l’Unità 29.8.12
Strasburgo: no alla legge sulla fecondazione
La Corte europea per i diritti umani accoglie il ricorso di una coppia portatrice sana di fibrosi cistica
«Nega la diagnosi genetica preimpianto, ma autorizza l’aborto terapeutico»
di Anna Tarquini
La Corte europea per i diritti dell’uomo boccia la legge 40. Con una sentenza che ha accolto il ricorso di una coppia portatrice sana di fibrosi cistica, accusa il legislatore: «L’incoerenza del sistema legislativo italiano, da una parte proibisce l’accesso alla diagnosi genetica preimpianto e dall’altra autorizza all’aborto terapeutico». Il ministro Balduzzi: «Ce ne faremo carico». Livia Turco: «Norme da riscrivere».
Una legge incoerente che viola i diritti dell’uomo e il rispetto della vita privata e familiare. Un insieme di norme contraddittorie che da un lato negano alla coppia la diagnosi preimpianto in caso di malattie genetiche, perché sarebbe eugenetica, e dall’altro autorizzano la stessa all’aborto terapeutico. La Corte Europea di Strasburgo, chiamata per la seconda volta a pronunciarsi nel merito, boccia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo due articoli cardine della legge 40 sulla fecondazione assistita. Sono il 4 e il 13, quelli che vietano ai coniugi portatori di malattie genetiche, soggetti sani ma non sterili, di ricorrere alla fertilizzazione in vitro. Cosa che la stessa legge invece consente a coppie portatrici di malattie come l’Hiv o l’epatite C per evitare il contagio del feto.
Che la legge 40 fosse, come dice oggi Ignazio Marino, «il frutto di una negoziazione avvenuta nel Parlamento italiano», era chiaro fin dalla sua approvazione. Bocciata sedici volte dai tribunali italiani, smantellata punto dopo punto dai ricorsi dei singoli cittadini. Lasciata all’interpretazione dei singoli giudici e finita 5 volte all’esame della Consulta che già prima della di Strasburgo aveva messo un primo vero paletto con sentenza del 2009 dichiarando illegittimo l’articolo 14 nella parte che prevedeva un unico e contemporaneo impianto e comunque non superiore a tre embrioni. Ieri però la Corte europea ha fatto un passo in più mettendo a confronto la Legge 40 con la 194, cioè con le norme che in Italia regolamentano l’aborto legale, per arrivare a un punto che tradotto in termini più semplici si può sintetizzare così: non è possibile vietare per etica la selezione dell’embrione e consentire invece l’aborto a feto nato malato.
Il ricorso era stato presentato nel 2010 da una coppia italiana fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica. Rosetta Costa e Walter Pavan, dopo aver avuto un figlio nato con la patologia, e di fronte al 25% di possibilità di mettere al mondo un altro figlio malato o portatore sano, avevano deciso di accedere alla procreazione assistita con diagnosi preimpianto. La coppia decise allora di rivolgersi alla Corte europea per violazione del diritto al rispetto della vita privata e per discriminazione. La procreazione assistita, dopo l’entrata in vigore della legge 40, è consentita solo a coppie sterili o a quelle che hanno una malattia sessualmente trasmissibile. Ma rigorosamente vietata alle coppie non sterili e portatrici sane di una malattia. E qui è la contraddizione sottolineata da Strasburgo che accusa: «l’incoerenza del sistema legislativo italiano che da una parte priva i richiedenti dell’accesso alla diagnosi genetica preimpianto e dall’altra li autorizza a effettuare un’interruzione di gravidanza quando. il feto è affetto da questa stessa patologia». «L’ingerenza nel diritto dei richiedenti è motivato al rispetto della loro vita privata e familiare è quindi sproporzionata». Nelle motivazioni i giudici europei criticano le posizioni del governo italiano secondo cui la legge 40 ha lo scopo di proteggere la salute del bambino e della donna, la dignità e la libertà di coscienza del personale medico e allo stesso tempo evitare il rischio di derive eugenetiche. «La Corte non è convinta da queste argomentazioni», si legge nel documento diffuso, poiché tenendo conto che la nozione di bambino e embrione non sono assimilabili, «non vede come la protezione degli interessi invocati dal governo possano conciliarsi con la possibilità di procedere a un aborto teraupetico di un feto malato». La Corte sottolinea poi come Italia, Austria e Svizzera (che è però in procinto di rivedere la legge) siano gli unici tre Paesi, su 32 Stati membri del Consiglio d’Europa presi in considerazione, a proibire ancora il ricorso alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
Il problema dei rapporti tra la legge 40 e la legge 194 era già presente all'attenzione italiana, ha commentato ieri il ministro della Salute Renato Balduzzi. «Adesso leggeremo la pronuncia e capiremo se e in che misura il bilanciamento accolto dalla legislazione italiana è stato compreso dai giudizi di Strasburgo. Il governo poi deciderà di conseguenza».
I coniugi Pavan saranno risarciti. La sentenza però non gli stravolgerà la vita. Non è definitiva. Lo Stato ha tre mesi di tempo per ricorrere all’ Alta Camera della Corte per i diritti dell’uomo. Ma bisogna ricordare che appena 19 mesi fa Strasburgo aveva respinto il medesimo ricorso di due coppie austriache. Al momento nessuna ripercussione giuridica in Italia, ma la sentenza ha riacceso il dibattito. E se l’Osservatore Romano preferisce non commentare, Scienza e Vita si appella alla questione etica e il Centro di Bioetica cattolica parla di «eugenetica liberale», c’è chi ora vuole riscrivere la legge. «Nel rispetto delle coppie e della conoscenza scientifica» dice Ignazio Marino. «Il Parlamento intervenga per riscrivere norme sagge e ispirate a un diritto mite dice Barbara Pollastrini che permettano alle coppie di accedere serenamente alla fecondazione assistita». «Una sentenza che indica la strada per cambiare la normativa osserva Anna Finocchiaro, presidente gruppo Pd al Senato come è auspicabile che si riesca a fare il prima possibile».
l’Unità 29.8.12
Livia Turco: «La norma va riscritta in tre punti. La 194 non si tocca»
di Gioia Salvatori
L’ex ministro della Sanità: «La legge è figlia di uno scontro tra associazioni pro-life e gerarchie ecclesiastiche contro le forze laiche del Paese»
ROMA «La legge 194 non si tocca, la legge 40, o quel che ne resta, va riscritta per superare i limiti che ancora ha». L’ex ministro della Salute del secondo governo Prodi e deputata Pd Livia Turco, nel giorno della sentenza della Corte europea contro i limiti che la legge 40 pone all’accesso alla fecondazione medicalmente assistita, affonda il colpo verso chi vorrebbe una modifica della legge 194, bolla la legge 40 come una legge «ideologica» e ringrazia tutte quelle coppie che, ricorrendo a tribunali e corti, ne hanno consentito lo smantellamento del cuore. In tema di diritti annuncia un progetto: terminare questa legislatura con la presentazione di una legge sul testamento biologico che sia frutto di una rielaborazione degli emendamenti presentati dal Pd.
Turco, la Corte europea rileva un’incongruenza tra la legge 40 e la 194 perché la prima consente l’aborto terapeutico la seconda non permette a tutte le coppie di ricorrere alla diagnosi preimpianto. Possibile nessuno si sia accorto di questo attrito? «Questo è accaduto perché la legge 40 è frutto di una forzatura ideologica, figlia di uno scontro tra associazioni pro-life e gerarchie ecclesiastiche contro le forze laiche del Paese e una parte politica. Per questo è sbilanciata verso la tutela dell’embrione in uno modo che altera l’equilibrio tra diritti del nascituro e diritti della madre o della coppia. In questo vulnus si sono inserite tutte le sentenze che pian piano, negli anni, l’hanno smontata. Quest’ultima mette in risalto un abuso che l’allora ministro della Salute Sirchia fece delle linee guida: le usò come interpretazione della legge 40 anziché come mero strumento tecnico e in esse scrisse il divieto della diagnosi preimpianto che nel testo della legge non c’è».
Il movimento per la vita dice che se c’è un’incongruenza tra legge 40 e 194 va cambiata la seconda perché è figlia del ’68 e del femminismo e si occupa solo della donna. Cosa replica?
«Rispondo che la legge 194 è una legge che ha funzionato: si proponeva di regolare e limitare gli aborti e l’obiettivo è stato centrato in pieno. Lo stesso non si può dire della legge 40 che, per esempio limitando a tre il numero degli embrioni da creare a ogni tentativo, ostacola la vita visto che è probabile che nessuno di questi si annidi. Inoltre ha portato al turismo sanitario poiché non prevede l’eterologa che mi rendo conto essere un nodo delicato».
Quali linee guida deve seguire un legislatore quando scrive una legge sull’inizio o sul fine vita, visto che si toccano temi delicati? Che idea si è fatta?
«Bisogna rispettare per le persone, le loro aspirazioni e le loro sofferenze. La legge 40 non lo fa, non crede nella responsabilità personale dell’adulto, tutta tesa a difendere una vita in potenza a discapito anche della salute delle donne».
La legge 40 è una legge maschilista?
«È una legge che non tiene conto del fatto che le donne sono gli individui che hanno più a cuore la vita. Una legge che pare voglia tutelare una vita in potenza dalla sua stessa madre. Una legge che non ha fiducia nelle donne. Tutto il contrario della legge 194 che facendo leva sulla responsabilità delle donne, ne tutela la libertà».
Perché quando era ministro ed emanò le nuove linee guida della legge 40, ampliò la rosa di coloro che potevano ricorrere alla fecondazione assistita includendovi chi è affetto da malattie sessualmente trasmissibili ma non pensò ad aprire pure alle coppie fertili ma con una malattia ereditaria grave nei geni?
«Perché non era uno dei punti caldi sui quali si discuteva, si palesavano altri problemi. Molti sono stati risolti con la sentenza del 2009 della Consulta che tra l’altro ha abolito l’obbligo di impianto di tutti e tre gli embrioni, una svolta importante a tutela della salute della donna». Cosa salva e cosa modificherebbe ancora della legge 40?
«La legge 40 è importante perché ha messo ordine in un far west: ora c’è un elenco certificato di centri, pubblici e privati, monitorati ex lege, preposti alla fecondazione assistita. Inoltre la legge 40 stanzia fondi per la ricerca. Nella prossima legislatura però bisognerà mettersi intorno a un tavolo e riscrivere la legge in tre punti. Bisognerebbe, anche se la questione è delicata, dare alle coppie sterili la possibilità di fecondazione eterologa; inoltre vanno stanziati fondi per contrastare e studiare la sterilità, sempre più diffusa, e va consentita la ricerca sugli embrioni in sovrannumero che oggi vengono congelati e poi muoiono».
Temi delicati sui quali non c’è accordo nello stesso Pd...
«Almeno noi non mettiamo la testa sotto la sabbia»
Il fine vita è un altro di questi...
«Sogno di concludere la legislatura con una proposta di legge frutto della rielaborazione degli emendamenti presentati durante la discussione sul testamento biologico. Un testo che eviti l’abbandono terapeutico, sempre all’agguato in tempi di tagli, e tuteli il diritto a una fine dignitosa mettendo al centro la relazione medico-paziente».
il Fatto 29.8.12
La posizione di Ignazio Marino
“Sperimentiamo le staminali, ma con regole precise”
di Caterina Perniconi
È successo anche a me. Erano gli anni 80, lavoravo a Pittsburgh con un gruppo di ricerca che studiava un nuovo farmaco, il Tacrolimus, contro il rigetto dopo i trapianti di fegato. Non avevamo ancora raccolto i dati sufficienti per l’approvazione. Avevamo tutti contro. Il New York Times nel settembre del ‘90 scrisse una pagina intera dal titolo ‘Il farmaco che funziona a Pittsburgh’. Ci risparmiò la parola ‘solo’, ma quello era il dubbio che l’articolo voleva insinuare”.
Oggi, dopo la sperimentazione, il Tacrolimus è il farmaco anti rigetto più usato al mondo, mentre Ignazio Marino, chirurgo specializzato in trapianti di fegato, è diventato senatore del Partito democratico e presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. In questa veste ha conosciuto la storia di Celeste, la bambina veneziana affetta da atrofia muscolare spinale e curata con l’infusione di cellule staminali adulte prelevate dal midollo osseo della madre. Per quanto riguarda le malattie neurodegenerative, questa terapia (detta compassionevole) non ha ancora sufficienti casi a livello sperimentale per dimostrarne la non tossicità. L’Aifa aveva bloccato la cura di Celeste a maggio, ma il tribunale di Venezia ha permesso alla famiglia di ricorrere temporaneamente all’uso delle staminali. Venerdì toccherà al giudice del lavoro Margherita Bortolaso pronunciarsi definitivamente.
Onorevole Marino, qual è il problema di questa cura?
I problemi sono diversi. Quello che rimprovero ai ricercatori è che al momento non abbiamo nessuna informazione scientifica che spieghi la metodologia e i risultati di queste sperimentazioni. La medicina si basa sull’analisi dei dati e sulla ripetibilità dei fenomeni. Chi li studia ha l’obbligo morale di diffonderli e farsi approvare le terapie dagli organi competenti.
Altre complicazioni?
Non bisogna comprimere le esigenze dei pazienti e delle famiglie dentro questa morsa. La malattia è emozione, ansia, sofferenza, paura e il paziente non ha strumenti per valutare se una cura è efficace o no.
Venerdì lo deciderà un tribunale.
E anche questo è profondamente sbagliato. Abbiamo, all’interno dell’Istituto superiore di Sanità, le autorità regolatorie che possono analizzare i risultati senza pregiudizi. Devono farlo loro.
Secondo lei c’è un pregiudizio nei confronti di questo tipo di terapia?
Non credo nello specifico. Del resto se la scienza usasse il pregiudizio nel giudicare ogni tipo d’innovazione oggi non saremmo in grado di sconfiggere malattie che invece curiamo.
Quindi lei approverebbe la sperimentazione?
La mia esperienza certamente mi ha condizionato nella vita di parlamentare. Ho creduto per esempio che il professor Paolo Zamboni dovesse sperimentare la sua cura sulla sclerosi multipla nonostante molti medici lo accusassero di promuovere una terapia senza fondamenti scientifici. Se funzionerà o no lo diranno i risultati. Anche in questo caso de-v’essere valutato in base ai dati che non ci siano rischi per i pazienti.
In Cina l’infusione di cellule è una delle terapie più usate.
Ma anche da lì non ci arriva nessun dettaglio. Ci sono siti orientali che con questi metodi dicono di curare qualunque cosa. Però i ricercatori non pubblicano i dati e quindi restiamo fermi.
Lei che idea si è fatto delle cure con le cellule staminali?
Penso che tra qualche anno, quando gli studenti di Medicina leggeranno sui libri di storia che c’erano dei dottori che prendevano gli organi dai cadaveri e li reimpiantavano nei vivi, rideranno a crepapelle. Con l’infusione di staminali, soprattutto quelle che nel nostro paese sono le più dibattute, cioè le embrionali, si potranno curare molte delle malattie incurabili che oggi conosciamo. Ma l’unica strada percorribile è la sperimentazione e la ripetibilità. Ci sono già due casi di persone cieche che sono tornate a vedere grazie alle staminali. Ma c’è molto da studiare.
A proposito di dibattiti all’italiana: ieri la Corte europea dei diritti umani ha bocciato la legge 40, in particolare la diagnosi preimpianto.
La legge 40 va riscritta. È un provvedimento che non ha tenuto conto né delle conoscenze scientifiche, né del calvario delle coppie che desiderano completare il loro progetto di famiglia, con la nascita di un figlio. L’ipocrisia del testo è eclatante: a prescindere dalla biologia e dall’età di una donna, la legge impone l’impianto di tre embrioni e le impedisce una diagnosi pre-impianto, costringendola, nel caso di una grave malattia genetica del bambino, a ricorrere all’aborto terapeutico. In una materia così delicata dovrebbero essere applicati protocolli che riflettano lo stato della conoscenza scientifica e le opportunità messe a disposizione dalla medicina.
La Stampa 29.8.12
Ignazio Marino: “Una norma anti-scientifica Finalmente sarà cestinata”
Ignazio Marino, senatore del Pd, è un chirurgo di fama mondiale
di Gia. Gal.
«Adesso la legge 40 va semplicemente cestinata», esulta Ignazio Marino, senatore del Pd e presidente della commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale.
Cosa cambierà ora?
«Tutto. La sentenza di Strasburgo è la pietra tombale su una norma antiscientifica, la definitiva dichiarazione di incoerenza che certifica un dato di fatto: la legge 40 non è riformabile, va completamente riscritta. E non solo per l’importante aspetto della fecondazione artificiale, ma anche per il paradosso della ricerca scientifica negata e del divieto dell’uso di cellule staminali embrionali».
Quale paradosso?
«La legge 40 consente di usare cellule staminali prelevate da embrioni olandesi o francesi ma non da quelli destinati a morire nel freddo dentro i centri di infertilità italiani. Adesso dobbiamo voltare completamente pagina. Serve una norma basata sulla conoscenza scientifica e non su un compromesso parlamentare. In questo momento la legge 40 è persino difficile leggerla, tante sono le modifiche imposte da numerosi tribunali italiani e ora da Strasburgo. Dell’impianto originale non resta nulla. Siamo a un bivio. Dobbiamo decidere se lasciare l’Italia fuori dall’Europa oppure finalmente fare una legge in base alle conoscenze scientifiche contemporanee. Abbiamo il dovere di porre termine al calvario delle coppie che desiderano completare il loro progetto di famiglia, con la nascita di un figlio».
Cosa si aspetta adesso?
«C’è bisogno, come in Gran Bretagna, di un organismo tecnico, slegato dall’ideologia per regolare il settore, autorizzare i trattamenti, fornire le linee guida e i codici di comportamento agli ospedali che si occupano di fecondazione assistita. La 40, invece, è una legge ipocrita. A prescindere dalla biologia e dall’età di una donna, impone l’impianto di tre embrioni e le impedisce una diagnosi preimpianto, costringendola, nel caso di una grave malattia genetica del bambino, a ricorrere all’aborto terapeutico. Nell’interesse della salute delle persone, della vita delle coppie e della ricerca scientifica del nostro Paese, dovranno essere applicati protocolli che riflettano lo stato della conoscenza scientifica e le opportunità messe a disposizione dalla medicina. È una materia delicata, da sottrarre alle crociate La decisione di Strasburgo ci indica la via: riscrivere completamente la legge».
La Stampa 29.8.12
Giuseppe Fioroni
“L’ho votata e la difendo ancora No al Far West della provetta”
di Giacomo Galeazzi
ROMA Contrario Giuseppe Fioroni, medico, è il leader dell’area cattolica del Partito democratico
Strasburgo non ci impone nulla. Ho votato la legge 40 e la difendo: si può migliorare in qualche aspetto, ma non stravolgerla». Medico e leader dell’area cattolica del Pd, Giuseppe Fioroni si appella alle «linee-guida del 2007 con cui già il ministro Turco ha eliminato ogni contraddizione».
Perché la legge 40 non va cambiata?
«È una norma nata per favorire la procreazione nelle coppie sterili, tutelare i diritti dei genitori ma anche del figlio, impedire l’eterologa perché se il bambino potesse scegliere, sceglierebbe di avere un solo padre e una sola madre. È un argine di civiltà alla selezione eugenetica, altrimenti con la tecnica preimpianto si decide quali embrioni possono vivere e quali no. Ciò in un mondo esposto ai rischi della xenofobia e del razzismo porta alla ricerca della perfezione e alla rimozione di ogni imperfezione. Le linee-guida della Turco consentono la diagnosi pre impianto a fini terapeutici sull’embrione ma non la tecnica osservazionale che dà l’opportunità di scegliere il figlio che si vuole e di rimuovere quello che non si vuole».
Per Strasburgo c’è contraddizione con la norma sull’aborto...
«Non è così. La 194 non è la Rupe Tarpea, non consente l’aborto di un feto perché malato. La madre in presenza di una grave malattia del feto può chiedere l’interruzione di gravidanza per tutelare la propria salute fisica e mentale che ne verrebbe danneggiata. Dal punto di vista giuridico sia la legge 40 sia la 194 difendono il diritto alla vita del feto malato. Anche la recente convenzione Onu sulla disabilità vieta di abortire un feto un embrione perché malati o affetti da handicap».
Quali sono i pericoli senza legge 40?
«Si precipita nel Far West della “provetta selvaggia”. Si avrebbe la produzione di embrioni soprannumerari e la loro conseguente distruzione. La fecondazione eterologa altera la costituzione della coppia e inserisce un estraneo che non si assume nessuna responsabilità nei confronti del suo figlio naturale. È inaccettabile tornare a una pratica di “deregulation” per cui in materia di fecondazione artificiale si fa praticamente quel che si vuole. Va evitato, come purtroppo in molti stati accade, di creare i magazzini della vita debole per curare i forti. Procreazione e vita non possono aver nulla a che vedere coi “pezzi di ricambio” per i ricchi».
La Stampa 29.8.12
Una legge incompatibile con i diritti
di Vladimiro Zagrebelsky
La legge italiana che disciplina l’utilizzo delle procedure mediche di fecondazione assistita e più particolarmente le limitazioni che essa impone, sono oggetto di critiche e polemiche fin dalla sua approvazione nel 2004. Critiche e polemiche che riguardano sia la legge in sé, sia le linee guida emanate dal ministero della Salute per specificarne, integrarne e aggiornarne le previsioni. Come si ricorda un referendum parzialmente abrogativo venne fatto fallire nel 2005 con il non raggiungimento del quorum di votanti.
E’ recente la decisione dalla Corte Costituzionale di restituire ai giudici che l’avevano prospettata, la questione di costituzionalità del divieto di ricorso alla fecondazione con ovocita o gamete di persona esterna alla coppia (la fecondazione eterologa). La questione verrà certo riproposta e la Corte Costituzionale deciderà. In passato, nel 2009, la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale perché irragionevole e in contrasto con il diritto fondamentale della donna alla salute, la limitazione a tre degli embrioni da impiantare contemporaneamente, senza possibilità di produrne un maggior numero da utilizzare nel caso che il primo impianto non avesse avuto esito positivo.
Ora è un diverso aspetto della regolamentazione, che una diversa Corte ritiene incompatibile con i diritti fondamentali della persona. Ancora una volta si tratta dell’irragionevolezza di un impedimento posto dalla legge italiana all’accesso a una tecnica che è frutto del progresso medico. In proposito va ricordato che il Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, riconosce a tutti la possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». Limiti e condizioni sono possibili, ma, come per tutte le deroghe a diritti fondamentali, essi devono essere ristretti al minimo indispensabile per la tutela di altri diritti fondamentali confliggenti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso di una coppia italiana protagonista (e vittima) di una vicenda esemplare dell’irragionevolezza della legge, che li esclude dalla possibilità di utilizzare le tecniche di fecondazione medicalmente assistita. I due ricorrenti avevano generato una figlia malata di mucoviscidosi. Fu così che essi appresero di essere entrambi portatori sani di quella malattia. Nel corso di una successiva gravidanza, la diagnosi prenatale rivelò che il feto era anch’esso malato. Ricorrendo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, essi procedettero all’aborto. Poiché tuttavia desideravano un secondo figlio e naturalmente volevano evitare che fosse malato, richiesero di procedere alla fecondazione artificiale, per conoscere lo stato dell’embrione prima di impiantarlo, escludere quello malato e utilizzare quello sano.
La legge che disciplina la materia limita il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita al solo caso in cui la coppia è sterile o infertile. Le linee guida ministeriali del 2008 hanno ritenuto che sia assimilabile al caso d’infertilità maschile quello in cui l’uomo sia portatore delle malattie sessualmente trasmissibili derivanti da infezione da Hiv o da Epatite B e C. Ma non hanno considerato altre situazioni di genitori malati. E così alla coppia restò negata la possibilità di superare l’infermità e dar corso, con la fecondazione medicalmente assistita, a una gravidanza che si sarebbe conclusa con la nascita di un bimbo sano.
La Corte europea ha rilevato che la legge italiana nel caso in cui la diagnosi prenatale riveli che il feto è portatore di anomalie o malformazioni, consente di procedere all’interruzione della gravidanza. In effetti proprio a ciò aveva fatto ricorso la coppia, nella gravidanza successiva alla nascita della figlia malata. Vi è dunque, secondo la Corte, un’evidente irragionevolezza della disciplina, che, permettendo l’aborto e invece proibendo l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, autorizza il più (e il più penoso), mentre nega il meno (e meno grave). La Corte ha così rifiutato gli argomenti del governo italiano, che sosteneva che la legge tende a proteggere la dignità e libertà di coscienza dei medici e a evitare possibili derive eugenetiche. Argomenti contraddetti dal fatto che la legge consente di procedere all’aborto in casi come quello esaminato dalla Corte. In più ha pesato il fatto che la grande maggioranza dei Paesi europei consente la fecondazione medicalmente assistita per prevenire la trasmissione di malattie genetiche (solo l’Italia e l’Austria la vietano e la Svizzera ha in corso un progetto di legge per ammetterla). Irragionevole nel sistema legislativo italiano e ingiustificato nel quadro della tendenza europea, il divieto ha inciso senza ragione sul diritto della coppia al rispetto delle scelte di vita personale e familiare, garantito dalla Convenzione europea dei diritti umani.
La sentenza non è definitiva. Il governo italiano può chiederne il riesame da parte della Grande Camera della Corte europea. Se diverrà definitiva, sarà vincolante per l’Italia, una modifica della legge sarà inevitabile e saranno inapplicabili le linee guida ministeriali. La Corte Costituzionale ha già più volte detto che la conformità alla Convenzione europea dei diritti umani, «nella interpretazione datane dalla Corte europea», è condizione della costituzionalità delle leggi nazionali. Una revisione della legge potrebbe convincere il legislatore ad abbandonare l’ambizione di disciplinare il dettaglio, con ammissioni ed esclusioni particolari che inevitabilmente creano disparità irragionevoli. Questa è una materia in cui occorrerebbe lasciar spazio alle scelte individuali (in questo caso quella di non rinunciare a procreare un figlio, un figlio sano) e alla responsabilità dei medici nel fare il miglior uso possibile del frutto della ricerca e dell’avanzamento delle conoscenze e possibilità umane. La Corte Costituzionale ha già ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali.
Repubblica 29.8.12
Ora liberi dalle ideologie
di Stefano Rodotà
PEZZO dopo pezzo la terribile legge sulla procreazione assistita, la più ideologica tra quelle approvate durante la sciagurata stagione politica che abbiamo alle spalle, viene demolita dai giudici italiani e europei.
Ieri è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza che ha ritenuto illegittimo il divieto di accesso alla diagnosi preimpianto da parte delle coppie fertili di portatori sani di malattie genetiche. Si tratta di una decisione di grandissimo rilievo per diverse ragioni, che saranno meglio chiarite quando ne sarà nota la motivazione. Viene eliminata una irragionevole discriminazione tra le coppie sterili o infertili, che già possono effettuare la diagnosi grazie ad un intervento della nostra Corte costituzionale, e quelle fertili. Viene rilevata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la vita privata e familiare. Viene constatata una contraddizione interna al sistema giuridico italiano, che permette l’aborto terapeutico proprio nei casi in cui una diagnosi preimpianto avrebbe potuto evitare quel concepimento. Viene messo in evidenza il rischio per la salute della madre, quando viene obbligata ad affrontare una gravidanza con il timore che alla persona che nascerà potrà essere trasmessa una malattia genetica (è questo il caso della coppia che si era rivolta alla Corte di Strasburgo perché, dopo aver avuto una bambina affetta da fibrosi cistica e dopo un aborto determinato dall’accertamento che nel feto era presente la stessa malattia, intendeva ricorrere alla diagnosi preimpianto per procreare in condizioni di tranquillità).
È bene sapere che tutte queste obiezioni erano state più volte avanzate nella discussione italiana già prima che la legge 40 venisse approvata, senza che la maggioranza di centrodestra sentisse il bisogno di una riflessione, condannando così la legge al destino che poi ha conosciuto, al suo progressivo smantellamento. La Corte costituzionale, già nel 2010, aveva dichiarato illegittime le norme che indicavano in tre il numero massimo degli embrioni da creare e accompagnavano questo divieto con l’obbligo del loro impianto. Vale la pena di ricordare quel che allora scrissero i nostri giudici: “la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali” (così la sentenza n. 151 del 2010). Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire quali siano le tecniche ammissibili, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vennero esplicitamente dichiarate illegittime.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si colloca lungo questa linea. Quando si parla del rispetto della vita privata e familiare, si vuol dire che in materie come questa la competenza a decidere spetta alle persone interessate. Quando si sottolineano contraddizioni e forzature normative, si fa emergere la realtà di un contesto nel quale le persone sono obbligate a compiere scelte rischiose proprio là dove dovrebbe essere massima la certezza, come accade tutte le volte che si affrontano le questioni della vita. Vi sono due diritti da rispettare, quello all’autodeterminazione e quello alla salute, non a caso definiti “fondamentali”. Di questi diritti nessuno può essere espropriato. Questo ci dicono i giudici, che non compiono improprie invasioni di campo, ma adempiono al compito di riportare a ragione e Costituzione le normative che investono il governo dell’esistenza. Né si può parlare di una deriva verso una eugenetica “liberale”, proprio perché si è di fronte ad una specifica questione, che riguarda gravi patologie.
Ma la sentenza della Corte di Strasburgo è una mossa che apre una complessa partita politica e istituzionale. Saranno necessari passaggi tecnici per far sì che tutte le coppie a rischio di trasmissione di malattie genetiche possano effettivamente accedere alla diagnosi preimpianto. Passaggi che potranno essere ritardati dal fatto che il governo ha tre mesi per impugnare la decisione davanti alla “Grande Chambre” di Strasburgo. Questa impugnativa è invocata dai responsabili di questo disastro legislativo e umano. Il ministro Balduzzi, prudentemente, parla della necessità di attendere le motivazioni della sentenza: Ma può il Governo scegliere una sorta di accanimento terapeutico per una legge di cui restano soltanto brandelli, di cui le giurisdizioni europea e italiana hanno ripetutamente messo in evidenza le innegabili violazioni della legalità costituzionale?
Questa sarebbe, invece, la buona occasione per uscire finalmente dalle forzature ideologiche. In primo luogo, allora, bisogna prendere atto, come buona politica e buon diritto vorrebbero, che bisogna riscrivere la legge davvero sotto la dettatura, non dei giudici, ma delle indicazioni costituzionali, obbedendo alla logica dei diritti fondamentali. Ma, in tempi di carte d’intenti e di programmi elettorali, sarebbe proprio il caso di abbandonare fondamentalismi e strumentalizzazioni. Il dissennato conflitto intorno ai “valori non negoziabili” dovrebbe lasciare il posto ad una attitudine capace di riconoscere che vi sono materie nelle quali l’intervento del legislatore deve essere in primo luogo rispettoso della libertà delle persone e della loro dignità, che non possono essere sacrificate a nessuna imposizione esterna.
Repubblica 29.8.12
Emma Bonino, dei Radicali
“Quel testo era fuori dal tempo anche l’eterologa va sdoganata”
di Giovanna Casadio
Ci vuole l’Europa per difendere i diritti civili, presidente Emma Bonino?
«Nel nostro Paese, leggi come questa sulla fecondazione assistita violano i diritti umani tutelati dalla Corte europea. Il maggior numero di condanne riguardano l’irragionevole durata dei processi e la disastrosa situazione dell’amministrazione della giustizia, ma si estendono a una molteplicità di ambiti dell’azione statale: dalle politiche sui respingimenti dei migranti alle condizioni disumane delle carceri, dall’utilizzo del segreto di Stato alla tutela della reputazione degli indagati. Nel novembre 2010 il Gotha degli esperti di diritto internazionale, riuniti nella sala del Refettorio dai Radicali italiani, stese una Dichiarazione in cui denunciava “gravissime preoccupazioni” in ordine al rispetto dei parametri di base dello Stato di diritto in Italia».
I cattolici parlano di “sentenza ideologica” sulla legge 40, e annunciano battaglia.
vita, si erano già costituiti proprio in questo procedimento di fronte alla Corte, così come noi Radicali come “Associazione Luca Coscioni” contro i divieti della legge. E la Corte ha prodotto questa sentenza. Quante inutili sofferenze si sarebbero potute evitare».
Secondo lei, ora si modificherà qualcosa o si farà melina?
della sentenza, poi il governo deciderà se fare ricorso o meno. Se non lo farà e la sentenza diventerà operativa, è chiaro che bisognerà arrivare a una modifica parlamentare. Ma l’Italia spesso, anche quando viene condannata come sulle carceri, fa finta di niente
«Questa è una legge ormai completamente svuotata da sentenze italiane ed europee. Resta l’articolo sul divieto di fecondazione eterologa, che aspetta una sentenza della Consulta».
C’è oggi una maggioranza per modificare le norme sulla fecondazione assistita, che furono sottoposte a referendum nel 2005, in cui andò a votare solo il 25 per cento degli italiani? “L’armata” del cardinal Ruini fece una campagna per l’astensionismo.
«Non mi pare proprio ci sia una maggioranza. Però c’è il valore della giurisprudenza europea che è fonte primaria rispetto a quella nazionale. Di fatto una nuova legge c’è».
Purtroppo su questo tema una maggioranza non c’è. E quando viene condannata l’Italia fa spesso finta di niente
Repubblica 29.8.12
Beppe Fioroni, cattolico del Pd
“Attenti alla deriva eugenetica la vita non è un supermercato”
«È appena il caso di ricordare che la legge 194 non sostiene da nessuna parte che sia consentito l’aborto del feto perché malato». Giuseppe Fioroni, leader cattolico del Pd — in attesa di conoscere le motivazioni, e senza entrare nel merito del ricorso — interviene sulla questione della compatibilità tra legge 40 e legge 194 sollevata dalla Corte di Strasburgo.
Fioroni, dovevamo aspettare l’Europa per consentire anche a chi è fertile l’accesso alla diagnosi
«Le linee guida del ministro Turco durante il governo Prodi avevano già introdotto l’utilizzo della tecnologia preimpianto, ma solo per finalità diagnostiche e terapeutiche sull’embrione stesso. Avevano escluso quelle tecnologie, invece, per i fini “osservazionali”, ovvero per quella forma di diagnosi che può portare a dire ai genitori: “Come lo volete il figlio, alto, occhi azzurri...?” ».
«Sono sempre possibili miglioramenti normativi, come quelli fatti da Livia Turco. Ma i valori guida della legge erano validi ieri. E sono validi oggi».
«La legge 40, emanata per garantire alle coppie sterili di poter ottenere una gravidanza, ha due obiettivi. Da una parte tutela il diritto dei genitori ad avere un figlio, e il soggetto debole, il nascituro, ad avere un solo padre o una sola madre (e questo fu il motivo per il “no” alla fecondazione eterologa). L’altro caposaldo era evitare che la fecondazione artificiale aprisse la strada a una selezione eugenetica in forza della quale il genitore sceglie il figlio che vuole e sopprime quello che non gli piace».
C’è però il problema sollevato da Strasburgo sulla compatibilità tra legge 40 e 194.
«La 194 non è una legge “neroniana” o figlia della “rupe tarpea”: non autorizza, infatti, la soppressione di feti malati, ma prevede che si possa consentire l’aborto quando la salute fisica e mentale della madre è messa a repentaglio. Da questo punto di vista le due leggi mantengono la stessa impostazione di fondo: non consentono la soppressione della vita perché malata. E chiudono le porte al “supermercato della vita”, e ai rischi delle sue derive eugenetiche e razziste. Mostruosità di cui la storia è piena».
Nel nostro ordinamento nessuna disposizione autorizza a sopprimere un figlio solo perché è malato
Repubblica 29.8.12
E adesso Pisapia vuole il testamento biologico
di Alessia Gallione
MILANO DOPO il registro delle unioni civili, Milano vuole quello per il testamento biologico. È questo l’ultimo fronte sul terreno dei diritti civili aperto dalla giunta “arancione” di Giuliano Pisapia. Un percorso avviato. E un obiettivo preciso. Inserito lì, in una Carta dei diritti del malato che assessori e sindaco discuteranno nei prossimi giorni.
QUATTORDICI punti per sancire il diritto dei pazienti a veder rispettato il loro tempo senza essere costretti a code e attese, a essere informati, a non dover subire «sofferenze e dolore non necessari». Fino al più delicato di tutti i capitoli. Articolo 13: «Diritto alla manifestazione anticipata delle direttive di fine vita», è il titolo. Un tema ancora aperto, dopo i casi Welby ed Englaro. Che tocca sensibilità e coscienze ed è destinato a dividere. Ma che il Comune, in attesa di una legge nazionale, adesso vuole iniziare ad affrontare. Spingendosi fino al momento estremo dell’addio, con la possibilità per i milanesi di esprimersi sul rifiuto «dell’accanimento terapeutico e del prolungamento forzato della vita in condizioni di coma irreversibile o di disagio», di richiedere e rifiutare l’assistenza religiosa. Ma andando anche oltre. Fino alla scelta sulla donazione degli organi e delle «modalità della cremazione/inumazione».
A fine luglio, quando il registro delle coppie di fatto sbarcò in Consiglio comunale, il dibattito fu duro. Con pezzi del mondo cattolico che arrivarono persino a scomodare il rischio poligamia e con le fibrillazioni di alcuni consiglieri del Pd. Polemiche destinate a tormentare nuovamente Palazzo Marino per il testamento biologico. Perché l’obiettivo politico della giunta è quello: aprire una discussione sul fine vita. In Italia, lo hanno già fatto 122 Comuni. E, in 96 casi, il registro è già partito: da Torino (da marzo 2011 sono 358 i testamenti depositati) a Modena (300 “volontà” anticipate da marzo 2010), da Palermo a Livorno fino a Reggio Emilia. A Roma, Napoli e Trieste e in altri 33 casi si attende l’istituzione.
A Milano si parte adesso. È l’inizio di un percorso. Il riferimento, per la prima volta, compare nero su bianco su un documento ufficiale come la Carta dei diritti del malati - preparata dall’assessore del Pd alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino - già discusso con esperti e associazioni e allegato a un altrettanto ufficiale “Piano” che disegna le politiche sociali della città e che la giunta voterà a settembre. Anche se, per veder nascere il registro, dovrà essere il Consiglio comunale milanese a scrivere e approvare successivamente una delibera ad hoc. Una richiesta, quella della necessità che l’aula affronti il tema del testamento, che fa parte anche di un elenco di quattro delibere di iniziativa popolare (dalla regolamentazione della prostituzione fino alle cosiddette stanze del buco) per cui i Radicali hanno raccolto in totale 31mila firme e che sono state depositate a Palazzo Marino. Questo l’obiettivo. In attesa delle decisioni della politica. Anche se, gli esperti dell’assessorato, hanno studiato il progetto. «Il nostro punto di riferimento è Modena», spiega il consulente per politiche sanitarie di Majorino Giuseppe Landonio. In questo caso non ci sono moduli prestampati: un cittadino, con le firme di due testimoni, potrà esprimersi liberamente e in modo anticipato sul fine vita: dall’accanimento terapeutico all’assistenza religiosa.
l’Unità 29.8.12
Camusso: «Troppa inerzia Le vertenze vanno risolte»
di Massimo Franchi
«Se la risposta alla crisi è la social card vuol dire che il governo ha un modello che non è il nostro.
Si riparta dal lavoro e dalla dignità delle persone»
La Sardegna è piena di vertenze aperte da un tempo infinito, bisogna cominciare subito a costruire delle soluzioni, altrimenti l'esasperazione inevitabilmente si allargherà, perché in una zona come il Sulcis chiudere un'azienda per i lavoratori significa non avere più prospettive».
Da Forlì Susanna Camusso torna a chiedere al governo «un cambio di rotta e risposte in tempi brevissimi» per evitare un autunno ancora più caldo. «Se la risposta, invece della patrimoniale, è la social card significa che il governo ha un'idea di modello economico e sociale diverso dal nostro, e non solo che non ci sono risorse». «È il modello che ci ha portato nella crisi e che non ci sta facendo uscire: quello dei tagli al welfare e agli investimenti. Per contrastarlo bisogna ripartire dal lavoro, da un'idea di dignità delle persone attraverso la creazione di posti di lavoro. Per farlo servono risorse pubbliche e private determinate da politiche economiche che partano da una patrimoniale e da un intervento pubblico in economia. Questo è il nostro Piano del lavoro, che parte da un'idea di Paese che riconosce diritti e libertà alle persone proprio per ridare dignità al lavoro stesso».
Nel suo tour emiliano-romagnolo che la porterà stasera alla Festa nazionale del Pd a Reggio Emilia, Susanna Camusso partecipa all'Assemblea delle donne alla prima festa della Cgil di Forli a San Lorenzo in Noceto. Una terra di impegno e solidarietà dove sono «arrivati i cinesi a salvare i 2mila posti della Ferretti», leader mondiale della costruzione di yacht e l'Electrolux, la più grande azienda del territorio dal 2003 «ha un accordo aziendale sul part-time che in Italia ci invidiano».
Al circolo Arci, a fianco della bella mostra sulla imolese Argentina Altobelli, «l'Angelo dei contadini», pioniera del sindacalismo al femminile, sfilano i volti e le storie di donne diverse accomunate dalla voglia di partecipare e di cambiare la società attraverso «i diritti e il lavoro». C'è la mamma lavoratrice che racconta come alla figlia 23enne in un colloquio di lavoro per un'importante catena di abbigliamento abbiano chiesto: «Prendi precauzioni quando fai sesso? Quando pensi di mettere su famiglia?», c'è la ragazza del Sud che festeggia il premio appena ricevuto dall'azienda dove «di donne siamo in due, dopo anni di sacrifici, lavorando il triplo degli uomini«. Ma ogni storia è legata alla situazione dell'universo femminile e all'attualità politica ed economica: rinnovi contrattuali «in cui perderò 100 euro perché hanno tolto la detassazione del reddito di produttività», la spending review che «taglierà i posti all'asilo nido, nonostante l'inventore in Italia sia il maestro forlivese Santarelli».
Ai tanti interventi delle donne forlivesi, Susanna Camusso risponde non prima che il segretario della Camera del Lavoro di Forlì Paride Amanti ricordi che «anche a Forlì c'è il 30 per cento di disoccupazione femminile e la crisi sta spaccando la società perfino nella terra del modello emiliano».
Il segretario della Cgil sottolinea il «desiderio di speranza e futuro che attraversava gli interventi» e come «la Cgil sia un esempio di diversità tra le organizzazioni di questo Paese nella quale la condizione delle donne segna la libertà di tutti».
Ma «la crisi che affrontiamo non è solo di carattere economico, è crisi del valore di eguaglianza e prima fra tutti la negazione dell'eguaglianza colpisce la condizione delle donne e dei giovani e cioè dei cosiddetti soggetti deboli», continua Camusso. «Il lavoro – ricorda è sempre stato elemento per avere indipendenza economica, però questa crisi ha tolto questa certezza: il lavoro povero è per i giovani non sapere più qual è l'età dell'autonomia. Ancor di più per le donne: se la donna non lavora non c'è bisogno degli asili nido e quando i servizi si trasformano in prestazioni economiche significa che dietro ci sarà una donna a sostituire il welfare».
L'ultimo accenno è per la legge sulla maternità: «Conquistata con la lotta, è una delle migliori al mondo ma le giovani precarie di oggi non la possono utilizzare nonostante con la riforma del lavoro paghino la stessa quota di contributi. Ma se le leggi non bastano più, allora serve usare tutti gli strumenti e la contrattazione è uno di questi».
il Fatto 29.8.12
Democratici ma senza gli operai
Alle feste di Reggio Emilia, Torino e Bologna non c’è la Fiom. Ci sono però Maroni e Sallusti
di Wanda Marra
Già dagli esclusi della festa di Reggio Emilia si capisce in che direzione va il partito di Bersani: porte chiuse a Di Pietro, Grillo e al sindacato “ribelle”. Grande attenzione al centro di Casini. E ai nemici di ieri che tifano “grande coalizione”. Ma la base è confusa e incredula.
La verità è che a questa festa i dibattiti non ci sono. Ci sono degli incontri, senza domande”. Mentre mette a posto i gadget del suo stand, quello della Cgil, Vitto-rio, pensionato in forza alla Spi, con tono sommesso, senza polemica fa una fotografia tanto precisa quanto impietosa dell’andamento di questi primi giorni della Festa democratica di Reggio Emilia. Pochissima gente agli incontri, sia quelli politici sia quelli di presentazioni dei libri, e pure piuttosto disinteressata. L’area dibattiti principale, non solo è piccola, ma per la metà pure assolata: non proprio il massimo per accogliere le folle. “Siamo venuti per mangiare”, confessa candidamente un’anziana signora, che si studia i menu fin dalle sei del pomeriggio. E in effetti la sera Campovolo si anima. Se per caso qualcuno fosse interessato davvero al confronto politico duro e puro, il programma ha fatto il resto. “Sallusti? Io non c’ero qui quel giorno e comunque non ci sarei andato. Secondo me dovevano invitare tutti, anche la Fiom, anche Di Pietro, anche Grillo”, commenta Francesco, volontario, mentre racconta che lui ha contribuito “a mettere su la baracca”.
PASSAGGIO trionfale l’altroieri per il direttore del Giornale, esclusione netta per gli operai. Non male per quella che fu la festa dell’Unità. La Fiom è esclusa non solo a Reggio Emilia, ma anche a Bologna dove ci sono undici dibattiti sul lavoro. E a Torino, la città della Fiat. “Ero un simbolo e non mi hanno invitato a casa mia”, si è sfogato sul Giornale, Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen-Krupp portato in Parlamento da Veltroni.
“La Fiom bisognava invitarla”, dice Ugo, perentorio, mentre aspetta la presentazione di “Falce e tortello” nello spazio dove l’altroieri era Sallusti. E in effetti, l’esclusione è di quelle che anche per i più fedeli alla linea è difficile da difendere. Così lo sconcerto è tanto: chiacchierando qua e là tra la gente, in molti neanche vogliono rispondere. L’imbarazzo è palpabile. Siamo in Emilia, vecchia terra comunista. Il partito si ama e si segue, mica si discute. “Sì, però, invece di dire fascista a Grillo e Di Pietro, Bersani poteva invitarli”, dice uno dei visitatori. “Chi porta più valore al Pd, la Fiom o Sallusti? Secondo me la Fiom”, afferma rabbiosa una signora, pensionata, mentre ascolta l’incontro dei sindaci, De Magistris, Zedda, Fassino e Merola. “Hanno sbagliato, dovevano invitare tutti”, nello stesso pubblico ha le idee chiare una ragazza. Ma c’è anche chi taglia più netto. Come Simone: “Sallusti è stato un errore. Io infatti non ci sarei andato a sentirlo”. Con lui c’è un’anziana signora, arrivata da Milano direttamente per sentire Fassino: “Questi qui dovevano dare più battaglia. Sono arrabbiata, mica lo so se li voto più”. Mentre il più realista del re, Maurizio, aria torva e cipiglio: “Invitare Landini? E perché, c’è la Camusso”. “Dovevano portare qui uno di quei 400 che adesso sono sotto terra nel Sulcis. Questo sì che da parte di Bersani sarebbe stato un segnale forte”, dice Gilberto, uno che a 60 anni si definisce “esodato atipico”. Nel senso che l’hanno licenziato a 57 e da allora lavora a partita Iva, “ovvero guadagno dei soldi, pago le tasse e poi non mi rimane più niente”, spiega non senza ironia.
“CERTO la Fornero qui sarebbe stata un’interlocutrice, come ministro del Lavoro”. Sì, in effetti non hanno invitato neanche lei. Nonostante le pressioni dei liberal del partito. E dopo le spiegazioni tentennanti dell’organizzazione, la motivazione politica l’ha fornita da par suo il responsabile economico, Stefano Fassina: “Sugli esodati è mancato il dialogo”. Alla faccia del confronto democratico, evocato da tutti, in primis dal responsabile della Festa, Lino Paganelli per spiegare la presenza di Sallusti. Di certo la stessa che motiva la presenza di Roberto Maroni, segretario della Lega, in arrivo il 4. Giochi di equilibrio. “Per me un dibattito deve avere un contraddittorio”, dice un’insegnante 43enne, una delle venti che sono sedute ad ascoltare il sottosegretario Marco Rossi Doria nell’incontro delle 18. Ma per trovarlo il dibattito bisogna sedersi a un tavolino, vicino al palco principale, dove due vecchi amici discutono animatamente del segretario della Fiom, Maurizio Landini. Uno è il “Ferretti”, ex metalmeccanico, ex vicesindaco di Reggio, ex segretario della Camera territoriale di Reggio Emilia, ora in forze a Sel. “Landini dovevano invitarlo: per i valori che rappresenta e per il peso politico che ha. La motivazione che hanno dato, che c’è la Cgil, non mi sembra credibile. C’è pure un incontro dove si parla di Marchionne: lì ci sarebbe stato bene”. “Landini non è un operaista, è un estremista”, ribatte l’amico. Ma poi: “Veramente è venuto Sallusti? Il Giornale fa dei titoli talmente tanto volgari che io non riesco neanche a toccarlo”.
il Fatto 29.8.12
“Pd supponente Ha abbandonato il lavoro”
Airaudo: “Ci aspetta un autunno difficile: il clima sociale è rovente”
di Salvatore Cannavò
Abbandonano il lavoro, ma io non credo che il tema possa scomparire. Alle prossime elezioni ci saranno sorprese”. Giorgio Airaudo è il responsabile Auto della Fiom e nel sindacato dei metalmeccanici Cgil è forse quello più esposto sul fronte della politica.
Il Pd non vi invita alle sue feste. Che dice?
Danno un segnale di autosufficienza che a me pare una fragilità. Noi abbiamo discusso addirittura con il ministro Fornero, non avremmo paura a discutere con il Pd.
Ma loro sembra proprio che non vogliano.
Non mi colpisce tanto che non invitino la Fiom, ma il fatto che chi si candida a governare il Paese, con la tradizione che tutti conosciamo, tema le differenze e tenti di annullarle. E così dal loro dibattito emerge l’assenza dei temi del lavoro e più che la Fiom manca un punto di vista che in questi anni è molto cresciuto nel mondo del lavoro e che va oltre la Fiom. Parlo dell’attenzione ai diritti, del rifiuto delle discriminazioni. E questo avviene mentre in Sardegna succede quello che vediamo, la punta dell’iceberg di una stagione che si avvicina terribile, con un clima sociale rovente.
Perché questa rimozione?
Si tratta di una supponenza. È come se pensassero di giocare da soli, in una partita già vinta e che sia inevitabile, con la crisi del berlusconismo, che ora tocchi a loro. Commettono un errore di supponenza che ha già colpito altre volte questo gruppo dirigente. Si pensi alla ‘gioiosa macchina da guerra’ di Occhetto o alle mosse sbagliate di D’Alema. Non è la prima volta che sbagliano la valutazione.
Un Pd supponente?
Sì, ma supponente nell’analisi. Ritengono che tanto ‘gli operai non possono che venire da noi’. Pensano di essere l’unica alternativa politica esistente, mentre invece c’è una domanda più radicale di quella che viene offerta oggi dalla politica. Una radicalità nuova con cui fare i conti.
Ed è a questo mondo che il Pd dà dei fascisti?
Qui hanno fatto un regalo a Grillo. Ovviamente io penso che sia legittima la difesa di fronte all’insulto, ma è inutile l’ostracismo perché con ciò che rappresenta, non tanto Grillo quanto il Movimento Cinque Stelle e chi lo vota insomma, bisogna confrontarsi nel merito. Affrontando temi come sviluppo, produzione, lavoro, ambiente. I lavoratori hanno bisogno di una proposta di governo. E le domande che oggi sono raccolte dal Movimento Cinque Stelle vanno sfidate positivamente, affrontando un dibattito. Pochi lo hanno notato ma sono tre giorni che La Stampa di Torino ha aperto un dibattito sulla decrescita. Non è che questi temi non c’entrino con il dibattito sulla Fiat e sullo sviluppo possibile. Questi temi sono quelli che mi piacerebbe discutere. Invece dare del fascista, o del piduista, è un modo per non discutere nel merito.
Allora è Grillo l’alternativa?
Nel mondo del lavoro ci sono già molti che guardano con attenzione a Grillo. Lo vedo nelle fabbriche, tra i delegati della Cgil, negli uffici. E non si esorcizza questa tendenza con gli insulti. Ma non mi rassegno a considerare tutti quei cittadini che votano Grillo, utilizzandolo come un randello contro la politica, come dei neofascisti e nemmeno voglio consegnarli al populsimo. È bene che nasca qualcosa. Qualcosa succederà. L’idea che questa domanda politica non si organizzerà e non si esprimerà costituisce una grandissima sottovalutazione.
Ritorna l’idea del “partito Fiom”?
Il partito della Fiom non esiste in natura. Non faremo questo regalo a chi vuole disinnescare la battaglia del sindacato. Siamo e resteremo la Fiom. Ma non è un caso che questo tema abbia fatto discutere. Ora, la questione va declinata in un altro modo con soggetti che rappresentino il lavoro. Sono sicuro che il lavoro sposterà forze nelle prossime elezioni, influenzerà. Servirebbe una proposta politica che abbia al centro il lavoro, come si lavora e cosa si produce. Il lavoro come pietra angolare di una visione generale.
il Fatto 29.8.12
Bersani flirta con Vendola, ma vuole sposare Casini (che votò le leggi vergogna)
di Marco Palombi
Tra Casini e Vendola scelgo Vendola”. L'uscita con cui Pier Luigi Bersani ha voluto riportare “a sinistra” le chiacchiere sulle alleanze del Pd in vista delle prossime politiche è una non notizia. L'Udc non sarà un alleato dei democratici in campagna elettorale, sarà solo il loro partner obbligato nel prossimo governo (se vincono le elezioni). Il segretario lo dice da sempre, si può dire che sia l'innovazione di linea su cui ha basato la sua leadership: basta alla “vocazione maggioritaria” di Veltroni (un Pd bipolarista al limite del bipartitismo) e sotto con la versione 2.0 del compromesso storico, ovvero in mancanza dell'unione tra masse comuniste e cattoliche, almeno quella dei ceti dirigenti sopravvissuti alla loro scomparsa. Rocco Buttiglione, da buon conservatore, non ha il vizio della circonlocuzione che piace alla gauche moscetta del secondo millennio: “La scelta di Vendola ce l'aspettavamo. Da tempo è in corso un lavoro: Bersani cerca di organizzare una sinistra di governo, se possibile, che rompa col populismo dei blog. Oggi c'è la piazza mediatica come luogo della comunicazione politica, certi modi di usarla sono l’analogo delle manganellate dei fascisti nell’Italia degli anni ’20”.
E L'UDC? “Noi vogliamo unire i moderati, che sono altro dalla sinistra. Bersani ha il diritto di andare alle elezioni con Vendola e chiedere una maggioranza, se il popolo non gliela dà vuol dire che vuole la grande coalizione e allora saremo noi a giocare la carta. Di alleanze si parlerà dopo le elezioni”. Conciso, chiaro, diretto: è lo schema con cui si andrà al voto. Bersani invece, che è laureato in Filosofia, usa parole alate: “Il Pd deve riuscire a dare concreto valore costituente alla prossima legislatura”, dopo aver costituito “il campo progressista” e offrendo “un'alleanza ai moderati per ricostruire le basi civiche del Paese. ”.
Tradotto: io vinco le primarie giocandomi la carta della mia vecchia appartenenza di sinistra, poi facciamo il listone dei progressisti in cui accogliamo il Psi di Nencini, pezzi dell'Api, forse Sel e Nichi Vendola, poi dopo il voto – visto che difficilmente raggiungeremo il 51% dei seggi – ci alleiamo con l'Udc che nel frattempo a sua volta ha tirato dentro pezzi di associazionismo cattolico, centristi spuri e qualche ministro tecnico d'area come – per citare i più ovvi – Riccardi, Profumo o Ornaghi (che poi sarebbero anche candidati a entrare nell'eventuale governo post-Monti), senza dimenticare l'eventuale frontman Corrado Passera, che però potrebbe avere qualche casino legale di troppo. Il programma elettorale? Non c'è problema, tanto l'hanno già scritto Monti e Tremonti con gli accordi sottoscritti a Bruxelles nell'ultimo anno e mezzo: per salvare l’euro, bisogna ridurre alla fame un bel po’ di europei.
QUALCHE DIFFICOLTÀ in più, lo stato maggiore democratico, Bersani in testa, potrebbe trovarla però nello spiegare l'alleanza strategica con Pier Ferdinando Casini ai suoi elettori. Le prove generali in Sicilia – con l'appoggio a Rosario Crocetta dell'Udc chissà quanto de-cuffarizzato rispetto a quando “Totò vasa-vasa” dettava legge nell’isola – non paiono funzionare tanto bene, ma soprattutto nessun sostenitore del Pd ha dimenticato che Casini e Buttiglione (oltre alle note posizioni su gay, aborto e diritti civili, peraltro ben rappresentate anche al Nazareno) sono stati per anni al fianco di Silvio Berlusconi mentre quello devastava il tessuto civico del Paese che Bersani vuole ricostruire alleandosi... con l’Udc.
CHE FARÀ l'esecutivo Pd-Udc delle leggi ad personam votate anche dai centristi nella legislatura 2001-2006 e che invece i predecessori dei democratici avversavano in piazza? Un piccolo elenco serve sempre a capire la situazione. Il partito di Casini ha contribuito a far entrare nel corpus giuridico italiano la legge sulle rogatorie internazionali, la depenalizzazione del falso in bilancio, la legge Cirami sul legittimo sospetto, il decreto salva-Rete 4, la legge Gasparri, il condono edilizio e quello fiscale, la ex-Cirielli sui termini di prescrizione, il Lodo Schifani e la legge Pecorella sull'inappellabilità delle sentenze (queste ultime bocciate dalla Consulta), e la peggiore di tutte, il Porcellum, di cui il vero padre è proprio l'Udc, che “scambiò” una legge elettorale proporzionale per il via libera alla devolution della Lega, che poi s'infranse contro il referendum confermativo. Anche in quel caso, era il giugno 2006, Casini e soci si fecero la campagna referendaria accanto a Bossi e al Cavaliere.
il Fatto 29.8.12
Il “nemico” è Grillo, e Bersani lo sa
I sondaggi sono preoccupanti per il Pd che sbaglia a rispondere alle provocazioni
di Loris Mazzetti
È partita la campagna elettorale per le politiche del 2013: Bersani contro Grillo con Berlusconi outsider. “Se son tornati Batman al cinema e Beautiful su Canale 5 perché non dovrei tornare io? ”. D’altra parte il Pdl ha di fronte il baratro e solo B. può attutire l’inevitabile caduta. È in Sardegna a rifarsi look, a studiare i discorsi di Grillo e a buttar giù un po’ di chili. Sarà ingombrante, sul piatto metterà il suo impero mediatico, giornalisti che gli confezioneranno in tv vestitini su misura e tanti soldi, ma nulla di più di un comprimario. Il Cavaliere in versione ridotta ritornerà, non solo per vincere la depressione come sostiene Feltri, per le sue aziende, per continuare a rispondere con il legittimo impedimento alle convocazioni dei magistrati, per portare alla prescrizione i suoi processi e per avere voce nelle commissioni parlamentari che contano grazie ai suoi uomini che riuscirà a inserire.
BERSANI SA che questa volta il nemico è Grillo, ma sbaglia a scendere sul suo stesso terreno: quello della provocazione. A un linguaggio fascista (a Grillo si può dire tutto ma non questo) si dovrebbe rispondere con l’antifascismo, non con le minacce che sanno di squadrismo. Bersani ha reagito d’impulso sugli ultimi sondaggi (segreti?) che danno il Movimento più o meno al 25%, con il rischio, visto la costante ascesa e l’aiuto che gli sta dando il governo Monti, che diventi il primo partito. La vecchia volpe Di Pietro lo ha capito e sa che i giovani grillini non hanno esperienza di palazzo e un eventuale sodalizio tra Idv e M5S potrebbe essere decisivo per il risultato finale. Lunedì è stata mediaticamente una giornata molto importante per il risultato del sondaggio del tg di Sky: “Chi scegliete tra Grillo e Bersani? ”. Oltre il 60% ha detto Grillo. È partito l’approfondimento informativo de La7. Per dire la verità, la tv della Telecom (in Rai solo Rainews ha tenuto alta la bandiera del servizio pubblico), non lo ha mai abbandonato, anche se questa edizione di In Onda è stata molto, molto modesta per un Facci inguardabile, inascoltabile, impreparato, ma evidentemente molto raccomandato. Più che giustificati gli sbalzi di pressione della brava Lusenti. Sempre lunedì Mentana è andato in prima serata con Bersaglio mobile (6% di share). Il tema era lo scontro tra Bersani e Grillo e quello tra il Quirinale e la Procura di Palermo sulla trattativa. Un salto nella tv del passato: Tempo reale di Santoro, al posto di Pansa, Travaglio (che ha dimostrato più di ogni altro di essere a conoscenza dei fatti, ma troppo sensibile alle provocazioni) e con Ferrara, dalla barba più lunga e più bianca, capace, oggi come allora, solo di insulti e volgarità per nascondere i fatti. A Mentana un bravo per essere stato sull’attualità, ma può dare di più. Per il telespettatore la trasmissione è servita, semmai ce ne fosse stato bisogno, per capire quanta malafede c’è in Ferrara. All’ignoranza manifestata nessuno ci crede. L’informazione, però, è un’altra cosa.
il Fatto 29.8.12
Pedofilia, gli imbarazzi vaticani
di Marco Politi
Come uno spettro gli scandali di pedofilia perseguitano il Vaticano. In Israele è scoppiata una polemica violenta sulla nomina del nuovo ambasciatore vaticano, mons. Giuseppe Lazzarotto, già nunzio in Irlanda dal 2001 alla fine del 2007. È accusato di aver coperto, nel suo ruolo diplomatico, gli abusi avvenuti nella diocesi di Dublino.
Yedioth Ahronoth, il giornale israeliano a più larga diffusione, descrive l’arrivo di Lazzarotto come fonte di “imbarazzo e di umiliazione”. E invita il governo a “chiedere chiarimenti”. Yedioth Ahronot (e sulla sua scia altri media) va giù durissimo: “La nomina è uno schiaffo in faccia a Israele”. La storia, più che Lazzarotto personalmente, colpisce il Vaticano e i suoi decennali silenzi sugli abusi sessuali del clero. Lazzarotto come vescovo non è stato coinvolto in nessun caso di pedofilia. Come diplomatico, ubbidiente alle direttive della Santa Sede, ha però negato alla commissione d’inchiesta sui crimini pedofili nella diocesi di Dublino l’accesso alla documentazione in suo possesso.
I FATTI risalgono al 2007. La giudice Yvonne Murphy sta indagando sugli abusi sessuali del clero avvenuti tra il 1975 e il 2004. (Se ne documenteranno, riduttivamente, 326 con il coinvolgimento di 46 sacerdoti). La giudice Murphy chiede informazioni alla Congregazione per la Dottrina della fede. Il Vaticano svicola e replica che la richiesta non è avvenuta tramite i canali diplomatici. Nel febbraio 2007 la Murphy si rivolge al nunzio Lazzarotti chiedendogli di trasmettere il materiale in suo possesso riguardante la diocesi di Dublino e gli abusi. O almeno di confermare di non avere alcun tipo di documentazione del genere. Il nunzio, evidentemente istruito da Roma, non rispose mai.
Il rapporto Murphy denuncerà una costante delle autorità ecclesiastiche: “Mantenere il segreto, evitare scandali, proteggere la reputazione della Chiesa e tutelare i suoi beni”. Seguirà il rapporto Ryan: 800 colpevoli di abusi in 200 istituti religosi, nell’arco di 35 anni. Ogni volta che in qualsiasi paese è stata messa in piedi una commissione di inchiesta indipendente sugli stupri clericali è emersa una “mappa dell’inferno”. È proprio per questo motivo che l’episcopato italiano è terrorizzato dall’idea di istituire una commissione d’indagine come, ad esempio, hanno fatto i vescovi in Germania, Austria e Belgio.
Le polemiche su Lazzarotto sono il segnale di una ferita che non si è chiusa, il sintomo di un virus che non è stato debellato. Fino a quando – ci si può chiedere – lo spettro degli abusi inseguirà il Vaticano e si tornerà a parlare dei crimini commessi e nascosti? La risposta è semplice. Fino a quando il Vaticano non imboccherà la linea della piena trasparenza. Papa Ratzinger – ribattono in Curia – ha segnato una svolta con la sua Lettera agli Irlandesi del 2010, in cui denuncia i vescovi per non avere ascoltato le grida delle vittime e invita i preti a presentarsi in tribunale. Il Papa ha emanato regole più severe per combattere il fenomeno, ha incontrato gruppi di vittime in varie parti del mondo, ha obbligato gli episcopati a elaborare linee d’azione.
Tutto vero. Ma non si può rimanere a metà. Serve trasparenza totale per il futuro e per il passato. Nelle settimane scorse, un giudice americano di Portland, nell’Oregon, ha dichiarato improcedibile il tentativo di portare sul banco degli accusati il romano pontefice in una causa di risarcimento per crimini di pedofilia. Jeff Anderson, l’avvocato milionario dei risarcimenti, aveva tentato il colpo grosso denunciando il Papa come “datore di lavoro” di un prete criminale Andrew Ronan. La Corte federale ha respinto il concetto che il pontefice sia assimilabile al capo di una multinazionale. Giubilo negli ambienti ecclesiastici come fosse stata un’assoluzione da qualsiasi responsabilità! Non è così. La Santa Sede è stata parte attiva del sistema di occultamento e minimizzazione di innumerevoli crimini.
Ancora oggi il Papa non ha emanato un decreto sull’obbligo di denuncia dei preti criminali da parte dei vescovi, non è stato avviato un lavoro di monitoraggio e di inchiesta a livello mondiale, non sono stati aperti gli archivi vaticani che albergano la documentazione di responsabilità e insabbiamenti del passato.
C’È UN DOCUMENTO impressionante nelle carte segrete di Vatileaks, pubblicate da Nuzzi. Un appunto del segretario papale don Gaenswein su un incontro avvenuto il 19 ottobre 2011 con il sacerdote Rafael Moreno, ex segretario privato di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo e pluristupratore. Don Moreno – scrive Gaensewin – è stato per 18 anni segretario di Maciel. Da lui abusato. È venuto per dire che nel 2003 ha voluto informare Giovanni Paolo II. Non è stato ascoltato né creduto. Voleva parlare al cardinale segretario di Stato Sodano, ma non gli è stata concessa udienza. Dunque nel 2003 i vertici vaticani chiudevano gli occhi sui crimini di Maciel (e lo avevano fatto anche prima). C’è tantissimo da portare alla luce. Prima lo farà, meglio si sentirà il Vaticano. Come dopo una buona confessione.
Corriere 29.8.12
Test d’ammissione all’Università
Io, primario, respinto a medicina
«Quei miei 15 errori al test di Medicina. Che c'entra il taoismo?»
L'esperto alle prese con la prova del ministero
di Giuseppe Remuzzi
qui
l’Unità 29.8.12
Israele liquida il caso di Rachel
«Un incidente»
L’attivista Usa uccisa da una ruspa mentre tentava di impedire la distruzione di case palestinesi
di Umberto De Giovannangeli
Nessun responsabile. Nessun assassinio. Si è trattato solo di un incidente. Uno «spiacevole incidente». Così ha stabilito il giudice del tribunale distrettuale di Haifa, Oded Gershon, che ha esaminato e respinto la richiesta di risarcimento simbolico un solo dollaro presentata dai genitori di Rachel Corrie, l’attivista filo-palestinese americana rimasta uccisa nel marzo 2003 a Rafah (Gaza) mentre cercava di impedire le attività di una ruspa militare israeliana. «È stata lei stessa a mettersi in una situazione di pericolo», argomenta il giudice Gershon. Il magistrato ha stabilito che non c’è stata negligenza da parte del conduttore della ruspa che, ha rimarcato, si trovava esposto al fuoco palestinese. Lo Stato, ha insistito il giudice, non può considerarsi responsabile per alcun «danno causato» in situazioni di combattimento: la morte dell’attivista americana può dunque considerarsi solo come «uno spiacevole incidente». «Si mise da sola in una situazione di pericolo, si piazzò di fronte a un enorme bulldozer in un posto dove il conducente non poteva vederla. Non si allontanò, come avrebbe fatto qualunque persona di buon senso», ha insistito Gershon, aggiungendo di non aver riscontrato alcuna negligenza da parte dell'esercito israeliano. Rachel Corrie «si mise da sola e volontariamente in pericolo», ha sentenziato il giudice.
LA STORIA
Rachel Corrie era una studentessa di 23 anni, attivista dell'International Solidarity Movement (Ism). Si trovava a Rafah da due mesi quando, durante un’azione non violenta per impedire la demolizione di una casa palestinese, rimase brutalmente uccisa, vittima di un bulldozer davanti al quale si era sdraiata. Da quel giorno Rachel Corrie è diventata un simbolo della lotta non violenta contro l’occupazione israeliana. Secondo la testimonianza di Tom Dale, attivista presente sulla scena, Rachel era tutt'altro che invisibile. «La ruspa si diresse lentamente verso Rachel, raccogliendo la terra nella bienna. Lei si inginocchiò, non si mosse. La ruspa la raggiunse e lei si alzò in piedi, montando sopra l'ammasso di terra». «Come ho detto alla Corte racconta ancora Dale, all’epoca dei fatti diciottenne poco prima di venire investita, rimase per un po’ in cima al cumulo di terra: la sua testa era al di sopra del livello delle pale, a pochi metri dal conducente». «La spinsero, prima sotto la bienna, poi sotto le lame e continuarono finché il suo corpo non fu sotto l'abitacolo. Si fermarono sopra di lei per alcuni secondi, prima di fare retromarcia. E la fecero con le pale in giù, ripassando un’altra volta sul suo corpo. Ogni secondo pensavo che si sarebbero fermati ma non successe». Un amico di Rachel, e testimone dell’evento, Richard Purssell, aggiunge: «Rachel era su una montagna di terra, proprio davanti al finestrino del conducente. Mentre la pala spingeva il cumolo, lei è scivolata. Forse è rimasta intrappolata con un piede. Il conducente non si è fermato: le è passato sopra, e poi è anche tornato indietro».
IMPUNITÀ PER I MILITARI
«Sono ferita. È un giorno davvero brutto non solo per la nostra famiglia ma per i diritti umani, per l'umanità, per la legge e anche per Israele», dice con le lacrime agli occhi Cindy Corrie, la madre di Rachel. «Lo Stato israeliano aggiunge ha fatto di tutto per non far venire allo scoperto la verità su ciò che è accaduto a mia figlia. Oggi è una brutta giornata per i diritti umani. Ma sin dall' inizio era chiaro che ci fosse un sistema atto a garantire l'impunità dei militari e dei soldati israeliani». Sconvolto anche il padre Craig, veterano del Vietnam, secondo il quale dalle testimonianze dei vertici militari israeliani è emerso che «essi ritenevano di poter uccidere la gente in piena impunità» nel sud di Gaza.«Siamo addolorati, certo, ma ancor più indignati ci dice al telefono Craig -. Rachel non ha avuto giustizia ed oggi è stata scritta una pagina triste non solo per quanti, come mia figlia, hanno scelto di essere dalla parte di un popolo oppresso praticando la non violenza. Oggi è il diritto ad essere stato mortificato». La famiglia ha annunciato che ricorrerà alla Corte Suprema mentre il legale dei Corrie, Hussein Abu Hussein, ha parlato di «verdetto basato su fatti distorti e che avrebbe potuto essere scritto dalla Procura». «Anche se non sorprendente, questo verdetto rimarca il legale è un esempio ulteriore della vittoria dell’impunità sulla responsabilità e sull’onestà. Rachel Corrie è stata uccisa mentre protestava in modo non violento a Gaza contro la demolizione di abitazioni e contro l'ingiustizia». Anche i dirigenti palestinesi hanno criticato la sentenza: secondo l'attivista dei diritti umani e dirigente dell’Olp, Hanan Ashrawi, il verdetto «prova una volta di più che l’occupazione israeliana ha falsato i sistemi legali e giudiziari in Israele». Pochi giorni fa, lo stesso ambasciatore Usa in Israele, Daniel Shapiro, aveva espresso le sue preoccupazioni per il modo in cui Israele ha condotto le indagini, definendole «una farsa». Israele si auto-assolve. Ingiustizia è fatta.
l’Unità 29.8.12
Morte Arafat In Francia un’inchiesta per omicidio
di Virginia Lori
La procura di Nanterre, alle porte di Parigi, ha aperto un’inchiesta per omicidio sull’uccisione di Yasser Arafat. Lo afferma l’agenzia France Presse, citando fonti vicine al caso. La decisione dei giudici segue una denuncia contro ignoti, presentata il 31 luglio scorso da Souha Arafat, vedova dell'ex leader palestinese, morto l’11 novembre 2004 nell’ospedale militare di Clamart, nei sobborghi della capitale francese.
La vedova Arafat ha preso la decisione di ricorrere alla giustizia dopo la scoperta di tracce di polonio, una sostanza radioattiva altamente tossica, su alcuni effetti personali del marito il polonio è stato fra l’altro la sostanza utilizzata per uccidere nel 2006 a Londra Alexander Litvinenko, ex spia russa diventato oppositore del presidente Vladimir Putin.
La scoperta della sostanza radioattiva ha rilanciato la tesi dell’avvelenamento, mai abbandonata dai dirigenti palestinesi e dai parenti di Arafat. Le condizioni di salute del leader palestinese si erano infatti deteriorate molto velocemente, senza apparenti giustificazioni, fino alla morte.
Circa due mesi fa, la tv araba Al-Jazeera aveva riferito di un possibile avvelenamento di Arafat tramite contaminazione radioattiva da polonio-210, come possibile causa dell’improvvisa morte, citando l’Istituto di radiofisica di Losanna. I tecnici svizzeri avevano trovato una «quantità anormale di polonio» in alcuni oggetti personali del defunto leader palestinese, sollecitando poi un esame sui suoi resti. Venerdì scorso l’Istituto di Losanna ha annunciato la prossima riesumazione del cadavere di Arafat dopo il nulla osta concesso dalla vedova, per cercare eventuali tracce di polonio.
Gli avvocati della signora Arafat e della figlia, Zahwa, hanno fatto sapere che «questa inchiesta deve essere portata avanti in collaborazione con la giustizia francese». L'istruttoria sarà condotta da uno o più magistrati i cui nomi saranno resi noti prossimamente.
L’autorità palestinese ha espresso soddisfazione alla notizia della procura di Nanterre. «Salutiamo con favore la decisione ha detto il portavoce Saeb Erekat il presidente Mahmud Abbas ha chiesto ufficialmente al presidente francese Francois Hollande di aiutarci a indagare sulle circostanze del martirio del nostro ex presidente Arafat».
La Stampa 29.8.12
Ancora Kaspar Hauser. Adesso è sparita la bara
Impossibile esaminare il Dna del presunto erede del casato Baden
di Alessandro Alviani
BERLINO Ha ispirato Verlaine e Herzog Il caso di Kaspar Hauser, ucciso nel 1833, ha appassionato filosofi, scrittori e registi. Si crede che fosse il figlio del granduca del Baden e della figlia adottiva di Napoleone. Sopra una scena de «L’enigma di Kaspar Hauser» di Werner Herzog La cripta dei Baden. Sotto, lapide ad Ansbach
E’ un giallo ancora più misterioso e longevo di quelli che ogni domenica sera, da oltre quarant’anni, incollano milioni di tedeschi davanti la tv per l’intramontabile serie «Tatort». È cominciato quasi 200 anni fa e nessuno è ancora riuscito a risolverlo. Ora «il più bel giallo di tutti i tempi», come lo definì lo storico Golo Mann, si arricchisce di un capitolo che rende tutto più complicato: la bara che avrebbe potuto fornire la soluzione è scomparsa.
Il protagonista della vicenda, che in due secoli ha già ispirato Paul Verlaine, Walter Benjamin, Werner Herzog e migliaia di altri poeti, scrittori o registi, è un ragazzo di circa
16 anni che il 26 maggio 1828 si presentò sulla piazza di Norimberga, spuntando fuori dal nulla. Non sapeva esprimersi in modo comprensibile, né pronunciare il suo nome, per cui lo scarabocchiò su un foglio: Kaspar Hauser. Con sé aveva due lettere: nella prima un bracciante povero raccontava di averlo trovato davanti la porta, di averlo cresciuto senza farlo mai uscire di casa e di averlo ora spedito a Norimberga presso un capitano di cavalleria per farlo diventare cavaliere, esaudendo un desiderio del ragazzo; nella seconda, firmata dalla madre, si leggeva che il giovane era nato il 30 aprile 1812 e che suo padre, un cavaliere, era morto.
Le calligrafie si somigliavano: possibile che a vergare entrambe le missive fosse stato Kaspar Hauser? Comincia così il mistero sulle origini di un ragazzino che rapidamente diventa celebre in tutta Europa e si trasforma in un’attrazione vivente. Per gli uni è un impostore, per gli altri niente meno che il principe ereditario del casato di Baden. Una voce vuole che Kaspar Hauser sia in realtà il primogenito del Granduca Carlo e di Stefania di Beauharnais (una figlia adottiva di Napoleone). Nel 1812 i due ebbero un figlio, che morì poco dopo la nascita. Falso, ribattono i cosiddetti «Hauserianer»: per loro il vero figlio della coppia, Kaspar Hauser, venne rapito dopo il parto e sostituito nella culla con un neonato gravemente malato, che spirò poco dopo. Obiettivo: far salire al trono un altro ramo del casato. Il mistero si infittisce nel 1833, quando Kaspar Hauser viene avvicinato da uno sconosciuto ad Ansbach, e ucciso. Ma i medici non riescono neppure ad appurare se sia stato assassinato o si sia accoltellato da solo.
Due secoli dopo un semplice esame potrebbe risolvere il giallo sul «fanciullo d’Europa». Basterebbe incrociare il Dna di Stefania di Beauharnais con quello del presunto principe ereditario morto dopo il parto. Nella cripta dal casato di Baden nella Schlosskirche di Pforzheim, in Baden-Württemberg, si trovano non solo i resti di Stefania, ma anche le due bare del neonato deceduto dopo la nascita e di un fratello morto cinque anni dopo. Il problema: il casato di Baden rifiuta da sempre un test del Dna.
La cripta non appartiene però alla casa nobiliare, bensì al Land del Baden-Württemberg, ha scritto sulla Faz lo storico del diritto Winfried Klein, riaprendo un caso che è diventato anche politico: un deputato liberale ha presentato un’interrogazione per chiedere al governatore regionale di far aprire le bare. E qui arriva la svolta: i due feretri non si trovano più nella cripta, che pure è chiusa. Lo ha ammesso ora il ministero delle Finanze del Baden Württemberg, che si è limitato a parlare di due «bare di bambini», senza spiegare di quale si tratti e senza chiarire se, tra le due, ci sia quella del principe ereditario (o presunto tale). Il ministero sa della scomparsa da tempo, probabilmente dal 1983, quando venne notata la loro assenza durante un inventario, ma non ha mai reso pubblica la notizia. Secondo la sua versione è probabile che le due bare siano andate perdute nella Seconda guerra mondiale o nell’immediato dopoguerra. Winfried Klein cita invece un testimone che le vide nel 1984. Che fine abbiano fatto non lo sanno né il ministero, né i discendenti della casa Baden.
Finora sono stati condotti due test del Dna sui vestiti insanguinati e sui capelli di Kaspar Hauser: uno, nel 1996, escluse la discendenza dai Baden; l’altro, nel 2002, la giudicò possibile. Il giallo prosegue.
La Stampa 29.8.12
La biblioteca racconta
La bella addormentata nel Sahara mauritano
Le “biblioteche del deserto”, a Chinguetti, nascondono un tesoro dimenticato che ora si cerca di risvegliare. Con l’aiuto di tre italiane
di Maria Giulia Minetti
“Fonte zampillante della storia del pensiero di questa parte del mondo, tesoro di manoscritti ancora in gran parte sconosciuti, questa biblioteca ha una portata universale perché accanto ai classici della scienza araba accoglie testi di sapienti venuti dall’Oriente che l’Islam ha dimenticato, o addirittura perduto. Strumenti preziosi che testimoniano la circolazione costante del sapere, di ogni sapere, nel grandioso teatro del Sahara». Trabocca d’entusiasmo l’introduzione scritta da Sid’Ahmed Ould Habott al catalogo della biblioteca familiare iniziata più di 300 anni fa dall’avo Sidi Mohammed Ould Habott el-Kebir, la più importante tra quelle conservate nelle case delle grandi famiglie della città santa di Chinguetti, l’unica ad avere un catalogo, per di più redatto in due lingue, l’arabo e il francese.
Dei tanti giacimenti di libri sparsi non solo a Chinguetti, ma nelle altre città-oasi della Mauritania - Ouadane, Tichitt, Oualata - la raccolta habottiana è la sola organizzata secondo criteri che rendono possibile una consultazione mirata dei testi, la sola che ha tentato un’esplorazione sistematica dei contenuti, una collocazione adeguata. Un successo dovuto, come Habott riconosce calorosamente, all’intervento di un gruppo di collaboratori italiani.
A riscoprire le città del deserto mauritano nella regione centro-occidentale dell’Adrar era stato, negli Anni Trenta, l’esploratore francese Théodore Monod. La Chinguetti vista da Monod assomigliava già al borgo insabbiato di oggi: il fantasma inaridito di quella che dal 1200 al 1800 era stata la regina delle oasi mauritane. I sapienti che vi passavano sulla via della Mecca sostavano nelle sue «madaris», le scuole religiose, e pregavano nelle sue undici moschee; ospiti nelle case dei notabili cittadini - tutti nomadi carovanieri, che da quelle case andavano e venivano coi loro carichi di merci discutevano per notti interminabili di fede e ragione, esegesi coraniche e calcoli matematici, leggi divine e astronomia, medicina, fisica, botanica, grammatica… A volte qualcuno recitava dei versi.
Frequentatori di sapienti e sapienti essi stessi, i mercanti di Chinguetti appartenevano quasi tutti a tribù marabuttiche, popolate di santi, discendenti del Profeta, uomini del Libro e dei libri (il titolo Sidi che precede il nome dei maschi della famiglia Habott indica appunto la loro discendenza marabuttica). Usi a trasportare testi, a scambiarli, a metterli a disposizione degli studiosi e a riceverne da loro, via via che la città perdeva d’importanza - sotto la spinta del colonialismo francese i commerci si trasferirono sempre più sulla costa; il colpo di grazia venne dalle siccità novecentesche - i mercanti nomadi diventati a poco a poco stanziali (molti emigrarono) accumularono i libri nelle case degli antenati, li «imprigionarono», per così dire, tesori preziosi e ammutoliti, alla mercé dei topi e delle termiti, dall’aria rovente, della sabbia ma per lo meno sottratti alla dispersione, alla distruzione immediata.
Alla fine del secolo scorso, l’Unesco s’accorse delle «biblioteche del deserto», le dichiarò patrimonio dell’umanità e si accinse a «salvarle». Racconta Ginevra Bompiani: «Il progetto dell’Unesco era di erigere una biblioteca centrale, organizzata secondo criteri di moderna efficienza, a Chinguetti, dove far convergere tutti i volumi sparsi nelle varie dimore dei notabili e, eventualmente, anche quelli custoditi in altre oasi. Scelse un terreno, cominciò a costruire, ma ben presto dovette arrendersi davanti al più insormontabile degli ostacoli: le varie famiglie rifiutavano di cedere i loro libri. Li volevano in casa propria, non nella biblioteca comune».
Ginevra Bompiani è una delle tre italiane che Sid’Ahmed Ould Habott ringrazia nell’introduzione al catalogo della sua biblioteca di famiglia. Le altre sono Laura Alunno e Carmela Baffioni. Insieme, queste tre signore hanno attuato in scala minore ciò che non è riuscito all’Unesco in scala maggiore. Ginevra Bompiani, editore di Nottetempo, all’epoca del suo primo viaggio a Chinguetti, nel 2000, aveva appena lasciato l’Università di Siena, dove insegnava Letterature comparate, e con Laura Alunno, direttore della Ong Terre Solidali, aveva stilato un progetto di massima per la sistemazione e catalogazione della più importante fra le raccolte di libri della città, quella della famiglia Habott. «Una scelta obiettiva spiega Alunno -, perché la raccolta di testi habottiani, oltre a essere la più ricca, circa 1500 manoscritti, è quella più “strutturata”, meditata».
Da anni Sid’Ahmed aveva lanciato un appello ai membri della diaspora familiare: «Se avete libri, mandatemeli, arricchiranno la biblioteca degli avi». Lungimirante, il nonno di Sid’Ahmed, Sid’Ahel, cui il nipote ha intitolato la Fondazione che si occupa della biblioteca, predicava: «In futuro la cultura ci darà da mangiare». Nello stesso spirito, il duo Bompiani-Alunno alla sistemazione della biblioteca ancestrale ha affiancato la creazione di una biblioteca per bambini, rifornita di libri contemporanei: «Perché la lettura è un’abitudine, e va contratta fin da piccoli. Qualche figlio di Chinguetti crescerà curioso di leggere i testi raccolti dai vecchi».
Il denaro necessario all’opera arrivò da un gruppo di università italiane, Siena, Milano, Venezia, Trieste, Napoli. Redatto in arabo da uno studioso mauritano e tradotto in francese, il catalogo della biblioteca - stampato poi da Nottetempo - è stato affidato a Carmela Baffioni, ordinaria di Filosofia islamica all’Università Orientale di Napoli, per una valutazione di massima. «Vi sono molte copie otto-novecentesche di originali anche assai più antichi - informa la professoressa -. Libri che risalgono a parecchi secoli addietro, certi a prima del 1200. Sono in gran parte commenti al Corano, testi giuridici. Tra i più interessanti e importanti, e spesso originali, non copie, i libri di diritto malichita (tipicamente nordafricano, ndr). Affascinanti i testi di scuole mistiche locali. Ma è una valutazione affidata soprattutto alle indicazioni bibliografiche, di testi ne ho visti pochi, e solo in fotocopia. C’è ancora un gran lavoro da fare».
Un gran lavoro, anche di restauro.
Ma intanto i libri della biblioteca Habott si sono svegliati, riaffacciati a quella vita di tenzoni dialettiche cui erano abituati nei tempi andati, quando ancora le loro pagine di pergamena di gazzella splendevano di pigmenti freschi. Racconta Laura Alunno: «Nella biblioteca è conservata la corrispondenza tra gli ulema (dottori in scienze coraniche, ndr) mauritani sul tema del colonialismo francese. Alcuni lo vedevano con favore, ritenendo che potesse arginare gli scontri tribali nel Sud del Paese. Allo scoppio della seconda guerra del Golfo tra gli ulema arabi si verificò un dibattito analogo, pro e contro l’intervento americano. Sid’Ahmed andò a recuperare le missive pro e contro i francesi, le portò a Nouakchott per fotocopiarle e le inviò in Arabia Saudita come contributo al dibattito». Sarebbe bello leggerle, quelle lettere.
Repubblica 29.8.12
L’editor pro-Breivik imbarazza Gallimard
L’intervento dell’autore sulle polemiche scoppiate in Francia
di Tahar Ben Jelloun
RICHARD Millet è un bravo redattore editoriale, che lavora per Gallimard. Sa leggere e sa far lavorare gli scrittori. Si deve a lui la pubblicazione del romanzo di Jonathan Littell Le benevole, vincitore del premio Goncourt, e del romanzo di Alexis Jenni L’art français de la guerre, anch’esso vincitore del Goncourt, nel 2011. Fa parte del Comitato di lettura della prestigiosa casa editrice.
Oltre a questo è uno scrittore capace, che maneggia con grande abilità ed eleganza la lingua francese. I suoi romanzi e scritti di altro genere non hanno incontrato un grande successo. Diciamo che non ha il riconoscimento che pensa di meritarsi. Probabilmente ne soffre. È un uomo affascinante, colto, educato, che parla a voce bassa. Ogni volta che ci siamo incontrati mi ha parlato in arabo, lingua che conosce grazie all’infanzia trascorsa in Libano. Un giorno, alla radio, lo sento dire questo: «Quando salgo in metro, mi sento in apartheid; non mi sento a casa mia»; aggiunge qualche parola insultante per gli arabi e i musulmani dicendo: «Gli arabi li conosco bene: li ho combattuti a fianco dei falangisti in Libano ».
Rimango sbalordito. E scopro che ha scritto cose molte peggiori, cose che scavalcano a destra perfino il Fronte nazionale. Ecco che ora pubblica un testo con un titolo allucinante: Elogio letterario di Anders Breivik.
L’ho letto. Non condanna i crimini di quest’uomo, ma prudentemente scrive: «Non approvo i crimini commessi da Breivik il 22 luglio 2011». Non approva, però trova in quella tragedia «una perfezione formale ».
Poi passa a spiegare. Cito le sue parole: «Le nazioni europee si sfaldano, la loro essenza cristiana si perde a vantaggio del relativismo generale e del multiculturalismo […] Breivik è figlio della frattura ideologico razziale che l’immigrazione extraeuropea ha introdotto in Europa […] Queste azioni sono, nella migliore delle ipotesi, una manifestazione ridicola dell’istinto di sopravvivenza di una civiltà».
Per Millet, la civiltà “bianca”, cristiana, sta perdendo la sua identità a causa dell’immigrazione. Parte in guerra contro l’antirazzismo e sostiene che le vittime del razzismo oggi in Europa sono i bianchi europei. Parla «di una guerra civile in corso in Europa», perché «l’Europa ha rinunciato ad affermare le sue radici cristiane». Millet cita, in epigrafe al suo libro, Drieu La Rochelle, scrittore francese che collaborò con i tedeschi durante l’occupazione e fu giustiziato alla fine della guerra. La parentela è chiara: Millet è alla ricerca della purezza della lingua e della civiltà occidentale. La mescolanza delle culture e dei colori lo spaventa, sente che il suo Paese, la Francia, sta cambiando per effetto dell’apporto di tante culture e della loro ibridazione. Ritiene che la letteratura francese «parla spesso un francese approssimativo, da negro ignorante, perché si terzomondizza »; in altre parole, il fatto che tanti scrittori vengano dall’Africa, dal Maghreb e dal mondo arabo e scrivano in francese contribuisce di per sé alla “decadenza” di questa letteratura.
Millet evidentemente soffre di narcisismo patologico. Vive una sorta di depressione perché i valori della “purezza cristiana” vengono contaminati da altre cose, altri immaginari, altri popoli. Conclude il suo saggio dicendo: «Breivik è quello che si merita la Norvegia e quello che attende le nostre società». Fa venire i brividi. E Richard Millet non è un caso isolato. Questi discorsi sono comuni in certi ambienti dove è forte l’odio verso l’islam e il mondo arabo. Altri intellettuali condividono le sue idee, ma le formulano con più prudenza e in modo meno crudo. Esiste una corrente islamofobica, antipalestinese, antiaraba, anti-immigrati. Richard Millet oggi è al centro di una polemica. La domanda è: si può essere un bravo redattore editoriale e fare l’elogio “letterario” di Anders Breivik? Che cosa farà il proprietario di Gallimard? Per il momento è in vacanza, ma appena rientrerà dovrà prendere una decisione: continuare ad avvalersi dei servizi di questo individuo o licenziarlo. La grande scrittrice Annie Ernaux è categorica: una reazione collettiva di tutti gli scrittori di Gallimard
è necessaria.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 29.8.12
Quel Giuda politico
La lettura data da Benedetto XVI al gesto dell’apostolo che consegnò Gesù è molto controversa
Il Papa ne fa un traditore partigiano. Ma allora la sua colpa non sarebbe la falsità
di Gustavo Zagrebelsky
Tradimento per disillusione: Giuda lo zelota (cioè appartenente a una setta irredentista che faceva uso della violenza, nei confronti dei Romani) deve essersi sentito tradito nella sua speranza di riscatto nazionale. Da qui la vendetta. Una variante dell’interpretazione politica è questa, avanzata da Thomas De Quincey nel suo studio su Giuda Iscariota del 1853: di fronte a quello che al suo discepolo poteva sembrare un temporeggiare di Gesù (entrato in Gerusalemme come il liberatore, ma che disperdeva il suo tempo predicando nel Tempio), Giuda avrebbe deciso di rompere gli indugi. Mettendolo nelle mani dei sinedriti e dei romani, forse pensava che Gesù sarebbe stato costretto a rompere gli indugi e a passare all’azione.
La motivazione politica è certo meno ignobile di quella venale – la sordida avarizia – che ha una lunga e radicata storia nell’immaginario cristiano. Giacomo Todeschini ( Come Giuda, Bologna, il Mulino, 2011) ha ricostruito fascinosamente l’uso dell’icona-Giuda, che per trenta denari butta via il suo tesoro (come gli usurati fanno con gli usurai), e della icona contraria della Maddalena, che sembra “sperperare” i suoi beni per onorare il Signore e, in realtà, li investe in qualcosa che vale davvero: uso che ritorna costantemente nei dibattiti tre quattrocenteschi sulla povertà francescana e sui doveri di consapevolezza economica di chi opera nella moderna economia basata sul valore di scambio. Già queste due “interpretazioni di Giuda” mostrano quanto ricca di significati possa essere la sua figura. In effetti, il “caso Giuda” resta un enigma insoluto, e ciò permette di interrogarlo sempre di nuovo e trarne alimento per riflessioni tutt’altro che banali, che interessano la teologia, la psicologia, la sociologia, la morale. In generale, intriga tutti coloro che cercano in Giuda le tracce di qualcosa che potrebbe sonnecchiare in ciascuno di noi, come un nostro “doppio”, che non amiamo vedere ma che, tuttavia, c’è. Da qualche parte, qualcuno di certo conserverà ancora un vecchio disco in vinile a 78 giri dal quale può venire la voce inconfondibile di don Primo Mazzolari che, in una sera piovosa del Giovedì Santo del 1958, predicava di “Giuda, nostro fratello” con parole che vanno molto al di là della cerchia dei credenti in Cristo.
Il volto enigmatico di Giuda, “il traditore”, ha aperto la strada ad arditissimi percorsi intellettuali e teologici. In greco, paradídomi (parola usata nei testi evangelici) significa consegnare, trasmettere, tramandare, come in latino tradere, senza alcun riferimento morale. Il “tradimento”, nel senso nostro, sarebbe prodídomi (usato una volta solo, da Luca, da cui proditore proditorio). Su questa parola, il teologo protestante Karl Barth ha costruito la sua interpretazione: Dio “si consegna” all’umanità tramite il Cristo, e la “consegna” è effettuata da Giuda. La lista dei “consegnatori” si allunga poi con Paolo di Tarso. L’oggetto della consegna è la parola di Dio. In questo modo, Giuda compare come l’esecutore di un disegno divino, anzi come una vittima di questo disegno: un disegno che, per tutti, ma non per lui, è di salvezza. L’essere esecutore, secondo Barth, non assolve Giuda: egli è presentato come «il riprovato da Dio» (anzi, come il rappresentante d’un popolo di “riprovati”, il popolo d’Israele), così come il Cristo è “il riprovato” dagli uomini. Giuda come esecutore colpevole. In generale, noi pensiamo che il colpevole non sia l’esecutore materiale, se questi non dispone della libertà di autodeterminazione, ma sia il mandante: nel nostro caso, Dio addirittura! La teologia cristiana ha qui un problema: Giuda, come tutti i dodici, fu scelto da Gesù, che – dicono le scritture – sapeva fin dall’inizio del suo tradimento. Dunque, lo scelse come collaboratore, anzi – secondo una versione della corrente gnostica dei Cainiti (registrata nel cosiddetto Vangelo di Giuda) – come il più intimo tra i collaboratori: l’unico tra gli apostoli a conoscenza del mistero della salvezza. Il celeberrimo bacio, cui Gesù risponde con la parola “amico”, non sarebbe allora prova di somma doppiezza. Sarebbe invece un segno d’amorevole intesa. In ogni caso, come si può ammettere la condanna senz’appello, riferita dai Vangeli ( Lc 22,22; Mt 26,24), di uno che, non solo ha partecipato alla realizzazione d’un disegno divino, ma è addirittura stato chiamato a parteciparvi? Eseguire la volontà divina e al tempo stesso essere colpevole d’un misfatto imperdonabile? Mistero. Si tratta forse della lotta mortale tra il regno di Cristo e il regno di Satana? Riferisce Giovanni (6, 70) queste parole di Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è il diavolo! ». Ma Giuda, seppur posseduto dal demonio, era pur sempre un essere umano e Gesù non è forse venuto per salvare tutta l’umanità? Altro mistero.
La figura di Giuda ha attirato l’attenzione anche per aspetti che vanno al di là della questione della “colpa provvidenziale”. Nel Doktor Faustus di Thomas Mann, la vera e somma colpa di Giuda sarebbe consistita nella convinzione di non poter ottenere il perdono, una desperatio coincidente con la praesumptio d’aver commesso un delitto così grande che neppure Dio l’avrebbe potuto perdonare (da qui il suicidio). Giuda, nel peccato, sarebbe stato più grande di quanto non sia Dio nel perdono. Un atto di sommo orgoglio, dunque. Ma, dice Mann, la disperazione totale è al limite della contrizione totale. Infatti, se si pensa di poter ottenere il perdono, allora forse è perché, in fondo, non si crede d’aver commesso chissà quale delitto e il pentimento, allora, è solo apparente. Ma, se si pensa che il delitto sia imperdonabile, allora sì: la contrizione è perfetta, e la contrizione perfetta porta diritto ad assicurarsi il perdono. Un rovesciamento! Giuda come il più meritevole di assoluzione. Le interpretazioni paradossali, contrarie al senso comune, non finiscono qui. Questa storia, già a prima vista, è piena di assurdità e aspetti inspiegabili. Allora, via libera alle fantasticherie. Jorge Luis Borges, in Tre versioni di Giuda, narra di un teologo svedese, Nils Runeberg, autore d’un raffronto tra Cristo e Giuda (1904) dove si riferisce d’una sua “scoperta”. Secondo la profezia, il messia sarebbe apparso al mondo come «l’uomo di dolori, esperto in afflizioni» (Isaia, LIII, 2-3), davanti al quale, per la vergogna, ci si copre la faccia. Dio si volle “fare carne”, non come un sovrano trionfante, ma come il più abietto e derelitto tra gli esseri umani. E chi è il più abbietto e derelitto, se non Giuda? Cristo è Giuda, e Giuda è Cristo! Dice Borges che quest’interpretazione non trovò seguaci, ma proprio in questa indifferenza totale Runeberg vide la conferma ch’egli cercava: Dio ordinava quell’indifferenza per pietà verso le sue creature, non volendo che si propagasse sulla terra un segreto sconvolgente. «Ebbro d’insonnia e di vertiginosa dialettica» il suo cuore non resse e morì d’un aneurisma, il 1° marzo 1912.
Ma al Giuda-Cristo di Runeberg può essere contrapposto il Giuda-uomo di Mazzolari: uno come noi, figura dell’impulso alla ribellione e alla distruzione, perfino delle cose, fino a quel momento, più belle e più care. Soprattutto quando incominciano ad apparire grondanti di simboli, rituali, promesse, esoterismi, segni d’elezione sublimi e oscuri, come nel tempo finale della vita di Cristo. Chi, in presenza di tutto ciò, non ha provato, non prova o non proverebbe un impulso liberatorio, il desiderio di dire: basta così!? Il Papa dice che Giuda fu colpevole perché in lui albergava la falsità. Forse, si può dire il contrario: l’impulso all’autenticità. Uno altro scandaloso rovesciamento.