo dei campioni olimpici: tutti vincitori ai giochi di Salt Lake - solo per caso organizzati da Romney. Aggiunge il New York Times che la sua autobiografia "No Apology", cioè niente scuse (e ci mancherebbe) è balzata al primo posto dopo l´acquisto di qualche decina di migliaia di copie - da parte di un certo Romney. Per fortuna c´è il libero web: infatti, su Twitter, spicca la voce 2012RomneyRyan - grazie ai tweet a pagamento di Romney. No, non ci voleva Clint Eastwood per ricordarci che Romney è arrivato fin qui per un pugno di dollari. Però, chissà: magari - e contro ogni intenzione - aiuta.
il Fatto 1.9.12
L’ex marine, killer al supermercato
Terence S. Tyler aveva finito il suo turno di lavoro, presso il centro commerciale di Old Bridge, nel New Jersey, alle 3 e 30 del mattino di giovedì. Invece di rincasare, però, ha deciso di tornare indietro, dopo meno di mezz’ora, dirigendosi verso il supermercato ancora chiuso, dove una dozzina di impiegati sistemava le merci e metteva tutto in ordine prima dell’apertura. Vestito con abiti militari, Tyler impugnava una pistola e un fucile AK-47 e la faccia di chi aveva deciso di mettere tutto a ferro e fuoco. Sedici colpi hanno causato la morte di 2 persone, prima che il giovane rivolgesse la pistola contro sé stesso. Cristina LoBrutto, di 18 anni, si era diplomata recentemente alla scuola superiore di Old Bridge, la stessa che aveva frequentato, fino al 2004, Bryan Breen, 24 anni. Le due vittime non erano un obiettivo specifico del giovane Tyler la cui intenzione, confermata dallo svolgimento dei fatti, era più semplicemente quella di fare una carneficina. Il killer, che alcuni conoscenti hanno descritto come un “ragazzo simpatico e gentile”, aveva prestato servizio nel corpo dei Marine a partire dal marzo 2008 e fino al 27 febbraio 2010, quando era stato congedato per ragioni non meglio specificate. La sua base era stata in California e nel suo curriculum non ci sono missioni all’estero, prima del suo ritorno alla vita “civile”. Intanto, emergono nuovi dettagli relativi all’episodio di Aurora che aiutano a far luce sul periodo immediatamente precedente alla sparatoria. Secondo quanto affermato davanti alla corte da Tamara Brady, difensore di James Holmes, il giovane avrebbe tentato di raggiungere telefonicamente la sua psichiatra solo nove minuti prima della sparatoria. Durante il suo interrogatorio, la dottoressa Fenton, invece, aveva sostenuto che il suo rapporto con Holmes si sarebbe concluso l’11 giugno dopo una seduta particolarmente “allarmante”. (A. V.)
La Stampa TuttoLibri 1.9.12
Intervista
Salvatore Veca: “Per quadrare il cerchio scelgo Dahrendorf”
La sfida di un liberale di sinistra: cercare un equilibrio tra domanda di benessere, di coesione sociale e di libertà individuale
di Francesco Rigatelli
Salvatore Veca filosofo La vita e le opere. Salvatore Veca è nato nel 1943. Docente di Filosofia politica e vice-Preside della facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Pavia, ha insegnato Filosofia politica all'Università degli Studi di Firenze. E' Presidente della fondazione «Giangiacomo Feltrinelli» a Milano, ed è membro del Comitato Tecnologico dell'Istituto per lo sviluppo dell'Innovazione dei Mass Media (SIMM). E’ autore, fra l’altro, di «La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia» (Feltrinelli), «La filosofia politica» (Laterza), «Questioni di vita e conversazioni filosofiche» (Bur), «Etica e verità. Saggi brevi» (Casagrande), «Questioni di giustizia» (Einaudi).
«Avevo dodici anni, mio nonno, crociano di formazione, mi donò un’edizione Rizzoli dei Dialoghi di Platone» «Fui allievo di Paci, che si occupava di Husserl, e di Geymonat. Erano gli anni del grande libro Tristi tropici» «Mia moglie, Nicoletta Mondadori, mi ha fatto scoprire McEwan, Auster, Philip Roth, Bernhard...» «Riconosciamo che siamo fatti di cose in prestito, come ci ricorda Lear nella scena della tempesta»
Due giorni dopo quel pomeriggio nella sua misurata casa milanese, divani a fiori e gouache napoletane ma soprattutto tanti libri, Salvatore Veca richiama. Docente di Filosofia politica a Pavia, tiene a precisare: «Ci ho pensato e le mie letture si potrebbero dividere in tre: i libri che inseguo, i libri che mi vengono incontro e i libri che mi accompagnano». Ma non c’è niente di eccentrico nel tono della telefonata, se mai l’onda lunga di quel pensiero «ragionevole, umile e ironico» che ha dimostrato per l’alto mare aperto di questa intervista. Partiamo dai libri della sua infanzia? «Da ragazzino ero appassionato di mitologia, di tragedie greche e di Storia. A 12 anni mio nonno Salvatore, alto funzionario del ministero della Guerra nato a Napoli e di formazione crociana, mi regalò un’edizione Rizzoli in pelle dei Dialoghi di Platone. Poi Dostoevskij, Tolstoj, Maupassant, Flaubert». Leggeva grazie alla scuola o perché giravano libri in casa? «Non ero influenzato dalla scuola. Mio padre la sera leggeva a me e a mio fratello una pagina della Divina commedia. E in casa c’erano tanti libri che ci derivavano dai parenti romani, compresa un’edizione completa della rivista La critica di Croce. Io sono nato a Roma, ma per la guerra dai 3 anni ho vissuto a Milano». E i libri di formazione successivi? «M’iscrissi a Lettere a Milano e poi passai a Filosofia, dunque lessi Platone, Kant, Spinoza, Hume, molto Descartes, Hegel, Leibniz. Fui allievo di Paci che si occupava di Husserl, e di Geymonat per la Filosofia della scienza. Poi erano gli anni del grande libro Tristi tropici di LéviStrauss».
Cosa legge oggi? «Maneggio tre tipi di libri, un mosaico tra lavoro, incontri e hobby. Il mio ultimo è L’idea di incompletezza e ora sto preparando L’immaginazione filosofica, sempre per Feltrinelli. Intendo esplorare l’idea di possibilità così ho in mano Invarianze di Robert Nozick. M’interesso anche di globalizzazione: ho divorato L’idea di giustizia di Amartya Sen, È possibile una giustizia globale? di Thomas Nagel, One world di Peter Singer e Povertà mondiale e diritti umani di Thomas Pogge. I libri per incontri sono invece quelli che ti chiedono di presentare, di discutere, di scriverne. Tra gli ultimi segnalo Partorire con il corpo e con la mente di Francesca Rigotti, Di vita si muore di Nadia Fusilli, Una questione civile di Roberta De Monticelli, L’esperienza del male di Antonio Cassese. Infine ci sono le letture di sempre. Restano fondamentali Baudelaire, Mallarmé, Valery, Rimbaud. Rileggo Ovidio e Eliot. Soprattutto poesia, dunque. Della letteratura si occupa mia moglie». Nicoletta Mondadori, figlia di Alberto, nipote di Arnoldo, entra in casa e lui la chiama «amore» con dolcezza infinita. Lei per lui è la vera filosofia. «È una lettrice straordinaria di narrativa. Mi ha fatto scoprire McEwan, Auster, Philip Roth, Bernhard. Dice che tra saggi e poesia ho una dieta monotona e mi sgrida: leggi questo! ».
Segue anche più libri insieme? «Sì l’unico problema è che sottolineo e mia moglie mi vieta di farlo sui romanzi. Allora ne compro un’altra copia per me. Per esempio ho riacquistato Re Lear, la migliore tragedia di Shakespeare».
Se le dico liberalismo? «Sono un liberale di sinistra, un liberalsocialista. Ralph Dahrendorf a fine Novecento diceva: uno sarà liberale di destra o di sinistra. Non aveva previsto il comunitarismo, i costruttori di offerte di eticità: selezionano un noi che definisce il bene contro un loro. In una fase difficile come quella europea politiche miranti a costruire illusorie comunità morali omogenee hanno seguito. A livello macroeuropeo è un’oscillazione di rinazionalizzazione». Il liberale come si comporta in questo quadro? «Per usare i termini del libro di Dahrendorf Quadrare il cerchio, abbiamo domanda di benessere, di coesione sociale e di libertà individuale e bisogna trovare un equilibrio. Certo, costruire continuamente un nemico non aiuta la coesione». Lei si occupa di giustizia perché pensa sia fondamentale nel liberalismo? «La globalizzazione, l’interdipendenza, l’autorità politica decrescente e il potere sociale crescente, la crisi sistemica in cui siamo pongono interrogativi. Lo scrivono Gallino in Finanzcapitalismo e Rosanvallon ne La société des égaux, dove ci si domanda se l’aumento delle disuguaglianze nella società e tra società non finisca per stritolarne la cornice liberale e il processo democratico. È anche la tesi di Crouch in Postdemocrazia. Allora il rompicapo per la filosofia politica contemporanea è come rispondere alla globalizzazione con criteri di giustizia».
Qual è la risposta? «Se uno nasce a Scampia è condizionato, possiamo accettarlo? Una delle certezze filosofiche è che nessuno sceglie di nascere, ma dopo si apre un problema con diverse risposte. Ci sono solo individui, come dice Margaret Thatcher nel film The iron lady. E sono loro che devono darsi da fare non la tirannia degli stati assistenziali. Oppure c’è una risposta egualitarista perché tutti abbiano stesse occasioni di partenza». Chi sono gli esponenti delle due posizioni? «Rawls con Una teoria della giustizia, per i liberali sociali tra cui ci sono Dworkin, Nagel, Senn. E Nozick con la risposta Anarchia, stato e utopia, per i liberali libertari che sono per la giustizia nelle proprietà, con stato minimo e spazio di scelte individuali massimo. Ancora più anarcocapitalisti sono Rothbard e Friedman».
Per il futuro cosa immagina? «Quando sono allegro non un mondo unificato e armonico, ma macroaree regionali stabilizzate. Non il governo del mondo, ma tante Ue». Dunque si può essere ottimisti? «Si può ritenere che non ci siano vie d’uscita, è comunque salutare, ma pensare che ciò sia necessario è solo indice di mancanza di fantasia. Bisogna allargare il campo delle alternative, poi può anche andar male». Ma la Storia è sempre in progresso? «C’è un bel libro di Pietro Rossi, Il senso della Storia, sulla genealogia dell’idea di Filosofia della storia dall’Illuminismo alla storia globale. Per me non è tanto una questione di quanto ci siamo avvicinati al bene piuttosto di quanto ci siamo scostati dal male». Come per la verità, che riconosciamo solo da ciò che non lo è? «Un concetto che ho affrontato nel mio libro La priorità del male. C’è controversia su quale sia il fondamento dei diritti umani: religioso, metafisico, etico. Allora diamo priorità a cosa viene condiviso come negativo. Così i diritti umani sono uno scudo contro il male qualunque sia il bene». A proposito dei suoi libri, lei ha scritto La penultima parola. «Sì in dialogo con L’ultima parola di Nagel. Come si fa a prendere sul serio un mestiere in cui si dice qualcosa come fosse ultima e poi diventa penultima perché qualcuno pensa altro di nuovo? ». E non le capita mai di pensare qualcosa di già scritto da altri filosofi prima di lei? «Studiare serve a fare pensieri nuovi. Anche se Goethe diceva che pensiamo in altri modi cose già pensate. E Lear nella scena della tempesta afferma che è “ragionevole, umile e ironico” riconoscere che siamo fatti di cose prese in prestito, e si denuda». Ragione, umiltà e ironia: le sono cari questi valori? «Una battuta di Talleyrand che piaceva a Berlin recita: “Surtout, pas trop de zèle”. L’ironia viene dal senso del limite. Dal guardarsi come osservatori di se stessi. L’ironia è un pizzico di umanità». Se confronta la situazione culturale del passato a oggi cosa pensa? «Una volta il rapporto tra cultura e società era dall’alto in basso. I nativi digitali hanno cambiato come Gutenberg. La voglia di sapere e comunicare nelle cose luminose e tetre è senza precedenti e rende meno centrali gli addetti ai lavori. È una società policentrica. Ma pensando alla voglia di sapere, non è la fine della cultura. È la fine di un mondo, ma va aggiunto: per come l’abbiamo conosciuto, e ce n’è un altro».
Corriere 1.9.12
DeBrabander
Il mito dell'individualismo Perché ci crediamo tanto?
Non siamo autosufficienti, eppure alimentiamo in modo ostinato la convinzione di potercela fare da soli
L'illusione del «volere è potere» e la provocazione di un filosofo
di Daniela Monti
Molti di noi mentono a se stessi. Cresciuti con il mito del lavoro, del farsi da sé, del «decido io chi voglio diventare e qual è il prezzo che sono disposto a pagare», danno prova di un'inossidabile adesione al principio del «volere è potere». È il modello Steve Jobs: colui che crede nelle proprie capacità e nel proprio talento, che non deve rendere conto a nessuno se non a se stesso e ai propri valori, che rischia e che vince, a dispetto di tutti. Confrontato con una certa diffusa apatia, è un modello molto apprezzabile. Eppure l'idea di autodeterminazione che sta alla base di questa visione della vita e di noi stessi è «un'illusione, una fantasia». Non siamo autosufficienti. Nessuno di noi lo è, però continuiamo ad alimentare questo «mito ostinato dell'indipendenza». Perché? Se lo chiede il filosofo americano Firmin DeBrabander sul forum «The Stone» del New York Times e i seicento e passa commenti che il suo scritto ha suscitato la dicono lunga sull'interesse del tema.
È dura ammettere di essere guidati da altre forze che non siano quelle della sola ragione e volontà. Sulla vita emotiva, per esempio, è calato una sorta di oblio: la potenza delle emozioni viene presa poco sul serio. «Crediamo illimitatamente nelle nostre capacità soggettive — dice Elena Pulcini, professore di Filosofia sociale a Firenze — perché dimentichiamo di essere animati anche da forze diverse, che ci chiedono un rapporto con noi stessi meno rigido ma comprensivo di fragilità e debolezze».
Sovrastimiamo il nostro autocontrollo e Freud è stato il più efficace nello smascherarci. «L'io non è padrone nemmeno in casa propria» è una delle sue celebri sintesi per spiegare la dipendenza dell'io, cioè del soggetto cosciente, da un principio istintivo, inconscio e irrazionale che agisce anche al di fuori della consapevolezza. Ma la lezione è stata messa da parte. Il risultato è «un'insistenza cocciuta» sul mito dell'autosufficienza, nonostante la realtà ci porti in tutt'altra direzione.
DeBrabander cita un articolo del Times in cui si racconta la vita degli abitanti di un quartiere a maggioranza repubblicana in Minnesota e il loro «desiderio conflittuale di essere autosufficienti». Mentre i repubblicani chiedono tagli alle tasse e alla rete sociale, i loro elettori al contrario contano, come gli altri, sugli aiuti pubblici. Sussidi agricoli, detrazioni d'interesse sui mutui, garanzie ipotecarie federali, sostegno agli anziani: la recessione ha aumentato la dipendenza dal governo, «ma in troppi fanno finta che non sia così» e continuano ad applaudire a slogan come «ci siamo fatti da soli, senza l'aiuto di nessuno». «Non vi è dubbio che l'individualismo radicale rimarrà un punto di forza nella campagna repubblicana», chiude DeBrabander.
Non serve leggere i programmi della destra americana per accorgersi della cavalcata dell'individualismo radicale. «I figli soffrono la dipendenza dai genitori, donne e uomini vivono piuttosto male i reciproci vincoli affettivi, Stati e comunità sono divisi tra globalizzazione e nazionalismi. Nell'insieme l'individualismo si è notevolmente rafforzato», riflette Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta. Si può attingere alle esperienze più spicciole, quotidiane. Pulcini prova a fare un elenco. Troppo spesso si sente parlare a voce troppo alta, come se gli altri non esistessero. Basta salire sul treno per accorgersi che chi ci è seduto vicino è diventato opaco, tanto che non lo notiamo neppure più (a meno che non attiri l'attenzione su di sé urlando nel telefonino). Non viene presa neppure in considerazione l'idea di poter instaurare una relazione con qualche casuale compagno di viaggio, anzi si studiano tutte le strategie possibili per evitare qualunque accenno di contatto. C'è una sensazione diffusa di legittimazione dell'anarchia dei comportamenti: si può anche tirare la palla addosso a bagnanti, in spiaggia, tanto chi protesta verrà zittito con quello che suona ormai come un insulto: vecchio moralista.
Ma questo è solo un corno della faccenda, si sentono anche voci diverse. Mentre il mito dell'individualismo guadagna posizioni, in ambito professionale, per esempio, cresce l'enfasi attorno all'importanza del lavoro di squadra: tutti insieme, uniti, si può fare prima e meglio. Però anche il lavoro di squadra può rivelarsi un falso mito. «Quando è imposto dall'azienda, è una forma di condivisione artificiale finalizzata ai bisogni dell'agenda e del fatturato, non ha niente a che fare con una vera forma di relazione», insiste Pulcini. È l'assegnazione di un ruolo a cui uniformarsi e, per arrivare al successo, richiede la valorizzazione delle competenze di ciascuno (questo è decisamente un punto a suo favore). «Ma laddove il meccanismo si incrina e una persona della squadra incorre in una debolezza, in una fragilità, a quel punto diventa l'anello debole e la sua permanenza nel gruppo è in discussione. Non ci si può permettere di tenere conto della vita soggettiva».
Il mito ostinato dell'autodeterminazione, insomma, è fumo negli occhi. La realtà è diversa e il filosofo americano la riassume così: «Siamo tutti profondamente legati. Le mie decisioni, scelte, azioni sono ispirate e motivate da altri. Le nostre richieste culturali di individualismo sono troppo estreme e costituzionalmente irrazionali». Se riuscissimo ad uscire dalla nebbia ci accorgeremmo di vivere «in una società che afferma la dipendenza e l'interdipendenza di tutti».
Tutto da buttare, dunque? «C'è una versione dell'individualismo più moderna ed è quella della persona: unica, irripetibile, porta un contributo del tutto originale alla vita collettiva, alla storia, nella relazione con gli altri. E soprattutto ha una coscienza, un senso di responsabilità», dice Risé.
I tre milioni di giovani che nel nostro Paese non studiano né lavorano — uno dei dati più drammatici di questa crisi — sono la prova del fallimento dei nostri modelli di riferimento: l'individualismo radicale da una parte, la politica assistenziale dall'altra. Se il valore dell'individualismo è innegabile «dobbiamo però riconoscere che dipendiamo dagli altri e dalle nostre emozioni. Dobbiamo ripartire da qui non per negare l'importanza dell'individuo, ma per inserirlo in un contesto più ampio», chiude Pulcini. Dalla serietà con cui ciascuno svolge il proprio lavoro, al rifiuto del rampantismo, alla capacità di vedere e aiutare l'altro in un momento di difficoltà. «Va riscoperta la lezione delle propria insufficienza, della non assoluta sovranità». Siamo tutti sulla stessa barca, riassumerebbe DeBrabander.
Corriere 1.9.12
La depressione è legata all'età ?
di Claudio MencacciDirettore Neuroscienze A.O. Fatebenefratelli
I sentimenti di tristezza o di demoralizzazione appartengono a tutti gli esseri umani indipendentemente dall'età. Anche da anziani si sperimenta la tristezza senza necessariamente essere depressi per gli anni che si accumulano. Una velata malinconia è un'esperienza fisiologica con la quale dobbiamo imparare a convivere senza preoccupazione. Tra gli anziani la depressione ha una prevalenza attorno al 10% (e può arrivare al 27) con un netto aumento tra le persone ricoverate. Prevale in questa età una depressione senza tristezza, una forte irritabilità, apatia e ansietà e molte lamentele riguardo il proprio malessere fisico e la propria capacità cognitiva, ma soprattutto una perdita marcata di interessi e di piacere, un ritiro dalla vita e dalle interazioni sociali. Recenti studi indicano alcuni fattori ad alto rischio per l'insorgenza tardiva soprattutto correlati alla presenza di patologie croniche legate al cuore, ai polmoni, ai disturbi vascolari cerebrali, all'artrite e al diabete, patologie queste aggravate dai comuni disturbi funzionali della vista e dell'udito che, se possibile, vanno prontamente corretti. Ciò che colpisce chi è particolarmente vicino alla persona anziana è la ridotta reattività emozionale, la perdita di motivazione e di iniziativa. Cosa fare per convivere e possibilmente superare la depressione? In primo luogo è bene rivolgersi al proprio medico di famiglia, al geriatra o allo psichiatra sapendo che sono oggi disponibili dei farmaci antidepressivi sicuri ed efficaci che necessitano però, in questa fascia di età, di maggior attenzione nella somministrazione a causa di possibili interazioni farmacologiche (per la concomitanza di altre patologie) e di gestione di eventuali effetti collaterali. Resta comunque sempre valido il supporto psicoterapico specifico per questa età e la buona pratica di condurre una vita non sedentaria, dormire bene, tenere il cervello attivo, stimolare la curiosità e gli interessi culturali, non isolarsi, ascoltare buona musica e pensare che ci sia sempre qualcosa da dare e da ricevere.
Corriere 1.9.12
Il senso del sacro che distingue i conservatori dai progressisti
di Anna Meldolesi
Il fatto che un crocifisso venga usato come strumento erotico in un film d'autore è irritante. Istintivamente prima ancora che razionalmente. Non soltanto per i cattolici e non soltanto per i conservatori. Non basta dire: è la libertà di espressione. E neppure: se vi dà fastidio non andate al cinema. Con quella scena mostrata al festival di Venezia, il regista austriaco Ulrich Seidl piccona una delle colonne portanti su cui, secondo gli studi più recenti, si regge la moralità della specie umana. Il senso del sacro, ovvero l'idea che alcuni oggetti valgano più della sola materia di cui sono fatti. Lo psicologo morale Jonathan Haidt usa la parola weird per indicare il mondo liberal da cui lui stesso proviene. Questo aggettivo, che in inglese vuol dire «bizzarro», è l'acronimo di «occidentale, istruito, industrializzato, ricco e democratico». Ebbene, le società weird rappresentano una minoranza dell'umanità, e chi non si scandalizza di fronte alla profanazione dei simboli è una minoranza nella minoranza. Non è necessario restare nell'ambito della religione. Bruciare una bandiera è un gesto simbolico violento, ma la maggior parte delle persone condanna istintivamente anche l'idea che qualcuno tagli l'emblema del proprio Paese a pezzi e lo ricicli per pulire il bagno. Magari perché non ha stracci in casa. Per distinguere cosa è giusto oppure no, il nostro cervello non si accontenta di calcolare danni e benefici delle azioni ed è proprio questo che, secondo Haidt, avvantaggia i conservatori. A differenza dei progressisti, riescono a suonare tutti i tasti del nostro pianoforte morale. Non solo quelli importantissimi della giustizia e dell'equità, preponderanti a sinistra, ma anche quelli di lealtà, autorità e sacralità. Torniamo al senso del sacro, dunque. Piss Christ è un'opera del fotografo Andres Serrano, che ha immerso un crocifisso nella propria urina. Chris Ofili ha raffigurato una Madonna nera, circondata da vulve e imbrattata di sterco. Chi non ci trova nulla di male, provi a fare un esperimento mentale. Cosa accadrebbe se Martin Luther King o Nelson Mandela venissero così degradati?
Corriere 1.9.12
Il Michelangelo di Panofsky ritrovato nella cassaforte nazista
Un allievo l'aveva fatto sparire in una sede del Terzo Reich
di Paolo Lepri
BERLINO — Da decenni erano in molti a rammaricarsi per la sua scomparsa, a tentare di ricostruirne il contenuto. Ma è stato uno strano scherzo del destino il fatto che il saggio su Michelangelo del grande storico dell'arte Erwin Panofsky, fuggito dalla Germania nel 1934, fosse nascosto in un armadio blindato, usato a suo tempo per conservare documenti degli iscritti al partito nazista. E lì è rimasto, nelle cantine del Zentralinstitut für Kunstgeschichte, a Monaco, fino a quando recentemente qualcuno non lo ha trovato, quasi per caso. Il destino, però, è fatto anche dagli uomini, dalle loro silenziose ambizioni, dai loro comportamenti segreti. Come è avvenuto in questa occasione, perché il responsabile della sparizione, o meglio del furto, è stato quasi sicuramente un altro studioso, Ludwig Heinrich Heydenreich, che di Panofsky fu allievo e successore in quella Università di Amburgo dal quale l'autore di Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale fu allontanato nel 1933 per le sue origini ebraiche. Heidenreich è stato il direttore dal 1946 al 1970 dell'istituto di Monaco, un palazzo non lontano da Königsplatz, prima sede del partito di Hitler, poi utilizzato dal governo militare statunitense per la restituzione delle opere trafugate durante gli anni hitleriani.
«Una scoperta sensazionale», dicono gli esperti. «Sono emozionata. Ma non so ancora se sogno o sono sveglia», è stata la prima reazione di Gerda Panofsky, seconda moglie dello storico dell'arte, che più di tutti non si è mai arresa alla sparizione del manoscritto. Oggi, a mente fredda, sottolinea però che «al danno si è aggiunta la beffa». Nel 1992, in occasione del centesimo anniversario della nascita dell'autore di Studi di iconologia, uno studioso tedesco, Horst Bredenkam, aveva cercato di ricostruire i temi principali del saggio andato perduto. Una fatica che è stata premiata, venti anni dopo. «Si colma un grande vuoto nella storia degli studi sull'arte in Europa», ha sostenuto Wolfgang Augustyn, vice direttore del Zentralinstitut für Kunstgeschichte.
La dissertazione di Panofsky per l'abilitazione alla cattedra dell'Università di Amburgo, nel 1926, sarà sicuramente un testo fondamentale per completare la conoscenza di un intellettuale tra i più prestigiosi del secolo scorso, che ha dedicato a Michelangelo altre pagine importanti, tra cui quelle dedicate al suo rapporto con il movimento neoplatonico. E, naturalmente, per gli studi complessivi sul protagonista del Rinascimento italiano. Ma, al di là di questo, la vicenda, raccontata per prima dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha tutti i risvolti di un romanzo senza soluzioni certe, in cui le tragedie degli anni centrali del Novecento si intrecciano con il percorso umano dei suoi protagonisti. E Heydenreich, morto nel 1978, dieci anni dopo il suo «rivale», ha portato via con sé buona parte dei misteri di questa trama degna del Carteggio Aspern di Henry James.
Il manoscritto non fu mai pubblicato negli anni precedenti alla partenza per gli Stati Uniti, dove Panofsky insegnò prima a New York e poi a Princeton. Per lungo tempo si pensò che le 334 pagine fossero andate distrutte nei bombardamenti di Amburgo del 1943-1944. Secondo altre testimonianze, il suo autore lo aveva diviso in alcune parti, da utilizzare come una serie di saggi, che per circostanze non chiare andarono perdute. E nella città del nord della Germania si sono dirette per anni le ricerche. Ma la realtà era un'altra. Con tutta probabilità è stato Heydenreich a entrarne in possesso. Lo ha custodito per anni e lo ha poi abbandonato, insieme ad altre carte, nella cassaforte dei sotterranei dell'istituto. Non facendone mai parola con nessuno, né tantomeno con lo stesso Panofsky nelle varie occasioni in cui i due si incontrarono. Un silenzio terribile.
Sette del Corriere 31.8.12
Ezra Pound: «Che codardi gli intellettuali italiani»
L’appoggio a Mussolini, la condanna che ne seguì, l’atteggiamento dei “colleghi
La figlia di Ezra Pound fa il punto sulle vicende che misero all’indice il padre poeta
Critica i letterati di casa nostra e non risparmia neppure Pasolini e Menotti
di Marzio G. Mian
qui
Repubblica 1.9.12
La microfisica del potere in quaranta parole
Un libro di Carlo Galli analizza protagonisti stile e linguaggio della scena pubblica italiana
La dialettica amico-nemico e i talk-show dell´ultimo decennio
di Maurizio Ferraris
Il palazzo di Cnosso, il labirinto delle sue stanze e dei suoi magazzini, il Minotauro, sono simboli di un potere arcaico, certo paternalistico (osserva Carlo Galli nella voce "Palazzo" di questo Abbiccì della cronaca politica che esce per il Mulino), ma palesemente lontano e inaccessibile. Adesso il potere si presenta piuttosto come un panopticon capovolto, in una trasparenza forse anche più ingannevole, in cui può sorgere l´illusione che gli arcana imperii siano alla luce del sole, mentre lo sono soltanto i comportamenti individuali di una politica spettacolarizzata e screditata.
Scritte sul filo di questa attualità, per il Diario di Repubblica, le 40 voci di Galli, da "Anarchia" a "Tiranno", non risentono aneddoticamente delle circostanze in cui sono state composte. Esse valgono dunque anche nel momento in cui la scena pubblica presenta nuovi personaggi e interpreti, e un nuovo stile, che di Galli condivide la pacatezza accademica. Valgono perché, come specifica lui stesso nella premessa al libro, lo scopo è quello di «mostrare in quali modi la politica sia presente nella lingua, alta e bassa, nell´istituzionalità più aulica e più logora ma anche nel lessico quotidiano che - a volte consapevole ma più spesso ignaro - nasconde in sé rimandi a questioni di lungo periodo, a temi politici consolidati».
Per presentarle al lettore, provo a ridurre le 40 voci a quattro temi fondamentali.
Il primo riguarda la politica, che Galli considera non una scienza, ma un´arte, che consiste in una complicazione di "ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto". Da quando ho memoria ricordo dibattiti sulla crisi della politica e la fine delle ideologie, ma ovviamente la realtà è diametralmente opposta. La politica si è complicata nel momento in cui il potere si articola, si ramifica secondo le leggi di una microfisica, ed è così diffusa da risultare ingovernabile persino per l´ultima superpotenza residua. Lo stesso vale per la crisi delle ideologie e per il riflusso, che ha inaugurato l´epoca più ideologica della storia, dalla lotta contro l´impero del male alle riscoperte delle padanie e al ritorno dei fondamentalismi, il tutto attraverso un circuito mediatico che è stato essenzialmente un dispiegamento politico-ideologico. Sgombriamo dunque il campo dall´idea di trovarci in un mondo "post-politico".
Il secondo insegnamento riguarda la dialettica. Fra le tante privatizzazioni imposte dalla spending review trascendentale che impegna gli Stati, negli ultimi decenni spicca la privatizzazione della politica, divisa tra leader carismatici e società civile (che il più delle volte, osserva Galli, significa pianamente "economia"). La politica postmoderna ha introiettato l´agonalità, il rifiuto delle mediazioni, della politica sessantottesca, dando fiato all´anomia delle individualità che esaspera il conflitto. Il rifiuto e il discredito della forma partitica si è trasformato in un rifiuto della dialettica come arte della mediazione, nella costruzione sistematica del nemico, nella concezione della politica come guerra, e nella decisione di "non fare prigionieri". Sono trasformazioni di cui la mia generazione è stata testimone oculare, e in cui davvero il terrorismo sembra avere conseguito almeno un obiettivo, nel colpire il cuore dello Stato: portare al diapason della dialettica amico/nemico lo scontro politico. I talk show dell´ultimo decennio, almeno, sono stati la prova di questa metamorfosi.
Il terzo insegnamento riguarda la sinistra, che nell´arco di un quarantennio ha visto, in successione, la propria affermazione culturale sull´onda della ribellione giovanile, e poi il crollo del socialismo reale. In questa trasformazione, l´effetto più significativo è che stili comunicativi di sinistra (vincenti sotto il profilo culturale) hanno veicolato contenuti di destra (vincenti sotto il profilo politico), e come risultato si è avuto il fenomeno del neoconservatorismo, egregiamente analizzato da Galli.
Il fenomeno non è nuovo. Dopo la catastrofe di Napoleone, de Maistre ha saputo usare la lingua di Voltaire per riaffermare la legittimità di trono e altare, e la necessità di una "dolce catena" che stringesse gli uomini distogliendoli dagli eccessi della libertà. Il conservatorismo non ha pagato dazio perché, sino alla crisi economica attuale, non ha avuto sconfitte paragonabili a quelle della sinistra ed è così che, con uno stile sessantottesco, è stato rilanciato tutto il vecchio armamentario della destra, da Dio alla Patria all´eroismo, con un fenomeno che ha inizio con i Nouveaux Philosophes trent´anni fa e che si ripropone per esempio in certe dichiarazioni di Zizek, che si è dichiarato personalmente favorevole alla pena capitale.
L´ultimo insegnamento, e qui, lo riconosco, parlo pro domo mea ma con forti pezze d´appoggio nelle voci di Galli, riguarda il realismo. Per qualche sortilegio, la sinistra ha pensato che il realismo fosse intrinsecamente di destra (con la confusione del realismo con il cinismo analizzata nella voce "Realpolitik"), e quasi apolitico. Non così la vede Galli, che propone appunto di pensare la natura duplicemente politica del realismo, giacché il politico non solo deve fare i conti con la realtà, ma deve essere anche consapevole di costruire una realtà sociale attraverso la propria azione. Così nella voce "Tecnica", dove risulta che la politica è in quanto tale più forte degli apparati tecnici, dunque non può giustificarsi, come spesso è avvenuto, con lo strapotere dei "dispositivi" che annullerebbero il ruolo della decisione. In questo quadro (leggiamo alla voce "Sinistra"), nel momento in cui la destra si è accaparrata il territorio del mito, alla sinistra spetta un duplice compito: quello di farsi parte in causa e insieme garante del quadro generale della politica. Un compito che non può essere assolto senza guardare in faccia la realtà e la sua natura ruvida, resistente, e che ama contraddirci.
Repubblica 1.9.12
Il conformismo da Leibniz e Sainte Beuve fino a oggi
Perché lo stile è sovversivo
di Franco Cordero
Correva l´anno 1949. Eric Blair (nom de plume George Orwell), tisico all´ultimo stadio, racconta la morte del pensiero, estinto da ghiandole e midollo mediante l´arnese televisivo: il titolo è Nineteen eighty-four, 1984; visione profetica perché nell´ottantaquattresimo anno del secolo in Italia un impresario d´affari oscuri opera già massicce lobotomie dai piccoli schermi. Disintegrando pensiero, gusto, abiti morali, la televisione commerciale frolla i pazienti e quando cade la casta politica i cui favori venali l´avevano armato, il pifferaio diventa demiurgo, essendosi allevati gli elettori, pronti a bere ogni fandonia: che incomba un pericolo rosso; lui garantisca libertà, pace, benessere; gli avversari portino odio, miseria, schiavitù. Cervelli, midolla, viscere sono materia prima degl´instrumenta regni (...).
Gli animali umani pensano poco e male. In particolare, inquina le menti, cominciando dalle parole, una falsa teoresi denominabile «vizio dogmatico». L´establishment teme lo sguardo intellettuale, quindi rifiuta i discorsi chiari: se la verità ufficiale fosse autentica, ogni obiezione cadrebbe; invece le formule suonano tanto più perentorie quanto meno valgono. La censura espelle l´idea confiscando i vocaboli con i quali pensarla, ma non frena i rumori vocali, anzi li moltiplica fornendo una lingua automatica i cui utenti differiscono solo nel gesto: ognuno vi mette del suo, dal bisbiglio all´ululato; l´obiettivo è un sonnambulismo diurno dove ogni cosa muti, secondo decreti dall´alto; e magari tra le verità categoriche c´è che il relativismo sia il peggiore dei vizi. Gli assuefatti bevono, anche 2+2=5, né basta dirlo, devono esserne convinti (...).
I dogmi fioriscono nelle chiese, con o senza Dio, e vestono anche forme laiche. Viviamo in tempi d´assordante divertissement, come lo chiamava Pascal. Seri o futili, passatempi estroversi difendono l´animale sociale dallo sguardo introspettivo, troppi essendo i rischi dello stare chez-soi. Inutile dire quanto pesino trent´anni d´allegra ipnosi televisiva berlusconiana in forme tali da essiccare rimasugli d´anima e gusto del sapere: Chi è l´ebdomadario del culto d´Arcore, molto venduto nel luogo d´una mondanità estiva ideologicamente rivolta a sinistra; o almeno se ne vantava il direttore; e supponendolo vero, il dato merceologico indicherebbe allarmanti affinità. Dà spettacoli consueti l´intellettuale organico: Boileau regola la fiera letteraria sotto Re Sole; Sainte-Beuve pontifica nel secondo Impero; Lukács tiene banco marxista, in chiave staliniana, poi teorico del disgelo. Nel 1942 il ministero della Cultura popolare paga 890 scrittori e giornalisti. L´Italia postfascista ha due poli, cattolico e comunista. L´ortodossia implica degli organi. Modelli; griglie censorie, meccanismi selettivi attuano una polizia del pensiero fisiologicamente avversa alle novità: Sainte-Beuve relega Stendhal e Baudelaire tra i minori o minimi, appena degni d´uno sguardo benevolo, lodando signore e signori dei quali s´è perso il nome; Gide rifiuta Proust. Ripulsioni viscerali tradiscono lo spavento. Vedi Leibniz, la cui bestia nera è Spinoza. Lo nomina varie volte, sempre male, sapendo quanto poco differiscano nel fondo le rispettive idee: infatti trucca le sue; sono philosophie pour dames gli Essais de Théodicée, nei quali conversando con la duchessa Sofia Carlotta. disserta «sur la bonté de Dieu, la liberté de l´homme et l´origine du mal». Questioni supreme? No, illusione megalomaniaca: l´animale umano s´è seduto al centro dell´universo e quando soffre, vuol sapere come mai; ne chiede conto al macchinista cosmico; elabora rivelazioni, teologumeni, metafisiche; se invece discute d´amebe, pesci, uccelli, rettili, scimmie, gli bastano i rapporti causali. Le bestie non hanno anima immortale.
L´industria culturale sceglie i prodotti con effetti pesanti sulla mente collettiva, notoriamente plastica, quindi modificabile, e costano meno fatica le varianti in peius. Chiamiamola "Compagnia dello spegnitoio", trasversale, metamorfica, abile nel dislocarsi, infatti sopravvive al collasso dei regimi. Ipocrisie amichevoli mascherano l´odio reciproco. Qui il pensiero è galeotto: la gabbia ammette solo quarti d´idea o meglio ancora, ottavi, in dosi omeopatiche, affinché niente disturbi il pubblico dei consumatori; fuori dagl´intervalli carnevaleschi, Leviathan li vuole malleabili, mezzi assopiti, pronti all´applauso (nei riti televisivi scatta fulmineo ed è altrettanto automatica la mimica rabbiosa). I laboratori forniscono homunculos oboedientes. È atto sovversivo vedere dentro le cose e dirle quali sono, scovando i nessi. Irrilevanti le qualità. Il mercato chiede prodotti riproducibili al costo minore: con l´epiteto "faticoso" gli spegnitori liquidano ogni embrione d´opera pericolosamente pensata, specie quando abbia dello stile, parola aborrita nel loro gergo. Talvolta la condanna folgora l´autore senza riguardo al testo; fosse anche I tre moschettieri o Michele Strogoff, corriere dello Zar, il verdetto sarebbe inesorabile: "faticoso", "innegabile fatica" et similia. Pensiero, fantasia, parola turbano l´equilibrio immobile. Piccoli commissari d´un sistema anonimo fiutano i diversi. Pulsa anche l´invidia ossia essere tristi «de bono alterius», perché sminuisce «gloriam propriam», ed «est vitium capitale», «mater odii» (san Tommaso, Tabula aurea, sub «Invidia», n. 1). Atto moralmente omicida, nota Spinoza: l´invidioso guasta e sotterra la cosa altrui, tanto meno tollerabile quanto più l´ammira; lodando la Chartreuse de Parme, Balzac edifica un monumento d´alta moralità.
Repubblica 1.9.12
Gallimard su Millet "ha diritto di esprimersi"
"Sono scioccato: le sue tesi sono ciarpame intellettuale, ma finora non hanno condizionato il suo lavoro". E intanto aumentano gli autori che vorrebbero il suo addio
di Anais Ginori
Dopo un silenzio che molti autori ritenevano incomprensibile, Antoine Gallimard ha deciso di prendere posizione nella polemica che coinvolge Richard Millet, editor della prestigiosa maison e autore del controverso pamphlet Elogio letterario di Anders Breivik. Il libello di Millet, secondo Gallimard, appartiene alla sfera della libertà di espressione e non incide sul lungo e proficuo rapporto di lavoro con la casa editrice. «È sempre stato un editor di qualità e attento. Con noi non ha mai avuto cedimenti di alcun tipo», ha ricordato l´editore che è ancora in vacanza e incontrerà Millet lunedì, al suo ritorno a Parigi. Nel ribadire la sua fiducia al proprio collaboratore, Gallimard ha comunque preso le distanze dai contenuti del pamphlet, nel quale si parla tra l´altro di "perfezione formale" dell´attentatore norvegese che ha ucciso 77 persone oltre un anno fa. «Non condivido assolutamente la sua analisi – ha spiegato l´editore – una sorta di ciarpame intellettuale finalizzato a lanciare una crociata contro il multiculturalismo». La dichiarazione di Gallimard arriva dopo giorni di accesa polemica intorno al libro, diffuso a metà agosto dall´editore Pierre-Guillaume de Roux. Molti autori della maison, da Tahar Ben Jelloun a Annie Ernaux, avevano chiesto l´estromissione dell´editor. «Sono scioccato dalle sue opinioni ma ha il diritto di esprimersi», ha replicato Gallimard per poi aggiungere: «Il suo statuto di editor diventerebbe incompatibile solo se le sue opinioni interferissero nel suo lavoro con noi». Millet fa anche parte del comitato di lettura che svolge la selezione dei manoscritti da pubblicare. «Le sue convinzioni ideologiche non hanno mai pesato sulle segnalazioni letterarie», ha chiosato l´erede della maison fondata un secolo fa e che ha appena avuto il via libera all´acquisto di Flammarion da parte dell´autorità per la concorrenza.
Nonostante le violente critiche di cui è stato oggetto, Millet non ha mai arretrato. Ha fatto solo autocritica sul titolo: «Sono stato ingenuo, pensavo che se ne cogliesse l´ironia». L´editor, 59 anni, è stato soprannominato "fabbrica dei Goncourt" dopo aver lavorato con alcuni degli autori che hanno vinto il massimo premio letterario francese, Jonathan Littell e Alexis Jenni. Secondo gli Inrockuptibles, l´autore de Le Benevole avrebbe da tempo scelto di non lavorare più con Millet proprio a causa delle sue idee politiche. Jenni, che ha avuto il Goncourt l´anno scorso, è stato invece più conciliante. «Mi fa pensare a Céline», ha osservato l´autore di L´arte francese della guerra ricordando l´incoerenza tra il talento letterario e le opinioni antisemite. Finora le reazioni sono state unanimemente critiche con Millet. Il Nouvel Observateur ha sottolineato la pericolosità ideologica del pamphlet, mentre Le Monde lo ha liquidato come un inaccettabile tentativo di conquistare un po´ di notorietà. «Un testo fascista», secondo gli Inrockuptibles. Nel 2008 Gallimard aveva scelto di non avere più Millet tra i suoi autori, dopo aver pubblicato un altro suo discusso pamphlet, L´Opprobre. Ora l´editore spera di chiudere la polemica con una difesa di principio più che nel merito.