l’Unità 2.9.12
Camusso: se cala l’occupazione non c’è futuro per l’Italia
Crisi Alla festa Pd di Piombino confronto con Boccia (Confindustria) e Fassina. «Oggi serve un patto tra produttori»
di Manuele Bonaccorsi
L’acciaieria appare dietro gli stand, tra l’area dibattiti e il ristorante. Come un monumento, non emette suoni, né odori. Che l’altoforno sia ancora accesso lo dimostra, in lontananza, la fiamma che esce da una ciminiera. Non esisteva forse location migliore per la Festa democratica dell’economia e del lavoro. E proprio qui è iniziato venerdì sera il viaggio de l’Unità e di Left che porterà nelle prossime settimane le due testate in alcune tra le più grandi feste democratiche del Paese. Venerdì sera il direttore dell’Unità, Claudio Sardo e il direttore di Left, Giommaria Monti hanno discusso di lavoro, di crisi e di industria. Insieme al segretario della Cgil Susanna Camusso, al vicepresidente di Confindustria Vincenzo Boccia, e al responsabile lavoro del Pd Stefano Fassina. Alla ricerca di un patto tra produttori, che ci permetta di uscire dalla crisi, di tornare a crescere, di rimettere al centro del Paese il lavoro, su cui si fonda la nostra repubblica democratica.
ANCORA UN PO’ DI STATO
Si parte da un tema scottante, rilanciando un dibattito nato proprio sulle pagine dell’Unità: quale ruolo deve avere lo Stato oggi nell’economia? «Un pregiudizio radicato afferma Susanna Camusso sostiene che il mercato si regola da sé. Proprio per aver raccontato per anni questa storia siamo arrivati a questo punto, in questa crisi gravissima». La realtà, per la segretaria Cgil, è ben altra: negli anni prima della grande crisi «la crescita si era concentrata nel welfare e nei servizi grazie a investimenti pubblici degli enti locali; e gran parte del tessuto produttivo italiano, viene dal pubblico». E poi, chi può «determinare l’innovazione dell’industria, se non una politica industriale pubblica»? Per questo abbiamo bisogno di «reinvestire nell’industria, e se non ci sono imprese che lo fanno, allora tocca allo Stato». Non la pensa esattamente nello stesso modo Vincenzo Boccia, giovane vicepresidente di Confindustria, anche se condivide l’urgenza di mettere al centro l’industria: «Esiste una questione industriale nazionale, che sta scoppiando, e investirà in maniera gravissima soprattutto il Mezzogiorno. Per risolverla serve più politica e non più antipolitica; dobbiamo affrontare quei nodi strutturali che ci permettono di far tornare le persone nelle fabbriche». Espone problemi che sono difficili da contestare: «Paghiamo il 20% di tasse in più della Germania, l’energia da noi costa il 30% in più, e lo spread con Berlino riguarda anche il credito. Non si può avere una buona industria, né pubblica né privata, senza affrontare questi problemi», spiega. E alla domanda sul perché spesso le imprese sono povere mentre le famiglie imprenditoriali hanno grandi rendite, l’imprenditore strappa l’applauso: «Io combatto per avere le famiglie al servizio delle imprese e non le imprese al servizio delle famiglie. Per questo è bene che noi oggi parliamo di impresa e lavoro, non di imprenditori e lavoratori. Perché senza imprese è debole tutto il Paese e anche il sindacato. Dobbiamo affrontare i veri nodi dello sviluppo, combattendo rendite, speculatori e faccendieri».
Stefano Fassina condivide le preoccupazioni dell’impresa. E propone «a partire dall’agenda Bersani» un patto tra produttori «che è più importante e deve venire prima dell’alleanza tra partiti». «Continuando a svalutare il lavoro aggiunge non si risolve il proble-
ma del debito, anzi lo si aggrava. La nostra subalternità alle idee neoliberiste non ci ha allontanato dall’impresa e ci ha fatto prendere degli abbagli. A coloro che volevano cancellare l’articolo 18 perché il mondo del lavoro sarebbe diviso tra ipergarantiti e precari, vorrei chiedere se sono ipergarantiti gli operai dell’Alcoa o della Carbonsulcis». Certo, Fassina ammette che «il nodo principale è l’Europa, nessuno ce la può fare da solo». E nell’Europa il cambiamento «può venire solo dal campo progressista». Ma anche oggi ci sono spazi per fare una politica diversa: con una «patrimoniale da impegnare per ridare fiato ai salari, riducendo la pressione fiscale». A chi sostiene nel futuro l’ipotesi di un Monti bis Fassina risponde in modo netto: «È giunto il momento di scegliere tra posizioni alternative. Se vinceremo noi daremo priorità a equità e sviluppo. Altrimenti vincono antipolitica e populismo. E si mette in crisi il futuro della democrazia».
IL DELEGATO FIOM
Quando il microfono passa tra il pubblico, il dibattito entra ancora più nel merito. Mirco Lama, delegato della Fiom nello stabilimento siderurgico di Piombino, è uno di coloro che ha permesso all’Unità di tornare nelle bacheche della fabbrica. «In un momento difficile come questo purtroppo qui in sala ci sono pochi operai. Perché nella fabbrica ormai si parla di Grillo», è l’allarme. «E questo perché non riusciamo sempre a dare risposte. Una su tutte: la riforma delle pensioni vogliamo cambiarla o no? Perché io posso lavorare anche per 50 anni, ma poi mio figlio che fa? Entrerà mai in fabbrica?». Anche una lavoratrice del pubblico impiego fa una domanda diretta: «Quale sarà il mio futuro, con i tagli imposti dalla spending review e la possibilità di mettere in mobilità e poi licenziare anche i dipendenti pubblici?».
Camusso e Fassina non si tirano indietro. «Non sarei così pessimista ribatte l’esponente del Pd noi siamo ancora il primo partito tra gli operai. E vogliamo correggere il decreto sulle pensioni. C’è il problema degli esodati, che va subito risolto. E poi è necessario rendere più flessibile l’età pensionabile. Anche le imprese fanno fatica a tenere i lavoratori sulle linee fino a 65 anni. Per chi svolge lavori più faticosi la pensione deve arrivare prima».Camusso ricorda lo sciopero del pubblico impiego del 28 settembre, convocato proprio sui tagli della spending review. E alla domanda sul perché la Cgil non abbia ancora proclamato uno sciopero generale, spiega che «a dicembre eravamo soli ad opporci alle misure del governo, è stato uno degli scioperi più difficili». Per questo dobbiamo «ricostruire le condizioni per una battaglia». «La nostra storia aggiunge è fatta anche di sconfitte e arretramenti, ma non dobbiamo rinfacciarcele. Nessuno qui vuole perdere. Questa situazione molto difficile dipende dalla crisi delle condizioni di solidarietà, è il portato di vent’anni di berlusconismo. Il governo, ad esempio, sulle pensioni ha messo lavoratori pubblici e privati uno contro l’altro. Noi dobbiamo invece ripartire dalla rappresentanza generale del lavoro, dentro cui ci sta anche il futuro dell’impresa».
l’Unità 2.9.12
Gli appuntamenti di Unitalia, da Pisa a Bologna
I prossimi temi: saperi in fuga e costi della politica
Unitalia, questo è il titolo che abbiamo scelto per la nostra iniziativa itinerante nel Paese. Affrontare un tema caldo, discuterne con i lettori, rimandarlo in streaming sul nostro sito, unita.it. Un momento di confronto, di dibattito che trova spazio nelle Feste democratiche e sviluppa argomenti che ci stanno a cuore. Il lavoro, anzitutto, (e ne abbiamo parlato venerdì sera a Piombino) ma anche la scuola, il costo della politica.
A coordinare gli incontri il direttore de l’Unità Claudio Sardo e il direttore di Left Giommaria Monti, la rivista che ogni sabato trovate allegata al nostro quotidiano e con cui abbiamo stabilito, già da tempo, un percorso di idee e collaborazione in comune.
Il prossimo appuntamento che vi segnaliamo di Unitalia è fissato per giovedì 6 settembre a Pisa (inizio previsto intorno alle ore 21). Il tema è «Il sapere in fuga, come fermarlo». Intervengono Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e Paolo Valente, fisico e rappresentante nazionale dei ricercatori Infn. Un argomento scottante in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e dove le migliori forze, ovvero il futuro della nostra Italia, sono costrette a guardare, cercare altrove. L’ultimo incontro in programma si terrà sabato prossimo, 8 settembre, sempre alle 21, ma a Bologna.
In quell’occasione discuteremo del «Costo della politica» con Antonio Misiani, deputato e tesoriere del Partito democratico e Mario Staderini, segretario dei Radicali Italiani. Come detto tutti gli incontri sono rilanciati su unita.it e per vederli basta un clic. Vi aspettiamo.
il Fatto 2.9.12
L’assemblea di Sel e il messaggio della “base”: mai al centro
Due giorni fa, all’assemblea nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà, Nichi Vendola ha chiarito alcuni dei punti che aveva creato forte discussione negli ambienti della sinistra: ha detto che l’Udc non sarà suo alleato né prima delle elezioni, né dopo. Un annuncio che dovrebbe finalmente tranquillizzare quella rete di movimenti e associazioni che a Vendola ha sempre guardato come punto di riferimento ma che era rimasta perplessa dalle dichiarazioni di apertura all’Udc del leader di Sel. Per esempio i ragazzi di Tilt che fino a ieri sono stati riuniti in campeggio a Marina di Grosseto proprio per discutere di come ricostruire il centrosinistra. Da lì, nei dibattiti sui diritti, sull’economia, sulla crisi, è uscito un messaggio chiaro: quello da ricostruire è il centrosinistra “tradizionale”, che guarda all’Italia dei Valori piuttosto che al partito di Casini. Di Pietro, invitato al campeggio, ha spiegato che il suo obiettivo è quello di riunire il “fronte dei non allineati” al governo Monti e proporsi a Bersani come la stampella di sinistra del prossimo ipotetico governo.
il Fatto 2.9.12
Di Pietro chi? La platea preferisce Casini
Alla festa democratica: “Meglio turarsi il naso e stare con l’Udc”
di Wanda Marra
Dobbiamo scegliere se allearci con Casini o Di Pietro? Allora è un casino”. Qualcuno ci prova a buttarla in battuta, ma per la verità alla festa del Pd di Reggio Emilia l’aria è plumbea. I nuvoloni violacei, il vento gelido e la pioggia sottile ma insistente non aiutano. A desertificare ancor più del solito le aree dibattiti di Campovolo, ai minimi storici di frequentazione, ci ha pensato Poppea (dopo i Caronte, Minosse, Scipione, adesso anche il maltempo ha il suo nome). E per gli incontri arrivano solo pochi evidentemente motivati. Nel confronto forse più gettonato della festa, Casini non ha esitato a mandare a dire a Bersani in casa sua che lui pensa all’alleanza dei moderati, che su Monti il Pd si deve chiarire le idee, che ci ha messo troppo a chiudere con Di Pietro e che comunque governare con Vendo-la è un problema. Un comizio, e pure applauditissimo. Per capire se il gradimento per il leader Udc è davvero così alto, E allora la domanda che abbiamo posto ai visitatori della Festa ieri è stata proprio questa: va bene allearsi con Casini, o sarebbe meglio riconsiderare l’asse con Di Pietro, magari rincollando quella foto di Vasto che vedeva insieme il segretario del Pd, il leader dell’Idv e Nichi Vendola? Il pubblico di Reggio Emilia si tura il naso, come si diceva una volta, ma perlopiù sceglie Casini. Perché la politica è politica e di Di Pietro proprio non si fida.
PER QUALCUNO, però, è una scelta impossibile. Come per Nello, che ha 79 anni, è pensionato e una volta faceva “l’operatore cinematografico”. Ovvero, quello che mandava i film nei cinema. “È cambiato il mondo, sono cambiate le situazioni, eppure si continua con le questioni sbagliate dice, sorriso disincantato, mentre spinge la sua bici La patrimoniale l'hanno fatta? No. Le pensioni le hanno tagliate? Sì. E allora, sono tutte chiacchiere: io cominciavo a lavorare alle 8, la mattina, e andavo avanti fino alle 2, la notte, e adesso sono qui, a soffrire”. Approccio più pragmatico, per Edo, 44 anni, che lavora nell'industria: “Casini è un moderato, è una persona con cui un'alleanza si può fare. Di Pietro proprio no: cambia idea a seconda di come si sveglia la mattina. E allora, tutto il lavoro che si prova a fare poi si butta via”. Sulla stessa linea, Piero, 51 anni, operaio, che parla a macchinetta, con foga: “Non c'è un'alternativa tra Di Pietro e Casini? Allora, meglio Casini, perché è un moderato. A me gli estremisti proprio non piacciono”. Poi, resuscitando una certa ortodossia si lancia in una tirata contro la stampa: “E sì, lo dico da ex comunista: io sarei molto più rigoroso, non permetterei ai giornalisti di dire tutto quello che dicono. C'è troppa pressione mediatica, troppe notizie: bisognerebbe fare uno sbarramento e alcuni non si dovrebbero proprio far parlare”. È giovane e bionda Pamela (29 anni, di mestiere maestra) e a lei l’alleanza con l’Udc non va proprio giù: “Io Casini assolutamente non lo voglio. Qui oggi stanno parlando di gay e dintorni: come ci mettiamo d'accordo con lui?”. Di Pietro forse andrebbe meglio “ma anche pensare di accordarsi con lui è veramente duro. E poi, si sta autoescludendo” . Ha 15 anni Nicola, segue attentamente il dibattito, e sa cosa vorrebbe: Assolutamente scelgo Di Pietro. Secondo me, è meglio. Ma non sono in grado di motivarlo”. Basta rispostarsi un po’ con l’età (e con l’abitudine a seguire il partito) che il borsino cambia. Gabriele (65 anni, pensionato, ex lavoratore in fabbrica) non ha dubbi: “Casini io lo preferisco: almeno è un politico un po' più serio. Una volta ero comunista, ma dobbiamo vincere”. Secondo Gisella (48 anni, impiegata), è “una tragedia”: “Oh oh oh. Che brutta scelta che ci viene richiesta! Io un tempo ero comunista: Casini, assolutamente no, assolutamente non lo voglio. E neanche Di Pietro. Mi piace Grillo? Neanche un po’”.
DI NUOVO, sale l’età e salgono le certezze. Bruno (66 anni, pensionato, ex autotrasportatore ) non ha dubbi: “Scelgo Casini. Perché con lui un'alleanza si può fare. Con Di Pietro no: ogni giorno ne dice una. Come adesso, contro Napolitano. Io seguo Bersani: perché secondo me lui è una persona molto seria”. Come a ogni festa che si comandi c’è anche chi è capitato per caso. “Sono qui in quanto amico di Mancuso, che sta parlando dal palco dice Stephen, 29 anni educatore ma non sono del Pd e non ci tengo a esserlo. Lavoro in un'associazione che si occupa di omosessuali. Se proprio devo schierarmi con qualcuno, lo faccio con Vendola”. Ernesto (56 anni, metalmeccanico) ritorna nei solchi più consueti della politica: “Io con Di Pietro un'alleanza non la farei mai. Troppo grillino. E poi pensa di essere Dio, pensa che se una cosa la dice lui è la Bibbia. Io lavoro in fabbrica dal '71 ed è ovvio che se devo scegliere qualcuno, intanto scelgo Vendola. Però poi ci vogliono i voti per governare: dobbiamo pensare al bene della nazione e dell’Europa, non solo della nostra festa, del nostro circolo. E Casini politicamente ci dà qualche garanzia in più. Non che non si creda Dio anche lui sul piano personale. Però noi dobbiamo governare, e per governare si deve mediare. Di Pietro non media con nessuno”. Sta a Ian, medico di 59 anni, che si definisce vicino a Sel, spezzare una lancia a favore di Di Pietro: “Meglio lui che al di là del giustizialismo almeno ha portato in politica il concetto che la legge è uguale per tutti”. Alla fine, mentre ormai la pioggia è battente e l’autunno si impossessa della kermesse arriva pure l’endorsement per Matteo Renzi: “Casini o Di Pietro? Nessuno dei due dice Sergio che da pensionato fa “una bella vita” (parole sue) e se devo scegliere, allora siamo nei casini. Non mi convince neanche Bersani. Meglio Renzi”.
il Fatto 2.9.12
L’Unità delle balle
Staino & C., hai detto un Prospero
Massima solidarietà ai lettori superstiti della fu Unità, sempre più spesso vittime di attacchi di labirintite nel vano tentativo di inseguire le acrobatiche evoluzioni del loro fu giornale. Ieri il vignettista di partito Staino fa dire a B. che “la congiura contro Napolitano” è “un favore che mi sta facendo, a gratis, Travaglio” (l’italiano è un optional). A fianco, un nuovo editoriale di Michele Prospero, lo stesso che l’altro giorno esaltava Togliatti come padre nobile del Pd. Stavolta divide i buoni che difendono Napolitano “Pd, Udc, Sel, Il Tempo” dai cattivi “un’armata di sbandati (Di Pietro, Grillo, Lega, pasdaran berlusconiani) sorretta dal fuoco mediatico della triplice alleanza Fatto-Giornale-Libero”. Prospero dimentica, fra i buoni che difendono il Colle dai pm cattivi con il Pd e l’Unità, B. e il capo dei suoi pasdaran, Ferrara. Togliatti non avrebbe saputo far meglio. (m.trav.)
Corriere 2.9.12
Boccia-Orfini, il duello su Monti che imbarazza il segretario
di Monica Guerzoni
ROMA — Uno scontro così aspro, al vertice della maggioranza, non ha precedenti nella storia del Pd. Protagonisti del duello su montismo e antimontismo Francesco Boccia e Matteo Orfini, due giovani e scalpitanti dirigenti divisi su tutto, tranne che sul sostegno a Bersani. E qui sta il punto dolente, perché la battaglia di idee tra il deputato lettiano e il già dalemiano di ferro, responsabile Cultura e informazione in segreteria, prefigura la sfida su quale Pd portare alle elezioni. E forse, come scrive Stefano Menichini nel suo editoriale su Europa, al governo del Paese.
«Arrogante», «spregiudicato», «vittima di un egotismo ingiustificabile» e di una «evidente ossessione culturale per la restaurazione socialdemocratica»... Così Boccia, che coordina le commissioni economiche del Pd alla Camera, dipinge Orfini sul sito di «360», l'associazione di Enrico Letta. Lo accusa di giocare «al piccolo leader» e di lanciare «proclami apodittici» contro il premier: «Fissando l'orizzonte del "mai più Monti", Orfini ha toccato un punto di non ritorno e ha aperto a Renzi una prateria».
Boccia sprona Bersani a spazzar via le «ambiguità» sulla linea economica e invoca un congresso straordinario che faccia piazza pulita delle tesi laburiste dei «Giovani turchi» del Pd: il movimento che sabato a Reggio Emilia terrà l'assemblea nazionale e del quale Orfini, classe 1974, è leader con Fassina, Cuperlo e Orlando. «Vogliono costruire una corrente maggioritaria e gauchista — attacca Boccia —. Perché non schierano un loro candidato alle primarie?». Ma Orfini non ci casca: «Agli insulti non rispondo. Noi vogliamo costruire il Pd, altro che corrente. Boccia ci attribuisce cose mai dette ma noi sosteniamo lo schema su cui lavora il segretario, il nostro candidato. La verità è che c'è imbarazzo tra chi condivide le idee di Renzi ma resta con Bersani per questioni di potere». A scatenare la furia riformista di Boccia — l'economista con master alla Bocconi che ha sfidato Vendola in Puglia e per due volte ha perso — sono state le dichiarazioni con le quali Orfini avrebbe «negato» il progetto stesso del Pd. Il problema è la ricetta per battere la crisi, ma a quanto si dice nelle segrete stanze democratiche il vero tema sono le tesi sul ricambio della classe dirigente che Orfini, archeologo mancato, ha declinato sul Giornale. Dove ha detto che chi è stato due volte ministro in esecutivi di centrosinistra caratterizzati da «una profonda subalternità al liberismo imperante», non può tornare al governo. Drastica misura di rinnovamento che rottamerebbe anche il vicesegretario Letta. «Non si può sparare sui giornali che Letta e Veltroni devono andare con Renzi — sputa il rospo Boccia —. Se Bersani è un capo, fissi paletti e regole. Se invece cede alla svolta socialdemocratica di chi vuole schierarci contro l'Europa e contro Monti, ognuno farà le sue scelte». Si dice che il segretario sia seccato per lo «scontro violentissimo e inaudito» (per dirla con Pippo Civati) che rischia di favorire Renzi. E su Twitter Roberto della Seta mette il dito nella piaga: «È un guaio se il Pd si lascia ridurre all'alternativa tra Orfini che lo vuole Ds2 e Boccia che lo vuole full Monty». Siamo sempre lì, alla difficoltà di fondere in un'anima sola la natura ex ds di Matteo e quella ex Margherita di Francesco. Una cosa che li unisce però c'è. Da poche settimane hanno entrambi avuto una figlia e devono vedersela con biberon e pannolini.
Repubblica 2.9.12
Pdl contro Grasso
E Casini insiste: io e Vendola mai
di Silvio Buzzanca
qui
Repubblica 2.9.12
Casini: "Impossibili accordi con chi si oppone a Monti"
Un chiaro messaggio al Pd e a Vendola
Renzi: "La questione non è spaccare il Pd, ma riavvicinare i cittadini alla politica"
qui
Repubblica 2.9.12
Tra Pd e Udc la spina Vendola E nella sfida Bersani-Renzi spunta l’area dei “non allineati”
I “rinnovatori” tentano di schierare Barca
di Giovanna Casadio
REGGIO EMILIA — Sulle alleanze nel centrosinistra lo scontro tra Casini e Vendola continua. Il leader dell’Udc avverte: «Sono impossibili accordi con chi si oppone a Monti». Vendola chiede appunto di voltare pagina nel 2013 con le politiche di austerità, e scarica i centristi: «Non ho un pregiudizio su Casini, ma un giudizio». Nel Pd la questione ha una ricaduta sulle primarie e scuote il partito. Bersani media: «Sono primarie per scegliere il futuro capo del governo, nel partito non succede nulla». Si schiera a sua volta per il rinnovamento, «a patto che si rispetti chi ci ha portato fin qui».
Tuttavia nella sfida tra il segretario e il sindaco «rottamatore » Renzi, cresce tra i Democratici il fronte dei non allineati. I lettiani sono inquieti e divisi; i veltroniani scettici. E molti sono quelli che pensano a un quarto uomo. Uno per la verità già c’è e si candida ma solo per un paio d’ore proprio ieri in piena Festa del Pd a Reggio Emilia. Ma il movimento per trovare un candidato alternativo c’è davvero. Perché «grande è il garbuglio» — secondo il veltroniano Giorgio Tonini — in cui i Democratici si stanno ficcando con le primarie previste (ma non ancora formalmente fissate) per fine novembre.
Renzi scenderà in camper (tra 11 giorni) portandosi dietro giovani amministratori e affidando al lettiano ex sindaco di Piacenza Roberto Reggi il ruolo di guida della macchina elettorale. Ieri fa sapere che loro, i renziani, sono «rottamatori e non sfasciacarrozze». Replica così a Casini — per il quale Renzi spaccherebbe il Pd — invitando il leader centrista a occuparsi dei fatti suoi e non di quelli del Pd «di cui non fa parte», e ricordando che «il problema non è spaccare il partito ma avvicinare la gente alla politica».
Nell’area di Enrico Letta le incertezze e i dubbi aumentano, pur dichiarando per ora fedeltà al segretario. Ma i lettiani invieranno una richiesta a Bersani affinché chiarisca con quale linea vuole presentarsi, se l’agenda Monti è ancora nel programma del Pd o se invece prevalgono i «gauchisti» come Fassina e Orfini. Se così fosse, «se è un ritorno alla socialdemocrazia — spiega Francesco Boccia — il vincolo di lealtà che li ha legati a Bersani si spezzerebbe».
Tra Bersani e Renzi alla ricerca di un altro candidato sono i «rinnovatori» di Sandro Gozi e Pippo Civati. Un nome ce l’avrebbero. Hanno provato a convincere il loro uomo que-st’estate, e ancora non demordono, nonostante il no. «La persona giusta sarebbe Fabrizio Barca, l’attuale ministro della Coesione», rilancia Gozi. E’ progressista, un tecnico, ed è uno che offre garanzie di continuità — su cui quindi potrebbero confluire anche i veltroniani alla ricerca di un approdo. «Noi siamo corteggiatissimi da Renzi», ammette Tonini. Sul lavoro ad esempio, Renzi fa sua la posizione di Pietro Ichino che si è dichiarato disponibile a collaborare con il «rottamatore » e però non esclude la possibilità di correre in proprio se gli sarà chiesto. Alla fine di settembre è infatti in programma l’assemblea organizzata del gruppo dell’Agenda Monti — ovvero i quindici, tra cui Gentiloni, Morando, Ceccanti e appunto Ichino e Tonini — che puntano a un centrosinistra in continuità con l’esperienza del Professore. «Vedremo a chi siamo più vicini sulla base dei contenuti, più probabile a Renzi se assume l’agenda Monti — commenta Tonini — oppure se correre con un nostro candidato».
Polemica con Casini è Paola Concia che denuncia il linguaggio omofobo del leader centrista su Vendola. «La malizia la lascio ai maliziosi», replica Casini. E a proposito di linguaggio, Bersani definisce «inaccettabile » quello del M5stelle: «Lo combatterò sulla rete e fuori».
Repubblica 2.9.12
“Non regaliamo il centro a Casini Primarie? Scelgo dopo la legge elettorale”
Veltroni: il nostro campo è il centrosinistra, alt a estremismi
di Goffredo De Marchis
ROMA — «Così com’è, la politica è indifendibile». Per questo, dice Walter Veltroni, avrebbe bisogno di «non guardarsi indietro», di «non conservare nulla di una società orribilmente ingiusta». Naturalmente, il compito principale spetta al Partito democratico. «Il centrosinistra è il territorio grande che il Pd deve occupare. Invece il partito mi sembra sottoposto a spinte estreme che da un lato vogliono trasformarlo in un soggetto centrista e dall’altro vorrebbero riportarlo a posizioni che lo stesso Pci, con Berlinguer, aveva ampiamente superato». Per Veltroni, le incertezze sull’identità offuscano l’attenzione per la sfida alle primarie tra Renzi e Bersani. «Vediamo che legge elettorale ci sarà. Ora è una discussione prematura».
Qual è il suo giudizio sul governo Monti?
«Il governo aveva un obiettivo quando è nato: evitare la catastrofe finanziaria. Questo obiettivo lo ha raggiunto. Ma il suo mandato non era riformare l’Italia, compito che tocca a una maggioranza politica che non può andare dal Pd al Pdl. Durante questa transizione, ai partiti si chiedeva di ridurre il numero dei parlamentari e di riformare la legge elettorale».
Missione incompiuta.
«Quello che è certo è che il governo Monti ha fatto, bene o meno bene, il suo lavoro, la politica no».
Perché?
«Perchè l’abitudine a conservare è il demone di questo Paese. Demone pericolosissimo perché oggi nessuna delle vecchie ricette risponde all’esigenza di far coincidere il rigore dei conti con politiche di innovazione e mobilità sociale. Eppure solo così possiamo affrontare un intollerabile ingiustizia sociale. Il dopo Monti deve essere capace di proporre all’Italia non di stare ferma ma di mettersi in movimento, com’è riuscita a fare dopo la seconda guerra mondiale e negli anni ‘60. C’è bisogno di cambiamenti straordinari. Non sono tempi per la tattica politica. E non sono tempi per i conservatorismi. Di destra e di sinistra».
Il Pd è conservatore?
«Anche nel centrosinistra vedo discussioni caricaturali. Non è consentito dire che dobbiamo tornare agli anni 90 o agli anni ‘70. Non c’è nulla a cui tornare, semmai un luogo dove andare. Conservare non è di sinistra, è di sinistra saper portare dentro una società che muta con la rapidità che noi vediamo opportunità e giustizia sociale».
Se il Pd riscopre Togliatti e non invita la Fornero alla festa democratica significa che non è pronto?
«Al contrario, sento che questo è il nostro momento. Mai come adesso nella storia italiana c’è bisogno di un grande riformismo di centrosinistra capace di occupare uno spazio grande dentro al quale coesistano storie che tendono ora a esasperare le loro differenze. Il Pd non può non sentire come propria la cultura del rigore dei conti inaugurata con Amato, Ciampi, Prodi e oggi di Monti perché non si fa giustizia sociale con il debito pubblico. D’altra parte, non si può non capire che le politiche economiche devono tendere a includere quelli che stanno andando ai margini della società, in particolare i giovani precari. Ci vuole poi una democrazia più lieve e veloce in cui i partiti abbandonano posizioni occupate indebitamente e bisogna allargare il campo dei diritti individuali, da quelli che riguardano i gay a quelli che disciplinano il fine vita. Come si vede, e rispondo anche alla domanda su Togliatti e gli inviti alla festa democratica, alcune di queste proposte, nell’iconografia tradizionale del ‘900, sarebbero di
sinistra radicale altre più moderate. Ma oggi il melting pot del moderno centrosinistra è fatto di questa nuova sintesi».
Il Pd sa farla?
«Il Pd non può delegare a Casini o a chiunque altro posizioni e culture realiste e il positivo rapporto con Mario Monti. E non deve avere paura di un rischio elettorale all’estrema sinistra perché semmai quel rischio è nelle posizioni dell’antipolitica che non si contrasta con risposte conservatrici. Qualsiasi “ridotta” venga proposta da Renzi da una parte e dai giovani turchi dall’altra, lo dico con amicizia, rischia di prescindere dalla grande storia della sinistra democratica e o dalla natura stessa della nascita del Pd. Rischiano tutt’e due di infilarci nel gioco del ceto politico. Casini pensa: vadano pure a sinistra che si libera spazio per me. Grillo e Di Pietro si fregano le mani: stiano con Casini che si apre una prateria per noi. O il Pd, tanto più se stringe una positiva alleanza con Vendola, mette al centro il suo profilo modernizzatore allargando il consenso sia al centro sia alle aree dell’antipolitica oppure non sfrutterà tutte le sue possibilità politiche».
Alle primarie vota Renzi o Bersani?
«Mi permetta un passo indietro. Sono favorevole alle primarie. Ma vorrei capire, prima che si parta, per eleggere chi e cosa. Se si va a votare con il Porcellum comprendo il senso della competizione. Ma se cambia la legge elettorale e si introduce il proporzionale facciamo una sfida per cosa, per decidere il capolista del Partito democratico? Preferisco concentrarmi sulla riforma perché non possiamo andare a votare con l’attuale sistema ».
Ma il duello è già in corso. Insisto: starà con Renzi o con Bersani?
«La mia risposta è che mi interessa poco ora questa discussione. Mi interessa invece capire l’identità del Pd».
È possibile una spaccatura del Pd?
«Dall’esterno, tutti sperano che questo accada. Io invece penso che l’unica strada per il Paese sia il Pd. Un partito in cui c’è bisogno di Renzi e dei giovani turchi ma che prima deve chiarirsi su un punto: è la forza riformista che vuole coprire un’area larga del Paese o lascia a Casini e a Grillo pezzi di rappresentanza? Quando parlo di Pd Pride, dell’orgoglio per la più grande idea politica di questi anni, parlo di questo ».
Corriere 2.9.12
Bersani e il programma, consultazione (in Rete)
Domande agli iscritti. Bindi: non so se ci saranno primarie
di Tommaso Labate
ROMA — «Nella carta d'intenti del Pd c'è il riconoscimento delle unioni gay. Sei favorevole? Contrario? Pensi che si debba fare di più? E come?». E ancora, «il Pd crede che il lavoro sia il tema centrale della prossima campagna elettorale. Sei d'accordo? Come pensi che si debba intervenire nelle nuove norme sul welfare?».
Per adesso sono solo tracce. Ma, nei prossimi giorni, saranno parte di un questionario aperto che verrà inviato via email agli iscritti del Pd. E l'operazione, escogitata da Pier Luigi Bersani e dalla sua cerchia ristretta, si trasformerà in una consultazione sul programma che in alcuni punti, come quello sul welfare, potrebbe anche diventare un referendum sul governo. Il tutto a completare quella carta d'intenti «dei democratici e dei progressisti» su cui ogni segretario di partito che aderirà — da Nichi Vendola a Riccardo Nencini — dovrà apporre la propria firma entro metà ottobre. Prima, insomma, che cominci l'ultimo conto alla rovescia verso le primarie. La consultazione online ce l'aveva in testa da settimane, Bersani. Da prima che il botta e risposta a distanza con Beppe Grillo lo spingesse fino a difendersi come ha fatto l'altro giorno a Bologna, quando ha detto che «chi pensa che siamo contro la Rete è un pirla». Adesso si passa dalle parole ai fatti. E per la prima volta, quantomeno «nel metodo», il Pd sperimenterà un sistema di consultazione tra gli iscritti analogo a quello del Movimento 5 stelle. Certo, ci sono anche gli effetti collaterali. Primo, perché le risposte aperte che la base restituirà al Pd insieme al questionario potrebbero modificare l'approccio dei vertici del partito rispetto alla maggioranza di cui fanno parte. Secondo, perché questo potrebbe avvenire nel momento in cui anche da dentro il governo, come ha fatto ieri il ministro Mario Catania in un'intervista ad Avvenire, c'è chi evoca un «Monti bis» (o, in subordine, un governo Passera) come antidoto «alla catastrofe» che l'Italia rischierebbe col ritorno «alle logiche precedenti».
Sono proprio le «logiche precedenti», in fondo, ad aver provocato nelle ultime quarantott'ore l'ennesimo cortocircuito attorno a un Pd che guarda all'accordo post elettorale con Pier Ferdinando Casini. «Accordi con chi si oppone a Monti e definisce il suo governo "di macelleria sociale" sono impossibili per l'Udc. Con buona pace di Pdl e Pd», ha scritto su Twitter l'ex presidente della Camera. «Non bisogna lasciare l'Idv per aggregare Casini», ha replicato Vendola, che però ha precisato di non avere «alcun pregiudizio nei confronti dell'Udc».
Ma se il leader di Sel prova a riproporre lo schema con Pd e Idv, che Bersani ha definitivamente archiviato, la foto scattata un anno fa a Vasto ritorna in agenda grazie a Matteo Renzi. Che fa una tappa del suo tour nella località abruzzese proprio per immortalare i suoi sostenitori in un'immagine poi «postata» su Twitter. Con tanto di messaggio. «Le alleanze non si fanno tra segretari, ma coi cittadini: ecco perché questa è la foto di Vasto che preferisco». E ancora: «Se vinciamo le primarie cambieremo l'Italia. E se le perderemo daremo una mano a chi ha vinto».
Che la sfida tra Bersani e Renzi sia già entrata nel vivo lo dimostrano anche le parole che Rosy Bindi dice in serata da Firenze: «Non so ancora se le primarie si faranno». «Noi non siamo sfasciacarrozze ma rottamatori. Ovvero delle persone che dicono "se hai già fatto 15 anni in Parlamento, forse è ora che lasci spazio ad altri"», ha detto il sindaco di Firenze ieri. Un approccio a cui il segretario del Pd continua a opporsi: «Con le primarie scegliamo il futuro capo del governo. Chi vince vince, chi perde perde. Anche per un voto». Un modo come un altro per ribadire che, dopo le primarie, «dentro il Pd non succede niente». Per cambiare le regole della casa, come va spiegando da giorni il leader, «c'è il congresso che si celebrerà nel 2013. Se Renzi vuole rottamare che si candidi lì, come ho fatto io. Prenda i voti e poi, se ce la farà, potrà ribaltare tutto quello che vuole».
La Stampa 2.9.12
Renzi “fa ridere”, e tutti gli altri? Ecco perché solo Monti è credibile
Sartori: nessuno fuori crede ai nostri politici, non parlano neanche inglese...
di Jacopo Iacoboni
Renzi Accusato da Casini, non gli ha risposto direttamente ma ha scritto su twittrer: «Le alleanze non si fanno tra segretari, ma coi cittadini: ecco perché questa è la foto di Vasto che preferisco». Qui su la foto, per la verità un po’ sfocata, caricata con Instagram
Se in Italia i comici fanno i politici e i politici fanno i comici, com’è ormai così ovvio da esser diventato uno slogan, forse non è del tutto generoso che Pier Ferdinando Casini sulla Stampa - rivolga l’osservazione al solo sindaco di Firenze, «fa ridere che al prossimo vertice con la Merkel l’Italia non mandi Monti ma Renzi».
Perché in politica quella di «far ridere» è somma accusa - una delegittimazione - ma anche un’abitudine nella quale, visto quello che passava il convento in questi anni, si sono placidamente accomodati tanti leader o aspiranti; e forse non è il caso di identificarla in un sol uomo. Se si segue la traccia di Giuseppe Civati, che pure con Matteo Renzi è in disaccordo politico, ci si trova a ricordare che «grazie a Casini per vent’anni ai vertici ci abbiamo mandato Berlusconi». Il quale, beh, insomma, un po’ davvero faceva ridere; fors’anche volontariamente, tra pacche sulle spalle e diplomazia del sorriso. Si nascondeva dietro le colonne per fare cucù alla Merkel, faceva le corna nelle foto di rito (a Caceres), parlava a voce un po’ alta dinanzi alla regina Elisabetta («mister Obamaaa... ») e in definitiva, amava farsi notare e far ridere (con sé o di sé, quello dipende dai punti di vista). Memorabile il ricordo consegnato da Cherie Blair a Fabio Fazio: «Tony mi disse che non voleva assolutamente far ridere, in una foto con Berlusconi con la bandana». E dunque, toccò a lei esser immortalata nella peraltro gloriosa immagine.
Il Cavaliere sull’arte del sorriso, ma anche onestamente del ridicolo, ha costruito una fortuna, citava sempre Erasmo da Rotterdam, L’Elogio della follia, «mi avete applaudito con un riso amabile e pieno di benevolenza, tanto che tutti voi presenti mi sembrate ebbri del nettare degli dei omerici, mentre prima ve ne stavate seduti cupi e preoccupati». Oggi però gli italiani hanno molta meno voglia di ridere, e far ridere è tornata a essere una tara da (brutta) commedia, il riso della Poetica di Aristotele. In questo, un difetto di autorevolezza non può essere imputato solo al sindaco della «rottamazione». Secondo Renato Mannheimer, che questi venticelli della percezione collettiva li registra ogni settimana, «ogni indicatore che abbiamo ci dice che tutta la classe dirigente italiana ha un serio problema di credibilità, e in giro non ci sono grandi statisti. Anche perché, al di là dei limiti personali, non sembra che i programmi siano molto fitting, adeguati ai problemi. Monti è l’unico che non fa ridere perché l’agenda Monti è l’unico chiaro programma in campo. Tra l’altro Renzi non è quello messo peggio, il suo problema non è che fa ridere, è che appare molto giovane, in un Paese che non lo è». Un antico amico di Casini, Marco Follini, ritiene che «quello che è credibile - ciò che fa o non fa ridere - è il Paese, non i singoli leader; e non dovrebbe stabilirlo la Merkel, ma l’elettorato». Oltretutto, pure Follini ricorda il Berlusconi dei vertici internazionali, quello che andava da Bush in Texas con un inglese che «faceva ridere» (il video è ancora su youtube, indimenticata lezione di leadership) ; e allora, a molti andava bene. Far ridere, poi, non ha a che fare con l’età, Ivan Scalfarotto osserva che a Londra non si preoccupano di mandare dalla Merkel Cameron (classe ’66) o Ed Miliband (classe ’69): «Il fatto è che - a parte Monti, che gode di una stima indiscussa nel mondo - in Europa riderebbero se ci mandassimo un sacco di altra gente a parlare con la Merkel». Appunto: un sacco di autonominati leader.
Insomma, siamo lentamente scivolati dal Cavaliere che «sapeva far ridere» a politici che fanno ridere come Cacini, il leggendario attore dell’Ambra Jovinelli a cui il pubblico tirava i gatti morti, «a Cacì, facce ride». Forse, come sussurra Giovanni Sartori, «Casini ha uno stand up un po’ più robusto di Renzi; Bersani invece mi pare piuttosto ondeggiante». Ma è anche vero, aggiunge, che «in definitiva i nostri leader sono un po’ tutti poco credibili, chi più chi meno, soprattutto all’estero. Di pochi conosco un inglese fluente. Alla fine persino Monti, un non grande economista, ci fa la sua figura».
l’Unità 2.9.12
Il dialogo è scomodo. Ma senza dialogo siamo più poveri
di Massimo Adinolfi
MA IL CRISTIANESIMO È VERO O NO, IN PUNTA DI FATTO? LA DOMANDA
NON SEMBRA PROPRIO CHE POSSA ESSERE AGGIRATA, se è vero quanto diceva San Paolo ai suoi fratelli in Cristo: «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede». Tutto ruota intorno alla resurrezione di Cristo. Hai voglia quindi a imbastire dialoghi fra credenti e non credenti, istituire cattedre, scrutare i segni dei tempi, o sforzarsi di capire le ragioni degli altri: alla fine bisogna tornare al punto, e chiedersi se Cristo sia davvero risorto oppure no.
Eppure non va così: non solo per il cardinale Martini, che al dialogo con i non credenti ha dedicato una parte fondamentale del suo impegno pastorale, intellettuale e spirituale, ma, oso dire, addirittura sulle strade del Vangelo. Lì, infatti, ad un certo punto, Cristo risorge. Così almeno narrano gli
evangelisti. Secondo il racconto di Luca, Gesù apparve dopo la morte a due discepoli, in viaggio verso Emmaus, e camminò a lungo con loro. Senza essere riconosciuto ne ascoltò i discorsi, li interrogò, apprese così da loro stessi la delusione per la morte del Maestro e la confusione in cui erano stati gettati dalla scoperta del sepolcro vuoto. Allora Gesù interpretò per loro le Scritture, mostrando come esse si riferissero ovunque a lui come al Messia.
Ma non bastò. Non accadde nessuna rivelazione. Giunti al villaggio, Gesù fece come se dovesse proseguire il cammino, e solo dietro l’insistenza dei compagni di viaggio accettò di fermarsi a cena. E fu, allora, l’ermeneutica del gesto eucaristico, lo spezzare il pane ed il versare il vino, ad aprire finalmente gli occhi dei discepoli.
Orbene, io non sono un teologo né un biblista, ma voglio avventurarmi ugualmente nell’interpretazione di questo testo, e provare a pensare che in essi si può trovare una buona ragione per dialogare e discutere anche quando non sia riconosciuta e stabilita preliminarmente e per tutti la stessa verità prima e ultima. Come non pensarlo, da parte almeno dei credenti, se persino Cristo risorto, nel Vangelo, non si impone con la forza dell’evidenza, ma prende la via del dialogo e dell’ascolto? Come non pensarlo, se alla fine della giornata, Gesù accetta il rischio di aver discusso inutilmente, e fa per rimettersi in viaggio, con buona coscienza e senza rancore (immagino), e soprattutto senza aver ancora dimostrato se stesso e la verità? E come non pensarlo, da parte dei non credenti, che non possono certo dire, in prima persona, di essere la via, la verità e la vita, e non hanno dunque altro che le parole per mettere in comunione il vero?
Quando Carlo Maria Martini istituì in Milano la cattedra dei non credenti, sia da parte cattolica che da parte laica si ebbe quasi un moto di fastidio per questa tenace propensione al confronto, per una ricerca tesa, rigorosa e insieme
aperta, di possibili motivi comuni che, a giudizio di quei severissimi censori, finiva col mettere da parte la pietra di inciampo decisiva, cioè la resurrezione di Cristo e insomma la verità della religione cristiana. Come se riflettere sul significato storico, culturale o antropologico della religione e delle religioni, oppure discutere di morale cristiana, morale laica, morale naturale, o ancora interpretare simboli e significati dell’esperienza umana del mondo e interrogare la costituzione filosofico-politica della modernità rappresentasse solo una perdita di tempo, fosse colpevolmente elusivo o costituisse comunque un modo di togliere dal tavolo la questione fondamentale. Che doveva essere e rimanere, nuda e cruda, la pretesa di verità della Chiesa. Altro che dialogo: da parte laica si manifestava chiaramente, in questo modo, l’ambizione di inchiodare i cristiani, e ancor più i cattolici, all’irrazionalità e finanche all’assurdità dei loro dogmi; da parte cattolica si protestava invece contro gli indebolimenti, i relativismi, i revisionismi, e insomma tutte le aperture del cardinale. Vale a dire: tutto quello che si può dire lungo la via, prima che si faccia sera e si accetti o meno l’invito a restare a cena.
Eppure la Gaudium et spes formulava espressamente agli atei l’invito a «voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto». Il cardinale Martini fece lo stesso, e con lo stesso animo. Ancora: la Gaudium et spes giudicava l’ateismo uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo, ma offriva anche il riconoscimento che la civiltà moderna non è tale per essenza. E dunque: ora che stiamo assistendo all’esaurirsi della vena postmoderna, non sarebbe cosa assai importante riprendere il filo di una riflessione sul significato della modernità, su cosa mai essa sia o sia stata per essenza? E non sarebbe utile che credenti e non credenti continuassero a farlo insieme, discutendo e dibattendo fino a sera, nello stesso spirito di Carlo Maria Martini?
l’Unità 2.9.12
Welby e Martini: domande sulla vita e sulla morte
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Con la morte di Martini si riapre il tema dell’accanimento terapeutico. Come si comporterà la Chiesa con il rifiuto del cardinale Martini, che a me sembra identico a quello di Piergiorgio Welby? Il caso Welby è stata una questione di dignità che la Chiesa (ma non Martini) condannò negando la celebrazione del funerale permesso ora all’ex presule della Chiesa Ambrosiana. Che posizione prenderanno se si dovesse aprire una causa per una sua, a mio avviso meritata, canonizzazione?
di Valentino Castriota
Tanti anni fa, laureato da poco, incontrai la morte di tante persone diverse. A casa dove ebbi la fortuna di accompagnare l’addio, dolce e tranquillo, di due nonni anziani, ed in ospedale, nelle grandi corsie del San Giacomo (l’ospedale che oggi non c’è più del centro di Roma), dove morivano i pazienti per cui non c’era più nulla da fare. Incontrando la verità il momento n cui si capisce che la morte è vicina è sempre un momento di verità di persone diverse (disperate o serene, stanche e malinconiche o piene di paura) e quello che più mi colpì allora fu il fatto che pochi di loro si ponevano il problema del dopo. Distratto e lontano da loro, il sacerdote che proponeva loro l’estrema unzione e la preghiera sembrava poco convinto anche lui di quello che diceva perché la fede, io da non credente questo mi dicevo allora, non può essere se non eccezionalmente una conquista dell’ultimo minuto e perché il modo in cui si vivono quelle ore, quei giorni o quei minuti altro non è che il risultato naturale di quello in cui si è vissuto prima. Sereni e malinconici come due persone perbene, mi pare, ci sono morti accanto Welby e il cardinale Martini. Forti di due fedi diverse che il buon Dio, se esiste, apprezzerà con lo stesso movimento d’amore e di tenerezza.
il Fatto 2.9.12
La scelta di Martini
di Silvia Truzzi
La decisione del Cardinal Martini, colpito dal morbo di Parkinson, di rifiutare nutrizione e idratazione artificiale ha suscitato – oltre all’autentico cordoglio per la scomparsa di un religioso coltissimo, aperto al mondo e alla modernità – un coro pressoché unanime di apprezzamenti. Il Cardinale aveva scritto in “Credere e conoscere” (Einaudi): “Le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona”. In rete molti hanno messo in relazione questi due aspetti e ricordato, ovviamente, il caso di Eluana Englaro, oggetto di una vergognosa battaglia ideologica sul suo corpo: “Gli si concede quello che non è accettabile per tutti gli altri?”, “grande rispetto per il Cardinal Martini che rifiuta accanimento terapeutico. E il pensiero va a Eluana, per la quale fu obbligatorio”. A Milano in questi giorni l’argomento è attuale anche perché il sindaco Pisapia, dopo aver incassato a fine luglio il sì del Consiglio comunale sulla creazione di un registro per le coppie di fatto, ha deciso di mantenere un’altra delle promesse elettorali, il testamento biologico. L’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino ha preparato una Carta dei diritti del malato, che all’articolo 13 recita: “Ogni individuo ha il diritto di esprimere le proprie volontà rispetto al rifiuto dell’accanimento terapeutico e del prolungamento forzato della vita in condizioni di coma irreversibile o di disagio estremo”. Siamo uno Stato laico, giusto? L’eutanasia non c’entra, si tratta di dare la possibilità a ciascuno di disporre di sé per un eventuale momento in cui non si è più in grado di farlo. Nessuno obbliga nessuno: semplicemente ciascuno dispone per sé secondo coscienza, se qualcuno desidera le cure può esprimere la propria volontà in tal senso. Beppino Englaro, papà di Eluana, intervistato da Repubblica ha ricordato che la sentenza della Cassazione sul caso della figlia ha stabilito alcuni principi sul rifiuto delle cure a oltranza. “La convenzione di Oviedo, che è sopranazionale, ha articoli chiarissimi. Offre la protezione ai malati e sostiene che, se ci sono persone incapaci a dare il consenso all’operazione, questa non può essere effettuata senza aver ascoltato un rappresentante di chi non può parlare”. La proposta di Pisapia, come già quella sulle coppie di fatto, non va giù all’ala cattolica della giunta e del consiglio comunale. Andrea Fanzago (consigliere Pd): “Non vale la pena fare la gara a chi arriva per primo, ma serve piuttosto un confronto aperto anche all’interno del Pd. Colmare una carenza legislativa del Parlamento con una delibera del Consiglio comunale mi sembra una forzatura”. A parte il fatto che iniziative simili a quella milanese sul registro del testamento biologico esistono in molte città, non si capisce bene perché di fronte a un legislatore nazionale inerte e insensibile, i sindaci dovrebbero legarsi le mani: sono stati scelti dai cittadini in base a un programma, si suppone per dare soluzioni. Quanto al Pd che si perde in un bicchiere d’acqua sui matrimoni gay, vista l’urgenza del momento generale, potrebbe preferire scelte politiche coerenti con un partito progressista, invece che contare sul bilancino i voti dei cattolici, aprendo l’ennesimo tavolo di confronto interno. Oltre gli angusti confini dell’Italietta, il mondo fuori ha fatto scelte chiare sui diritti.
il Fatto 2.9.12
Marino: “La sua modernità era un atto d’amore per la Chiesa”
A Milano il commosso addio al Cardinal Martini, il “padre” che ha rifiutato l’accanimento terapeutico
di Silvia D’Onghia
Preferiva non sottoporsi a sofferenze inutili, ma non si è mai sottratto alle cure utili. La sua modernità era un atto d’amore nei confronti della Chiesa”. Ignazio Marino ha appena fatto visita, per l’ultima volta, all’amico Carlo Maria Martini, “l’uomo sulla cui porta non c’era scritto ‘cardinale’, ma ‘padre’”. Assieme all’arcivescovo emerito di Milano, il senatore-chirurgo del Pd ha pubblicato un libro, “Credere e conoscere” (Einaudi, 2012), una raccolta di conversazioni e ragionamenti sui temi etici. Quelli che non mettono d’accordo nessuno, quelli su cui spesso la Chiesa finisce per intervenire. E non è un caso che la volontà del cardinal Martini di non essere sottoposto ad accanimento terapeutico sia diventata un “caso”.
Senatore Marino, perchè tanto scalpore?
Mi sembrano polemiche artificiose. Il cardinale, come da tempo diceva, si preparava a quello che definiva il ritorno alla casa del padre. E lo faceva da religioso, con la preghiera, ma anche riflettendo e dialogando sui temi della vita e della morte. Non si è mai sottratto alle cure necessarie alla sua malattia (il morbo di Parkinson, ndr), ma voleva accettare la fine della sua vita senza dover ricorrere a tecnologie che riteneva sproporzionate. Questa è la visione – e lo dico con enorme rispetto, non essendo nessuno per giudicare una sua scelta – di un uomo profondamente credente che vuole vivere con pienezza la sua esistenza terrena, ma immagina che questo sia un passaggio per il ricongiungimento con il padre.
Nella premessa al libro, lei dice “anch’io vorrei invecchiare così”. Perchè?
Era un complimento a lui e una critica a me stesso. Io ho dato spesso priorità al lavoro, da chirurgo e da parlamentare, e a volte non ho prestato molta attenzione agli altri. Invece lui non si è mai rifiutato di incontrare qualcuno che gli volesse parlare, l’ha ascoltato con interesse, curiosità intellettuale, con uno sguardo che solo in apparenza era severo, ieratico, ma che in realtà era dolce e trasmetteva positività. Anche quando gli costava fatica fisica, si alzava in piedi ad accogliere le persone. In segno di rispetto.
Un ricordo personale?
Mi fece un regalo immenso. Nel 2007, mentre ci vedevamo a Gerusalemme per lavorare al nostro dialogo, un giorno mi disse: ‘Domattina ti accompagno al Santo Sepolcro’. Può immaginare cosa sia stata la visita privata col cardinal Martini come guida... L’indomani ci trovammo alle 6,30, quando ancora non c’erano turisti e i negozi erano chiusi. Arrivò con un paio di occhiali da sole collegati a due auricolari: era un sistema elettronico con cui riusciva a sentire Mozart e gli altri 200 brani registrati. E parliamo di un uomo di 80 anni. Mi raccontò che, nell’area del Santo Sepolcro, i cristiani ortodossi, armeni, cattolici e copti si sono sempre divisi su tutto, persino sui turni delle pulizie. E che, se un tempo erano arrivati ad ammazzarsi, ora si prendevano a colpi di candelabro. Questo racconto mi ha fatto sorridere quando, a dicembre 2011, i telegiornali hanno fatto vedere che si sono presi a colpi di scope”.
Ora che Martini è morto,
tutti fanno a gara per dimostrare la loro amicizia con lui. In realtà, all’interno della stessa Chiesa, era considerato un elemento di disturbo, proprio per le sue aperture sui temi etici.
Suscitava molti interrogativi per la sua modernità e per la sua totale assenza di timore nell’affrontare ogni tema. Spesso i media lo hanno fatto apparire in contrasto con altri elementi della Chiesa. Questo mi stupiva, soprattutto per il rispetto profondissimo nei confronti della stessa istituzione, che lui metteva in ogni parola e in ogni gesto. Sulla copertina del libro ha voluto scrivere: “La storia insegna come la chiusura aprioristica della Chiesa, e delle religioni in genere, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al processo della scienza e della tecnica non è mai stata di grande utilità”. Lo faceva per amore della Chiesa: voleva che fosse più solida, moderna e vicina all’umanità.
Quale messaggio lascia?
Il nostro Paese utilizza i temi etici per farne terreno di conflitto acre. Spero che la sua morte serva a lasciare un messaggio molto semplice: si può avere una fede profondissima, ma si può essere religiosamente laici. Senza immaginare di conoscere la verità e, anzi, vivendo con l’idea che questa vada cercata nel cammino degli altri. Come ha fatto lui.
Repubblica 2.9.12
Polemica sul rifiuto dell’accanimento terapeutico. Padre Lombardi: la sua scelta in linea con la Chiesa. Il cardinale Scola: “È il momento del silenzio”
La Santa Sede: “Nessuna analogia con Welby ed Eluana”
di Alessia Gallione
MILANO — È un’esortazione «al silenzio», quella che ha voluto lanciare l’arcivescovo di Milano Angelo Scola. Lo ha pronunciato accogliendo in Duomo Carlo Maria Martini, quel monito: «Sia il nostro atteggiamento prevalente il raccoglimento di fronte al mistero della morte», ha scandito. Quasi il tentativo di spegnere le polemiche attorno alla scelta del cardinale di andarsene rifiutando l’accanimento terapeutico. La posizione ufficiale era stata chiarita subito da padre Lombardi, il portavoce della Santa Sede, che ha definito quella di Martini come «una posizione assolutamente coerente con il normale insegnamento della Chiesa ». Ma a dividere, adesso, sono i parallelismi tracciati da tanti con i casi Welby e Englaro. E respinti con forza dalla Santa Sede.
«Un paragone del tutto arbitrario e per nulla fondato, né medicalmente né moralmente », ha attaccato dai microfoni di Radio Vaticana monsignor Roberto Colombo, docente alla Facoltà di Medicina del Gemelli di Roma. Un muro. «Ci pare che la morte di una grande figura sia stata strumentalizzata per fini diversi che possiamo immaginare, ma che vogliamo giudicare come davvero squallidi», ha continuato. L’arcivescovo, malato da tempo di Parkinson, è stato descritto come pienamente cosciente. Anche quando ha rifiutato il sondino dopo l’ultima crisi che l’aveva reso non più in grado di deglutire cibi, né soldi né liquidi. Lo stesso sondino, sono stati i commenti del giorno dopo, di Eluana Englaro. È questo il punto che divide. «Molti ambienti laicisti sono impegnati a strumentalizzare anche la fine di vita del cardinale Martini pur di affermare le tesi del nuovo nichilismo », dice l’ex ministro Maurizio Sacconi. Per la deputata dei Radicali Maria Antonietta Coscioni, «la volontà del cardinale è stata giustamente rispettata ». È lei che si schiera contro il disegno di legge Calabrò sulle direttive anticipate di fine vita, come fa un altro radicale come Marco Cappato. Che va anche oltre: «Il cardinale non ha rifiutato un “accanimento terapeutico” in senso tecnico, ma un trattamento che gli avrebbe salvato la vita (grazie alla nutrizione e idratazione artificiale) in condizioni però da lui ritenute inaccettabili. È lo stesso rifiuto che il disegno di legge impedisce di fare per quando non si è più in grado di intendere e di volere».
il Fatto 2.9.12
Il falso della legge 40
di Furio Colombo
Siamo andati avanti facendo finta di niente. Facendo finta che una legge crudele e scientificamente assurda come la legge italiana sulla fecondazione assistita dove si impedisce di esaminare un embrione prima di impiantarlo, come se fosse uno sfizio accertare l’esistenza o no di una grave, insopportabile malattia, sia una legge civile e normale.
Suvvia, non fingiamo di non sapere che non solo per questo siamo guardati con meraviglia e con sospetto, a causa della inspiegabile separazione fra presunta modernità e a rigorosa osservanza delle leggi e degli editti vaticani. Non c’è nulla di evangelico in tutto questo. L’invenzione (ovvero scoperta e identificazione degli embrioni) è del Ventesimo secolo, poco prima della nascita dell’ex ministro Fioroni, che dichiara “mercato dell’eugenetica” la vista medica del non nato. Possibile che il religiosissimo Fioroni non abbia notato che, nella storia di Lazzaro resuscitato, c’è un intervento immediato, sicuro, sul già morto, non per creare un mercato di zombi, ma per insegnare che è giusto invocare, per quanto impossibile, un po’ di felicità?
HANNO mandato in giro per il mondo, come mendicanti di un Paese dominato dalla Sharia, donne e uomini italiani che chiedevano solo, come i parenti di Lazzaro (ma dall’altro punto cruciale della vita), di avere un bambino vivo, sano, da amare e accudire senza correre il rischio di una malattia genetica che, nella maggioranza dei casi noti, li aveva già tormentati.
“Sono italiani” avranno mormorato negli ospedali di altri civili ospedali del mondo indicando le coppie costrette a chiedere asilo medico per avere un figlio, secondo la famosa predicazione che indica quel desiderio come il vero fine del vivere insieme di uomo e donna.
Una bella dose di ipocrisia ha orientato e guidato tutti gli altri politici e gli altri partiti e gli altri professionisti della politica, tutti i politici per timore di passare per “laicisti”, parola inventata, assente dai vocabolari ma che descrive i laici che non accettano di inginocchiarsi solo per ragioni di voto e di sottosegretaria-ti. E i medici per ragioni (purtroppo buone ragioni) di carriera. Violare la legge assurda e crudele sulla procreazione detta “assistita” li avrebbe esposti a rischi grandissimi. Purtroppo, mentre trovi legioni di obiettori di coscienza contro l’aborto pur di ingraziarsi vescovi e Papa, che alla fine pesano molto sul primariato, non trovi alcun obiettore di coscienza in aiuto delle donne che vogliono essere madri senza correre incontro alla tragedia. Qui bisogna infrangere un tabù e dire la parola “Radicali”, partito, leaders, deputati di quel partito e Associazione Luca Coscioni, di cui mi vanto di essere membro e sostenitore. È curioso per me notare che tanti colleghi, che hanno resistito per 18 anni alla grottesca mascherata della Lega, partito noto ormai solo per il razzismo dichiarato, il berlusconismo a tassametro e per il rito della divisione dei diamanti fra capi buoni (quelli che hanno in mano adesso i resti del partito) e capi cattivi, (quelli cacciati solo per portargli via il comando) si irritano un po’ a parlare dei Radicali e del loro continuo rompere le scatole sulle questioni dei diritti umani. Personalmente li apprezzo perché solo con loro ho potuto dire, in Parlamento e fuori, il disgusto e l’indecenza per una assemblea – di adulti consapevoli – che vota la legge 40 e poi ti spiega che “è il meglio che si poteva fare”.
MA ORA entriamo in una fase delicata in cui, ancora una volta, c’è il rischio di trovare solo l’iniziativa e la compagnia dei Radicali. Il fatto è questo. Pare che il ministro della Salute, Balduzzi (governo Monti) abbia detto che – contro questa sentenza, che condanna l’Italia per il livello subgiuridico e subnormale con il quale ha inserito proibizioni umilianti in una legge che dovrebbe essere di aiuto – ricorrerà in appello, ovvero presenterà il caso alla cosiddetta “Grande Chambre” chiamata a dare il parere finale. A quanto pare questo governo italiano di tecnici ha dei dubbi (“tecnici” ?) sulla condanna all’irrazionale legge italiana che non esiste nel mondo. Richiederà, ci dicono, un “approfondimento” o una “riflessione”. Ovvero, anche i “tecnici” inclinano a pensare che Lazzaro non doveva risorgere e che il bambino della coppia che vorrebbe aggirare la condanna genetica, non deve nascere. Non parliamo poi delle futili madri che si permettono di sfidare la natura che rudemente ha detto loro no, con l’espediente del progresso medico, che un bambino può farlo nascere senza problemi (ormai il mondo ne è pieno). E non parliamo della legge Kabul-Roma, che vieta la procreazione eterologa scambiandola per “prostituzione assistita”. Insomma, la civiltà, nel senso di benevola protezione di tutti i cittadini secondo le regole e le possibilità della legge e della scienza, non è ancora arrivata in Italia. Per questo i “ laicisti” (intesi come coloro che si sottraggono alle sharie di tutti i culti) continueranno a fare il possibile – assieme a coloro che lo hanno sempre fatto – per salvaguardare almeno un po’ l’immagine rispettabile dell’Italia.
La Stampa 2.9.12
Il caso Breivik e il dilemma del rapporto fra pena e reato
di Agnese Moro
La sentenza di condanna - 21 anni di reclusione rinnovabili - di Anders Breivik, l’uomo che ha ucciso 77 norvegesi, ha dato a tutti noi l’occasione per porci tanti quesiti sul rapporto tra reato e pena. Argomento davvero complesso, come del resto tutto ciò che ha a che fare con i tentativi che facciamo per raggiungere il bene, supremo, della giustizia. Chi voglia proseguire le proprie riflessioni potrà essere aiutato da due importanti libri. Il primo, «Il perdono responsabile» è stato scritto da Gherardo Colombo e pubblicato da Ponte alle Grazie nell’ottobre del 2011. Il quesito che l’autore si pone, e che ci propone con un linguaggio assolutamente comprensibile anche per noi non addetti ai lavori, è se il sistema che attualmente adoperiamo, quello della giustizia «retributiva» - delitto, sanzione, pena, carcere, separazione dalla società, reinserimento, nel quale la vittima non ha, peraltro, alcun posto -, sia il più adatto a riparare i torti e a rendere più sicura la nostra società. In tutto il mondo si stanno cercando modi diversi per farlo, attraverso un coinvolgimento nuovo tra rei, vittime e società. Un tentativo animato anche da noi dalle strategie della mediazione penale e della giustizia «riparativa», strategie che Colombo propone alla nostra attenzione. Risposte diverse da quelle del carcere possono essere non solo più economiche e umane, ma anche più efficaci: la percentuale di recidiva per gli affidati in prova ai servizi sociali – riferisce Colombo - si situa attorno al 20%, contro il 68% per chi sconta la propria pena in carcere. Carcere, peraltro, ben poco volto alla riabilitazione del condannato, come raccontano le risposte date da 36 ergastolani alle domande poste loro da esponenti della società «di fuori» e molto opportunamente raccolte da Francesca de Carolis in un libro, «Urla a bassa voce dal buio del 41bis e del fine pena mai», edito da Stampa Alternativa (www.stampalternativa.it) e impreziosito da una bella introduzione di don Luigi Ciotti.
Per esperienza so quanto sia importante avere giustizia e quanto poco la si riceva dal numero di anni passati in carcere dai colpevoli. Serve molto di più raccogliere sincere parole e atti di pentimento, constatare cambiamenti, registrare la dolorosa consapevolezza del male compiuto. Ricucire legami spezzati. Imboccare, magari insieme, nuove strade. Riflettiamoci.
Corriere La Lettura 2.9.12
Una notte di 40 ore
La strage di Sabra e Shatila durò quasi due giorni
Qui iniziò tutto, qui tutto ritornerà (compresa la guerra siriana)
di Paolo Giordano
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Corriere La Lettura 2.9.12
«Fu un massacro diverso dagli altri. Lo Stato ebraico si scoprì imperiale»
di Francesco Battistini
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Corriere La Lettura 2.9.12
Dossetti a Begin: «Sei responsabile»
di Alberto Melloni
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Corriere La Lettura 2.9.12
Non riabilitate la doppiezza
La ricerca di padri nobili per la sinistra di oggi produce effetti paradossali
Lodare Togliatti come un convinto democratico significa svalutare i meriti storici di berlinguer
di Antonio Carioti
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Corriere Salute 2.9.12
Il Gran sacerdote del jazz che soffriva di depressione
di Marco Rossari
In un film di qualche anno fa (La Dea dell'amore, 1995) il tipico protagonista nevrotico impersonato da Woody Allen sciorinava alla moglie in dolce attesa una serie di nomi per il primogenito. Tra questi, con orrore della consorte, figurava lo strambo Thelonious, che agli spettatori profani non disse granché, ma strappò un sorriso agli appassionati di musica jazz. Il riferimento era a Thelonious Monk, straordinario pianista e compositore, celebre non solo come inventore del bebop, insieme a Charlie Parker e a Dizzy Gillespie, ma anche per le tante eccentricità.
Dotato di uno «stile» particolare, spesso e volentieri si alzava dal pianoforte e ballava sul palco, oppure gironzolava per il locale e attaccava bottone. Con il tempo le stravaganze peggiorarono: venne buttato fuori dagli alberghi per avere dato in escandescenze e conobbe l'onta della prigione e del ricovero in ospedale psichiatrico.
Dopo un'infanzia di povertà, emigrato con la famiglia dal Sud degli Stati Uniti a New York, Monk sentì un immediato richiamo verso la musica nata dalla strada («il jazz risuonava ovunque») e fu favorito da un talento precoce. «Credo di non potergli insegnare niente, — ammise il suo insegnante di musica — presto ne saprà più di me».
Con ostinazione, Monk cominciò a farsi un nome nel sottobosco musicale newyorchese, strimpellando ovunque. «Tu prova a dire un posto: io ci ho suonato» diceva. Già nelle prime esibizioni Monk si fece la fama di tipo stravagante, poi alimentata da un'aneddotica sterminata. A momenti di creatività febbrile (era capace di suonare per ore e ore), alternava crolli inesorabili durante i quali stava a letto per due giorni di fila. Euforia, depressione: non è facile districare la matassa di una vita disordinata e individuare i sintomi di quello che oggi possiamo quasi certamente classificare come disturbo bipolare.
Se già allora erano pochi gli psichiatri che capivano la natura di quel male, figurarsi i profani. In più, come tanti jazzisti, Monk beveva troppo e, pur senza mai diventare eroinomane, faceva uso di stupefacenti. Le sue stranezze vennero in genere attribuite agli eccessi o rubricate sotto il facile binomio genio e sregolatezza. E all'ombra di questo stereotipo, cominciò la retorica intorno al suo mistero.
Nel primo articolo su di lui, un giornalista ne sottolineò la letargia e scrisse: «Potrebbe benissimo essere la chiave per comprendere la sua personalità complessiva». Quest'aura, che vendeva bene, fu amplificata dal lavoro di un'addetta stampa che lo dipinse come lunatico, sonnambulo, bizzarro.
Da quel momento Monk non si scollò più l'etichetta caricaturale di personaggio scontroso, con una vena di follia, che ne decretò forse una parte di successo, ma che certo finì anche con il banalizzare la sua personalità.
«È un personaggio da fumetto — scrisse un critico —. Buono per i supplementi domenicali dei quotidiani sull'esotismo del jazz». Nessuno sembrava neanche sospettare che Monk fosse malato. Ora una monumentale biografia appena uscita ricostruisce, insieme alla vicenda umana e musicale, l'iter medico e farmacologico dell'autore di classici come Round Midnight. Uno dei tanti episodi: un giorno, mentre guidava in pieno inverno, Monk slittò sul ghiaccio e andò a sbattere contro un'altra auto. Quando il guidatore gli chiese le generalità, lui rimase lì, a fissare il vuoto. La scena muta continuò anche quando arrivò la polizia, tanto che alla fine l'agente lo portò in un ospedale psichiatrico, dove venne trattenuto per tre settimane e dimesso senza una diagnosi. Ci sarebbero voluti vent'anni prima che i medici gli diagnosticassero una forma di bipolarismo. Come racconta il biografo: «La sindrome maniaco-depressiva include un'ampia gamma di disturbi dell'umore (…) Addormentarsi al pianoforte, fissare assorti lo sguardo nel vuoto, essere apparentemente incapaci di riconoscere le persone, sono tutti indici di ciclotimia, ossia di stato depressivo».
Ma il problema non fu solo lo stile di vita sregolato abbinato a un disturbo ereditato dal padre (che morì, abbandonato, in un istituto psichiatrico), il dramma fu soprattutto la cura. Fin dall'inizio i medici gli somministrarono un antipsicotico contro la schizofrenia di cui gli ospedali statali facevano largo uso per la rapidità dell'effetto e la convenienza.
Gli effetti collaterali erano molto pesanti: vertigini, sonnolenza, rigidità muscolare. Proprio per questo lo psichiatra che l'ebbe in cura, il dottor Robert Freymann, accompagnò la terapia con «dosi di vitamina» per endovena che ne bilanciassero l'effetto sedativo. Nessuno dei pazienti sapeva che il ciarlatano tagliava le vitamine con le amfetamine, alimentando la dipendenza dagli stupefacenti. Non si può sapere quale sia stato l'effetto di questa combinazione sulla malattia di Monk, che intanto dopo i «non-anni» di insuccesso, come li chiamava, era finito sulla copertina di Time. Certo, l'estenuazione dovuta ai tanti concerti e agli eccessi esasperarono la situazione. Le crisi divennero più frequenti. Era diventato il «Gran sacerdote del jazz», un po' guru e un po' santone: imprevedibile, sfuggente, strambo, dimenticate invece la sua dolcezza, la generosità, l'umorismo.
Quando Monk smise di andare dal dottor Freymann era tardi. Gli venne diagnosticato uno squilibrio biochimico e cominciò una vana caccia al medico giusto.
Non poteva venire lasciato solo, fu sottoposto a elettroshock e gli diagnosticarono una schizofrenia, aumentando il dosaggio di antipsicotico. Ma qualche volta Thelonious Monk, con la sua malattia, ci giocava. In Australia un fan cercò di scambiare qualche parola e, davanti alla sua indifferenza, sbottò: «Dica qualcosa, per favore!». Monk, serafico: «Qualcosa». Nel 1972, durante l'ennesimo ricovero, gli venne somministrato il litio, un farmaco che rischia di generare tremore alle mani, apatia e passività.
Q ualche concerto, sempre più rado, con un continuo viavai dall'ospedale per correggere le ricette, fino al silenzio. Visse gli ultimi anni chiuso in camera, a guardare la televisione in giacca e cravatta, senza quasi toccare il piano. Era stanco e, sebbene gli attacchi si fossero diradati, soffriva di incontinenza.
Nel 1982 un ictus se lo portò via, o forse fu lui ad andarsene. Questione di punti di vista.
In fondo, una volta, durante un concerto nel suo locale preferito, il Five Spot, se n'era andato tra un atto e l'altro ed era stato ripescato nei dintorni immobile a fissare la luna. «Ti sei perso?» gli fece il proprietario. «No — rispose Monk —. È il Five Spot che s'è perso».
Repubblica 2.9.12
Tanti saluti al Pci
Dalla Russia con amore al Bottegone
di Nello Ajello
Il postino delle Botteghe Oscure ha novant’anni. Si chiama Paolo Magrini e vive a Palestrina, a pochi chilometri dal suo paese natio, Pisoniano, nell’agro romano. Lì, da ragazzo esordì come bracciante. Ma ormai si considera un collezionista e uno scrittore. È, infatti, proprietario d’un archivio fittissimo di cartoline illustrate che, imbucate soprattutto all’estero, portano talvolta, in calce, firme di prestigio. Più spesso, però, sono indirizzate da ignoti attivisti di partito a personaggi storici del Pci ai suoi tempi d’oro. Tempi che, per Magrini, si estendono dal 1972 al 1984, segreteria Berlinguer, quando gli vennero affidate le funzioni di responsabile dell’ufficio posta, installato al piano terreno del “Bottegone”.
Un’esperienza delicatissima. Magrini ne va fiero. Ogni esemplare di posta da lui conservato gli riporta alla memoria episodi umili o illustri di un ieri che insiste nel considerare più attuale che mai.
Cartoline a Botteghe Oscure s’intitola il libro che ha stampato a proprie spese. Uscito in maggio, è stato presentato al ristorante Baficchio in pieno agro romano, fra grandi evviva. A sfogliarlo, ci si sente davvero trasferiti «nel cuore del Pci» come suggerisce il sottotitolo. Per il suo stile, sembra doveroso consigliarne la lettura a tanti studiosi della narrativa “neorealista”: non è facile, in quella specialità, incontrare racconti ugualmente espressivi. E di pari diletto.
Il contenuto delle cartoline postali è scarno. «Saluti comunisti », auguri provenienti da “iscritti” mandati a partecipare a uno dei raduni che punteggiano l’attività del “socialismo reale”, dall’Europa dell’est a Cuba, all’estremo Oriente. È Mosca la provenienza sacramentale di gran parte dei messaggi. E ad essa si riferiscono le chiose e i commenti, segnati in margine ai testi dal postino del Bottegone, che sembra volersi scusare per la propria intrusione fra temi ed eventi di rilievo (proprio io, «un bracciante quasi analfabeta…») ma non rinunzia al diritto di dire la sua, quasi rivolgendosi a un gruppo di compaesani.
Mosca, dunque. Una cartolina raffigura la Piazza Rossa, dalla quale il compagno Giovanni Aglietto manda i suoi saluti. «Piazza Rossa e il Cremlino», ci scrive accanto il postino. «Quanti piedi e piedini hanno camminato su questa storica piazza. Simboli ovunque! Tutto è uno sventolio di colori: Ma dentro ogni caseggiato sta la speranza». E qui un’osservazione un po’ desolata, che — lo vedremo — è un segno distintivo di questo comunista “d’antan”: «Oggi il socialismo è solo il ricordo d’un sogno che uomini non accorti hanno fatto appassire », Un’altra cartolina da Mosca fotografa la monumentale torre Ostankino, suggerendo a Magrini intimi ricordi. «È la costruzione più alta d’Europa. Il ristorante girevole, “Settimo cielo”, consente di ammirare, durate il pranzo, il panorama completo di Mosca. Io e la mia compagna Agnese abbiamo goduto di questo privilegio». Il giardino di Alexander, anch’esso effigiato in cartolina, gli suggerisce pensieri da idillio. Egli rievoca «i raggi di sole che perforano la fitta vegetazione» e «il silenzio, quasi fastidioso per il nostro carattere di latini. Le voci più ascoltate nel parco sono le melodie di numerosi uccelli. Le panchine sono tutte occupate da una moltitudine umana in silenziosa lettura».
Un paese di Bengodi? ci si chiede. Chiose meno zuccherose gli suggerisce un’altra cartolina “moscovita”. Raffigura Vladimir Ilic seduto su un parapetto, con intorno sontuose dimore ufficiali. «Lenin», chiosa il collezionista, «guarda pensoso il Cremlino», quasi «intuendo la scarsa democraticità del nuovo Stato», egli osserva «come si muovono gli inquilini » di quei palazzi ufficiali. Ed ecco, d’un colpo, spuntare Stalin. Il creatore dell’Urss «non potrà far retrocedere l’uomo di ferro dal cammino intrapreso. Questa è la storia, queste le sue drammatiche sorprese!».
Un po’ di Russia vive e opera anche, in trasferta, a Roma. La rappresenta, agli occhi dell’autore, tale Leonida Popov, che nell’ambasciata sovietica cura i rapporti con il Pci. Popop «era sempre in mezzo ai piedi, per avere notizie su cosa pensasse la base interna all’apparato, cioè noi». Una specie di spione in trasferta permanente? Era, questo sì, «sempre distinto nel vestire tanto da sembrare un perfetto italiano».
La Russia, si sa, è un bersaglio robusto, può tollerare qualche livido. Ma la Cina? Ecco che la compagna Nina Ravelli, in gita a Pechino, manda una cartolina al segretario Achille Occhetto, per domandargli: « Se i cinesi sono mezzo miliardo e forse più, come farà il governo a sfamarli, tenendo conto che con il socialismo qualche mezzo etto di riso al giorno lo rivendicheranno? Immaginate quanti quintali di riso dovranno produrre». La chiusa è confidenziale e affettuosa: «Povero Mao!».
Le cartoline partono quasi tutte dall’estero, ma fermiamoci per un po’ a Roma, al Bottegone. Agli occhi del suo dirigente, l’ufficio posta è l’alfa e l’omega degli umori comunisti. A turno, questo o quello tra i più alti dirigenti diventa il maggiore destinatario di lettere e cartoline. Berlinguer
quando rilascia quell’intervista in cui dichiara di fidarsi più della Nato che del Patto di Varsavia. Amendola quando propone l’unificazione fra Pci e Psi. Cossutta allorché diventa il simbolo di coloro che, nel partito, non condividono lo strappo da Mosca.
Da me interrogato su quale dei leader comunisti gli sia stato più simpatico, Magrini indica, oltre al previsto Berlinguer, Giorgio Amendola. In una pagina del libro, infatti, lo descrive come un ghiottone condannato alla dieta. Sta addentando una rosetta traboccante di mortadella. Gli «piace da morire ». Mentre gliela porge di soppiatto, il funzionario-postino, non ignora che la trasgressione, se scoperta da Germaine, la moglie del leader falso-magro, produrrebbe un litigio drammatico. È un pericolo grave quasi quanto la supposta presenza di lettere esplosive che richiamavano l’attenzione dell’ufficio posta, e che qui ottengono molto rilievo.
Fra i capi storici che presiedono al funzionamento dell’intero apparato, un posto adeguato il libro lo assegna a Giancarlo Pajetta cui l’autore attribuisce un carattere burberobenefico, capace di sfuriate seguite dalle scuse tipiche di chi è in torto (e lui, s’intuisce, spesso lo è). In un angolo di un’altra pagina trovo il ritratto di un innominato: poi, con l’aiuto dell’autore ho scoperto che è Walter Veltroni, colto nella sua infanzia di partito.
Nel palazzo rossastro del Pci non mancano momenti di vero svago, tra la festa marzolina della donna (nel corso della quale viene consegnato a Enrico Berlinguer «un ramoscello di mimosa da portare alla sua compagna Letizia») e il Natale, allietato da «materiale mangereccio».
Queste scene di vita vissuta fanno da corona alla raccolta di cartoline più o meno d’epoca. D’epoca — si sarà capito — è l’opera intera. Alla quale non fa difetto la nostalgia. Ma la vera sorpresa, in questa massa di posta e di pensieri, è un profumo, “proletario” e insieme casereccio, che emana. Il lettore se ne lascia avvolgere.
Repubblica 2.9.12
Tra feste, sogni e bagni di sangue
La scrittrice e le immagini di quei giorni del 1917 in cui la Russia cambiò il corso della sua storia
Dalla speranza alla crudeltà nascita e morte di una rivoluzione
di Irene Némirovsky
Qè l’istante esatto in cui nasce una rivoluzione? Vorrei ritrovare nella mia memoria quel giorno dell’inverno 1917, quando a un tratto diventò visibile, non solo per gli iniziati, per gli uomini al potere, ma per la folla, per un bambino, per me.Il giorno prima, la rivoluzione era una parola uscita dalle pagine della Storia di Francia o dai romanzi di Dumas padre. Ed ecco che le persone grandi dicevano (senza ancora crederci):«Stiamo andando verso una rivoluzione… Vedrete, tutto questo finirà con una rivoluzione!».Come è successo che la vita ha cessato a un tratto di essere quotidiana? Quand’è che la politica, disertando i giornali, si è radicata nella nostra esistenza? Quand’è infine che le espressioni «momenti storici» o «fare la Storia» hanno smesso di essere vocaboli riservati unicamente alle generazioni precedenti e hanno cominciato a poter essere applicati a noi, alla mia governante, la signorina Rose, al dvornik Ivan, al mio insegnante di letteratura, che era un socialista-rivoluzionario, a me?Eppure ci fu un momento in cui la bambina che ero ha capito «che stava succedendo qualcosa», qualcosa di spaventoso, di esaltante, di strano che era la rivoluzione, lo sconvolgimento di tutta la vita.Credo che fu il momento in cui, in una strada popolosa, non lontano dal centro della città, incontrai un corteo composto unicamente di donne, operaie di fabbrica. Si trascinavano dietro i loro figli. Ricordo una giovane donna che mi passò vicinissima; portava sui capelli uno scialle di lana grossolana e, nella falda di quello scialle, nell’incavo del braccio, aveva un bambino addormentato. Guardai il bimbo e, trovandolo carino, lo dissi ad alta voce. La madre fece un mezzo sorriso, quel sorriso quasi involontario che tocca appena l’angolo delle labbra e illumina gli occhi, il sorriso fiero e timido al tempo stesso che hanno tutte le donne quando davanti a loro, per la strada, qualcuno ha ammirato il loro piccolo.Quelle donne non cantavano, non gridavano. Spingevano innanzi a sé i bambini aggrappati alle loro gonne, li rimproveravano o ridevano con loro. Alcune chiacchieravano. Poi, a un tratto, si fermavano: le loro file sembravano fremere, e, come un coro sulla scena a una parola d’ordine che non si è udita in sala, facevano scaturire dalle bocche aperte un clamore, un lamento selvaggio e sordo che saliva, saliva, poi ricadeva e si fermava, troncato di netto.Domandavo invano alle persone grandi che mi accompagnavano: «Che cosa vogliono? Che cosa dicono?».Infine, mi parve di capire che chiedevano pane.Quello che era spaventoso, era il loro numero. Per quanto mi alzassi in punta di piedi e guardassi lontano: vedevo solo donne con lo scialle, donne con le gonne grigie, donne che tenevano i bambini sulle spalle, e che avanzavano con lo stesso passo lento e cadenzato.Non vedemmo la fine del corteo. La polizia aprì un varco alle auto e noi riuscimmo a passare. Poi non ricordo più niente fino al momento in cui, tre o quattro giorni dopo, da sola nel salone, stavo studiando il pianoforte. Sentii per la strada delle grida e dei colpi di fischietto e, dopo essere corsa alla finestra, felice di lasciare lì un istante l’odiato pianoforte, mi sembrò di veder litigare dei contadini all’ingresso di un panificio. A un tratto, cominciarono a ridere e a battere le mani. Di fronte alla nostra casa sorgeva una caserma. In cima al muro comparvero uno, due, tre, dieci soldati armati che con grida e lazzi saltarono giù in strada, la attraversarono e scomparvero. Fu così che vidi i primi soldati insorti. Come avevano fatto a fuggire? Che ne era stato degli ufficiali? Questo, nessuno lo sapeva, allora, ma tutto sembrava semplice, bonario, non ancora strano né spaventoso.Poi venne la sera. La stanza era così tranquilla con le sue pareti rosa, i suoi mobili laccati, la sua piccola lampada di porcellana accesa… Domani tutto sarebbe stato come oggi. Tutte quelle cose erano esistite da sempre e avrebbero continuato a esistere, così come la terra non avrebbe mai smesso di girare.Improvvisamente, in quel tepore, in quella pace del dormiveglia, udii un suono così nuovo per me allora che provai meno timore che sorpresa: il rumore di uno sparo. Era stato esploso lontano dalla casa, «dall’altra parte della Neva», disse la mia governante. Un secondo gli rispose, poi ne scoppiò un altro, più vicino; poi un altro, questo più lontano. Nascosi la testa sotto la coperta, per non sentire, ma, mio malgrado, immaginai la bruma sulla sponda del fiume, le tenebre, le piccole fiamme pallide per le strade e quegli uomini che si scontravano. Verso mezzanotte, tutto tacque. Ancora due giorni e la città era imbandierata di rosso.Era la rivoluzione trionfante, quella che ancora non ha versato sangue, o ne ha versato pochissimo, con il bel volto fiero e irritato che molto presto verrà alterato, degradato, dalle terribili passioni degli uomini. Brillava il sole; per le strade si vendevano fiori di carta rossa e i tram erano addobbati di striscioni scarlatti. Il popolo era gioioso, magnanimo, pieno di speranza. Poi le cose si guastarono, ed è allora che si colloca l’episodio che voglio raccontare e il cui ricordo, non so perché, in questi giorni mi ossessiona.Si sa, gli agenti di polizia tentarono di difendere l’ancien régime.Qualche giorno prima, sui tetti delle case, avevano piazzato delle mitragliatrici che, tutte insieme, cominciarono a sparare sulla folla, quella folla pigra che si attardava per le strade, faceva della settimana un’eterna domenica, pontificava agli incroci, acclamava i ritratti di Kerensky, mangiava semi di girasole e soffiava nei palloncini. Sentii per la prima volta delle grida di spavento, non di dolore (nes-
suno allora venne ferito, almeno nella nostra strada), ma dalla folla salì quel lungo ululato che chiede il sangue, quell’urlo indimenticabile che non contiene più nulla di umano, quel cupo clamore di odio e di follia. Tutti si precipitarono nelle case, all’assalto degli ultimi piani, delle soffitte, dei tetti, dove si supponeva fossero nascosti gli agenti. Quando ne trovavano uno, gli si gettavano addosso, gli strappavano i vestiti, gli sputavano in faccia, lo facevano scendere, spinto di braccia in braccia, gettato da un uomo all’altro, e, a un tratto, tra mille volti, quel viso pallido, insanguinato, scompariva. Ora, il portiere della nostra casa, Ivan, il dvornik, aveva un genero che era un agente di polizia. Da sempre, i dvorniks erano in combutta con la polizia, per la quale spesso lavoravano come informatori, ed erano temuti e vilipesi. Udimmo all’improvviso, sulla scala, tra le pareti stesse dell’edificio, la confusione della folla che saliva all’assalto.«È là! È là! Lo abbiamo trovato, quel cane!».L’agente era stato nascosto nella stanza del suocero, sotto il suo letto. Gli toccò la sorte degli altri prigionieri e non so che fine fece, ma ecco che una piccola truppa di soldati fece uscire il dvornik,
colpevole di avergli dato asilo, e lo spinse nel cortile.Dalla mia finestra, vedevo il cortile.«Non guardare! Non guardare! », gridava mia madre.Non guardare! Ci sarebbe voluta innanzitutto la forza di ritrarsi, di fare un passo, di chiudere gli occhi. Mi sembrava che i miei piedi avessero messo radici nel pavimento e che i miei occhi non si sarebbero chiusi mai più, che non sarei stata mai più capace di fare un movimento, né di lanciare un grido… Quel cortile… Quell’alta casa grigia, quel cielo brillante, non li dimenticherò mai, né dimenticherò quel vecchio calvo che camminava, senza sapere dove lo stessero spingendo, e che fecero mettere contro il muro.I soldati si misero in fila davanti a lui. Colui che li comandava disse:«Dì addio ai tuoi figli».Erano lì, quattro o cinque bambini, non ricordo più. Ma rivedo i loro abiti di cotonata rosa scolorita, le loro gambette grasse nude nella polvere. I bambini piangevano. L’uomo li baciò. Uno dei soldati prese il più piccolo, ancora un bebè, e glielo mise tra le braccia; poi, quando il padre lo ebbe stretto a sé, il soldato gli tolse il bambino, lo rimise per terra e gli accarezzò i capelli.Poi, disse al dvornik:«Recita le tue preghiere».
L’omone si inginocchiò. I bambini lo circondarono: il più piccolo, volendo imitarli, scivolò nella polvere e rimase lì, sdraiato, a muovere le gambe e a ridere. Gli altri recitarono il Padre nostro. Poi il dvornik si alzò; con passo abbastanza fermo, andò da solo ad appoggiarsi al muro. Gli bendarono gli occhi. Sentii uno sparo, e vidi… l’uomo non era morto. Avevano solo voluto fargli paura, punirlo. I soldati lo avevano fatto apposta, a prendere male la mira. L’uomo era seduto a terra; si era tolto la benda e si guardava intorno, inebetito. Era ferito, però. Una pallottola lo aveva colpito di striscio, o si era tagliato la fronte cadendo? Non lo so. Ma comunque sia vidi, cinque minuti dopo, i soldati circondare Ivan; uno di loro, quello che aveva dato l’ordine di sparare, gli medicava paternamente la ferita, la copriva con una grossa compressa di cotone e la fissava alla testa con il fazzoletto che era servito a bendare gli occhi al condannato. E Ivan, ancora pallido come un morto, con il sangue che gli colava sul viso, sorrideva di quel sorriso meravigliato e confuso degli uomini che tornano alla vita dopo uno svenimento o un’operazione, mentre i soldati scherzavano e gli davano pacche sulle spalle.I bambini avevano ricominciato a giocare.«Questi russi sono pazzi», disse la signorina Rose.E infatti tutto ciò sembrava avere l’incoerenza e la gratuità dei gesti che compiono i pazzi. Perché quella crudeltà? Com’è possibile che degli uomini infliggano un simile supplizio a un altro uomo, spontaneamente? Che gli dicano: «Ecco, è finita. Tra un istante sarai solo un cadavere», e questo davanti ai suoi figli, e poi ridano con lui e lo curino?Solo più avanti, compresi. Fu quel giorno, fu in quell’istante che vidi nascere la rivoluzione. Avevo visto il momento in cui l’uomo non si è ancora spogliato delle abitudini e della pietà umana, il momento in cui non è ancora abitato dal demonio, che già però gli si avvicina e turba la sua anima. Quale demonio? Tutti quelli che hanno visto da vicino la guerra o la sommossa lo conoscono; ognuno gli dà un nome diverso, ma ha sempre lo stesso volto sconvolgente e folle, e chi lo ha visto una volta non lo dimenticherà mai.
(Traduzione di Monica Capuani)