venerdì 31 agosto 2012

l’Unità 31.8.12
François Hollande: «Sinistra vuol dire uguaglianza»
Pubblichiamo stralci di un’intervista a François Hollande tratta dal libro «Le ragioni della sinistra» (Castelvecchi) in libreria dalla prossima settimana
qui
http://www.scribd.com/doc/104499659/l-Unita-31-8-12-Intervista-a-Hollande

La Stampa 31.8.12
A Pd nudi nel parco
di Massimo Gramellini

Appena le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che un consigliere del Comune di Roma aveva paragonato la sua città a Gomorra, ho pensato che nella capitale fosse stato scoperto un traffico di camorristi. Quando poi si è capito che il consigliere alludeva alla Gomorra biblica, mi sono sfilate nella mente le immagini che avrebbero potuto abbondantemente giustificare il parallelismo: la sporcizia irredimibile delle strade, la prostituzione minorile che ha invaso le più importanti vie consolari, la corruzione nei palazzi del potere. Immaginate quindi la sorpresa nell’apprendere che per la sua intemerata apocalittica il politico romano aveva tratto spunto dall’atto d’amore di una coppietta. Un atto esagerato, d’accordo, qual è il denudarsi completamente alle sei di sera in un parco affollato come Villa Pamphili, per
poi avvinghiarsi ai bordi di una fontana anziché scomparire in uno dei tanti cespugli che rendono quel luogo uno dei più straordinari motel a cielo aperto di Roma. Un comportamento abbastanza sconveniente da suscitare l’imbarazzo dei passanti e l’intervento della polizia, ma non tale da giustificare un gemellaggio con la città simbolo di perdizione.
Le sorprese non erano ancora finite. L’autore del paragone, Antonio Stampete, non è iscritto alla confraternita dei verginoni scalzi, ma al Pd. Che in teoria, molto in teoria, sarebbe quel partito che si rivolge soprattutto ai laici o comunque a persone a cui l’amore piace farlo e lasciarlo fare senza tabù, magari soltanto con un pizzico di privacy in più rispetto ai frequentatori di parchi cittadini e di ville di presidenti del Consiglio in carica.

Repubblica 31.8.12
Denver, Holmes chiamò il suo psichiatra
nove minuti prima dell'inizio della strage
L'autore della carneficina durante la prima di Batman ad Aurora, in Colorado, aveva composto il numero di assistenza 24 ore su 24. Ma non riuscì a parlare con la dottoressa Fenton
qui
http://www.repubblica.it/esteri/2012/08/31/news/denver_holmes_chiam_il_suo_psichiatra_nove_minuti_prima_dell_inizio_della_strage-41742004/?ref=HREC1-5

Repubblica 31.8.12
La procreazione davvero responsabile
di Chiara Saraceno

Il quotidiano Avvenire, con la consueta pesantezza di toni quando si tratta di diritti dell’embrione e di status della “vita nascente”, ha agitato lo spauracchio dell’eugenetica nel caso l’Italia adeguasse la legge 40 sulla fecondazione assistita per rispondere ai rilievi critici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ministro della Sanità si è subito accodato, senza un attimo di riflessione. Tra l’accusa di omicidio e quella di pratiche eugenetiche sembra non ci siano soluzioni possibili — salvo la castità e la non procreazione — per chi, consapevole della potenzialità distruttiva dei propri geni, vuole evitare di generare figli destinati quasi subito a morte orribile e certa. Il fantasma di Mengele e dei suoi “esperimenti” nei campi di sterminio viene sovrapposto a quello di aspiranti genitori responsabili, che non vogliono un bambino perfetto, ma solo un bambino che abbia la possibilità di crescere. E non vogliono neppure accettare l’ipocrita, e fisicamente e psicologicamente costosa, scappatoia offerta dalla contraddittorietà delle leggi italiane. Mentre una vieta la diagnosi pre-impianto e la stessa fecondazione assistita ai portatori sani di malattie gravi che mettono a rischio i nascituri, un’altra consente l’aborto di feti che abbiano queste stesse malattie. È questa contraddittorietà ipocrita — per altro ampiamente nota al legislatore italiano, come ha ammesso lo stesso ministro della Salute — che è stata giudicata inaccettabile dalla Corte europea. Così come è stato giudicato inaccettabile che sia sottratta agli aspiranti genitori la decisione ultima rispetto alle condizioni in cui mettere al mondo un figlio, incluse le conoscenze necessarie per valutare ragionevolmente i pro e i contro. L’idea che ci sia una responsabilità non solo verso i figli che si mettono al mondo, una volta nati, ma prima ancora rispetto alla stessa decisione di metterli al mondo è una conquista culturale relativamente recente. Implica che ci si interroghi non solo sullo spazio che si è in grado di fare nella propria vita al nuovo nato, ma sulle condizioni in cui, appunto, lo si mette al mondo. Condizioni materiali, sociali, relazionali, ma anche di possibilità ragionevoli di sopravvivenza e di protezione da sofferenze gravi durante il processo di crescita. Come si può giudicare egoista o irresponsabile, o peggio ancora un epigono di Mengele, un genitore che vuole evitare non solo a sé lo strazio di perdere un bambino fortemente voluto, ma soprattutto a questo bambino di morire soffocato dalla propria incapacità a respirare (è il caso della fibrosi cistica)? Certo, come tutte le conoscenze, anche quella sulle caratteristiche sanitarie e il sesso degli embrioni può avere effetti perversi, non sulle norme in sé, ma sui comportamenti. Esattamente come già oggi l’amniocentesi può dare di fatto luogo ad aborti selettivi, non solo per motivi compassionevoli, come nel caso ricordato dalla Corte Europea, ma eugenetici, ed anche per sessismo culturale. È il caso degli aborti di embrioni di femmine in molti Paesi, e presso gruppi sociali, in cui la vita di una donna non conta nulla e una figlia femmina è percepita come una disgrazia. La soluzione non è mantenere le persone nell’ignoranza. Abbandoni, uccisione di neonate femmine o disabili, maltrattamento di bambine, ragazze, donne fanno parte purtroppo della storia dell’umanità ben prima, e indipendentemente, dell’accesso alle conoscenze mediche sugli embrioni. Contrastare questi abusi richiede forme di controllo efficaci, ma anche mutamenti culturali profondi e una diversa distribuzione di risorse, non un aumento dell’ignoranza e dei vincoli alla assunzione di responsabilità da parte degli individui. Al contrario, questa responsabilità va coltivata e fatta maturare con tutti i mezzi possibili. Per altro, la diagnosi pre-impianto, dato che avviene solo in caso di embrioni fecondati al di fuori dell’utero e di un rapporto sessuale, riguarda casi molto più circoscritti e individuabili dell’amniocentesi. Consentirla (dopo una sentenza di un tribunale italiano del 2009) a chi ricorre alla fecondazione assistita perché ha difficoltà a procreare per le vie “naturali”, e non a chi rischia di procreare bambini destinati a sofferenze e morte precoce certa, non risponde ad alcuna logica. È troppo sperare che il ministro della Salute e il governo di cui fa parte, prima di decidere se ricorrere contro la sentenza della Corte europea, si interroghino su quanto di irrispettoso della vita umana e del senso di responsabilità individuale ci sia nella legge 40? Senza cedere ai ricatti morali più o meno ipocriti di chi agita lo spettro dell’eugenetica per nascondere la propria incapacità a rispettare la durezza dei dilemmi in cui si trovano molti aspiranti genitori e la delicatezza di quella scelta complessa, per nulla solo biologica, e comunque non di pertinenza dello Stato, che riguarda il generare un figlio.

Repubblica 31.8.12
Il Comune di Mosca ha privatizzato lo storico albergo vendendolo all’asta per 221 milioni di euro
Fu il quartier generale dei bolscevichi e ospitò centinaia di personalità da Mao a Sharon Stone
Metropol. L’ultima rivoluzione nell’hotel di Lenin
di Nicola Lombardozzi

MOSCA Adesso è d’obbligo parlarne con nostalgia come si fa con i simboli di un’epoca. Ma l’hotel Metropol, ceduto ieri dal comune di Mosca al proprietario di una catena alberghiera a cinque stelle, è sempre stato un corpo estraneo alla città. Bello, anzi bellissimo, al centro della piazza Teatralnaya, con vista sul Teatro Bolshoj e le guglie del Cremlino, resta un’isola riservata ai pochi eletti del momento: principi e dignitari di corte ai tempi dello zar, astri nascenti e declinanti della Rivoluzione bolscevica, capi di Stato di tutte le linee politiche, stelle del cinema e dello spettacolo, miliardari di provincia divenuti per vie misteriose gli oligarchi della Nuova Russia. Al moscovita medio, che difficilmente ha avuto occasione di vederne il lusso degli interni, resta comunque la consolazione che il nuovo padrone Aleksandr Kliacin, dopo aver speso 221 milioni di euro, non intende fare modifiche selvagge “alla russa”. Lascerà intatta dunque la splendida facciata liberty che nobilita il panorama architettonico del centro della capitale. Comprese la striscia di mattonelle azzurre con una frase di Lenin che esalta la dittatura del proletariato. Il “Metropol” resterà un monumento da vedere dal di fuori, al massimo per scrutare dalle vetrine del piano terra il volto di qualche personalità ospitata nelle suite da duemila euro a notte. Come ai tempi sovietici quando il bar con stucchi e preziose boiserie era riservato a clienti che pagassero in dollari. Entrarci era di fatto vietato: se pagavi in valuta straniera rischiavi l’arresto, se eri ospite di qualcuno dovevi subire lunghi interrogatori per chiarire chi e perché ti aveva invitato. I controlli erano inevitabili e a portuna, tata di mano. Pochi sanno che al quinto piano del Metropol, in una stanza opportunamente modificata, c’era un ufficio volante del kgb, diretto da un funzionario con un cognome che sembrava inventato, Cestneishij: “onestissimo”. Avendo cura di non passare dal bar né dal ristorante, decine di informatori hanno fatto per anni i loro rapporti al compagno Onestissimo che dalla sua camera di lusso girava il tutto ai ben più tetri uffici della vicina Lubjanka. Ma la storia del Metropol comincia molto prima, alla fine dell’800 quando il bislacco mecenate Savva Mamontov decise di ingrandire e rendere speciale un vecchio albergo famoso per le sue saune. La cosa non gli portò for- anzi gli attirò invidie e delazioni. Fu arrestato, ridotto al fallimento, costretto a cedere la sua creatura ancora prima che venisse inaugurata nel 1905. Il Metropol era una meraviglia: 400 stanze sontuosamente arredate e rigorosamente personalizzate. Tutte dotate di ghiacciaie, telefoni che ogni tanto funzionavano pure, e addirittura acqua calda corrente. Per questo fece una grande impressione, nel ‘17, nei primi giorni della rivoluzione, vederlo trasformare in fortino dei cadetti dello zar decisi a resistere all’assalto comunista Appostati dall’altro lato della strada, dietro al teatro Bolshoj, i rivoluzionari combatterono sei giorni prima di decidere di prendere il Metropol a cannonate e farla finita. E l’albergo diventò un quartier generale. Lenin ci insediò la sede del Vtsik, il governo bolscevico, e usò il ristorante come sala delle riunioni dove Trockij e Stalin scoprirono presto le loro diversità politiche e di ambizione personale. Per la gente diventò “la seconda casa dei Soviet”. Solo negli anni Trenta si decise di restituirgli lo status di albergo per ospiti di riguardo. L’elenco è impressionante: George Bernard Shaw, Bertolt Brecht, Mao Zedong, John Steinbeck, Marlene Dietrich, Sergej Prokovev, Marcello Mastroiani, Catherine Deneuve. Le testimonianze dei loro soggiorni seguono le proprie simpatie politiche. Qualche entusiasta si ferma al fascino zarista degli arredi. Altri parlano di docce malfunzionanti, divani sbilenchi, servizio irritante. Tutti concordano solo sul diffuso odore di zuppa di cavolo che adesso resiste solo in certi uffici pubblici.. Poi la perestrojka di Gorbaciov, il restauro vero e conservativo. Nuovi ospiti di altro genere: Sharon Stone, Michael Jackson, Giorgio Armani, Barack Obama. Fino all’asta di ieri che ha privatizzato anche l’ultima icona della Russia che non c’è più

Repubblica 31.8.12
Anticipiamo una parte del testo che Zagrebelsky leggerà oggi a Sarzana al Festival della Mente
Il welfare pensiero
Perché le idee sono un bene comune
di Gustavo Zagrebelsky

In un “festival della mente”, è naturale parlare di idee. Che cosa, infatti, sono le idee, se non ciò che viene dalla mente, che è “prodotto” o “scoperto” dalla mente? Come si dice, ordinariamente, “viene in mente”? Ma, possiamo anche, in certo senso, rovesciare l’affermazione e dire che la mente è ciò che viene dalle idee, che senza idee non c’è mente. Quando usiamo una parola così violenta come de-mente, non intendiamo forse uno per la cui mente non passa alcuna idea? Dunque, possiamo dire che mente e idee sono tutt’uno, che si tengono insieme e, in sintesi, che la mente tende alle idee e in esse trova il suo compimento, la sua realizzazione. In queste prime frasi della mia relazione, desidero tessere un elogio delle idee, considerandole beni che possono dare felicità, talora molta felicità. Gli antichi, con perfetta ragione, dicevano che la felicità è il completamento di ciò che è “per sua natura”, cioè è la realizzazione di ciò cui la nostra natura aspira. Possiamo, allora, dire che nelle idee noi troviamo la felicità, per la parte che riguarda la mente. Uno dei primi trattati sulla felicità, il dialogo Gerone, il tiranno del poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.), tratta per l’appunto dei beni che fanno la felicità, quando li si possiede, e l’infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali troveranno i loro beni «con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che tutti ovviamente conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, anche se è difficile dire come e perché, forse a causa del sonno stesso che rende le sensazioni meno chiare di quanto siano nella veglia». Ma poi conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nel concepire grandi progetti, portarli rapidamente a termine, avere il superfluo in abbondanza, possedere cavalli d’ineguagliabile velocità, armi d’incomparabile potenza e bellezza, gioielli squisiti per le proprie amanti, dimore magnifiche, i servi migliori, poter danneggiare i propri nemici più di ciò che a chiunque altro sia consentito, essere ammirati dal maggior numero possibile dei propri simili. Ancora: ci sono le persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili, l’agricoltura, come armonia con la natura. Ma, nei tanti elenchi che riguardano quelli che consideriamo i beni della nostra vita, non troviamo mai le idee. Invece, possono dare anch’esse felicità, per qualcuno e in qualche momento, anche più di altri beni alle, per così dire, persone di pensiero. Ciò vale per le idee in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto delle idee, ma d’idee in quanto tali. I giudizi vengono dopo. Permettete un riferimento personale alla mia attività nell’ambito dell’Università. Ho ormai preso l’abitudine, poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, di preparare le lezioni e di scriverne la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo doveva era sparita, la sera prima. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena di morte, un argomento davvero inesauribile) e di ragionarci su insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo insieme, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti (aggiungo: purtroppo con soddisfazione maggiore di quella che davano le lezioni “normali”). Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere anche a punte d’esaltazione, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita” e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di come altri la dedicano all’autorealizzazione in altri aspetti dell’umana natura. Invece, nella comune accezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi: sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa di cui la gran parte delle persone può fare facilmente a meno, per essere riservate solo a qualcuno, coloro che chiamiamo, non senza una certa dose di sottinteso disprezzo, gli “intellettuali”. Da qualche tempo, il tempo in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile, quantificato, ci si dà da fare per “calcolare” la felicità degli esseri umani. Perfino i governi si dedicano a questo compito, evidentemente in vista di “politiche per la pubblica felicità”, secondo gli intenti dei “principi illuminati” del ’700. Ora, questa politica si vorrebbe impiantare su basi scientifiche e, a questo scopo, si usano mezzi demoscopici, insomma sondaggi. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema: Le bonheur: une idée neuve. Per la verità, già Saint Just, sulla fine del ’700, aveva esclamato: «la felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati al di là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute pubblica, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc. A nessuno sono venute in mente le idee. Sembra che siano irrilevanti. Capisco che sono difficilmente censibili (forse non diversamente da altre cose che si considerano “beni”) e che, ancor meno, possono essere prodotti di politiche pubbliche (anche se, però, le politiche pubbliche possono favorire il loro fervore). Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee, una società che non libera da sé idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere a se stesse, come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante. Ma, in generale, che cosa ci dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Lasciamo stare. Ognuno dia la sua risposta. Cerchiamo invece di entrare nel grande mondo delle idee, non per quel che riguarda la loro origine – se prodotte dalla fisica o dalla metafisica: questione delle neuroscienze o della filosofia – ma attraverso qualche suddivisione concettuale, che ci consenta di gettare un po’ di luce in un fascinoso mondo di realtà impalpabili. Si possono fare distinzioni basate sui più diversi criteri. Ora, assumeremo un criterio, per così dire, funzionale che corrisponde alla domanda: a che cosa servono le idee? Le idee possono essere collocate come su una scala a tre gradi maggiori, con gradini minori, a seconda che, a partire dal basso verso l’alto, valgano per conoscere, per risolvere e per progettare “cose”. L’immagine della scala non deve suggerire l’idea d’una distribuzione secondo una minore o maggiore dignità delle idee, a seconda del posto che esse vengono a occupare. Nella scala i gradini più in basso sono indispensabili per salire su quelli più alti e quelli più in alto non sarebbero raggiungibili senza quelli più in basso. Come l’immagine della scala anche suggerisce, i gradini non sono separati da divisioni insormontabili. Anzi, servono per passare dall’uno all’altro, in salita e in discesa. Dobbiamo ora passare a vedere come.

Repubblica 31.8.12
Il dossier su Ray Bradbury “amico di comunisti”
Si tratta di 40 pagine. Fu sorvegliato dal ’50 al ’59
di Giulio Azzolini

Quello chiuso a Los Angeles l’8 giugno 1959 era il fascicolo numero 100 57129 dell’Fbi. E non era dedicato ad un «free-lance science fiction» qualunque, come si legge oggi nella cruda prima pagina del dossier. La scheda, infatti, era a nome di Raymond Douglas Bradbury: l’autore di Cronache marziane( 1950) e di Fahrenheit 451 (1953), morto il 5 giugno scorso all’età di 91 anni, maestro del genere fantascientifico e tra i più importanti scrittori del Novecento. Pochi giorni fa il Daily Beast, celebre quotidiano online, è entrato in possesso delle 40 pagine redatte dall’Fbi sullo scrittore e le ha messe in rete, accendendo un grande dibattito. Lì si apprende infatti che la sorveglianza continuò per ben nove anni, dal 1950 al 1959, durante il periodo di maggior successo per Bradbury. Il sospetto che gli gravava addosso era quello di una presunta «simpatia» per il comunismo: questa sarebbe stata l’intima ragione per cui i suoi libri trasmettevano «una generale sfiducia nei confronti della società e, in particolare, negli Stati Uniti d’America». Ma nel fascicolo si legge anche che il vero obiettivo del dissidente Bradbury sarebbe stato «spaventare il popolo», gettarlo «in una condizione di paralisi ». Sulla base di tali timori, gli agenti segreti non si limitarono a controllare gli spostamenti dello scrittore, ma interrogarono di nascosto amici e colleghi. La loro testimonianza rivelò un Bradbury che, pur frequentando «elementi con innegabili simpatie comuniste », era e si definiva «liberal». Così, nell’anno in cui usciva la raccolta di racconti La fine del principio, l’inchiesta si risolse nel nulla, senza la benché minima evidenza che “incriminasse” Bradbury in quanto membro del partito comunista. Il documento reso pubblico oggi conferma le indiscrezioni passate inosservate nel 2005, e contenute nella biografia The Bradbury Chronicles a firma di Sam Weller. Egli ricorda oggi al Daily Beastche quando andò a trovare lo scrittore per raccontargli dell’inchiesta dell’Fbi, costui si mise a ridere divertito e, liquidando il tutto con un cenno della mano, disse: «Che io sia dannato! Non ho mai avuto niente da nascondere: su che cosa indagano?! Che noia».