giovedì 30 agosto 2012

l’Unità 30.8.12
La soluzione neo-giacobina
Chi lavora per un’uscita neo-giacobina dalla crisi
di Michele Ciliberto


MERITA UNA BREVE RIFLESSIONE LA VIVACE DISCUSSIONE SULLE POSIZIONI POLITICHE DI GRILLO e sul linguaggio che usa sul suo blog. Quali ne sono gli obiettivi, di quale ideologia esso è espressione (posto, naturalmente, che, come io penso, una domanda di questo tipo abbia senso)? Volendo usare una formula, approssimativa come tutte le formule, credo si possa qualificarla come una ideologia di tipo neo-giacobino.
Ora, perché il movimento di Grillo, basato su una ideologia di questo tipo cresce e si espande? La risposta sembra semplice e scontata: per la crisi della democrazia italiana di cui è al tempo stesso effetto e motore, e per il disprezzo oggi così diffuso verso la politica e le istituzioni rappresentative. Giusto. Ma non è una risposta sufficiente; bisogna approfondire, e per farlo occorre sottolineare questo termine: «rappresentativo», perché qui sta il punto decisivo.
Quelli che si riconoscono in Grillo sono contro la democrazia rappresentativa ma non, in generale, contro la democrazia. Sono per la democrazia diretta, e non è una differenza da poco. Anzi, essi contrappongono democrazia diretta imperniata sul web e democrazia rappresentativa, vedendo in questa l’origine di tutti i mali. L’antipolitica di cui tanto si parla, al fondo, è precisamente questo: un rifiuto drastico, e totale, della democrazia rappresentativa. In questo senso, l’ideologia di Grillo è un effetto e, al tempo stesso, una proposta di soluzione della crisi della sovranità aperta da tempo in Italia e acuitasi al massimo con la decomposizione del berlusconismo. Sta qui l’origine delle sue scelte politiche e anche del suo linguaggio: la democrazia diretta, infatti, è strutturalmente estremista, oltranzista, e sfocia naturaliter nel dispotismo perché cancella la divisione tra i poteri, come ci hanno spiegato i classici.
Da questo punto di vista l’ideologia di Grillo è spia, e indice, di processi profondi della nostra società, e perciò riscuote consensi. Quelle che oggi sono in discussione sono infatti le forme di soluzione della crisi della democrazia italiana e le prospettive, e le alleanze, attraverso cui questo può avvenire. Problema, e discussione, assai vasti perché in campo è una pluralità di opzioni (compresa, ovviamente, quella di tipo tecnocratico). Qui mi soffermo però solo su questa alternativa: se si debba procedere in direzione della democrazia diretta e verso una soluzione in termini neo-giacobini della crisi (senza peraltro che sia stato chiarito di cosa, in effetti, si tratti); o se si debba lavorare, e in che modo, per ricostruire le basi, e le forme, della nostra democrazia rappresentativa.
Ridotti all’osso, e semplificando, sono questi i termini dello scontro che c’è stato in questi giorni. Oggi si contrappongono frontalmente, e in modo violento, opposte opzioni su quali debbano essere, dopo la decomposizione del berlusconismo, le fondamenta della Repubblica, a cominciare dai rapporti fra i poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario. È perciò che in questo periodo si sono intensificati, da un lato, la frantumazione e la scomposizione dei vecchi schieramenti; dall’altro la tendenziale ricollocazione di tutte le forze in campo, con il prodursi di convergenze e, parallelamente, di conflitti che fino a poco tempo fa sarebbero apparsi impensabili.
Qualora questa analisi abbia un fondamento un punto appare chiaro: se nel quadro di una normale dialettica politica le forze che si dichiarano progressiste intendono fermare il movimento di Grillo, o limitarne il consenso, esse devono avere la piena consapevolezza della posta in gioco che tocca il problema della sovranità nel nostro Paese, e richiede perciò di essere considerata a un duplice livello. Quello che segnala la crescita del movimento di Grillo è, precisamente, questa forte esigenza di democrazia diretta presente, in varie forme, nel nostro Paese. Questo è, oggi, il problema di fondo per le forze che si dicono progressiste, sia sul piano teorico che su quello politico. E in questo quadro anche le primarie possono essere uno strumento importante, ma senza pensare che esse possano risolvere, da sole, un problema vasto e complesso come questo.
Quella che è aperta in Italia è una partita assai difficile, che peserà sul futuro. Ma non si tratta di un problema solo italiano. Il partito dei pirati che ha conseguito un importante, e sorprendente, risultato alle ultime elezioni amministrative a Berlino, ha fatto suo il motto di Willy Brandt: «Osare più democrazia», sostenendo una visione radicale della democrazia diretta attraverso l’uso di internet e una riduzione dei propri rappresentanti alla funzione di delegati, cancellando anche in questo caso il momento della mediazione. In altri termini, il partito dei pirati ha rovesciato in modo integrale il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.
Questa è la posta in gioco, anche in Italia. E ha ragione Roberto Weber: sbaglia chi dà per acquisita la vittoria delle forze progressiste. In Italia una soluzione neo-giacobina (continuo a usare questa formula approssimativa) può anche prevalere. È diventato ormai di moda usare il termine populismo in modo indifferenziato (le parole si consumano!) e i neo-giacobini ne sono, certo, una specie; ma assai particolare. Se sono pericolosi per la democrazia rappresentativa, come i tecnocrati o altri tipi di populisti, non lo sono pero allo stesso modo. Siamo seduti su un vulcano; bisognerebbe prenderne coscienza, una volta per tutte.

l’Unità 30.8.12
Fecondazione, cambiare si può
di Maria Zegarelli


Romano Prodi, mentre si raccoglievano le firme per i referendum parzialmente abrogativi delle parti più controverse di una legge che sin dall’inizio era palesemente ideologica e chiaramente in contrasto con la 194, provò a proporre una modifica. Non fu possibile allora e non lo è stato più dopo. Soprattutto con il mancato raggiungimento dei quorum ai referendum. Ora, dopo che la Corte europea di Strasburgo boccia due articoli della legge 40, il 4 e il 13, che vietano ai coniugi portatori di malattie genetiche,
di ricorrere alla fecondazione assistita, il tema torna di attualità. Si può riscrivere un testo che si ispiri ad un approccio laico e alla legislazione europea? Dal Pd sono convinti che sì, si può fare, se non durante questa coda di legislatura sicuramente nella prossima. Livia Turco individua i tre punti su cui tornare: dare la possibilità alle coppie sterili di ricorrere alla fecondazione assistita (oggi vietata); consentire la ricerca sugli embrioni in sovrannumero che oggi vengono distrutti e stanziare fondi per la ricerca. Chi volle così fortemente la legge 40 con l’impostazione che poi è stata ripetutamente bocciata dai tribunali e dalla Consulta, in realtà puntava anche a mettere in discussione la legge 194: questo denunciavano all’epoca dell’approvazione della legge Livia Turco, Barbara Pollastrini, Ignazio Marino, i Radicali. Perché la vera crudeltà della legge 40 è nel vietare la diagnosi preimpianto anche in caso di genitori portatori di malattie genetiche. Alla donna, alla coppia, non viene lasciata che una possibilità in caso di feto malato: ricorrere all’aborto previsto dalla legge 194.
«La sentenza della Corte europea di Strasburgo, che ha bocciato la legge 40, è ineccepibile e fa seguito alle bocciature della Consulta e a numerose sentenze di tribunali confermando l`urgenza di cambiare una legge ingiusta e crudele dice Roberta Agostini, portavoce Conferenza nazionale delle donne -. Una legge che è nata in modo sbagliato, con una forzatura ideologica, e che non ha retto ai ricorsi che tante coppie hanno presentato ai tribunali e alle Corti. Quest’ultimo pronunciamento è l’occasione per riscriverla in modo radicale, tenendo conto della giurisprudenza comunitaria e cancellando le parti più assurde e controverse in modo da rispettare i diritti delle donne e delle coppie».
Dello stesso parere Vittoria Franco che all’epoca della discussione parlamentare tentò, insieme al suo gruppo, di cercare una trasversalità mai trovata. E chissà che oggi non si rimodulino le posizioni, se è vero come è vero che anche il presidente della Camera Gianfranco Fini adesso dice di riconoscersi nelle parole di Giulia Bongiorno, che definisce la legge «odiosa e sbagliata». Dal Pdl è Sandro Bondi, «come credente e parlamentare» ad auspicare «che riguardo alle questioni bioetiche e dei diritti civili, il centrodestra maturi in Italia un approccio laico che, fatti salvi alcuni principi non rinunciabili, in primo luogo la difesa della dignità della persona e il valore della vita, consenta la ricerca di soluzioni equilibrate e avanzate frutto di un dialogo e di una intesa fra laici e credenti». Segnali dall’Udc: «Il legislatore italiano dovrà in futuro tener conto delle motivazioni dei giudici che ora evidenziano una palese irragionevolezza nel divieto di analisi pre-impianto», dice Pier Luigi Mantini che si chiede come «si possono negare metodi sanitari che garantiscono la salute della madre e del nascituro? Cosa c'entra l'eugenetica?». Già, che c’entra?
A chiedere un intervento del Parlamento per «modificare una legge che non si è dimostrata all`altezza dei tempi» è anche Donato Robilotta, del Nuovo Psi che giudica «positiva la presa di posizione» di Bondi e parte del Pdl, mentre dalla Lega Roberto Maroni ribadisce la libertà di coscienza ai suoi parlamentari. Molte le critiche al governo che intende presentare ricorso contro la decisione della Corte di Strasburgo, sia dentro sia fuori il Parlamento. Dai Verdi Angelo Bonelli dice: «Invece di fare melina o cercare cavilli per difendere una norma indifendibile il governo e il Parlamento devono immediatamente mettersi a lavoro per una nuova legge. Serve un gesto d’amore per restituire il diritto alla maternità e alla paternità a tutte quelle coppie a cui è stato sottratto da una legge incoerente, contraddittoria e oscurantista».

l’Unità 30.8.12
È arrivata l’ora di cambiare la legge 40
di Roberta Agostini
Portavoce donne Pd


LA CORTE DI STRASBURGO HA MESSO A SEGNO UN ALTRO COLPO CONTRO LA LEGGE 40. È solo l’ultimo atto di una storia di demolizione di una legge crudele ed ingiusta che dura ormai dal 2005, da quando cioè le coppie hanno cominciato a presentare ricorsi e i tribunali ad emettere sentenza sui punti più controversi ed assurdi. La Corte di Strasburgo ci offre l’occasione per riprendere un dibattito, provando ad uscire dalle forzature ideologiche e dalle contrapposizioni che hanno dominato la storia della legge, a partire dalla discussione parlamentare che si svolse durante la sua approvazione.
La Corte ci dice che c’è una sfera della vita e delle relazioni tra le persone che deve essere rispettata e riconosciuta, che non è possibile consentire la diseguaglianza tra le coppie (ora solo le coppie sterili possono accedere alle tecniche, non chi è portatore di malattie geneticamente trasmissibili), che la tutela della salute è un valore fondamentale, così come il rispetto del rapporto medico-paziente.
Per capire la necessità della modifica della legge basterebbe partire da questi tre principi di fondo e prendere atto della storia di questi anni e delle sentenze a partire da quella della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la norma che obbliga all’impianto contemporaneo di tre embrioni che hanno praticamente smantellato il testo e profondamente messo in discussione il suo impianto regressivo.
Basterebbe prendere atto della realtà di migliaia di coppie che compiono in tanti Paesi europei, e non solo, i cosiddetti viaggi della speranza, per rendersi conto che la legge va profondamente cambiata. Chi si sottopone alle lunghe e spesso dolorose tecniche di fecondazione assistita non sta cercando un figlio con gli occhi azzurri, ma semplicemente un figlio, possibilmente sano.
La lezione di questi ultimi anni, quelli che ci separano dal referendum del 2005 e che vide protagonisti molti scienziati, ginecologi, medici, dove misurammo una contrapposizione ideologica e spesso un uso politico della religione intorno ai cosiddetti «valori non negoziabili», sta in questi pronunciamenti della giurisprudenza, nei valori di laicità della nostra Costituzione, nella tenacia di tante coppie che sono state decise nel far valere i propri diritti.
La fiducia verso la responsabilità delle persone ed una legislazione non invasiva dovrebbero essere i principi in base ai quali ridiscutere e modificare le parti più controverse della legge, compreso il divieto di fecondazione eterologa, che ad oggi è uno dei principali motivi dei viaggi all’estero delle coppie che se lo possono permettere. Prima di fare ricorso alla Grande Camera europea, il governo dovrebbe riflettere molto bene sulla storia di questa legge e su quanto avvenuto in questi anni.
La legge 194 fu conquistata in un grande dibattito pubblico, che fece i conti con la vita concreta di tante donne che allora morivano a causa degli aborti clandestini ed ha saputo superare barriere ideologiche sulla base di un principio di fiducia verso le persone, di autodeterminazione, libertà e responsabilità, che ha prodotto una buona legge, consentendo oggi il dimezzamento del numero interruzioni di gravidanza; semmai è aperto il problema di una sua piena attuazione. Fu un passo che segnò un salto di maturazione e di consapevolezza del Paese. La nostra responsabilità, come partito nel quale vivono insieme culture, storie e provenienze diverse è quella di raccogliere la migliore eredità della nostra storia ed aiutare il Paese a compiere nuovamente questo salto provando a riscrivere una buona legge.

il Fatto 30.8.12
Legge 40, il governo sta con i vescovi contro l’Europa
di Marco Papola


Sorpresa: il capo dei vescovi italiani interviene in difesa della magistratura. In un momento in cui i giudici sono sotto attacco su vari fronti, il Vaticano si schiera con le toghe. Peccato, però, che la difesa d'ufficio sia in realtà un attacco ad altri giudici, quelli della Corte di Strasburgo, che hanno bocciato la legge 40 (fecondazione assistita) nella parte che riguarda la diagnosi preimpianto. “Bisogna ripensarci un attimo a livello nazionale, a livello di esperti, sia per il merito sia anche per il metodo, perché non si è passati attraverso la magistratura italiana. Bisogna pensarci. C'è stato un superamento della magistratura italiana, è singolare” ha detto ieri il presidente della Cei,
cardinale Angelo Bagnasco, al santuario genovese della Madonna della Guardia.
LA PRESA di posizione del porporato arriva all'indomani della sentenza della Corte di Strasburgo. I giudici europei hanno dato ragione a una coppia, portatrice sana di una grave malattia genetica, la fibrosi cistica, che chiedeva una diagnosi dell'embrione prima dell'impianto. Per scongiurare di mettere al mondo un bimbo malato con limitate aspettative di vita e percorsi di cura costanti e dolorosi. La diagnosi è vietata dalla legge 40 e la coppia ha fatto ricorso. E ha vinto: lo Stato italiano è stato condannato a pagare un risarcimento. Ma oltre alla Chiesa, la decisione non è andata giù neanche al ministro della Sanità, Renato Balduzzi, in queste ore alle prese anche con il “decretone” stoppato sul nascere. Il ministro pensa al ricorso (l’organo d’appello è la Grande Camera, tre mesi di tempo prima che la decisione diventi definitiva) motivandolo con la necessità di fare chiarezza. A sottolineare l'opportunità di un “punto di riferimento fermo sulla questione", e il fatto "che un ricorso da parte del nostro Paese valga proprio a consolidare un punto di riferimento", è stato ieri lo stesso ministro. Una motivazione, quella alla base dell’eventuale ricorso, che però convince poco. Infatti in molti hanno sottolineato che la decisione presa dalla Corte di Strasburgo lascia poco spazio al dubbio. Non c’è bisogno di fare chiarezza: i giudici (all’unanimità) han-
no stabilito che la legge 40 viola i diritti dell’uomo. E non è la prima bocciatura per la legge sulla procreazione assistita. Nella sua tormentata esistenza, per 17 volte non ha superato l’esame di un collegio giudicante. Da molti fronti arriva l’invito al governo a cogliere l’occasione per cambiare la legge. In modo da mettere a tacere anche chi accusa Monti di essere europeista solo quando si tratta di chiedere sacrifici.
“EVIDENTEMENTE l’europeismo del governo Monti funziona a corrente alternata: quando si tratta di nuove tasse, tagli e sacrifici, i memorandum europei sono irrinunciabili, mentre quando si tratta di rispettare i diritti umani e modificare una legge per restituire a chi ha problemi il diritto alla maternità e alla
paternità le decisioni della Corte europea dei diritti umani, l'Europa può attendere”. Ad affermarlo è il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, commentando l’annuncio del ministro Balduzzi di voler proporre ricorso. “Invece di fare melina o cercare cavilli per difendere una norma indifendibile, governo e Parlamento devono mettersi a lavoro per una nuova legge”. Sulla stessa lunghezza d’onda la Lega italiana fibrosi cistica: “Riteniamo che l’obiettivo di una vita “normale” che i malati di fibrosi cistica si stanno faticosamente conquistando sarebbe stato fortemente compromesso dall’ipocrisia di chi, tutelando a parole l'intangibilità della vita, ne sancisce invece la condanna alla sofferenza per chi deve ancora nascere”.

l’Unità 30.8.12
«Il governo Monti non è una parentesi»
Anticipiamo alcune pagine de «L’Italia dei democratici Idee per un manifesto riformista» (Marsilio) scritto dai senatori del Pd Enrico Morando e Giorgio Tonini
«Per poter ambire a governare il Paese il Pd torni alla sua vocazione maggioritaria»


Come ha detto giustamente Mario Monti, il più grande e gravoso dei costi della politica è quello di cui si parla meno. Non sono i privilegi della casta, che pure vanno rimossi senza timidezze, o le spese per i palazzi delle istituzioni, che vanno adeguati senza indugio agli standard europei. Il vero costo della politica è il prezzo delle mancate decisioni, della fuga stile Savoia dalla verità sui problemi e dalla responsabilità di proporre le relative soluzioni, anche scontando un’immediata impopolarità.
Del resto, se si pensa che quello di cui c’è bisogno, in fondo, è qualche aggiustamento, robusto sì, ma niente di più, si fa presto a concludere che ciò che davvero conta e fa la differenza, per il paese, non è cosa si deve fare, ma chi si siede nella stanza dei bottoni. Se ci saremo noi, cioè tutti quelli che sono uniti dalla volontà di impedire che ci siano loro, le intese sul da farsi le troveremo, senza bisogno di stare ora a discutere (e a dividerci) su ogni scelta: una bella mediazione verbale tra posizioni che restano diverse e spesso in contrasto fra loro (ricordate le 286 pagine del programma dell’Unione?) e via alla campagna elettorale.
Può perfino succedere che ci si divida e ci si contrapponga, nel centrosinistra, sul governo Monti e sul suo tentativo estremo di salvare il paese dal default e l’Europa dalla dissoluzione: tra quanti, come il Partito democratico, lo sostengono in modo impegnato e responsabile e quanti vi si oppongono, come Italia dei Valori o Sinistra e Libertà, in modo duro, aspro, radicale. E che ci siano ancora quanti, da ambo le parti, pensano che possa trattarsi di una parentesi, chiusa la quale si possa tornare a costruire un’alleanza per vincere.
Ma vincere cosa? Certo non il governo del paese, posto che con simili premesse è evidente che non si saprebbe cosa farsene. Come si potrebbe governare senza idee chiare e convergenti, non sui dettagli, ma sui fondamenti della politica economica, di quella europea, di quella estera? L’esperienza dell’Unione (2006-2008) ha dimostrato che non è possibile.
La storia di questi anni ci ha detto che non è per questa via, la via delle alleanze ambigue sul piano della cultura politica e reticenti sul piano programmatico, che si costruisce l’Italia dei democratici. Perché nessuno dei problemi «di sistema», che rischiano di portare il paese al disastro, può essere affrontato se non attraverso un profondo cambiamento dello stato attuale delle cose. E nessun governo sarà in grado di realizzarlo, il cambiamento necessario, se non avrà chiesto e ottenuto dalla maggioranza degli elettori un preciso mandato a farlo, sulla base di un discorso di verità, proposto al paese prima e non dopo le elezioni.
Per la banale ragione che il possente intrico di interessi mobilitati nella difesa dello status quo sarà sempre in grado di prevalere se i riformisti al governo non potranno usare, per piegare la reazione dei conservatori, la forza di un esplicito mandato, richiesto agli elettori e da loro conferito.
Neppure questo basterà. Dovrà essere chiaro, nel dialogo di verità tra i democratici e gli elettori, che il cambiamento di cui il paese ha bisogno può essere realizzato solo nel corso di un ciclo di governo che abbracci almeno due legislature: un vero ciclo riformista, come quelli che hanno cambiato tutti i paesi europei e che l’Italia invece non ha mai conosciuto. Proprio per questo, per il carattere radicale, unitario e di lungo periodo del cambiamento necessario, il progetto dei democratici deve essere ben definito fin dall’inizio e la sua trasformazione in atti di governo deve cominciare dal primo giorno della prima legislatura.
Ci duole ammetterlo, ma non ci pare che al momento il centrosinistra e lo stesso Pd dispongano di un progetto del genere e siano in grado di comunicarlo al paese. Altrimenti non ci saremmo trovati e non ci troveremmo nella strana condizione per cui il fallimento del governo Berlusconi si è tradotto in una caduta verticale di credibilità della politica nel suo insieme e non, come sarebbe stato naturale aspettarsi, del solo centrodestra. Altrimenti non avremmo assistito e non assisteremmo al curioso e inedito fenomeno per cui la caduta di consenso del centrodestra sta ingrossando ormai da anni le fila dell’astensione o delle forze populiste, più o meno antisistema, mentre nemmeno uno di quei voti si è finora spostato verso il centrosinistra e verso il Partito democratico.
A noi parrebbe che di paradossi come questi varrebbe la pena parlare, ragionare, discutere. E invece il centrosinistra, e il Pd in particolare, ormai da anni vivono col fiato sospeso, come se un qualsiasi accenno di vera discussione interna potesse spezzare l’incantesimo della crisi del berlusconismo e di una possibile vittoria del centrosinistra, ottenuta per abbandono del campo da parte dell’avversario.
Noi pensiamo che non si possa costruire nulla di solido su fondamenta tanto fragili. Non si costruisce, come abbiamo detto fin qui, sulla reticenza programmatica, sul primato della convenienza tattica sul merito strategico, una prospettiva di governo che si proponga non di galleggiare sui problemi del paese, ma di affrontarli con lucidità, rigore, determinazione adeguati alla gravità del passaggio storico che l’Italia sta vivendo.
Ma non si costruisce nemmeno un partito, quanto meno un partito «democratico», sull’identificazione tra discussione politica interna e attentato all’unità del partito stesso, tanto più riprovevole in quanto farebbe «il gioco dell’avversario».
Se ci siamo decisi a raccogliere in queste pagine alcune «idee per un manifesto riformista» è perché pensiamo che mai come oggi ci sia bisogno di un Partito democratico che coltivi ed esprima quella che a noi da sempre piace chiamare la sua «vocazione maggioritaria». Che non è una presuntuosa pretesa di autosufficienza, né il banale auspicio di diventare maggioranza, ma lo sforzo di parlare a tutto il paese (e non solo alla parte tradizionalmente orientata a sinistra), a partire da una lettura realistica e spregiudicata delle sfide che esso ha dinanzi a sé e dalla ricerca, aperta, curiosa, pragmatica, delle vie per affrontarle nel modo migliore: naturalmente, sulla base dei nostri ideali, gli ideali dei democratici, a cominciare da quello dell’uguaglianza.
Noi pensiamo che solo per questa via il Pd potrà ampliare i suoi consensi, diventare il primo partito italiano, per virtù propria e non per abbandono degli avversari, e proporsi quindi come il motore di un governo capace di rimuovere gli ostacoli che oggi bloccano lo sviluppo del paese: una disuguaglianza troppo grande, una crescita troppo lenta, un debito pubblico troppo pesante.

La Stampa 30.8.12
Intervista
“Vendola sbaglia, dobbiamo riprendere l’agenda di Monti”
Morando (Pd): l’alleanza con Udc e Sel va fatta prima del voto
di Amedeo La Mattina


ROMA Non aver invitato Fornero è stato un gravissimo errore politico, una discriminazione nei confronti di un ministro che ha tutta la mia stima Enrico Morando Senatore Pd e membro della Commissione Bilancio
Senatore Morando, Bersani sceglie Vendola a Casini ma l’alleanza con l’Udc sembra rimanda a dopo le elezioni. Vendola comunque esulta e in un’intervista alla Stampa sostiene che questo significa il superamento dell’agenda Monti. Lei, che rappresenta l’area liberal del Pd, che ne pensa?
«Penso che non funziona proprio lo schema di fondo, cioè dire che noi del Pd e Vendola siamo i progressisti e dopo il voto vedremo se ci sono condizioni per formare una maggioranza con i moderati. Lo stesso Casini sposa questo schema e dice “ognuno si occupi del proprio campo”. Ecco, è una logica sbagliata, è uno schema che non funziona. Abbiamo a che fare con problemi strutturali che preesistono a Berlusconi (lui li ha solo aggravati...) e che possono essere affrontati solo da un governo che abbia la forza necessaria per il cambiamento. Non si potrà continuare a dire “io voglio cambiare ma l’alleato non me lo permette”. Se non è chiaro prima quello che si vuole fare, il Pd non avrà la necessaria forza espansiva e non conquisterà nuovi consensi come è dimostrato dal fatto che dal crollo del Pdl e della Lega noi è riuscito ad attrarre granché. Come fare? Qui viene il dilemma tra continuità o rottura con l’agenda Monti: è chiaro che dobbiamo presentare un progetto più ambizioso ma deve essere coerente con quello che abbiamo fatto sostenendo il governo dei tecnici».
Per lei dovranno prevalere elementi di continuità.
«Sì, non ho dubbi. Del resto rinegoziare con Bruxelles, come dice Vendola, e immagino si riferisca al fiscal compact e al Meccanismo europeo di stabilità, è una strada che non ci porta da nessuna strada. Immaginate cosa sarebbe successo ieri se Monti fosse andato a dire una cosa del genere alla Merkel o cosa accadrebbe se a farlo sarà Bersani come presidente del Consiglio italiano... Altra cosa è dire “ora dobbiamo fare un trattato sulla crescita”, cioè andare avanti non tornare indietro».
Ci fa un esempio concreto?
«La riforma previdenziale. Nell’intervista al suo giornale Vendola dice che vuole rivederla. Sia chiaro, il problema degli esodati è di enorme portata e va assolutamente risolto ma non mettendo in discussione le decisioni del ministro Fornero ma con politiche attive di sostegno al reddito e di aiuto nella ricerca del lavoro alle persone che non hanno né stipendio né pensione».
A proposito della Fornero: è stato giusto non invitarla alle feste dell’Unità?. Luigi La Spina sulla Stampa ha parlato di “tentazione autoritaria” del Pd. Lei è d’accordo in questo giudizio?
«Non parlerei di “tentazione autoritaria”, è veramente troppo, ma non avere invitato Elsa Fornero è stato un gravissimo errore politico, una discriminazione nei confronti di un ministro che ha tutta la mia stima e che ha avuto la determinazione nel portare avanti le riforme sulla previdenza e il mercato. È necessario porre rimedio a questo errore, così come credo sia stato un grave errore politico non avere invitato la Fiom».
Per tornare alle alleanze con Vendola e Casini, come se ne esce?
«Il Pd non può essere il semplice regista di alleanze tradizionali: deve essere l’asse di riferimento programmatico. Quando l’Spd faceva le alleanze con i Verdi tutti sapevano che la posizione di leadership era dei socialdemocratici. La stessa cosa è successa tra Cdu e Liberali».
Quindi alleanze con Udc e Sel prima del voto?
«Certo, con il Pd nel ruolo guida e un profilo egemone molto netto. Sono contrario a ipotesi di listone unico con Sel di cui si vocifera. E poi stiamo attenti alla legge elettorale: l’ipotesi che circola (premio al primo partito e le preferenze) è pericolosamente simile al sistema greco».

l’Unità 30.8.12
Nicola Latorre: «Le primarie saranno la volata del partito nuovo, con Vendola»
«Non penso ad annessioni ma a un grande progetto per ricostruire l’Italia Dopo l’eccezionalità del governo Monti bisogna aprire una nuova fase»
di Maria Zegarelli


Le primarie le faremo e spero siano la volata finale verso un unico grande partito nel quale c’è anche Vendola». Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo Pd al Senato, non abbandona la sua idea, quella a cui lavora da parecchio tempo, Vendola e Nencini nella grande famiglia democrat.
Latorre, intanto resta da capire cosa vuole fare Berlusconi nell’immediato. Vuole il voto anticipato oppure no? «Io credo che stia avvenendo esattamente il contrario di quello che si racconta in questi giorni. Berlusconi e il Pdl hanno tutto l’interesse ad evitare le urne adesso perché sperano di poter recuperare terreno fra l’elettorato. Ma dal momento che si è chiarito, ancora una volta, che non ci sarà alcun voto anticipato, mi auguro che si facciano passi in avanti sulla legge elettorale e mi sembra che non sia andata male nel corso della riunione del Comitato ristretto che si è da poco conclusa».
Lei continua ad essere ottimista sulla legge elettorale. Ma allora ci spiega perché se ne parla da mesi e poi quando si tratta di stringere salta tutto? «Perché il Pdl, per paura che fatta la legge si vada ad elezioni anticipate, continua a fare melina. Un enorme errore: intanto perché le elezioni anticipate le decide il Presidente della Repubblica e poi perché se l’avessimo approvata ci saremmo potuti concentrare sull’emergenza economica che riguarda tutto il Paese». Anche tra voi le idee non sono proprio chiare: Bersani ritiene paletti irrinunciabili sia il premio di maggioranza alla coalizione sia i collegi uninominali. Enrico Letta apre alle preferenze, il Pdl punta al premio al primo partito...
«Il Pd ha una posizione chiara così come è consapevole che bisognerà arrivare ad un punto di mediazione. Stiamo cercando una sintesi possibile, pensando a quella che potrà essere la legge migliore per il Paese, che renda certo la sera delle elezioni chi ha vinto e che dia la possibilità agli italiani di scegliere i propri parlamentari. Secondo noi questi obiettivi si possono raggiungere o con un premio di coalizione o di maggioranza che garantisca la governabilità. Non ci piacciono le preferenze, proponiamo i collegi uninominali, ma non intendiamo mandare all’aria l’intesa, siamo pronti a discutere. È il Pdl che deve dimostrare che vuole fare».
E subito dopo al Pd toccherà preparare le primarie. Non temete una campagna elettorale lacerante?
«Bersani con un atto di straordinaria forza e generosità ha detto che sceglieremo la nostra leadership al Paese sulla base delle primarie. Continuo a ritenere che debbano coinvolgere il grande popolo del partito democratico e questo è il grande atto di generosità che colgo nella decisione del segretario. Voglio dire che oltre a Renzi, che è già un esponente del Pd, tutte le altre candidature possono essere un fatto propedeutico alla partecipazione di queste personalità, e dei mondi che rappresentano, allo stesso partito».
Lei continua ad accarezzare questo progetto, ma Vendola è stato chiaro: nessuna annessione, insieme ma distinti. «Credo che non solo questo possa avvenire ma sono convinto che siano maturi i tempi oggi. Il Pd non pensa ad annessioni: lavora ad un grande progetto politico che ha come obiettivo quello di restituire alla democrazia italiana un soggetto in grado di ricostruire il Paese. Sulle questioni di fondo ci sono tutte le condizioni per un confronto che porti allo stesso soggetto politico, pur con una serie di modulazioni e articolazioni che sono proprie di un grande partito di governo. Le primarie possono essere la volata finale. Dopo il governo Monti, che ha una maggioranza eccezionale per una emergenza eccezionale, deve iniziare una nuova fase». Quello che non si capisce ancora con chiarezza è come farete a tenere insieme un governo che dovrà reggersi sull’appoggio di Vendola e quello di Casini.
«Noi con Casini contempliamo la possibilità di un accordo, utile all’Italia, tra soggetti diversi che si sono resi autonomi dal berlusconismo e che in questi anni hanno maturato un margine di intesa significativo. Con le altre forze non vogliamo siglare solo un’alleanza ma un soggetto politico più ampio». Latorre, ma Casini propone assoluta continuità con l’agenda Monti, Vendola una cesura.
«Ma che vuol dire continuità con l’agenda Monti? Il programma di questo governo è un programma di emergenza, in una fase eccezionale, non a caso sostenuto da forze tra loro alternative. La ricostruzione democratica a cui noi pensiamo implica l’inizio di una nuova fase politica. Noi continueremo il risanamento ma ispirandoci con chiarezza ai valori della giustizia sociale, abbiamo le nostre proposte, come la redistribuzione del carico fiscale, l’introduzione della patrimoniale per alleggerire l’Imu...».
E di questa durissima polemica tra Bersani e Grillo che dice?
«Intanto chiariamo che non è una polemica a sinistra, come qualcuno ha scritto. Quando Bersani polemizza con Grillo, poi, non difende se stesso, ma un patrimonio comune di tante persone che non accettano di essere insultate. Bersani ha detto chiaramente che noi combattiamo la destra e tutti coloro che anche indirettamente portano acqua a quel mulino. Cosa che Grillo puntualmente fa».

Repubblica 30.8.12
L’intervista
Landini e l’assenza della Fiom alla festa Pd: preoccupa che forze della sinistra non si occupino del lavoro. E nega liste o candidature
“Sbagliato non invitarci per nascondere dissensi”
di Paolo Griseri


ROMA — La Fiom non è un partito, Maurizio Landini non si candiderà alle elezioni. «La Fiom - dice il segretario dei metalmeccanici della Cgil - è sempre stato un sindacato che vive nella società. Se siamo in piedi da più di cent’anni lo dobbiamo a questa caratteristica. Ma ognuno fa il suo mestiere».
Landini, come commenta la decisione del Pd di non invitarvi alla festa nazionale che si tiene nella sua Reggio Emilia?
«Osservo che alle feste della Fiom, in corso in tutta Italia, i partiti della sinistra sono sempre stati invitati, a partire dal Pd».
La infastidisce il mancato invito?
«Mi infastidisce che i partiti della sinistra si occupino poco dei problemi del lavoro, questo è il nodo centrale».
Può consolarsi: a Reggio Emilia non è stata invitata nemmeno la Fornero...
«Noi abbiamo molti punti di dissenso con il ministro Fornero ma abbiamo appoggiato la richiesta dei delegati dell’Alenia di un confronto in fabbrica e il ministro ha partecipato a quell’assemblea. I lavoratori non hanno paura del confronto. Non è una buona regola quella di evitare gli inviti per nascondere le differenze ».
Vendola, Di Pietro, Grillo e Bersani: chi è più vicino alle vostre posizioni?
«Noi non esprimiamo preferenze, chiediamo alla politica un impegno chiaro per riportare la democrazia nelle fabbriche, contrastare la precarietà, lavorare per lo sviluppo industriale del paese, evitare che siano i lavoratori dipendenti a pagare l’evasione fiscale e la corruzione».
Non ci sono questi impegni nei programmi dei partiti della sinistra?
«Modificare l’articolo 18 e allungare
l’età pensionabile creando il problema degli esodati non mi sembrano scelte che
vanno in questa direzione».
Ha ragione Bersani quando accusa Grillo di usare un linguaggio fascista?
«A me l’antipolitica non è mai piaciuta. Ho un’altra formazione. Ma non basta una battuta sul linguaggio a risolvere il problema. Il problema non è Grillo ma il vuoto che Grillo riempie. Non è lui, sono i tantissimi che lo considerano una soluzione».
Tra gli operai ha un vasto seguito?
«Oggi se vuoi strappare l’applauso in fabbrica basta attaccare i politici e viene giù la platea. Facile no? Ma è una situazione molto preoccupante, sintomo dei ritardi dei partiti di sinistra. Non invitare i metalmeccanici alle feste significa mettere in secondo piano vicende come quelle dell’Ilva, dell’Alcoa, della Fiat. Dire che si vede la fine del tunnel della crisi quando i minatori scendono nei pozzi per difendere il lavoro, significa raccontare al paese una storia che non ha raffronti con la realtà. Questa distanza crea un vuoto che altri finiscono per riempire».
Si potrebbe riempirlo con una lista della Fiom alle elezioni?
«Siamo un sindacato, non un partito. Non ci sarà alcuna lista della Fiom».
Esponenti della segreteria nazionale nelle liste di partito?
«Personalmente conto di continuare a fare il segretario. Non mi candiderò in politica».

Repubblica 30.8.12
Milano, fuoco amico sulla decisione di inserirlo nella Carta dei diritti del malato: frena l’ala cattolica. La vicesindaco Guida: “Ci sono altre priorità”
Testamento biologico, si spacca la giunta Pisapia
di Alessia Gallione


MILANO — Le polemiche erano attese, come ogni volta che viene toccato un tema etico. Ma il primo fuoco arrivato sulla decisione del Comune di Milano di avviare il percorso verso il testamento biologico è stato amico. Di più: interno
alla giunta Pisapia. Perché sul registro di fine vita a essersi spaccati sono gli assessori. Le frenate più decise, come era già accaduto per il registro delle unioni civili appena approvato, sono arrivate dall’ala cattolica del centrosinistra: «Nessuna fuga in avanti». E in prima fila c’è Maria Grazia Guida, la vicesindaco che neppure sulle coppie di fatto era stata così netta. «Un tema così importante per la vita delle persone e che tocca la sfera etica e spirituale ha bisogno di una riflessione più approfondita che tenga conto delle varie sensibilità », ha scandito. Aggiungendo, però, un carico che va oltre la prudenza: «L’amministrazione comunale ha altre priorità».
Per ora è un principio politico. È inserito lì, l’argomento che divide la città: in un punto della “Carta dei diritti del malato”, a sua volta allegata al Piano con cui l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino disegna il futuro del welfare della città e che la giunta discuterà la prossima settimana. Articolo 13: «Diritto alla manifestazione anticipata delle direttive di fine vita», il titolo. Poche righe per dire che, ogni «individuo ha il diritto di esprimere le proprie volontà rispetto al rifiuto dell’ “accanimento terapeutico” in condizioni di coma irreversibile o di disagio estremo», a rifiutare l’assistenza religiosa e a decidere su donazione degli organi e cremazione. Per avere, come è già accaduto in un centinaio di altre città italiane, un registro comunale che, in attesa di una legge nazionale, conservi queste volontà, però, sarà necessario una delibera del Consiglio comunale. Ma tanto è bastato a scatenare la bufera. Quel principio è stato scritto, per la prima volta, in un documento ufficiale della giunta. Ed è proprio questo uno dei punti contestati dai cattolici: «inopportuno» discuterne insieme ai servizi sociali. La vicesindaco Guida chiede un passo indietro e di eliminare l’articolo incriminato dalla Carta. Una grana per Giuliano Pisapia, in questi giorni in vacanza lontano da Milano. Anche un altro assessore cattolico dei Democratici come quello alla Sicurezza Marco Granelli invoca un «dibattito serio». Perché «il registro non era nel nostro programma elettorale e non penso sia un tema di competenza comunale». L’assessore Majorino che, quella Carta l’ha voluta, cerca di placare gli animi: «Non ci saranno forzature e sono sicuro che troveremo una sintesi in giunta», assicura. «Sul principio, però, sono estremamente convinto che il Comune in assenza del parlamento debba andare avanti». Schierato a favore anche un laico come l’assessore alla Cultura Stefano Boeri: «Si deve riconoscere che il nostro Stato è laico e deve permettere ai cittadini di scegliere». Soddisfazione, con Marco Cappato, dai Radicali che hanno raccolto migliaia di firme per discutere in Consiglio comunale quattro delibere di iniziativa popolare che comprendono anche il fine vita. Sul fronte dell’opposizione, l’ex vicesindaco del Pdl Riccardo De Corato attacca: «Un’altra battaglia-farsa del centrosinistra».

Corriere 30.8.12
Un altro primario: «Bocciato a medicina». Confronto sul web
di Alessio Ribaudo


Ieri Giuseppe Remuzzi, primario di nefrologia e dialisi agli Ospedali Riuniti di Bergamo, sul Corriere della Sera ha coraggiosamente ammesso che i test per accedere alla facoltà di Medicina «forse non li avrebbe passati».
Il medico, autore di 800 pubblicazioni scientifiche, ha raccontato «di aver commesso almeno 15 errori» e ha polemicamente sottolineato come nei test sottoposti per le esercitazioni agli studenti non ci siano domande per capire «se il futuro medico saprà parlare agli ammalati e stargli vicino, e nemmeno una domanda d'inglese».
Un sasso lanciato nel mare della Rete che ha scatenato il dibattito sia sul sito Corriere.it sia sui social network.
«Anch'io sono stato primario di un reparto di medicina fino a quattro anni fa — scrive Giancarlo Bellogini — e certo se ai miei tempi, ci fosse stato il "test di ingresso" non avrei superato l'esame: troppo cervellotico. Quando, invece, mi sono iscritto al primo anno della scuola di specialità in Medicina interna, ho dovuto superare una prova scritta (domande a risposte multiple): ma quelle erano tutte domande relative ad argomenti — anche se non conosciutissimi — di Medicina. Ho però sempre preferito i colloqui, che mi paiono l'unico modo per capire se e quanto un candidato è capace di ragionare su un argomento attinente al suo campo di studi».
I «camici bianchi» non mandano proprio giù questo sistema. «Sono un medico con esperienza ventennale in ospedale — sottolinea Devigly — e attualmente medico di base. Ogni anno faccio da tutor a medici neolaureati e a studenti del VI anno di medicina. Questa esperienza, assieme al contatto con gli specialisti di ogni disciplina, mi ha dato conferma dell'assurdità dei test per l'ingresso alla facoltà: l'iscrizione dovrebbe essere libera e la selezione dovrebbe essere fatta con gli esami! Non esiste, a priori, un metodo discriminante: è sul campo (esami) che si vede la capacità e l'eventuale talento. Tutto dipende dai docenti: sono loro a dovere selezionare».
Su Twitter, contro il vittimismo dei candidati, cinguetta @IlMassiimo: «All'estero il 99% di quelli che si lamentano di non aver passato il test non avrebbe nemmeno i requisiti per iscriversi a medicina». Gli fa eco LeoSal: «Alle elementari è impossibile bocciare, alle medie non si fa torto a nessuno, alle superiori si da il diploma a tutti e poi, in un giorno di settembre, ci accorgiamo che non possiamo diventare tutti medici.. mah?!». Per coloro i quali ritengono cervellotiche le domande dei test d'ammissione alla facoltà Medicina interviene @Etenevaivia: «Nel mio test per logopedia c'era la domanda: che cos'è un ferro da stiro?». Mal comune, mezzo gaudio.

La Stampa 30.8.12
Mps affonda dopo i conti
Il titolo cede l’8% Il nodo del prezzo per l’intervento dello Stato
di C. C.


MILANO La pulizia in casa Mps a colpi di svalutazioni che ha portato a 1,61 miliardi di perdite non è piaciuta a Piazza Affari. Le azioni Mps hanno chiuso ieri in calo del 7,97%. In Borsa sembra, dunque, già passata l’euforia della scorsa settimana finita anche sotto i riflettori della Consob. L’andamento del titolo rischia di complicare il salvataggio pubblico da parte del governo Monti.
Mps attingerà come previsto ai prestiti del ministero dell’Economia per 3,9 miliardi, di cui 1,9 miliardi per sostituire i Tremonti bond già ottenuti. Gli accordi con lo Stato prevedono però che il Tesoro non incassi alcuna cedola ma venga remunerato in azioni se Siena a fine anno resterà a secco di utili. Il problema è il prezzo: i titoli del Monte non verranno valutati al valore di mercato ma a quello del patrimonio netto (1,05 euro ad azione al 31 marzo scorso). Tradotto in percentuale, il governo rileverebbe una quota del 3,5% circa (valorizzando i titoli al patrimonio netto) ogni volta che Mps non dovesse riuscire a ripagare gli interessi in contanti. In caso di azioni emesse agli attuali corsi, invece, il ministero dell’Economia si troverebbe ad avere in mano circa il 14% della banca. Sugli aspetti economici dei titoli da cedere al Tesoro si attendono le comunicazioni della Commissione Europea che è stata chiamata a esprimersi sulla compatibilità delle misure decise. Il verdetto condiziona la stessa sottoscrizione dei nuovi bond statali e più si discosta il prezzo di mercato da quello del patrimonio netto della banca, fa notare un analista, e più rischia di diventare controverso agli occhi della Commissione la possibilità di pagare in azioni sulla base del valore di libro. “Non è chiaro il motivo per cui questo possa essere usato come benchmark dal momento che il valore di libro non è allineato con il valore di mercato della banca”, si legge anche in uno studio sul Monte di Bank of America-Merrill Lynch.
Nel frattempo, l’associazione dei piccoli azionisti dell’istituto senese chiede che i soci di minoranza non siano esclusi da un eventuale aumento di capitale da 1 miliardo. Dopo la convocazione per il 9 ottobre dell’assemblea straordinaria che dovrà deliberare la delega al cda, viene infatti contestata l’esclusione dal diritto di opzione. “Il management sta chiedendo ai propri azionisti di potersi scegliere il prossimo azionista di riferimento, o le ormai acclarate indisponibilità della Fondazione a esercitare il proprio ruolo storico continuano a influenzare l’andamento economico e proprietario della banca?”, si domandano i piccoli azionisti in una nota. Promettendo battaglia in assemblea.

il Fatto 30.8.12
Fausto Bertinotti è stato ospite di Gigi Marzullo martedì notte su Raiuno
di Nanni Delbecchi


[...] Ma il vero asso nella manica Gigi l’ha estratto con un collegamento da Perugia, dove, per chiedersi dove va il cinema, ma anche dove vanno l’Italia, l'Europa, il mondo (con un occhio alla Via Lattea), c’era Fausto Bertinotti; anzi, “il Presidente Bertinotti”, come Marzullo non si stancava di apostrofarlo.
Dimagrito, abbronzato, privato del tradizionale tweed dall'anticiclone Lucifero, ma avvolto nel consueto linguaggio fatto di “tensioni utopiche” e “ricognizioni problematiche”, il Presidente Bertinotti era sempre lui. Sono più di quattro anni che ha abbandonato la segreteria di Rifondazione, e con essa i salotti tv, ma sembravano cinque minuti: “Viviamo una doppia crisi. È in crisi il cinema, ma soprattutto è in crisi il mondo...” “Nel festival del cinema c’è un regime? Magari ci fosse solo lì. Io lo vedo dappertutto, siamo circondati...”. Marzullo pendeva dalle sue labbra e non si stancava di ripetere la parola magica: “Presidente, lei cosa ne pensa?” “Ci dica, Presidente...” “Ma davvero dobbiamo essere pessimisti, Presidente?”. Ma no che non dobbiamo. In chiusura di trasmissione, l’uomo che nel '99 in nome delle magnifiche sorti e progressive mandò a casa Romano Prodi si è congedato con un brechtiano elogio del dubbio. “Oggi noi siamo in prigione. Ma forse anche una manifestazione cinematografica può iniziare a sgretolare questa prigione”. E sembrava che ci credesse davvero, il presidente Bertinotti. Forse gli pareva di essere lui stesso un evaso dal regime totale globale, e di liberarci almeno un po' dalle catene, martedì notte, su Raiuno, in collegamento con Gigi Marzullo.

l’Unità 30.8.12
Psiche e sentimenti
La cognizione del dolore
Una perdita può rivoluzionare la narrazione di noi stessi
La sofferenza non è una maestra, non viene ad insegnarci nulla

Talvolta può annientarci oppure può spingerci a guardare con occhi diversi il nostro «romanzo familiare»
di Anna Salvo
, psicoterapeuta

SARZANA. Il Festival della Mente. La psicoterapeuta Anna Salvo è tra i protagonisti della IX edizione del Festival della Mente che avrà luogo a Sarzana da domani al 2 settembre. Proprio domani alle 19 presso la sala Canale Lunense, terrà l’incontro «Il dolore è un cannocchiale che porta lo sguardo lontano». Il Festival ha in programma 85 eventi. Tra gli ospiti Marc Augé, Ascanio Celestini, Franco Cordero, Erri De Luca, Sergio Givone, Marco Paolini, Tullio Pericoli, Luca Ronconi, Gustavo Zagrebelsky.

«TRASCORRIAMO I NOSTRI ANNI COME UNA STORIA CHE VIENE RACCONTATA». LA FRASE NON APPARTIENE AD UN QUALCHE SAGGIO DI FILOSOFIA POST-MODERNISTA, ma si trova scritta nel libro dei Salmi. Citarla all’inizio di questo scritto accoglie ed esprime il desiderio di rimarcare le origini remote della questione della narrazione o, meglio, dell’intreccio fra narrazione ed esistenza. (...)
Fedele, dunque, a uno dei più significativi insegnamenti freudiani, porrò una domanda. Cosa raccontiamo quando raccontiamo la nostra storia? La domanda, nella sua semplicità quasi imbarazzante, impegna a una sorta di indagine, ad un’opera di scavo; e prospetta una dimensione forse inattesa, quella dell’esercizio del sospetto. Perché induce a mettere in questione la certezza che il nucleo del nostro racconto sia sempre e comunque la verità. Quando Freud usa il termine «romanzo familiare» per denotare il racconto di sé che il paziente traccia nella stanza dell’analisi, pone uno sguardo nuovo e, credo, sorprendente per definire ciò che quella narrazione produce. Una sorta di romanzo, appunto. Un testo che contiene elementi creativi, aggiustamenti e passaggi che non necessariamente corrispondono a quanto è di fatto accaduto.
Chi è l’autore di tale opera a carattere romanzesco? Di certo colui che racconta. Ma possiamo pensare che l’opera si svolga tutta e soltanto nella decisione volontaria di abbellire, spianare, drammatizzare o rendere più interessante la narrazione di sé? Se la risposta a questa domanda fosse affermativa, ciascun narratore della propria storia diventerebbe un millantatore, un impostore, un cultore della finzione o, più semplicemente, un bugiardo.
La risposta del sapere psicoanalitico a questa domanda complica la vicenda e strappa dall’orizzonte della menzogna volontaria. L’autore del «romanzo familiare» non è il soggetto inteso soltanto nella dimensione e nella prospettiva della decisione, dell’intenzione volontaria o del gesto premeditato. L’autore è da rintracciare anche (o, forse, soprattutto) nelle zone più profonde e ingovernabili della psiche. Nell’inconscio. (...)
È l’inconscio a suggerire un certo modo di collocare le persone che hanno fatto e fanno vivere la nostra storia; è l’inconscio a calcare la mano su una particolare connotazione di questo o quel personaggio (chi, ad esempio, non ha mai pensato o detto «mia madre preferiva mio fratello»? o «mio padre faceva fatica ad accettarmi»?); è l’inconscio a irradiare la propria forza nell’attribuire affetti e sentimenti.
Mettere in campo l’inconscio produce, come dicevo, una visione della narrazione di sé complessa e intricata. Noi – protagonisti, autori e registi del nostro «romanzo familiare» – ondeggiamo fra verità e costruzioni di verità, oscilliamo fra le une e le altre, scivoliamo (senza saperlo) fra pezzi di racconto che dicono e non dicono quanto è accaduto. È possibile, allora, che i personaggi principali (la madre, il padre) cambino in qualche modo connotazione? Che alcuni episodi vengano letti in altro modo? Che l’ordito dei complessi affetti infantili venga vista in una luce differente? (...)
Prima di procedere, devo ammettere un debito verso Marcel Proust e, in particolare, verso alcune argomentazioni presenti nel Tempo ritrovato, ultimo volume della Recerche. È qui che Proust parla del dolore come di uno «strumento ottico», un occhiale o una lente che consente di vedere ciò che prima non vedevamo. Aggiunge che bisogna «affrettarsi ad approfittare del dolore» perché quel cambiamento di sguardo possa avvenire. Credo che tutti noi sappiamo bene come il dolore – soprattutto quello inflitto da una perdita – si ponga e si imponga allo stesso modo di un macigno. Un peso che annichilisce; un gravame che immobilizza; un deserto che imprigiona nella più intensa e tragica solitudine.
In che modo, allora, il dolore riuscirebbe a dare nuove prospettive al nostro sguardo, fino a portarci verso una differente lettura della nostra storia? Prima di tentare un qualche attraversamento dello spinoso territorio emotivo-affettivo che la domanda lascia intravvedere, vorrei esplicitare che seguire la prospettiva proustiana non significa intendere il dolore come un’esperienza didattica. Il dolore non è un maestro: non viene ad insegnarci nulla. Accade nella nostra vita e, nel suo accadere, ci offre una possibilità. Persistere nell’immobilità e nel lamento cieco; oppure «approfittare» del dolore per riuscire ad inforcare un paio di occhiali capace di consegnarci una visione nuova. Una differente creazione.
IL MOVIMENTO PSICHICO
Accade, talvolta, che un’acuta esperienza di perdita produca, dopo la prima fase dell’urto immobilizzante, un certo movimento psichico; e metta in moto alcune trasformazioni in quella trama degli affetti che costituisce il nucleo ardente della nostra storia. Ciò che voglio dire è allo stesso tempo semplice e complesso.
A volte il dolore patito riesce a condurre verso una visione e una lettura differenti del proprio mondo affettivo e, quindi, della propria storia. Altre volte, no. E non ci sono formule semplici per poter dire se accadrà o meno. Certo, quando il passaggio viene affrontato, la sofferenza diventa una sorta di elemento sovversivo, capace di incidere la rigidità con cui la narrazione della nostra storia (a noi stessi e agli altri) si era fin lì posta (...)
Sarebbe eccessivo e fuorviante sostenere che il dolore ci rende capaci di riscrivere il nostro «romanzo familiare». Più corretto è dire che esso può accompagnarci verso una lettura nuova dei personaggi e delle trame che lo compongono. E se, quando parliamo di noi, siamo tutti romanzieri involontari, l’esperienza del dolore è una sorta di occasione per «ricreare» il romanzo, per dargli nuovo respiro e nuove visioni.

La Stampa 30.8.12
Non c’è più tempo per la psicoanalisi
Calano le sedute ma i farmaci fanno boom. Colpa della crisi? Non solo, dicono gli esperti. E lo psicologo arriva in farmacia
di Stefano Rizzato


PARCELLE «Anche chi è motivato spesso non riesce più a pagare le sedute»
ANTIDEPRESSIVI Ogni anno + 5,4% nel 2011 ci sono costati 493,3 milioni di euro
20 per cento In tre anni gli psicanalisti italiani hanno perso un quinto delle ore dedicate ai pazienti

MILANO Un tempo, questo era il periodo preferito dagli psicologi. Quello del brusco ritorno alla realtà, dopo le vacanze estive. I giorni in cui vengono a galla desideri insoddisfatti e ansie da prestazione. Il periodo in cui alcuni passavano dal lettino in spiaggia a quello nello studio dell’analista. Ma la crisi, che ha ridisegnato tempi e forme delle vacanze degli italiani, oggi inizia a farsi sentire anche tra i seguaci di Freud e Jung.
Il calo delle ore di psicoanalisi (non esistono statistiche ufficiali, ma tutti confermano) è intorno al 20 per cento. Una seduta su cinque è stata cancellata dalle agende degli specialisti italiani. «Non è una stima esagerata - conferma Stefano Bolognini, presidente della Spi, la Società Psicoanalitica Italiana - c’è una fascia di persone, anche motivate ad andare a fondo dei loro problemi, che ora faticano a fare le tre o quattro sedute settimanali tipiche dell’analisi tradizionale. Sempre più spesso lo psicologo deve concordare l’onorario e rivedere la terapia per venire incontro alle esigenze del paziente».
È la spending review applicata allo spirito. L’ennesimo taglio dato ai consumi meno strettamente necessari. «C’è chi sta provando approcci più mirati - spiega ancora Bolognini - ma la verità è che si fa quel che si può: si cerca di sopperire al meglio alla diminuzione del tempo a disposizione. E si prova anche a porre un freno all’uso indiscriminato di farmaci per controllare l’umore».
Eccolo, l’altro grande nemico degli psicologi d’Italia: la pillola che risolve tutto, almeno in apparenza. L’antidepressivo prescritto da sempre più medici di famiglia. I numeri, da soli, spiegano le dimensioni del fenomeno: nel 2011 gli italiani hanno speso in antidepressivi la bellezza di 493,3 milioni. Dal 2003 a oggi, in media le prescrizioni sono aumentate del 5,4% l’anno. «A volte c’è anche un problema di terminologia dice ancora Bolognini - tendiamo a chiamare depressione anche la comune tristezza, la malinconia che è anche giusto provare in alcune fasi della vita. Ad esempio, è sbagliatissimo ricorrere agli antidepressivi nei casi di lutti, per provare a “curare” una perdita che va elaborata e che solo così si può superare».
Ecco che allora che in diverse città si sta diffondendo lo «Psicologo in farmacia», un servizio gratuito che vede professionisti e enti locali collaborare in una sorta di pronto soccorso per l’animo. Di solito, è previsto un appuntamento settimanale e un massimo di tre sedute per ogni paziente. A Milano s’iniziò nel 2009, ma il servizio s’è poi esteso anche a Roma: a Torino un’iniziativa analoga dovrebbe partire in autunno, con 86 farmacie e 250 psicologi che hanno già dato la disponibilità a partecipare.
Spiega Roberta Fuga, che coordina il progetto romano: «In tre sedute non è difficile capire se un problema è un malessere normale o se siamo di fronte a un quadro di tipo psichiatrico da affidare a uno specialista. Non è una vera analisi, ma un percorso come questo permette comunque un primo approccio al problema».
E così, secondo qualcuno, la crisi applicata ai lettini non è solo un male. «Può essere l’occasione per un ritorno alle origini sostiene Giuseppe Pellizzari, che dirige il Centro Milanese di Psicoanalisi - non dimentichiamo Freud diede origine alla nostra scienza nella Berlino degli Anni 20, in un momento e in un contesto di grandi difficoltà. L’obiettivo era quello: andare incontro ai bisogni della gente. Si può fare anche oggi. A Milano abbiamo diversi consultori gratuiti o a prezzi ridotti, ai quali si può rivolgere chiunque».

La Stampa 30.8.12
Intervista
Zoja: “Fretta e frenesia sono i nostri nemici”
di S. Riz.


LA NOVITÀ «Sempre più spesso si “vedono” i pazienti in chat, su Skype»
I PRECEDENTI «Negli Usa 10 anni fa la gente chiedeva consulti al telefono»
3 anni Tanto durò la collaborazione tra Freud e Jung, fino ai primi dissapori del 1910"

Il suo libro più recente è «Paranoia, la follia che fa la storia», Bollati Boringhieri

L’ inconscio c’era nel Paleolitico e c’è ancora. Anche se abbiamo Internet e i cellulari». A chi considera la psicoanalisi una pratica fuori dal tempo, Luigi Zoja risponde così. Psicoanalista junghiano di fama internazionale, Zoja si definisce un «romantico». E non vuole sentir parlare di analisi virtuale.
Professore, in un mondo così frenetico e sempre connesso, la psicoanalisi e i suoi rituali rischiano di sparire?
«Non credo. L’essere umano ha sempre avuto una parte irrazionale, la capacità di sognare, è sempre stato influenzato da meccanismi inconsci. L’ansia nel cambiar lavoro, la tendenza a innamorarsi della persona sbagliata esistevano nel Settecento e nell’Ottocento ed esistono ancora oggi».
Però sembra venir meno la volontà di «coltivare l’anima», per dirla con il titolo di un suo libro.
«La correggo: non è una questione di volontà, ma di società. Viviamo in un mondo in cui tutto è misurato in termini numerici, economici e di risultato. I pazienti più giovani che io e i miei colleghi ci troviamo di fronte sono nati già immersi in questo contesto di fretta e frenesia: è inevitabile che si approccino all’analisi in modo diverso».
I pazienti oggi hanno meno disponibilità economica, ma il cellulare e Facebook. I nuovi modi di comunicare non finiranno per mandare in pensione il tradizionale lettino?
«Negli Stati Uniti qualcosa di simile avviene da tempo. Una decina d’anni fa ero a New York e mi stupivo della frequenza con cui i miei colleghi si trovavano di fronte ad appuntamenti cancellati e a pazienti che, avendo pagato, chiedevano un consulto via telefono. Oggi la tentazione è fare analisi in videochat, via Skype. Negli Usa stanno nascendo studi interamente online, senza alcun rapporto diretto tra analista e paziente».
Lei che ne pensa?
«Be’, chiunque può capire che un analista intuisce molte cose anche dal linguaggio non verbale, dai gesti non coscienti dei pazienti. Se l’alternativa è tra interrompere il percorso con uno psicologo e continuarlo via Skype, ben venga Skype. Invece la psicoanalisi online, via Internet, mi sembra una forzatura».
La vostra professione come si sta adattando, davanti a questi cambiamenti?
«C’è un intenso dibattito, in tutto il mondo. Il problema è che si pensa troppo in termini medici, di pazienti da “curare”. Ma la psicoanalisi è una scienza umana, più vicina alla filosofia che alla medicina. E anche per questo, più che i modelli precostituiti, conta molto la sensibilità di chi la fa».

Corriere 30.8.12
Perché la grammatica può mettere d'accordo filosofia e neuroscienze
Teorie del linguaggio simili al cielo stellato
di Andrea Moro


Ammettiamolo: tutti noi abbiamo una nostra teoria del linguaggio. Non è come in fisica o in chimica dove un certo timore reverenziale per la natura dei fenomeni osservati ci trattiene dal formulare spiegazioni avventate. Con il linguaggio, le cose vanno diversamente. Forse per il semplice fatto che tutti parliamo, forse per la grande facilità nell'ottenere dei dati, fatto sta che ci sentiamo autorizzati ad avere una «spiegazione» naturale di questo fenomeno. Questo stato di cose, inoltre, non caratterizza solo noi come individui ma anche la cultura dominante di un periodo storico, praticamente lungo tutto il percorso culturale della nostra civiltà. Il risultato è una sovrabbondanza unica nella storia del pensiero: praticamente ogni epoca, ogni cultura hanno espresso una teoria dominante sulla natura del linguaggio umano, a tal punto che seguendo lo sviluppo di queste riflessioni specifiche possiamo avere un campione dello «spirito del tempo», cioè della visione generale della realtà, come se la riflessione sul linguaggio costituisse una specie di «questione omerica» della storia dell'uomo. Il linguaggio è stato di volta in volta spiegato come fatto prevalentemente culturale, sociale, divino o biologico. Siamo certamente di fronte a una situazione speciale e non è facile capire cosa sappiamo oggi di più sul linguaggio umano rispetto al passato. Sempre che se ne sappia di più.
La situazione è simile a quella alla quale ci troviamo di fronte quando guardiamo un cielo stellato dove le stelle sono le opinioni che nel corso degli anni si sono formate sul linguaggio. Istintivamente, non possiamo fare a meno di congiungere tra loro le stelle che più risaltano: se non siamo particolarmente esperti, o comunque condizionati, ognuno di noi si costruisce le proprie costellazioni, alcune ovvie altre più ardite, altre implausibili. Ma il cielo notturno ha anche un'altra particolarità. Sappiamo infatti che non tutte le stelle che vediamo sono necessariamente ancora attive: la luce che ci arriva è una luce antica, che potrebbe essere ancora in viaggio quando la stella è già morta. Il cielo è dunque contemporaneamente simile a un museo di storia naturale e a uno zoo: accanto ad animali vivi vediamo l'impronta di quelli che non ci sono più. Dunque le nostre costellazioni non solo sono fondamentalmente arbitrarie, ma sono anche in qualche modo dei miraggi che possono anche essere fatti di fantasmi di stelle. Lo stesso accade per le teorie sul linguaggio. Ci sono tantissime opinioni: alcune attuali, altre decadute, altre ricorrenti; ma spesso non ce ne accorgiamo e anche per il linguaggio, come per il cielo stellato, ognuno si costruisce la costellazione preferita.
Un esempio lampante di come le idee sul linguaggio possano essere difficili da interpretare e talvolta sorprendentemente ingannevoli è dato da questa citazione: «La grammatica è la stessa in tutte le lingue come conseguenza di ciò che la costituisce, anche se possono esserci variazioni accidentali». A che epoca corrisponde? Senza una data precisa, questo pensiero potrebbe benissimo essere attribuito a un linguista contemporaneo, di quelli che appartengono al filone inaugurato nella seconda metà del Novecento negli Stati Uniti da Noam Chomsky: da allora, infatti, sappiamo che, se facciamo astrazione dell'arbitrarietà con la quale si abbinano suoni e significati, la struttura delle lingue non può variare a piacimento, ma è vincolata dall'architettura neurobiologica del nostro cervello, del quale è espressione. Eppure il pensiero che sta alla base di questa citazione non si basa affatto su dati sperimentali ma è il frutto di una deduzione fondata su riflessioni filosofiche e, soprattutto, teologiche. Si tratta infatti di una frase tratta da un'opera di Ruggero Bacone, francescano, filosofo tanto famoso ed eccellente da meritarsi il titolo di «Doctor Mirabilis», attivo a Parigi verso la metà del Duecento. Secondo Bacone esiste una sola lingua perché la lingua rifletterebbe la struttura della realtà e, ovviamente, esiste una sola realtà. Secondo Chomsky, invece, esiste una sola lingua perché le lingue sarebbero espressioni di un progetto biologicamente determinato. Le regole di due lingue apparentemente diversissime sarebbero solo l'effetto macroscopico di alcuni (pochi) gradi di libertà microscopici delle quali sono dotate le lingue. Un fatto che stupisce senza dubbio, ma non di più di quanto stupisca il fatto che la differenza tra un maiale e una libellula sta nel numero e nella disposizione di quattro basi azotate lungo la catena del polimero di Dna. Due vie diversissime, dunque, quella neurobiologica e quella teologica, praticamente incommensurabili, eppure convergenti. Ma a seconda del percorso che si è fatto per arrivare alla stessa conclusione si aprono scenari diversissimi. Ad esempio, l'ipotesi biologica di Chomsky costituisce oggi di fatto la base teorica per la ricerca di tipo neurobiologico sul linguaggio, che sta dando risultati sorprendenti e, per certi versi, destabilizzanti.
Questo stato di cose, niente affatto isolato nel pensiero linguistico, ci costringe ad una riflessione inaspettata: nella scienza come altrove il percorso che porta ad una conclusione è decisivo quanto la conclusione stessa, perché è in base al percorso che decidiamo i passi successivi. E siccome la scienza è un percorso continuo, saranno i percorsi aperti da una teoria — le nuove domande, cioè — a qualificarne il valore non i punti d'arrivo. Come dire: non tutte le costellazioni che disegniamo sono utili per tracciare una rotta. La bontà della scelta si può alla fine misurare solo con la risposta della realtà; anche per il linguaggio umano.

Corriere 30.8.12
Cicerone e la filosofia come cura dell'anima
Ma non rinunciò a predicare le virtù civili
di Dino Cofrancesco


«Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l'uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini della sua individualità, a cui è assegnato un compito che si esaurisce». La pagina scritta da Benedetto Croce l'anno prima della sua morte (1951) non può non far pensare ai grandi moralisti classici. E, primo fra tutti, al suo quasi conterraneo, Marco Tullio Cicerone: e non tanto per le opere filosofiche in cui l'Arpinate faceva i conti con le varie scuole greche quanto per le Tuscolane, forse, nel presentimento della morte incombente, il suo scritto più ispirato.
«Non può capitare nulla di male a chi è onesto, né da vivo, né da morto» aveva detto Socrate nel Fedone. La massima avrebbe potuto ben essere incisa su una trave della villa di Cicerone, come le parole dell'Ecclesiaste sulle travi della biblioteca di Montaigne. «La morte — si legge nelle Tuscolane — è tanto lungi dall'essere un male che mi vien quasi il sospetto che non esista per l'uomo nient'altro che sia un bene preferibile». «La dottrina stoica», alla quale il filosofo si «rende conto di aver fatto ricorso in misura maggiore del solito», sollevando il velo delle false apparenze, dimostra quanto vane siano le aspirazioni degli uomini che cercano la felicità nella fama, nel potere, nelle ricchezze. «Il sapiente disprezzerà le nostre ambizioni e le nostre futilità e respingerà gli onori del popolo, anche se offerti spontaneamente». Purtroppo, «questo disprezzo non ho saputo averlo, prima di incominciare a pentirmi delle mie scelte»: chi parla così è lo sconfitto della storia, che aveva invano difeso le istituzioni repubblicane nella Roma dilaniata dalle guerre civili. Davanti alla crisi di un mondo, la filosofia, che diventa cura dell'anima, insegna che «l'universo, pur nel suo eterno scorrere, è regolato da una mente razionale» e «la virtù basta da sola a garantire la felicità».
Giuseppe Rovani, il padre della scapigliatura, nel 1874 scrisse che «Cicerone è stato forse il primo gran personaggio dell'antichità che preannunciasse il tipo degli uomini moderni». In realtà, già nell'Ottocento se ne dava un giudizio più articolato. Nel 1865, commentando la prima Tuscolana, il grande latinista Gaston Boissier faceva rilevare che: «Cicerone vuol dimostrarvi che la morte non è un male. Che luogo comune in apparenza, e come ci è difficile non considerare tutte quelle eleganti argomentazioni un esercizio oratorio e un'amplificazione scolastica!».
Boissier aveva in mente i moralisti moderni, da Montaigne a David Hume, segnati profondamente dal messaggio cristiano e paolino e consapevoli della insuperabile fragilità umana. «Le riflessioni della filosofia sono troppo sottili e vaghe per trovare posto nella vita comune o per riuscire a sradicare un affetto. L'aria diventa troppo leggera per poter respirare, quando essa si trova al di sopra dei venti e delle nuvole dell'atmosfera», aveva obiettato agli stoici lo scettico «moderno» Hume, mentre due secoli prima di lui Montaigne, dopo aver ribadito che «la peste dell'uomo è la presunzione di sapere» e che «di nostro non abbiamo che vento e fumo», aveva definito un «povero e disgraziato animale» il pur citatissimo Cicerone che assegnava alla filosofia il merito di aver strappato «la nostra anima dalle tenebre per farle vedere tutte le cose, alte, basse, prime, ultime e medie».
Cicerone, però, non aveva mollato gli ormeggi dalla terra, sicché non credo avesse ragione il compianto Emanuele Narducci quando vedeva nelle Tuscolane la fine dell'impegno civile e il rifugio in una dimensione dove le contese politiche diventavano un fiato di vento. Sconfitto, Cicerone pensava, pur sempre, alla filosofia come fortitudo dell'anima e alla virtù come «retta ragione». Vicino al gran passo, intendeva consegnare alle generazioni future una sapientia in grado da renderle degne della riconquistata libertà repubblicana. Il sapiente deve «volgersi alla cura dello Stato: che cosa infatti potrebbe mai esistere di superiore a chi con il senno sa vedere il vantaggio dei cittadini, mentre il suo senso di giustizia gli impedisce di trarne vantaggi personali, e inoltre si avvale delle altre sue virtù, così varie e numerose?».

Corriere 30.8.12
Contro le idee di Epicuro


Le Tuscolane di Cicerone, i cui primi due libri escono domani con la prefazione inedita di Luciano Canfora (va ricordato che i Classici greci e latini sono disponibili anche su iPad, scaricando da App Store l'applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera»), sono un'opera di divulgazione filosofica.
Si tratta di dialoghi nei quali Cicerone mette a disposizione il proprio sapere per illustrare «come il saggio deve reagire di fronte alle scadenze principali della vita: la morte e la sofferenza», come spiega Canfora. Scritte nel 45-44 a.C., cioè tra la morte della figlia di Cicerone, Tullia, e l'assassinio di Cesare, le Tuscolane riverberano il periodo, densissimo (anche da un punto di vista emotivo) per Cicerone. E segnano il passaggio all'otium dell'autore, come scrive Canfora: «La scelta di rituffarsi a capofitto negli studi filosofici» dopo il grave lutto e la constatazione della presa di potere incontrastata di Cesare. Un otium in cui Cicerone non esita tuttavia a trovare un nuovo avversario, filosofico, incarnato in questi dialoghi dalla filosofia epicurea. (i.b.)

Corriere 30.8.12
Borioso, goffo, vanesio È il soldato di Plauto
Satira sociale in forma di allegra parodia
di Franco Manzoni


Millantatore, bugiardo, attaccabrighe, credulone, borioso, egocentrico, gradasso, impostore, altezzoso, goffo, pelandrone, vanesio. E quanti altri deteriori aggettivi si potrebbero trovare per definire Pirgopolinice, il soldato spaccone, donnaiolo, fiero delle sue eccezionali e presunte qualità di conquistatore e sciupafemmine. L'essenza sta nel nome stesso, che è composto in greco da tre sostantivi: «espugnatore di torri e di città» da pyrgos «torre», polis «città» e nike «vittoria». Tronfio delle proprie doti, non conosce umiltà e modestia, virtù ed eroismo il Miles gloriosus di Plauto, personaggio principale di una delle più celebri opere teatrali della letteratura latina.
Scritta probabilmente nel 205 a. C., data a cui è possibile risalire tramite l'accenno alla prigionia del drammaturgo Gneo Nevio, la commedia Il soldato fanfarone è la più lunga opera plautina, con i suoi 1437 versi. Venne composta in uno dei periodi in cui Roma era ammirata per le vittoriose imprese sui campi di battaglia. Proprio quando tutto il popolo aveva negli occhi la ricchezza dei bottini e i trionfi dei generali, tanto che il valore in guerra veniva apprezzato dal comune sentimento di un diffuso militarismo. Tuttavia, una costante di Plauto fu quella di evitare sempre ogni possibile riferimento al contesto politico a lui coevo. Per non correre rischi censori o accuse in tribunale.
Eppure, mentre le sue opere venivano allestite, Roma viveva il dramma della seconda guerra punica e, in seguito, le campagne d'Oriente di notevole successo: commercianti, ricchi usurai, affaristi di tutti i tipi testimoniano lo sviluppo capitalistico della società borghese e fanno presagire il passaggio alla tirannide e la conseguente nascita dell'impero. Tutto questo grazie alla forza dell'esercito romano. Perché allora mettere alla berlina un soldato descritto nei suoi tratti peggiori? Perché destinarlo a divenire in breve una maschera della risata, alla pari del lenone, del vecchio avaro, del servo e della meretrice?
Abilmente Plauto scrisse in funzione del pubblico a cui si rivolgeva e svolse satira sociale, nascondendola sotto la forma di un'allegra parodia. Decise di mettere al centro dell'azione comica un soldato, appunto per intrattenere anche il pubblico dei militari, sapientemente attingendo a battute e ad allusioni scherzose, a volte pesanti, che mettevano in ridicolo la vita del guerriero. I suoi modelli furono gli autori della commedia attica, da Menandro a Difilo, a Filemone, mentre nel testo è Plauto stesso a dire di essersi ispirato ad un'opera greca chiamata Alazón, ossia Lo smargiasso, di autore ignoto. D'altronde, come tradizione e convenzione imponevano, l'ambiente della commedia era greco, privo perciò di realismo.
In ogni caso Pirgopolinice, l'armigero millantatore e amorale, ha un ruolo del tutto passivo, la sua presenza è semplicemente utile per variare l'intreccio rispetto alle altre commedie. L'autentico protagonista, tipologia immortale di questo genere, rimane il servo astuto, Palestrione, il «regista» di tutta l'azione. La trama si fonda sulla lotta d'amore, che vede Pirgopolinice e Pleusìcle, tra le case di Efeso, contendersi le grazie di Filocomàsia, e sulla irridente trovata del servo furbo, che alla fine riesce a consegnare l'amata al giovane Pleusìcle, mentre il povero soldato gradasso finisce per prendersi una lunga scarica di bastonate, per di più è costretto a giurare di essersi ravveduto, mezzo nudo e piangente, mentre un manipolo di servi minaccia di evirarlo.
Accanto all'inganno più evidente, Plauto inserisce un'altra beffa ideata sempre da Palestrione, il quale fa credere che Filocomàsia abbia una sorella gemella: quello del doppio rimane un tema davvero caro all'autore. Pirgopolinice viene trattato da Plauto come un burattino, la maschera capostipite degli «eroi» spacconi, dalla Commedia dell'Arte a figure quali Rodomonte, Capitan Fracassa, Don Giovanni. Lo spettatore si ritrova nel cuore di una farsa dai toni volutamente esagerati. Dominato da insulsa vanità, Pirgopolinice si crede fratello d'Achille, superiore a Marte, ineguagliabile sui campi di battaglia grazie alla prestanza fisica e al coraggio, inarrivabile per bellezza e irresistibile conquistatore di femmine, nipote di Venere e pertanto vittima della propria avvenenza, conteso da tutte le donne che lo incontrano e poi lo assediano con bramosia.

Corriere 30.8.12
Il trionfo dell'esagerazione


Sabato va in edicola Il soldato fanfarone di Plauto, con la prefazione inedita di Nuccio Ordine; un testo teatrale del quale, come osserva il prefatore, «la critica ha unanimemente evidenziato la ricchezza dello sperimentalismo linguistico e metrico».
Commedia degli equivoci (prevalentemente amorosi) ispirata a un originale greco oggi perduto, e imperniata sul personaggio tronfio e spaccone di Pirgopolinice, fornisce una rappresentazione del fanfarone che ha ottenuto molta fortuna nei secoli, a partire da Terenzio per arrivare al Falstaff di Shakespeare fino a Il vantone (1963) di Pier Paolo Pasolini. La raffinatezza della comicità plautina sta proprio nel modo in cui questa rappresentazione viene ottenuta: la vantata gloria del protagonista è «edificata esclusivamente sulle parole, con un edificio retorico caratterizzato dall'enfasi», nota Ordine. Ne viene un uso innovativo, drammaturgico, dell'iperbole, che si ritroverà per tutta la letteratura, dalle imprese culinarie di Pantagruele alle mirabolanti capacità del barone di Münchausen. (i.b.)

Corriere 30.8.12
La crociata di Leibniz
di Armando Torno


Nel 1670 Leibniz indirizza al Re Sole, Luigi XIV di Francia, un trattatello in forma di lettera. Contiene il progetto per una sorta di crociata contro i turchi. Il «cristianissimo» sovrano avrebbe dovuto, stando al filosofo che più tardi avrebbe offerto consigli anche allo zar Pietro il Grande, intraprendere una guerra per conquistare l'Egitto. Le motivazioni che sottopone a Luigi sono, oltre che storiche, ideali; non ne mancano di strategiche (oggi diremmo geopolitiche). L'occupazione del territorio del Nilo avrebbe consolidato la supremazia commerciale francese nel Vicino Oriente, poi avrebbe avvantaggiato la cultura cristiana (ai danni dell'islamica), ma soprattutto avrebbe scongiurato un'ulteriore guerra in Europa, riunendo Austria e Francia. Il saggio di Leibniz è stato tradotto per la prima volta (con testo a fronte) da Cesare Catà e prefato da Franco Cardini: Consilium Aegyptiacum (Il Cerchio, pagine 94, 14). Questo «Consiglio d'Egitto» mette in luce anche le eterne dinamiche dei rapporti tra Vecchio Continente e Nord Africa.

Corriere 30.8.12
Antiseri e Pellicani, scambio di omaggi con punzecchiature
di Antonio Carioti


Quando l'amicizia e la stima sono ben salde, come nel caso del filosofo Dario Antiseri e del sociologo Luciano Pellicani, i dissensi, anche profondi, non le incrinano. Semmai le rafforzano. E persino occasioni celebrative possono fornire lo spunto per un'animata discussione a distanza. Lo dimostrano due grossi volumi editi di recente da Rubbettino. Un austriaco in Italia, a cura di Raffaele De Mucci e Kurt R. Leube (pagine 897, € 39), comprende una serie di testi che rendono omaggio ad Antiseri. E l'analoga raccolta Studi in onore di Luciano Pellicani, a cura di Sebastiano Maffettone e Alessandro Orsini (pagine 423, € 25) celebra l'opera dell'ex direttore della rivista socialista «MondOperaio», in occasione del suo pensionamento dopo trent'anni di docenza alla Luiss «Guido Carli» di Roma.
Di solito queste pubblicazioni hanno un carattere prevalentemente encomiastico, anche se non di rado includono saggi pregevoli. La curiosità, nel caso specifico, è che il volume in onore di Antiseri, cui va tra l'altro il merito di aver diffuso in Italia le idee della scuola liberale austriaca delle scienze sociali (di qui il titolo del libro), contiene un intervento di Pellicani molto critico verso il premio Nobel Friedrich August von Hayek (1899-1992), che di quel filone è forse l'esponente più noto. A sua volta Antiseri ha scritto per il volume in onore di Pellicani, noto come ispiratore ideologico del riformismo craxiano, un contributo piuttosto polemico, nel quale riassume ciò che lo divide dall'amico e collega.
Insomma, i due studiosi si rendono omaggio a vicenda, come si conviene tra accademici di rango, ma lo fanno rinfocolando apertamente i reciproci dissidi, in parte già esposti vent'anni fa in un libro a quattro mani pubblicato da Antiseri e Pellicani con il titolo L'individualismo metodologico. Una polemica sul mestiere dello scienziato sociale (Franco Angeli).
Nel merito Pellicani giudica incoerente Hayek, uno studioso che per Antiseri è un autentico faro. E perché? Perché da una parte l'autore austriaco propone un modello di società fondato solo sul libero scambio tra individui, quindi (sono parole di Hayek) «inconciliabile con la solidarietà intesa come unità nel perseguimento di obiettivi comuni conosciuti». Insomma, per lui la giustizia sociale è un pericoloso miraggio, che mette a rischio la libertà, e al tempo stesso un arcaico residuo tribale. Tuttavia Hayek finisce per ammettere l'intervento del governo allo scopo di garantire un reddito minimo ai più deboli, il che si può giustificare, sottolinea Pellicani, solo in base a «qualche principio di giustizia sociale e di solidarietà».
Dal canto suo Antiseri ribadisce, criticando il collega, le ragioni dell'individualismo metodologico. A suo avviso non esiste alcun «potere impersonale» esterno ai singoli, un concetto caro a Pellicani, che abbia rilievo per le scienze sociali, poiché ogni comportamento collettivo deve essere ricondotto alle azioni degli individui che lo pongono in essere.
Tuttavia il punto più interessante del dibattito — evocato nell'ironico titolo dell'intervento di Antiseri: Domande di un «eremita umbro» al «neo-pagano» Luciano Pellicani — riguarda il ruolo della religione cristiana nel processo di modernizzazione dell'Occidente.
Pellicani, nel saggio Le radici pagane dell'Europa (uscito da Rubbettino nel 2007), afferma che la rivoluzione scientifica e l'Illuminismo hanno spodestato la Chiesa dal suo primato spirituale e prodotto una sorta di ritorno alla cultura della classicità ellenica e romana, che non conosceva dogmi teologici, né libri sacri, né clero. Antiseri ribatte ricordando che un gran numero di illustri scienziati, da Galileo Galilei a Louis Pasteur, si professavano (e si professano) credenti nel Dio dei Vangeli. A suo avviso la stessa secolarizzazione non è affatto una negazione del cristianesimo, ma al contrario una sua conseguenza, che inoltre ha consentito la «purificazione» della fede. Garbato e cavalleresco, ma non privo di asperità, il duello continua.

La Stampa 30.8.12
Insostenibile leggerezza dell’apparire
Nel mondo d’oggi siamo tutti condannati a indossare una maschera: un saggio sui mutamenti del prestigio sociale
di Massimiliano Panarari


LA FIERA DELLE VANITÀ" È il perno intorno al quale ruota la società occidentale nel ’900 e in questo inizio di XXI secolo
LA «NUOVA NOBILTÀ» Consacrata dai media e da quella loro particolare filiazione che è l’industria del gossip

Viviamo nella società dello spettacolo, dove l’abito fa decisamente (insieme con vari altri accessori) il monaco. Ce lo ha detto Guy Debord, ma ancor prima è stato, secondo un interessante libro che esce oggi, il filosofo (e vescovo) irlandese George Berkeley, al quale dobbiamo la celebre massima est percipi («essere è venire percepiti»). Nel suo Le apparenze Una filosofia del prestigio (il Mulino, pp. 222, € 20), la storica della filosofia Barbara Carnevali (ricercatrice invitata al parigino Institut d’Études Avancées) prende le mosse proprio dall’immaterialismo berkeleyano, riformulandolo ad hoc per analizzare il peso delle apparenze e dello nelle società occidentali. Ed ecco che il motto del teologo empirista che, appositamente parafrasato «in chiave mondana» diviene in societate esse est percipi aut percipere («in società esistere è essere percepiti o percepiti»), fornisce una chiave interpretativa originale per spiegare le aspirazioni e i bisogni di rappresentazione dell’aristocrazia e della borghesia europea, arrivando sino all’incontenibile e generalizzata smania postmoderna che ci vorrebbe far essere «tutti divi».
«La vanità è alla base di tutto», scriveva Gustave Flaubert, uno che se ne intendeva al punto da avere creato il personaggio di Madame Bovary e diagnosticato il fenomeno del bovarismo, manifestazione patologica del «manierismo snobistico» e perfetta raffigurazione della farsa di una piccola borghesia che si mostra (e vive) al di sopra delle proprie possibilità nel disperato (e sventurato) tentativo di scimmiottare la classe sociale superiore, non avendone, però, i mezzi e le dotazioni materiali. A identificare chiaramente - e severamente - per primo il ruolo della vanity nelle umane esistenze è però, come ci racconta il volume, il sommo Thomas Hobbes, il quale designava con questa parola una malriposta sensazione di superiorità che si dedicava quasi esclusivamente a «bagatelle» e «scemenze», ma possedeva un impatto devastante sul consesso sociale; e ne era a tal punto preoccupato da considerarla tra le cause principali della famigerata «guerra di tutti contro tutti».
La società occidentale prende così a ruotare sempre più vorticosamente intorno alla «fiera delle vanità» (centrifuga irresistibile di prestigio, successo, pettegolezzi, fama, mode, e chi più ne ha più ne metta, a partire dalle invidie) e all’apparire sociale; un combinato disposto che trova una serie di formidabili cronachisti in alcuni, più o meno grandi, letterati, da William M. Thackeray (autore, nel 1848, giustappunto del romanzo Vanity Fair) a Marcel Proust. La letteratura europea si popola quindi di rampanti e arrivisti, tutti in cerca del loro quarto d’ora di notorietà ante litteram, ma nessuno, più dell’autore della torrenziale Recherche, sublime narratore della «chiccosa» Café Society, saprà tradurre in scrittura il senso e il côté mondano del motto di Berkeley mediante le vicende che fanno perno sull’aristocratica famiglia Guermantes.
E se Proust, ossessionato dalla memoria, cerca di configurare l’identità dei suoi personaggi sullo sfondo della trama dei loro «giochi di società», c’è chi invece, come Luigi Pirandello, alimenta la dissoluzione dell’io e proclama, malinconicamente e angosciosamente, ma senza negarsi qualche punta di umorismo, l’inaggirabilità della dimensione dell’apparenza. I suoi individui, d’altronde, sono pensati per il teatro, medium di rappresentazione per eccellenza, e il Novecento in cui lo scrittore siciliano giganteggia è secolo mediale per antonomasia, così come mediale si rivela il ruolo delle apparenze, mezzi di comunicazione e di definizione delle relazioni tra le persone, che, per loro tramite, indossano, per la maggior parte del tempo, delle maschere (come insegnano la psicanalisi e lo stesso Pirandello).
Non c’è da stupirsi, allora, se il prestigio nel XX secolo (e all’inizio del XXI) passa in primis attraverso i mass media, e quella loro peculiare (e spesso discutibile) filiazione che è l’industria del gossip - regno e pollaio della discussione collettiva intorno alla reputazione dei cosiddetti vip - che ha visto kingmaker e vittime illustri, da Andy Warhol a Marilyn Monroe.
E qui il cerchio parrebbe (quasi) chiudersi. Le apparenze sembrerebbero infatti dettare incontestabilmente legge e mettere la parola fine alla storia della separazione tra l’ Homo oeconomicus e l’uomo estetico che aveva segnato tanto fortemente la cultura occidentale. Perché la società dello spettacolo, dolorosamente intuita e stigmatizzata dal neo-russoviano e neoromantico Debord, col suo feticismo della merce e l’idolatria del valore simbolico dei beni, getta le premesse per l’affermazione di un capitalismo simbolico che tutto tiene e tutto vince. E, così, all’aristocrazia e all’alta borghesia subentra la «nuova nobiltà» dello star system che rovescia le «strategie di distinzione« di cui parlava Pierre Bourdieu, e vede i «divi» imbevuti della stessa cultura pop e di massa da cui le élite del passato erano impegnate a differenziarsi proprio mediante i gusti estetici.
A questo punto, per la gioia degli apocalittici, dovremmo assistere, ahinoi, al trionfo assoluto dell’alienazione. E rimarrebbero solo gli status symbol, come la limousine superaccessoriata su cui viaggia il protagonista di Cosmopolis di Don De Lillo, intento a contemplare la fine de facto della civiltà capitalistica e, in buona sostanza, dell’Occidente per come lo abbiamo conosciuto.
Ma speriamo che si tratti, per l’appunto, di una mera apparenza…

La Stampa 30.8.12
Patrioti, spie e Artemidoro la vera vita del re dei falsari
La figura rocambolesca di Simonidis nella ricostruzione di Luciano Canfora
di Silvia Ronchey

LE SUE VITTIME Beffò i più autorevoli esperti europei dell’800, in Inghilterra decise di dedicarsi ai papiri
FERVORE PATRIOTTICO GRECO Tra i suoi protettori l’ambasciatore a Costantinopoli del Regno di Sardegna, fedelissimo di Cavour

Uno dei meriti della querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro è aver fatto conoscere al grande pubblico un personaggio che definire romanzesco è dir poco. Né un Dumas né un Gide né un Ambler avrebbero potuto concepire la sua vita rocambolesca con la genialità, la spregiudicatezza e la fantasia con cui la inventò, e la visse, il suo protagonista. Ma, si sa, la realtà ha sempre più immaginazione della letteratura, ed è anche per questo che il primo volume delle opere greche di Costantino Simonidis, ora pubblicato dalle Edizioni di Pagina (pp. 422, € 22) con un ampio saggio introduttivo di Luciano Canfora e una profusione di documenti di tale fantasmagorica bizzarria da sembrare usciti dalla penna di un Rabelais se non di un Borges, è molto più appassionante di qualsiasi romanzo.
Se fare della propria vita un’opera d’arte è già di per sé un fine per alcuni, ciò non impedisce di creare, nel suo corso, altri capolavori. Tali furono gli abilissimi falsi di Simonidis. Il cosiddetto Artemidoro non è certo il suo migliore, essendo anzi uno scarto, o meglio due, accantonati entrambi dall’autore e solo in seguito assemblati e riproposti, a più di un secolo dalla sua scomparsa, nella speranza che la memoria di «quel greco che si circondava di molto mistero», e che appariva e scompariva negli scenari accademici più paludati dell’Ottocento, fosse dileguata dalla sempre più corta memoria dei moderni.
Ben prima degli attuali autorevoli esperti, degli ignari acquirenti e del grande pubblico anzitutto torinese affluito alla mostra di Palazzo Bricherasio nel 2006 per l’ostensione del manufatto, altri e più genuini - ci si conceda l’ossimoro - falsi avevano beffato in passato i giganti della filologia. Uno per tutti, il competentissimo Wilhelm Dindorf, che con troppa sicurezza di sé avallò le fantastiche liste di re egizi del falso manoscritto di Uranios, aiutando Simonidis a piazzarlo all’Accademia delle Scienze di Berlino, e troppo precipitosamente ne allestì l’edizione critica addirittura per i tipi oxfordiani, con dotta prefazione e note latine, prima che l’inganno fosse svelato e l’ingannatore arrestato dal più celebre cacciatore di sovversivi della polizia di Berlino. Ma dopo pochi giorni il prigioniero si rifugiò in Baviera.
Le vittime della sua inesorabile maestria si contano in tutto il mondo, ma fu proprio il mondo accademico inglese a annoverarne il maggior numero. Perché fu qui che con funambolesca manovra Simonidis decise di non fabbricare più pergamene o palinsesti, ma di lanciarsi sulla grande novità del momento: i papiri, su cui si concentravano i compulsivi appetiti degli studiosi, dopo le scoperte di quelli di Iperide. E fu qui che trovò i suoi più sagaci complici nonché il suo mecenate e protettore Joseph Mayer, assieme ai quali è immortalato nella più rivelatrice delle fotografie che lo ritraggono: in piedi, la sigaretta tra le dita, i favoriti a incorniciare i tratti regolari e i profondi, bellissimi occhi, la redingote dall’immancabile bavero di velluto, la cravatta scura bene annodata sul nitore della camicia.
La prima fase della sua carriera, quella orientale, maturata nei grandi serbatoi di manoscritti dei monasteri greci, in cui si era infiltrato, aveva prodotto invece codici, ed epitomi «bizantine». Un «castello di erudizione virtuale» creato fin da quando, lasciata l’isola di Simi (dove era nato intorno al 1820), si era mosso tra l’Athos, cui era approdato insieme con il misterioso «zio» Benediktos ( chaperon, padre spirituale, forse amante), e il Sinai, Odessa e Costantinopoli. Qui aveva frequentato anche la famosa scuola teologica di Halki, oggi purtroppo sbarrata dallo Stato turco. Ad Atene si era perfezionato nella neonata Biblioteca Nazionale, simbolo del nuovo Stato greco, arricchita fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento da un continuo e patriottico flusso di lasciti e donativi.
Se è vero che, come scrive Canfora, «per snidare un falsario bisogna entrare nella sua testa, familiarizzarsi con il suo ambiente, coi suoi meccanismi mentali», non è da sottovalutare il sottotesto patriottico delle gesta di Simonidis, che emerge carsicamente a volte nei suoi stessi testi: si pensi alle micidiali invettive antinglesi della prefazione ai (falsi) Kephalleniaka del (falso) Euliro; o alla denuncia delle «orge» del missionario King, che cavalcando i pubblici umori antiamericani divenne un vero e proprio affare di Stato.
È proprio nella Grecia insulare, lasciata relativamente autonoma dall’impero ottomano, che era nato il risorgimento greco: nella Patmiás, l’altra grande scuola teologica del mondo ortodosso durante la turcocrazia, si era formato Emmanuil Xanthos, che sull’isola di Patmos era nato ed era stato tra i fondatori della Filikì Etería proprio a Odessa. In questo centro nodale del patriottismo greco, e panortodosso covo di spie, Simonidis aveva trovato il suo grande sponsor nel potente e ambiguo Alexander Stourtzas, consigliere e segretario generale ( mystikos) dello zar Nicola, che lo impiegherà per missioni di intelligence e favorirà il suo addottoramento all’Università di Mosca con una dissertazione sul Chersoneso Cario, area geopolitica all’epoca scottante.
La natura fortemente politica dell’«eversione filologica» di Simonidis, il fervore patriottico greco e l’odio per le grandi potenze continentali, l’afflato neobizantino, insito peraltro fin da principio nell’Eterìa, sono còlti dai suoi avversari e smascheratori, non a caso studiosi prestati alla politica, o allo spionaggio: per esempio il grande Mordtmann, in quella stessa Costantinopoli in cui l’unico protettore di Simonidis resterà Romualdo Tecco, ambasciatore del Regno di Sardegna e fedelissimo di Cavour. Non è forse un caso se l’unico giornale che in quegli anni parla bene del falsario è proprio il Risorgimento: il quotidiano fondato da Cavour.

Repubblica 30.8.12
Bruckner: “Cerchiamo il sentimento sublime ma pretendiamo di essere liberi
L’ultima ideologia
Il filosofo francese, di cui sta per uscire da Guanda un libro sul tema, spiega i paradossi delle passioni quando diventano “ideali”
Oggi il desiderio è talmente sollecitato che finisce per spegnersi È una sorta di bancarotta dell’eros
Il vero progresso sarebbe quello di considerare i legami come imperfetti: siamo umani e non divini
di Fabio Gambaro


“Parlami d’amore” raccoglie una serie d’interviste sull’educazione sentimentale. Pascal Bruckner è filosofo e romanziere francese. Il suo ultimo saggio,
Il paradosso amoroso (Guanda), uscirà il 6 settembre

PARIGI Un paradosso pieno di contraddizioni, in cui si mischiano libertà e fedeltà, seduzione e emancipazione, ideali e compromessi. E’ questo l’amore per Pascal Bruckner, il filosofo e romanziere francese che nel suo nuovo saggio -
Il paradosso amoroso (Guanda, pagg. 224, euro 20, in libreria giovedì 6 settembre) - ne scruta i contorni e le aporie, a mezzo secolo da quella rivoluzione sessuale che negli Sessanta pensò di reinventare anche le relazioni amorose.
«Noi siamo gli eredi di una doppia rivoluzione. La rivoluzione del cuore ereditata dal Romanticismo e quella del corpo ereditata dai turbolenti anni Sessanta», spiega lo studioso molto noto anche in Italia per i suoi numerosi saggi, tra cui
La tentazione dell’innocenza, L’euforia perpetuae La tirannia della penitenza.
«Non senza molte difficoltà, cerchiamo di gestire questa doppia eredità, anche se oggi amare è diventato più difficile. L’amore infatti è sempre più un ideale irrealizzabile, che ci costringe a confrontarci di continuo con una sorta di assoluto sentimentale, sessuale e passionale, che naturalmente nella vita quotidiana si rivela irraggiungibile. L’amore contemporaneo, insomma,
è un dio molto esigente».
Per questo oggi viviamo in una condizione che lei chiama “d’isteria sentimentale”?
«L’amore è diventato una sorta d’ideologia globale. All’amore si do-
manda di guidare tutte le nostre azioni, comprese quelle nella vita sociale. E tutti devono sperimentare tutte le varianti dell’amore».
Qual è l’invariante che ne accomuna le diverse forme?
«L’amore è scelta di una singo-larità, di una persona unica. L’idea che l’amore possa abbracciare la moltitudine viene dal cristianesimo ed è riservata a dio. Solo dio può amare tutti gli uomini con lo stesso amore. Per noi comuni mortali, amare significa preferire e quindi scegliere. Oltre a Dio, solo Don Giovanni si rifiuta di scegliere, adottando la posizione dell’adolescente immaturo che desidera conquistare tutte le donne. Ma amare significa scegliere, facendo in modo che tale scelta duri il più a lungo possibile».
Oggi però l’amore “dura solo tre anni”, come dice lo scrittore e regista Frédéric Beigbeder, al cui film lei ha partecipato come attore. L’amore è diventato una realtà particolarmente deperibile?
«L’amore è deperibile e degradabile, non solo perché si è trasformato in un ideale di fatto irrealizzabile, ma anche perché è una realtà paradossale, in cui si scontrano due esigenze contrapposte. Quella dell’autonomia individuale che aspira alla realizzazione di sé e quella di una felicità amorosa condivisa. Nell’amore siamo scissi tra la libertà dell’io e la relazione del noi. L’amore unisce, la libertà separa. Nella coppia contemporanea nessuno vuole rinunciare alla propria inmagine, alla propria carriera, ai propri spazi, ecc. La coppia diventa il luogo dello scontro permanente tra due libertà che si affrontano per non perdere le loro prerogative, pur senza abbandonare il progetto comune».
Amore e libertà sono conciliabili?
«Lo sono in una tensione permanente. Amare significa rinunciare in parte alla propria libertà.
E’ una rinuncia volontaria. Una volta la cellula coniugale era diretta dall’uomo, la donna era obbligata a rinunciare ad ambizioni e desideri, per consacrarsi completamente alla famiglia. Oggi fortunatamente non è più così. La coppia è diventata un’unità molto complessa, in cui ciascuno deve essere al contempo un buon amante, un buon genitore, contribuire con un reddito e un’im-
valorizzante, conservando però la propria indipendenza. Questa accumulazione d’esigenze caratterizza la coppia contemporanea, senza dimenticare la presenza dei figli. La famiglia è quindi diventata un piccolo parlamento dove ciascuno rivendica libertà e potere».
Per Proust, l’amore è un’illusione che produce solo delusioni. E’ d’accordo?
«No, perché ogni volta c’innamoriamo di nuovo, conquistandoci frammenti di felicità. Proust ha odiato l’amore come nessuno prima di lui, ma ha passato la vita ad analizzarlo con lucidità. Noi navighiamo di continuo tra due scogli. La posizione proustiana che considera l’amore un’illusione che ci fa soffrire. E l’idealismo che ci spinge a svalutare di continuo l’amore concreto e vissuto in nome di un assoluto amoroso irraggiungibile. Il grande progresso nella vita amorosa è accettare di amare come esseri imperfetti, con i nostri limiti e le nostre debolezze. Anche in amore, non dobbiamo mai considerarci degli dei ma semplici esseri umani».
L’amore dovrebbe essere più prosaico?
«No, ma deve saper accettare debolezze, limiti e vulnerabilità,
sapendo che nei suoi momenti migliori può spingerci a emozioni e gesti che sfiorano il sublime. Come quando ci si sacrifica per l’essere amato. E’ sempre stato così».
Significa che, nonostante l’evoluzione dei costumi e della tecnologia, le contraddizioni dell’amore non cambiano?
«Le contraddizioni sono più o meno sempre le stesse. Le trasformazioni
culturali e tecnologiche favoriscono certe pulsioni ma non cambiano il cuore della relazione amorosa. Lo hanno scoperto con furore i rivoluzionari degli anni Sessanta e Settanta, quando si sono resi conto che in amore non c’è progresso. L’amore è una vecchia drammaturgia codificata nel mondo grecoromano, e in seguito riscritta e reinterpretata da tutti i grandi poeti e scrittori del mondo occidentale e orientale. La tragedia amorosa è la stessa da secoli. Ciò che è cambiato - un cambiamento certo fondamentale - è che nell’ultimo secolo l’amore si è emancipato dai tabù che lo frenavano. A poco a poco, i divieti religiosi, sociali e morali che lo ostacolavano sono venuti meno. Oggi viviamo l’amore allo stato puro, sperimentandone le meraviglie e le crudeltà. Non c’è più nulla che lo limiti e lo freni».
La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta è stata una vera rivoluzione?
«No. Abbiamo infranto tabù e divieti, ma non c’è stata una vera rivoluzione, perché ciò avrebbe significato dominare completamente la sessualità, mettendola al nostro servizio. Ma non è stato così. Oggi ci rendiamo conto che le cose sono molto più complicate di quanto pensassimo. La sessualità ci sfugge e ci travolge sempre. La rivoluzione sessuale è stata una grande illusione, come pure l’idea che l’esercizio del desiderio avrebbe ucciso l’amore. Negli anni Sessanta non si diceva “ti amo”, ma “ti voglio”. Pensavamo che l’amore fosse una sovrastruttura superficiale. Eravamo convinti che l’unica forza motrice fosse il desiderio, e l’amore solo un abbellimento. Ancora un’illusione».
La liberazione sessuale non ha liberato l’amore?
«No, in compenso ha annientato il desiderio. Il sesso contemporaneo banalizzato e autorizzato in tutte le sue forme ha prodotto una sorta di morte del desiderio che certo non fa bene all’amore. In passato, la passione era considerata pericolosa e quindi occorreva tenerla a distanza. Oggi il desiderio è talmente sollecitato che finisce per spegnersi. E’ la bancarotta dell’eros. Insomma, siamo passati dalla repressione alla depressione».
Solo l’amore può ancora sorprenderci?
«L’amore è una sorpresa permanente. E’ la parte dell’esistenza che ci sfugge sempre, la parte d’irrazionale cui occorre abbandonarsi. La passione ci fa perdere il controllo. E ciò è un bene. Se infatti fossimo sempre padroni di ogni istante dell’esistenza, la nostra vita sarebbe annientata dalla monotonia».

Repubblica 30.8.12
Trecento anni con Rousseau
Mostre e scritti celebrano l’anniversario della nascita
di Cesare De Seta


Lo svizzero Rousseau (1712-1778) è stato tra più influenti pensatori della modernità

Trecento anni fa nasceva Jean-Jacques Rousseau, personalità dai molteplici talenti: scrittore e filosofo, larghe tracce ha lasciato nel pensiero e nell’estetica del Settecento, con effetti rilevanti sull’idea di natura e sulla sua rappresentazione. Il fascino dell’opera di Rousseau infatti si misura anche sull’impatto che essa ebbe nelle arti figurative. La sua acuta lettura della natura e del paesaggio lasciò segno profondo nella nostra civiltà. Viaggiatore instancabile, si mosse da Ginevra per vedere, con i suoi occhi, grandi città come Parigi, Lione, Berlino e Londra e, non meno significativo, fu il suo peregrinare per le campagne di Annecy, Les Charmettes, l’Ermitage, Môtiers e Ermenonville. Quando fu a Londra Alan Ramsay gli fece un bel ritratto dal quale il suo sguardo acuto ci guarda quasi ironico. I diari di viaggio mostrano un’attenzione particolare agli elementi naturali, al mutare del clima, al mondo botanico: non sorprende dunque che questi temi sono parte del Discours sur les sciences et les arts (1750) per non dire del Contrat social et l’Émile (1762), testi nei quali s’interroga sullo “l’état de nature”: vale a dire una vita semplice e ben lontana dalla civiltà che, in questo contesto, è vista come corruttrice di uno stato naturale. I temi morali sono all’origine di una nuova pedagogia per l’infanzia, così come l’articolato antimodernismo, la sua distanza critica da ogni diretto impegno politico è all’origine di un nuovo concetto della democrazia e della convivenza sociale. Tematica essenziale della sua filosofia, resa in forme narrative assai diverse, siano esse a carattere autobiografico o d’invenzione. L’eccezionale successo internazionale di Julie ou Nouvelle Héloïse (1761) gli consentì di far conoscere la “sensation du paysage”, ed è la via attraverso la quale elabora l’idea del “paysage émotionnel”, che avrà una eccezionale rilevanza nella cultura romantica dell’Ottocento. Una cerniera dunque tra la tradizione dei Lumi e lo Sturm und Drang romantico.
I protagonisti del romanzo sperimentano il fascino che in loro suscitano la beata solitudine delle campagne e il clima idillico in cui sono immerse, così come lo spettacolo possente di montagne, corsi d’acqua, cascate sono capaci di suscitare emozioni profonde e inedite. L’idea di Sublime di Edmund Burke e Emmanuel Kant è ulteriormente elaborata, così come il concetto di Bello e di Pittoresco di William Gilpin. La scoperta delle Alpi, sito di ancestrali paure, assume un ruolo mai conosciuto prima, e, contemporaneamente, è oggetto di attenzione scientifica, come testimonia l’opera di Horace-Bénédict de Saussure. Attraverso Saint-Preux, protagonista del suo Julie, il magico spettacolo delle Alpi conquista pittori svizzeri quali Caspar Wolf e Johann Aberli o il prussiano Jacob Philip Hackert, a metà Settecento, per non dire del fascino che lo spettacolo delle vette alpine eserciterà su William M. Turner nel secolo seguente. Ginevra celebra Rousseau con una serie di iniziative, tra le quali una mostra al Musée Rath con una ricchissima selezione di paesaggi disegnati, incisi e dipinti della seconda metà del XVIII secolo.
Enchantement du paysage au temps de Jean-Jacques Rousseau è ben più di una bella mostra, ché considera il rapporto tra il pensiero del filosofo e la produzione paesaggistica. In tal caso l’iconografia, che si ispira al suo pensiero, è la faccia di una stessa moneta in cui è incisa la sua produzione letteraria. Il catalogo delle mostra, trilingue, Éditions Wienand, Colonia, non è solo uno strumento filologico per gli oltre trecento pezzi in mostra, ma un panopticon critico di riflessioni affidate a un gruppo di specialisti, a partire da Michel Delon che di Rousseau è tra i maggiori studiosi, con C. Reichler, S. Bieri, C. Rümelin, C. Guignard e Claudio Galleri che introduce il volume.
Uno degli aspetti più singolari e affascinanti è quella che potremmo dire la fortuna delle vedute pittoresche: è tale il successo di questo genere dipinto e inciso che nasce una vera industria calcografica con le vedute delle catene alpine. Alla cui crescita contribuiscono artisti non solo svizzeri, ma europei che, venendo in Italia dal nord, scoprono uno spettacolo che prima di Rousseau era giudicato terrifico e luogo di inquietanti fantasmi. Del “paysage sensible” non v’è dubbio che il filosofo ginevrino è stato un geniale precursore, inaugurando – anche in questa direzione – un nuovo spettacolo agli occhi del mondo del suo tempo, uno spettacolo che era negletto e persino temuto. Perché si abbia una svolta in questa tradizione bisogna bisognerà attendere Le affinità elettive di Goethe che è sì un incantevole romanzo, ma è anche uno straordinario tratto sui giardini e sul paesaggio.