Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
martedì 28 agosto 2012
«Se a Giulia Ingrao, Togliatti “dava un senso di rifiuto fisico”, il fratello le donava “una presenza bellissima”»
il Fatto 28.8.12
A Venezia “Non mi avete convinto”, il lavoro di Vendemmiati sull’utopista del Pci
97 anni e i racconti di una vita
Ingrao, silenzio poesia e rivoluzione
di Malcom Pagani
All’XI congresso del Pci, Amendola lo avvertì senza riguardi: “Compagno Ingrao, ti rompiamo le ossa”. E Pietro il ciociaro, già 50enne a metà dei ’60, in un mondo in cui già da tempo “comprano pezzi di cielo e vanno lontano che più non si può” a ricostruire il proprio. Azzurro, troppo azzurro per un ‘900 in cui “le guerre si sprecavano e i morti non finivano più”, cercando le parole che lo avrebbero messo ai margini: “Non mi avete convinto” e la luna che in una notte di stelle chiese in regalo al padre: “Quella, Pietro mio, proprio non te la posso dà”. I sogni, anche quelli impossibili, si conquistano. Ci fu un’epoca in cui al posto dei Calearo, sulla sinistra dell’emiciclo siedevano uomini come Pietro Ingrao da Lenola. Il più amato del mazzo, il fiore più spinoso. L’eretico. L’utopista, tutta la gamma delle etichette erette (e rifiutate) per definirne il velleitarismo sacrificato al monolite.
CON IL PROFILO da boxeur e l’onestà delle opinioni, i petali dell’età “in cui impari a leggere, vivere e amare” e l’educazione cinefila: “Capivo meglio il cinema della politica”, Pietro la quercia si è messo sotto il ramo della cinepresa. Contando, in un prezioso lavoro di Filippo Vendemmiati di prossima presentazione alle giornate degli autori veneziane, le foglie cadute e i raccolti stagionali. Rileggendo i comizi nei quali, Il “grande Pietro” acclamato da Mastroianni nel dramma della gelosia di Scola (Ah Bertò, ma una sofferenza d’amore può essere collegata alla lotta di classe?”) non aveva rivali: “Ero bravo, sapevo come conquistare il silenzio”. Il trionfo popolare e i momenti di isolamento: “Mi descrivevano sempre circondato da ingraiani, io mi giravo, ma non scorgevo nessuno”. Naturale, per un politico già giornalista che rifiutava l’alchimia stregonesca e tracciava il percorso. Non la promessa di futuro: “Chi ha detto che una spinta nuova può nascere già compiuta, quasi in bella copia?”, ma la proposta di costruirne un pezzo insieme alzando il tono. “Sconfiggere gli sfruttatori”, partendo dal basso Lazio del 1915, significava urlare. Esagerare. Segnare territorio e diversità. “Non manderemmo mai la polizia contro gli operai, ma la dirigeremmo nelle case dei ladri. I notabili demo-cristiani”. Sbagliare: “Ho commesso tantissimi errori” elogiando il dubbio, il diritto al dissenso, la discussione perché, quasi in rima, disse in tv davanti a Montanelli “Tra verità e rivoluzione non c’è contraddizione. La verità è rivoluzionaria, l’ha detto Gramsci”. Nel bel film coprodotto da Luce dell’ex cronista sportivo Vendemmiati (già autore di un convincente affresco su Federico Aldovrandi premiato con il David) scorre l’Ingrao meno noto. Quello alla disperata ricerca di “una lingua dell’alternativa”, lo stesso che discute del bambino di Ladri di biciclette e di quartine autoprodotte, salvate per “misericordia” da Montale. Ingrao, 97 anni. Botteghe Oscure. La Presidenza della Camera. La Costituzione. Il pubblico e il privato.
A VENEZIA, il 6 settembre, affronteranno il ‘900 partendo dalle immagini di Ingrao e da un altro documentario sorprendente, Terramatta di Costanza Quatriglio. Pietro benedirà da lontano. Se a Giulia Ingrao, Togliatti “dava un senso di rifiuto fisico”, il fratello le donava “una presenza bellissima”. La stessa che sua moglie, nero su bianco, agognava in una lettera del ’43: “Vieni presto, ho bisogno di silenzio con te. Sono una donna che piange, io che non piangevo mai. Vorrei essere il ponte, la passerella al di sopra di quella frattura, ce la farò?”. Sapeva amare. Senza letti in piazza.
Una scheda qui
Corriere 28.8.12
Quelli che a sinistra ci sono per caso. E si avvera la profezia di Marx
di Paolo Franchi
Una rissa a sinistra? Benvenuti a Babele.
Se le categorie concettuali, così come le abbiamo ereditate dalla storia, hanno un senso, Beppe Grillo non è certo (e neppure vuol essere) «di sinistra»; così come non lo sono, né vogliono esserlo, Antonio Di Pietro o Marco Travaglio.
Sul fronte opposto, però, neanche il Pd, nonostante la torsione «socialdemocratica» che gli ha impresso Pier Luigi Bersani, e il ruolo preponderante che vi hanno gli ex e i post comunisti, è, allo stato, un partito di sinistra.
Su che cosa di preciso il Pd intenda diventare da grande, dibatte, anche se un po' distrattamente, da tempo ormai immemorabile, e sull'esito del confronto, sempre che un esito alla fine ci sia, nessuno può avanzare previsioni sensate.
Ma a Babele, ci piaccia o no, viviamo: e dunque sì, questa in corso è senza dubbio, a modo suo, una rissa a sinistra o, per essere più precisi, in quel che resta della sinistra italiana. Una rissa, non una guerra. Perché la guerra civile della sinistra italiana, quella tra comunisti e socialisti, si consumò negli anni Ottanta, e si concluse, avrebbe detto il vecchio Marx, con la comune rovina delle parti in lotta. Sembrò, per qualche tempo, che le cose stessero, o potessero stare altrimenti, che a fronte della damnatio memoriae cui erano dannati i socialisti, agli eredi del Pci stesse arridendo, all'apparenza almeno fuori tempo massimo, la più strana delle vittorie. Ma si trattò di un clamoroso abbaglio. La sinistra, tutta la sinistra, aveva smarrito, con i suoi partiti, le sue identità tradizionali, e non aveva voluto, saputo o potuto (a questo punto, fa lo stesso) elaborare il lutto. Neanche nei suoi anni migliori era stata la fortezza serrata e inespugnabile di cui si chiacchiera. Mai, però, davvero mai, era stata così incapace di esprimere un proprio autonomo punto di vista (lasciamo perdere le visioni del mondo), e quindi così esposta a ogni sorta di incursione, politica e, prima ancora, culturale. Prima tra tutte quella di un giustizialismo ora colto e, a modo suo, riformatore, ora orgogliosamente plebeo, ma sempre abbondantemente nutrito di un'avversione quasi di pelle (verrebbe da dire: di una repulsione) non solo, come sarebbe stato sacrosanto, verso il degrado della politica e dei partiti, ma verso la politica e i partiti in quanto tali: come se dal profondo della storia nazionale fossero riemersi i mostri faticosamente tenuti a bada, dal governo e dall'opposizione, nei decenni migliori della Prima Repubblica.
Adesso, anche le eterne mosche cocchiere che allora, e poi per molti anni, li adularono e li evocarono, quasi fosse possibile per una sinistra ormai nana appollaiarsi sulle spalle di simili giganti, di fronte all'avanzare impetuoso della cosiddetta «antipolitica», che non a caso prende a suo principale bersaglio il Quirinale, lanciano un grido di allarme: attenzione, per carità, questa non è una sinistra più radicale e più ostile ai compromessi, questa è una nuova, pericolosissima destra. Vero, verissimo, anche se era vero, anzi, verissimo pure ieri e l'altro ieri, quando in nome delle superiori esigenze della lotta contro Silvio Berlusconi e il berlusconismo dilagante ogni diverso parere, ogni distinguo, ogni approccio critico era messo al bando sotto l'accusa di collusione (o, come si diceva, di inciucio) con il nemico: basta frequentare un po' il web per leggere, anche senza tirare in ballo il fascismo, come fa per antico riflesso condizionato Bersani, cose che a un vecchio militante della sinistra, ma pure a un vecchio democratico, fanno rizzare i capelli in testa.
Ma il problema non è di natura, diciamo così, definitoria. Il problema è che temi, espressioni, luoghi comuni tradizionalmente di destra (e non di una destra «montanelliana», ma di una destra profonda, limacciosa, risentita) hanno preso alloggio, e non solo nelle ultime settimane, in una parte importante (tutto sta a capire quanto) di un campo, quello della sinistra, politicamente e culturalmente sguarnito, per i motivi relativamente antichi di cui sopra e anche per più recenti, clamorose sviste. Nel dopoguerra Palmiro Togliatti poteva permettersi di fare l'occhiolino, a distanza di sicurezza, a Guglielmo Giannini e all'Uomo qualunque, alla vigilia delle elezioni del 2008 Walter Veltroni, dopo aver evocato lo spirito del Lingotto, avrebbe fatto bene a fermarsi a riflettere non una, ma cento volte prima di chiudere la porta in faccia ai socialisti per spalancarla a Di Pietro; e, se è per questo, anche Bersani ci avrebbe dovuto pensar bene su, prima di farsi immortalare nella celebre foto di Vasto. Ora il segretario del Pd, un emiliano di sostanza che con i grillismi colti o plebei non ha mai avuto molto da spartire, prova a dare la battaglia politica e ideale che si sarebbe dovuta condurre in tutti questi anni, e che invece, in primo luogo per opportunismo, non è stata data. Non può fare altrimenti, perché siamo probabilmente prossimi (e per capirlo basterebbe fermarsi a ragionare un momento anche sul senso politico degli attacchi rivolti a Giorgio Napolitano) al momento della verità. Che lo faccia bene, con gli argomenti e i toni giusti, è naturalmente un altro discorso. Che non lo faccia a tempo pressoché scaduto, purtroppo, pure. Ma questo ce lo diranno solo le prossime elezioni e forse, prima ancora, la legge con cui andremo a votare: sbaglierò, spero, ma quella di cui a giorni alterni si vocifera sembra fatta apposta per scatenare tutti i mostri.
Corriere 28.8.12
I rischi che corre la democrazia
Il crepaccio invisibile
di Giovanni Belardelli
È accaduto già una volta nella storia italiana che il sistema democratico si sia puramente e semplicemente suicidato. L'avvento al potere di Mussolini non fu infatti il risultato della forza militare delle camicie nere bensì, appunto, degli errori e delle incapacità di tutti gli altri attori politici. Oggi stiamo di nuovo scherzando col fuoco, poiché la riforma della legge elettorale che si va preparando rischia di spianare la strada a un secondo caso di suicidio della democrazia nel nostro Paese, o a qualcosa di molto simile. È vero che in tutto il mondo la democrazia rappresentativa sta subendo uno svuotamento sostanziale, come risultato del peso sempre maggiore dei mercati e delle istituzioni sovranazionali; ma proprio per questo diventa ancora più essenziale, come ha scritto Michele Ainis (Corriere, 25 agosto), riannodare il filo spezzato con gli elettori, cioè garantire loro il potere di scegliere i propri rappresentanti e quale sarà il governo che guiderà il Paese (anche se poi questo governo dovrà tener conto più dello spread che della volontà popolare).
Ebbene, entrambe queste cose — la scelta dei rappresentanti e la scelta del governo — sembrano fortemente compromesse dalla legge sulla quale i partiti della maggioranza stanno cercando un accordo. Non solo il premio del 10 o 15% al maggiore partito non garantisce la governabilità, ma l'intero meccanismo previsto sembra fatto apposta per determinare una frammentazione politica che affiderebbe la formazione di una maggioranza alle trattative tra i partiti solo dopo il voto.
Quanto alla scelta da parte dell'elettore dei propri rappresentanti, si ipotizza la parziale reintroduzione delle preferenze, che rischia piuttosto di riportarci al mercanteggiamento dei voti che caratterizzava le competizioni elettorali della Prima Repubblica. Soprattutto, un terzo o la metà dei seggi sarebbero assegnati attraverso liste bloccate, che riprodurrebbero così la principale anomalia (e sconcezza) del sistema attuale, che ha fatto parlare di un Parlamento non di eletti ma di «nominati» (dai vertici dei partiti). Tali «listini» di partito sono stati giustificati dall'onorevole Cicchitto con la necessità di assicurare l'entrata in Parlamento di «una serie di parlamentari di alto livello» che altrimenti rischierebbero di non entrarvi. Quanto a dire che il principio della sovranità popolare dovrebbe essere corretto alla luce di una sorta di diritto a essere rieletti dei politici «di alto livello» (e verrebbe allora da chiedersi quanto «alto» debba essere questo livello, cioè quanti siano i candidati che possono contare sulla rielezione assicurata).
Una proposta del genere riflette quella tendenza della classe politica a bloccare ogni ricambio che Gaetano Mosca definì come «aristocratica»; una tendenza forse condivisa anche fuori del Pdl, a giudicare dalle polemiche generazionali che agitano il Pd. Ammesso (e, ci permettiamo di aggiungere, non concesso) che un tale diritto dei politici di «alto livello» a essere rieletti abbia qualche fondamento, come si fa però a non comprendere che oggi una proposta simile equivale ad alimentare la peggiore demagogia antipolitica? Così, se giungerà in porto, la nuova legge elettorale farà sopravvivere (almeno per il momento) l'attuale ceto politico, ma al prezzo di un ulteriore e preoccupante svuotamento delle istituzioni democratiche.
l’Unità 28.8.12
Bersani: no al linguaggio di Grillo Il mio avversario è la destra
Sulle alleanze «Tra Casini e Vendola tengo Vendola»
Sul guru 5 stelle: «Non si può fare finta di niente»
di Simone Collini
«Qualcuno fa finta di non capire, c’è chi divaga, chi dice che avrei dovuto lasciar correre. No, non si può far finta di niente. E non è solo un problema per il Pd, se si resta inermi di fronte a un linguaggio fascista». Detto questo, scandisce Pier Luigi Bersani: «Io so qual è il mio avversario, dovrò confrontarmi con la destra. Lo faremo con grande energia ma con un linguaggio civile». E a proposito delle alleanze, conversando con i giornalisti, chiarisce: «Se mi chiedete Casini o Vendola io tengo Vendola». E aggiunge: «Ciascuno organizza il suo campo, Casini il suo. Noi facciamo l’alleanza con i partiti di centrosinistra che ci stanno a governare».
Bersani torna alla Festa nazionale del Pd per assistere allo spettacolo di Roberto Benigni, e prima di andarsi a sedere nell’Arena di Campovolo spiega a chi lo avvicina perché ha deciso di alzare i toni contro quelli che definisce «populisti in cerca d’autore». Col comico toscano sono abbracci e pacche sulle spalle, nel camerino dietro il palco, e poi per lui risate e applausi, per un paio d’ore in cui il pensiero non va ad altri tipi di comici.
Grillo ha reagito all’accusa di usare un «linguaggio fascista» seguendo il solito modello ben collaudato, dando al leader democratico del «fallito amico dei piduisti». Bersani non si aspettava qualcosa di diverso, e se infatti ora torna sulla vicenda non è per replicare al leader del Movimento Cinque stelle. Il fatto è che al segretario del Pd non è piaciuto come alcuni giornali hanno confezionato la notizia, come certi commentatori hanno trattato la vicenda. «Ma come si fa a dire che Grillo è di sinistra?», è sbottato quando ha letto il titolo di apertura del Corriere della Sera («Una grande rissa a sinistra»). «Ma la storia, quella recente e quella meno recente, non ha insegnato niente? Ancora non si è capito che tutti i populismi, che nascano da destra o da sinistra, finisco sempre a destra?». Così, si è connesso al web, e sulla sua pagina Facebook Bersani ha scritto questo: «Rispetto tutti e voglio parlare con tutti e intendo approfittare anch’io della sacrosanta libertà della rete. Non insulto nessuno, né tantomeno voglio iscrivere qualcuno al partito nazionale fascista che, per fortuna, non c’è più. Ho detto, e intendo ripetere, una cosa semplice e precisa. Frasi del tipo: “siete dei cadaveri ambulanti, vi seppelliremo vivi” e così via, sono le frasi di un linguaggio fascista, così come lo abbiamo conosciuto in Italia. È vero o no? Ci si rifletta un attimo e si risponda a questo senza divagare, senza deformare quel che ho detto, senza insultare. E a chi consiglia di lasciar correre per opportunità (o per opportunismo), rispondo che essere riformisti significa anche piantare qualche chiodo. Non pensando a noi, ma pensando all’Italia».
Di Pietro interviene con parole apparentemente di critica a Grillo («di mera protesta si muore») e di difesa per il leader Pd («è ingiusto qualificare come piduista Bersani») ma che in realtà deformano quanto realmente detto da Bersani, che ha puntato il dito non contro gli elettori delusi ma contro chi fomenta gli animi parlando di «zombie da seppellire». «È mortificante qualificare come fascisti milioni di elettori che hanno votato M5S o Idv», dice infatti Di Pietro lanciando poi un appello agli elettori del Pd: «Non fatevi fregare, il vero centrosinistra siamo noi».
Enrico Letta non si sorprende di quel che sta avvenendo. «Il Pd è alternativo a Grillo, alle sue idee, al suo modo di porle. E anche Di Pietro, che ha scelto una strada sbagliata, quella di seguire Grillo, è alternativo a noi». Il vicesegretario del Pd fa notare che «Grillo è l’unico leader politico italiano al quale non si possono fare domande, con il quale non si può avere una dialettica e un confronto faccia a faccia. Con lui non si può avere nessuna forma di dialogo, lancia il verbo dall'alto, che nel 90% dei casi è sotto forma di anatema o insulto, viene replicato e diventa un’onda d’urto che la Rete ripete». Bene quindi ha fatto Bersani, per Letta, a non lasciar correre. «Ha reagito a questo meccanismo che non fa bene alla politica».
Repubblica 28.8.12
Bersani: “L’Udc non è centrosinistra tra Casini e Vendola scelgo Nichi”
E su Grillo insiste: linguaggio fascista dire “vi seppelliamo vivi”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA — «Chiedimi chi scelgo tra Vendola e Casini». Pier Luigi Bersani - alla festa nazionale democratica di Reggio Emilia - spiazza tutti. Non solo tiene il punto su Beppe Grillo, «Se vuoi seppellirmi vivo vienimelo a dire in faccia», ma pretende la domanda delle domande. E risponde pacifico: «Tra Casini e Vendola, io mi tengo Vendola ». Spiegando: «Ognuno organizza il suo campo. Casini non è nel centrosinistra. Dopodiché, questo centrosinistra deve essere aperto». Che non fosse così scontato, lo dimostra la risposta a caldo di Rocco Buttiglione: «Se il Pd avrà i voti per governare con Vendola, governi con Vendola. Altrimenti si aprirà un'altra partita, la partita della grande coalizione, e in quella partita le carte le daremo noi». E quindi, quella che fino a oggi veniva presentata come un’alleanza, assume sempre più i contorni di una sfida. Almeno finché le urne non saranno chiuse. Anche se, Lorenzo Cesa tende a minimizzare: «Bersani è un politico leale e bene ha fatto a ricordare che chi organizza i moderati sta in un altro campo - dice il segretario centrista - con buona pace del Pdl, che con le sue posizioni radicali si sta sempre più avventurando sulla strada del populismo
europeo».
E quindi, non era solo ai grillini che intendeva parlar chiaro il leader pd durante la kermesse di Reggio Emilia. La definizione di «fallito amico dei piduisti» affibbiatagli domenica da Beppe Grillo, dopo le accuse di «frasi fasciste» al Movimento 5 Stelle, non fanno che rafforzare la linea decisa. Basta incassare soltanto: «I veri riformisti devono piantare qualche chiodo». «Frasi come “Siete dei cadaveri ambulanti, vi seppelliremo vivi” e così via - spiega Bersani - fanno parte di un linguaggio fascista così come lo abbiamo conosciuto in Italia». Anche se, «è inutile che facciano tutto questo chiasso e questi insulti perché so benissimo che il partito nazionale fascista non c'è più». E però, «Toni del genere non vanno mai usati, e c'è anche una discriminante: se vuoi seppellirmi vivo vienimelo a dire in faccia, e vediamo se me lo dici».
A sorpresa, Antonio Di Pietro si schiera - per un attimo - in difesa dei democratici. Il leader Idv, pur bersaglio degli stessi attacchi antigrillini perché diffusore di un video in cui il segretario pd era mostrato in versione zombie, scrive sul blog: «Bersani non è un piduista, non ha mai avuto a che fare con Licio Gelli. Muovergli un’accusa simile è fuori luogo». Ma l’ex pm dice anche che «è ingiusto e mortificante tacciare di fascismo milioni di persone che hanno espresso la loro delusione e la loro sfiducia nei confronti della politica del governo Berlusconi prima e del governo Monti poi». E più tardi aggiunge: «Grillo rappresenta un Movimento che esprime la protesta di migliaia, forse milioni di cittadini che non ne possono più. Accusarli di antipolitica, è questa l'antipolitica, il regime, il fascismo». Si ricomincia, quindi. Mentre sul blog dei 5 Stelle compaiono commenti come «Bersani dovrebbe ringraziarci. Dandogli dello zombie gli abbiamo regalato un ultimo sussulto di vita», ed Enrico Letta - mestamente - ricorda a tutti: «Grillo è l’unico leader politico italiano cui non si possono fare domande. Lui lancia il verbo dall’alto, nel 90% dei casi in forma di anatema o insulto, e quel verbo viene replicato e diventa un’onda d’urto che la rete ripete. A questo si è ribellato Bersani ». A questo, non cesserà di ribellarsi.
Repubblica 28.8.12
Quando Grillo bussò alle porte del Pd
Dalle primarie agli zombie un duello partito in commedia e finito a colpi di insulti
di Filippo Ceccarelli
CHISSÀ se una volta dentro il Pd, le cose con Grillo sarebbero andate meglio; o forse peggio; o magari non sarebbe cambiato granché. Sia come sia, e ancora di più in agosto, la politica non si fa con i “se”. E tuttavia, al terzo o quarto giorno di reciproci insulti, accade che dall’inesauribile giacimento dei ricordi bislacchi torni in mente la commedia dell’improvvisa infatuazione e della doppia iscrizione negata di Beppe Grillo al Pd.
VICENDA di calcolati equivoci, ma anche per questo abbastanza rappresentativa dell’andazzo in voga tra gli odierni litiganti.
Era estate anche allora. Un po’ Giannini (che dialogò con Togliatti) e un po’ Pannella (che come un cuculo per decenni ha cercato di occupare gli altrui nidi), il 12 luglio del 2009 Grillo annuncia a sorpresa che intende candidarsi a segretario del Pd. Prenderà la tessera, porterà le firme e parteciperà alle primarie, per le quali tra mille impicci regolamentari e il consueto tran tran oligarchico sono già in lizza Bersani, Franceschini e Marino.
Le motivazioni della scelta sono presentate in salsa agrodolce. Da un lato egli sente la necessità di “dare un senso a dieci anni di lavoro, tornare a parlare di politica e non di partiti e dare una mano ai giovani”. Sostiene che “dalla morte di Enrico Berlinguer nella sinistra c’è il vuoto”. Ma dall’altro condisce questa sua volontà d’impegnarsi con una sospetta considerazione personale: “Mi è venuto il magone nel vedere come questi fossili hanno segato la povera Debora Serracchiani, che aveva appena detto di condividere le cose che dico”.
Al di là del preteso intento cavalleresco, i “fossili” si allarmano. Non tutti, per la verità: risulta dialogante la suddetta Serracchiani, quasi favorevoli Burlando e Marino, tace Veltroni. Ma il grosso della nomenklatura dà per scontato che si tratti di mera provocazione a scopo autopromozionale, come è. Però, al netto dei cavilli statutari, il modo di respingerla suona inesorabilmente il solito: il Pd è tutto per noi. E comunque: “Non è un autobus” dice Bersani, “non è un taxi”, dice Migliavacca, “non è un tram” dice Melandri.
Grillo ovviamente ci sguazza; e prima di concludere che i notabili non sono d’accordo nemmeno sul mezzo di locomozione, che in realtà presto dirà essere assimilabile a un “carro funebre”, il comico li scavalca, acquista il biglietto della pretesa macchina mortuaria, cioè prende la tessera presso un circolo in quel di Arzachena, Costa Smeralda. Paga anche 16 euri, che il Pd regionale, subito contrario, promette di rimborsargli.
A quel punto il rifiuto fa crescere la discordia e la confusione a Roma. Il senatore Marino pone in qualche modo in rapporto il no a Grillo con la pacifica adesione di un temibile violentatore seriale che a Roma è risultato alla guida di un circolo del Pd. Mentre Penati, che organizza la campagna di Bersani, prende spunto per accusare il regolamento che con il contributo franceschiano consente “candidature fai-da-te”.
Deve perciò intervenire ufficialmente la Commissione di garanzia: no a Grillo. Il quale però insiste e, rifiutato in Liguria, per la seconda volta ottiene la tessera dal circolo “Martin Luther King” di Paternopoli, Avellino. Tessera quindi annullata dall’istanza regionale.
Tutto si consuma più o meno in una settimana, senza lasciare eccessive tracce nell’immaginario. Dopo di che i leader del Pd continueranno nel modo che si sa; e Grillo anche, con acclarata necrofilia accusando il Pd di essere un’accolita di “salme”, “mummie”, “zombie” e il suo segretario un “morto che cammina”. Al che una volta Bersani, messo proficuamente da parte l’orgoglio da comizio, rispose in modo filosoficamente e dunque, se è lecito, anche politicamente ammirevole: “Dai, Grillo, stai sereno: noi semplici uomini siamo tutti quasi morti. E tutti viviamo qui fece una pausa – su quel ‘quasi’”.
Corriere 28.8.12
Il piano di Renzi: agenda Monti e faccia a faccia tv con Bersani
Il neo candidato il 13 settembre presenterà il suo programma di governo
Il sindaco di Firenze in partenza: toccherà tutte le province
Ma il segretario: ora tutto più chiaro. E pensa a un listone con Vendola «Casini? Mi tengo il leader di Sel»
di Maria Teresa Meli
ROMA — Sono tempi impegnativi per Pier Luigi Bersani. La polemica con Grillo non si è ancora spenta — tant'è vero che ieri il segretario del Pd ha nuovamente bollato come «fascisti» certi atteggiamenti e linguaggi nei confronti del suo partito — ed ecco che si profila un altro fronte, questa volta interno. Già, perché finalmente Matteo Renzi ha rotto gli indugi e ha fatto sapere che si candiderà alle primarie.
Il sindaco di Firenze è convinto che a largo del Nazareno «non si aspettassero davvero» la sua sortita. Ma non è così. Al Pd circolano già da tempo dei sondaggi che danno il 45 per cento al segretario, il 30 a Renzi e il resto a Nichi Vendola. E Bersani è soddisfatto della decisione del primo cittadino del capoluogo toscano, perché gli consentirà di fare le primarie, vincendo le ultime resistenze dei maggiorenti del partito. Il segretario, in questo modo, raggiunge un triplice obiettivo. Primo, quello di «allargare il campo». Ossia di attirare forze e consensi nuovi al Pd, perché una parte degli elettori di Renzi è costituita da chi non ha mai votato prima per il Partito democratico. Secondo: Bersani con le primarie punta a rimotivare il popolo dei Democrat, coinvolgendolo e strappandolo all'astensionismo. L'ultimo obiettivo, ma non per questo il meno importante, anzi, è quello di consacrare e rafforzare definitivamente la sua leadership. Dopo la legittimazione delle primarie, infatti, il segretario sarà libero da qualsiasi condizionamento interno e potrà decidere la linea del Pd, senza sfiancarsi in estenuanti trattative con i vari D'Alema, Bindi, Veltroni.
«L'uscita di Renzi serve a fare chiarezza», ha detto ai suoi Bersani. Certo, il segretario sa bene che il suo competitore interno può giocare delle carte che a lui invece mancano. Perché, come raccontava l'altro giorno a qualche amico lo stesso sindaco di Firenze, «la mia è una nave corsara mentre il Pd è una nave da crociera con alcuni pesi morti di cui non so se il segretario riuscirà a sbarazzarsi». Non solo, Renzi ha dalla sua anche il voto degli ex margheritini, attratti più da un ex rutelliano come lui che da un ex Ds come Bersani. Tant'è vero che una fetta dei sostenitori di Enrico Letta, Dario Franceschini e Rosy Bindi guardano con interesse alle mosse del primo cittadino di Firenze. Ma tutto ciò non sembra comunque turbare più di tanto il segretario che va dritto per la sua strada. Tanto che ha deciso di chiudere con una settimana d'anticipo la festa nazionale del Pd proprio per avere modo di dedicarsi alle primarie.
La data delle consultazioni per la premiership del centrosinistra non è stata ancora decisa in via definitiva, ma si sa già che oltre al sindaco di Firenze e al leader del partito scenderà in pista anche Nichi Vendola. I sostenitori di Renzi sono convinti che il presidente della giunta regionale pugliese toglierà voti a Bersani. Ma dalle parti di largo del Nazareno vengono fatte valutazioni di segno opposto. «Se mi chiedete Casini o Vendola io tengo Vendola», ha chiarito ieri Bersani a Reggio Emilia: «Ciascuno organizza il suo campo». E gli uomini del segretario non escludono che l'effetto novità rappresentato dalla candidatura di Vendola possa nuocere a Renzi. Comunque, il segretario del Pd non ha mosso un dito per impedire al leader di Sel di presentarsi. Anche perché Bersani fa grande affidamento su Vendola per il dopo-primarie. Se infatti la legge elettorale verrà alla fine modificata, assegnando il premio di maggioranza non alla coalizione ma al partito, il numero uno del Pd pensa di andare alle elezioni con un unico listone che metta insieme i Democrat e Sel. È una prospettiva su cui si sta ragionando seriamente sia a largo del Nazareno che tra i vendoliani. E, nonostante le smentite di rito, si sono fatti notevoli passi avanti in questa direzione. Come dimostra l'alterco che c'è stato qualche tempo fa tra il presidente della Regione Puglia e Fausto Bertinotti, che è contrarissimo all'ipotesi di presentarsi alle elezioni con il Pd. Vendola per sostenere la bontà delle sue tesi ha spiegato che per lui è quasi «un dovere morale» portare i giovani di Sel in Parlamento, evitando il rischio che rimangano fuori anche nella prossima legislatura. A quel punto Bertinotti non ci ha visto più e ha troncato la discussione con una battuta velenosissima: «Allora tanto valeva fare un ufficio di collocamento e non un partito».
Dunque, per Bersani il leader di Sel è un valido alleato, con cui giocare di conserva in questa fase. E sicuramente le stilettate che il segretario non potrà dare a Renzi, per non dividere il Pd, le darà Vendola, che non ha di questi problemi. La situazione perciò è questa, e il segretario del Partito democratico appare ottimista. Ma Bersani non sa ancora che il sindaco di Firenze gli proporrà, a sorpresa, un faccia a faccia televisivo. Renzi è convinto di uscire vincente da un duello di questo tipo. Ovviamente il segretario potrà sempre rifiutare il duello mediatico, ma sottrarsi alla sfida in tv potrebbe rivelarsi un controproducente segnale di debolezza.
La Stampa 28.8.12
Rissa Bersani - Grillo
Il Pd lancia la “resistenza culturale”
di Federico Geremicca
Il web usato da Beppe Grillo come un manganello. Meglio: il web usato da Beppe Grillo come i fascisti usavano il manganello. Dunque, per la proprietà transitiva, Beppe Grillo è un fascista del web. E se per Pier Luigi Bersani il comico genovese può esser definito così, figurarsi cos’è il leader Pd per Beppe Grillo: un piduista. Anzi: un piduista e un fallito. La campagna elettorale è ancora lontana: ma se queste sono le premesse, c’è poco da star allegri.
E’ possibile che un approdo così fosse inevitabile, che lo scontro covasse sotto la cenere e che passare dalla polemica politica agli insulti fosse solo questione di tempo. Chi conosce Bersani, assicura che erano settimane che il segretario Pd pensava ad una uscita che rendesse chiaro che la misura era ormai colma. Insulti quotidiani, vere e proprie falsità, ironie grevi sui difetti fisici di questo o quell’avversario politico, minacce e offese belle e buone: un colpo andava battuto perché, come spiega Rosy Bindi, «qualcuno doveva pur intervenire, manifestando una resistenza culturale di fronte a un modo incivile di far politica».
Tutto giusto. Ma molto pericoloso. La fase, infatti, è un po’ quella del «chi tocca Grillo muore».
I sondaggisti non fanno mistero di considerare assai rischioso, per un «leader politico tradizionale», andare allo scontro frontale col fondatore del Movimento 5 Stelle. Epoiché è da escludere che questo non fosse noto anche a Bersani, la domanda è: perché? Perché fare del Pd l’argine (ma anche il nemico numero uno) al tracotante straparlare del comico genovese? Perché scegliere la scomodissima posizione di bersaglio privilegiato della polemica di Beppe Grillo?
I democratici si interrogano e si danno risposte assai diverse tra loro. Per Nicola Latorre, per esempio, «quella di Bersani non è un’uscita pensata e programmata, altrimenti avrebbe forse calibrato meglio i toni: ma ha fatto assolutamente bene, considerando anche che era alla Festa democratica, tra la nostra gente che è stufa di esser irrisa da Grillo». Per Rosy Bindi, invece, «credo che Pier Luigi ci abbia riflettuto, e io condivido: è vero che lui è un po’ un artigiano della comunicazione, gli piace trovare da solo slogan e battute, ma era tempo di mettere in campo una “resistenza culturale” ad un modo di far politica inaccettabile».
Tesi ragionevoli, possibili. Che non escludono, però, una ulteriore ipotesi: che l’iniziativa del leader del Pd sia stata non solo ragionata - come è abbastanza ovvio - ma anche valutata in tutti i suoi possibili effetti. E che alla fine, il saldo tra rischi e vantaggi sia stato giudicato da Bersani largamente in attivo. Sulla base di diverse considerazioni. La prima delle quali probabilmente è che non solo Grillo non sarà mai alleato del Pd, ma che con l’avvicinarsi del voto la sua polemica si farà ancora più velenosa. Dunque, tanto vale reagire per tempo.
Poi c’è l’«orgoglio di partito» e l’onore da difendere, naturalmente. E la scelta - strategica, in qualche modo - di occupare uno spazio che, per opportunità o altro, nessuno ha inteso occupare fino in fondo: diventare, appunto, i nemici di Beppe Grillo. Senza se e senza ma, e addirittura orgogliosi di esserlo: una chiamata a raccolta, insomma, del «popolo democratico» confuso e incerto. Una rivendicazione di onestà e diversità contro il populismo. Una scelta che, nonostante i rischi impliciti, potrebbe perfino essere elettoralmente pagante. Senza contare che potrebbe risultare vincente già nel delicato appuntamento che precederà il voto politico: le primarie di coalizione per la scelta del candidato premier. Salvo sorprese dell’ultima ora, infatti, dovrebbe trattarsi di una partita a tre tra Bersani, Renzi e Vendola. E sulla vicenda Grillo le posizioni degli altri due candidati sono abbastanza prevedibili...
Vendola tenterà - presumibilmente e nei limiti del possibile - una mediazione rispetto alle posizioni del tandem Di Pietro-Grillo, non foss’altro che per non divorziare (elettoralmente) da un mondo vasto, deluso ma in parte recuperabile; Renzi, probabilmente, eviterà addirittura di parlare del comico genovese per non finire nel pantano di una polemica che considera per metà vecchia e per l’altra metà poco interessante. Sarà Bersani, dunque, il più libero nella polemica contro Grillo e quel che rappresenta: e potrebbe rivelarsi un vantaggio non da poco in una consultazione che interpellerà il solo «popolo del centrosinistra».
Due questioni restano, naturalmente, sullo sfondo. La prima riguarda i toni della campagna elettorale verso cui si marcia. C’è da esser preoccupati. Bersani ieri ha nuovamente replicato a Grillo, andandoci per le vie brevi: «Se vuoi seppellirmi vivo, vienimelo a dire. Vediamo se me lo dice... ». Che pare la premessa ad una bella scazzottata: dalla polemica sullo spread, insomma, allo schiaffone. La seconda la pone Mario Adinolfi, deputato e blogger: «Il Pd deve avere chiaro che le prossime elezioni si giocheranno sul web, e noi siamo indietro. Ho l’impressione che noi si guardi alla rete con qualche disprezzo misto a supponenza, come se il mondo del web fosse irrilevante e un po’ nauseabondo. E’ una semplificazione». Come a dire che c’è modo e modo di stare sul web. Grillo ha scelto il suo: gli altri che fanno?
Repubblica 28.8.12
E dopo Fornero la festa esclude la Fiom “È terra di operai uccisi, siamo esterrefatti”
Liberal contro Fassina per lo stop al ministro. Tra gli invitati spunta Maroni
di Marco Marozzi
REGGIO EMILIA — Non c’è la Fiom anche se il suo capo Maurizio Landini e il suo predessore Gianni Rinaldini sono reggiani: c’è la Cgil di Susanna Camusso ma i metalmeccanici attaccano. «Siamo esterefatti». Non c’è Elsa Fornero, «valutazione politica» dicono i vertici del Pd, anche se crescono le proteste per l’assenza. C’è il leghista Roberto Maroni ma non c’è nessun leader del Pdl. Non c’è Antonio Di Pietro e l’Idv è rappresentato solo stasera da Luigi De Magistris in qualità di sindaco di Napoli sempre più lontano dall’ex pm. Ci sono Nichi Vendola e Pierferdinando Casini, alleati-coltelli, in incontri separati. C’è una lunga fila di ministri concentrato nei giorni finali, quelli più importanti prima della chiusura di Pierluigi Bersani, il 9 settembre. Il 2, undici giorni prima di cominciare il tour su camper per le primarie Pd, c’è Matteo Renzi che gli anziani volontari degli stand non sopportano «per le cene ad Arcore da Berlusconi ».
La Festa nazionale del Pd si scalda non solo per il caldo terribile che ha spinto Bersani in apertura ad invocare la pioggia insieme alla furia contro Beppe Grillo. Si scalda per le assenze e le presenze, che raccontano la strategia politica del partito verso le elezioni. Alle scelte non ci stanno i metalmeccanici, non ci stanno i liberal del Pd. «Il segretario nazionale ricarica le battaglie per le battaglie d’autunno – dicono alla Fiom –. Si prepara, pieno di amarezza». Landini delega a parlare i suoi e Bruno Papignani, capo dell’Emilia-Romagna, va giù furibondo: «Il Pd non ci ha chiamato alle sue Feste di Reggio Emilia, di Bologna dove ci sono undici dibattiti sul lavoro, di Torino dove c’è la Fiat e un poco dappertutto. Si vuole la litania? Escludendo chi non è un avversario però ha le sue idee, si impoverisce solo il dibattito ». Luigi Paganelli responsabile della Festa ha detto di aver chiamato «i massimi rappresentanti delle sigle sindacali, Camusso, Bonanni e Angeletti, i rappresentanti di più di dieci milioni di lavoratori ». Valerio Bondi, segretario Fiom di Reggio Emilia, si guarda attorno in piazza Martiri del 7 luglio 1960. «Questa è una terra rossa, a grande vocazione metalmeccanica, qui ci sono stati gli ultimi operai Pci uccisi dalla polizia, sono esterrefatto: è inspiegabile non invitarci».
No a voi, no al ministro Fornero: no agli opposti estremismi? «Non so - risponde Papignani - certo è complicato parlare di Fiat, mercato del lavoro, Ilva, esodati senza di noi».
Anche su Elsa Fornero esclusa, i malumori serpeggiano. «Le porgo le mie scuse come componente della segreteria del Pd e chiedo sia invitata alla Festa nazionale» ha protestato ieri Marco Meloni, vicino a Enrico Letta, impegnato a Reggio Emilia nel confronto con Francesco Profumo, il primo ministro invitato, contestato silenziosamente da un gruppo di precari della scuola. Poi arriverà una bella parte del governo: Cancellieri, Passera, Patroni Griffi, Riccardi, Clini, Balduzzi. Fornero niente, a nessuna Festa. Secondo Stefano Fassina non è stata chiamata per «una valutazione della segreteria ». «Una questione politica. C’è stata difficoltà di dialogo sul drammatico problema degli esodati». Meloni contesta il responsabile per l’economia del suo partito. «Mai parlato della cosa in segreteria e comunque invito pubblicamente Elsa Fornero a intervenire a una delle nostre Feste nazionali tematiche, ad esempio quella sull'Università ». La senatrice Magda Negri si arrabbia: «Il Partito comunista, non il Pd, invitava anche i “nemici” politici purchè fedeli al metodo democratico. Fornero è diventata l'ultra nemica?». La parlamentare torinese contesta anche il no alla Fiom. «Assurde discriminazioni ». A Torino, la città della ministra, c’è molta agitazione. «Rispetto ma non condivido dice il capogruppo in consiglio comunale, Stefano Lo Russo, che ha chiamato Elsa Fornero a un seminario a porte chiuse -. Abbiamo o non sostenuto il ministro anche in Parlamento per respingere le mozioni di sfiducia di Lega e Idv?».
l’Unità 28.8.12
Noi e l’Europa
Oggi il dossier nelle Feste del Pd
«Noi e l’Europa». È il titolo guida del dossier realizzato da l’Unità in collaborazione con il gruppo Socialisti e Democratici Delegazione del Pd al Parlamento Europeo che sarà distribuito da oggi alla Festa nazionale di Reggio Emilia e nelle principali Feste democratiche d’Italia. Si tratta di un viaggio nei problemi difficili dell’Europa e nelle soluzioni possibili per invertire il trend negativo dell’economia e riaffermare la centralità delle istituzioni e la forza della democrazia. Per scardinare, in sostanza, la linea dell’austerità e del rigore che sta soffocando i Paesi del Vecchio continente e tornare a puntare sulla crescita e su un modello di inclusione sociale.
Il dossier contiene l’articolo del segretario del Pd Pier Luigi Bersani e sei interviste (tre domande sull’Europa): al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, all’ex premier italiano Giuliano Amato, poi Romano Prodi, Massimo D’Alema, Jean-Paul Fitoussi e Mercedes Bresso. Il presidente del gruppo Socialisti e Democratici Hannes Swoboda e quello che pubblichiamo oggi in questa pagina, a firma del presidente della delegazione del Pd Davide Sassoli, spiegano quale è la strategia progressista e quale l’idea di Europa che la anima. Gli eurodeputati del Pd, ognuno per la sua specifica competenza, spiegano quali sono le proposte, i progetti e le battaglie sui vari temi: dalla crisi economica all’impegno per la crescita e lo sviluppo, dalla coesione sociale ai progetti per
il sistema produttivo, dall’Europa dell’ambiente e della green economy alla grande risorsa della cultura, dai diritti alla lotta contro le mafie e la criminalità, dalla politica estera agli impegni per la dignità degli immigrati.
l’Unità 28.8.12
L’Unione deve costruire un ponte sull’abisso
di David Sassoli
LA DOMANDA DEL MIO AMICO INGEGNERE È LA STESSA DI TANTI ALTRI: «Ma il tuo partito è davvero deciso a trasferire sovranità all'Europa?». Per molti italiani tornare al lavoro significa riprendere consuetudine con lo spread, le statistiche su produzione e disoccupazione, e con i pronostici catastrofisti pompati da chi gioca con la speculazione per sponsorizzare commissariamenti politici. Ma se l'estate non ha prodotto il cataclisma che molti profetizzavano, non siamo di certo fuori dalla crisi. I venti dalla Grecia tirano forte e siamo ancora in attesa che l'Europa si muova, alcuni paesi si mostrino solidali e la responsabilità imponga a coloro che tanta parte hanno avuto nel governare l'Italia di mordersi la lingua ogni volta che chiedono di abbandonare l'Euro e tornare, non si sa in quali condizioni, a stampare lirette.
La calura di questa estate non ha prodotto passi in avanti. Restiamo fermi allo schema del Consiglio europeo di giugno, con qualche potere in più alla Bce e molto condizionati dalla politica di rigore imposta dal fiscal compact. Gli italiani lo sanno e capiscono che le banche saranno attente nel concedere mutui, che i prezzi potranno crescere, che le tasse non caleranno in tempi brevi, che i tassi d'interesse non scenderanno, che i giovani laureati continueranno a cercare impieghi diversi dalla formazione che hanno ricevuto. Gli italiani hanno potuto rendersi conto anche che molti dei loro amici, vicini di casa, ex colleghi di lavoro se la stanno passando talmente male da essere inseriti nelle statistiche del dolore che riferiscono di 8 milioni di persone in condizioni di povertà. La domanda del mio amico ingegnere va al cuore del problema: «Per cosa dobbiamo combattere e stringere la cinghia?». Anche se il tempo delle domande sembra essere passato e il Pd lo abbia ripetuto in ogni sede e documento, molti nostri concittadini vogliono che non ci si stanchi di indicare la nostra stella Polare. Un po' di diffidenza va messa nel conto, anche perché il circo mediatico non aiuta a fare chiarezza. La polemica spesso ci riporta ai blocchi di partenza, come se le proprietà dei grandi giornali non sapessero che l'uscita dall'Euro ci condurrebbe a miseria certa.
Per costruire un ponte sopra l'abisso dobbiamo rendere più forte l'Europa e trasferire poteri dal piano nazionale a quello comunitario. Con chiarezza Giuliano Amato ha spiegato che non c'è tempo da perdere e serve avviare subito una fase costituente. L'offensiva federalista è una novità dell'estate. Anche l'appello di Jurgen Habermas, all'inizio di agosto, aveva fatto il giro d'Europa. In Italia, come al solito, se ne è parlato poco. Per il filosofo tedesco, di fronte alla crisi e all'empasse politico-istituzionale, «i popoli devono prendere la parola». «I popoli europei scrive Habermas nell'appello firmato con Peter Bofinger e Julian Nida-Ruemelin devono imparare che potranno difendere e conservare il loro modello sociale di società del welfare e la molteplicità delle loro culture dei loro Stati nazionali, solo agendo insieme. Queste sono le parole giuste per caricare i partiti europeisti di una grande missione. L'iniziativa è nelle nostri mani e sarebbe importante se già a partire da ottobre, in tutti i paesi europei, si svolgessero forum, aperti a cittadini e associazioni per una grande iniziativa sugli Stati uniti d'Europa. La Nuova Europa non potrà essere solo il prodotto di regole e trattati. Senza i cittadini non sarà possibile farla nascere. Nell'agenda della ripresa avremo bisogno di pragmatismo e coraggio. A ottobre, il presidente Van Rompuy presenterà il Rapporto sullo Stato dell'Unione. Un testo non rituale. Van Rompuy lo sta preparando con Draghi, Barroso e Juncker e i governi dovranno ratificarlo in dicembre. Si parlerà di Unione politica, Unione di bilancio e Unione bancaria. Sono gli ingredienti utili per rianimare lo spirito comunitario e trasferire "più poteri" a Bruxelles su economia e manovre nazionali, in cambio anche di emissioni di debito comune, come chiesto dalla cancelliera Merkel. La crisi, insomma, chiama i cittadini europei ad essere adulti e da questo dipende il futuro dei nostri paesi. Dobbiamo essere convinti che non è ancora troppo tardi.
il Fatto 28.8.12
Papa. Incontro con Monti, colloquio su giovani ed Europa
Incontro di natura “strettamente privata” tra Benedetto XVI e il presidente del Consiglio Mario Monti, che ieri si è recato nella residenza estiva del Pontefice a Castel Gandolfo. Nel corso del colloquio “ci si è soffermati in particolare sulla situazione europea, sulle principali sfide che l’Unione sta affrontando e sul contributo che i suoi cittadini e, soprattutto, le giovani generazioni possono offrire alla sua crescita umana e spirituale”. Lo rende noto la sala stampa vaticana. In seguito Monti ha incontrato il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano.
Non è il primo faccia a faccia tra i due: si incontrarono la prima volta il 18 novembre scorso, poche ore dopo la nascita del governo, quando il premier si recò all’aeroporto di Fiumicino per salutare il Papa in partenza per il Benin. Gli ultimi incontri il 13 maggio e il 3 giugno, quando Monti partecipò ad Arezzo e Milano alle messe celebrate da Benedetto XVI.
l’Unità 28.8.12
L’appello di Miss Italia nel mondo a Napolitano
«Cittadinanza per le seconde generazioni»
Una lettera al Capo dello Stato Giorgio Napolitano da parte delle 23 ragazze della sezione di “Miss Italia nel Mondo” che sono a Montecatini Terme per la fase finale di Miss Italia e che così facendo sollevano il problema della cittadinanza italiana per le «seconde generazioni». A farsi portavoce delle ragazze è Nayomi Andibuduge, diciotto anni, di origine cingalese e nata a Roma. La ragazza denuncia «non ho la cittadinanza italiana, cittadinanza che vorrei invece avere di “diritto” essendo nata in Italia da genitori dello Sri Lanka che da decenni vivono nel Vostro (nostro) Paese». «Pur senza esserlo secondo le attuali leggi dello Stato, mi
sento italiana a tutti gli effetti aggiunge Nayomi vivo una vita normale e sono perfettamente inserita nel tessuto sociale di Roma, città che amo ed in cui vivo. A Montecatini, nella sezione di “Miss Italia nel mondo” ho avuto modo di incontrare altre ragazze che come me parlano alla perfezione l'italiano, studiano, lavorano e progettano una vita da costruire proprio qui nel Vostro (nostro) Paese». «Io e le altre 22 ragazze vorremmo poter essere considerate italiane, capaci di fornire con senso civico e morale un apporto, impegnandoci a migliorare il Paese che verrà, che sentiamo come nostro, moderno e cosmopolita».
l’Unità 28.8.12
Il prezzo del sangue e quello dei diritti
di Chiara Valerio
POICHÉ NON HO – E TALVOLTA ANCORA ME NE RAMMARICO – UN’ESTRAZIONE ARISTOCRATICA, NON POSSO CONCEPIRE, IN ALCUN MODO, LO IUS SANGUINIS. È una posizione consolidata e ormai riferita a un ambito assai specifico, ma che forse affonda le radici nella fiaba di Esopo dove, col naso alzato a una pergola d’uva matura e fuori portata, s’impara, in compagnia della volpe, che è facile disprezzare ciò che non si può ottenere. Devo averlo pensato sotto il pergolato di mio nonno – il padre di mia madre era contadino –, e mentre mi riportavo alla mente, con vago senso d’invidia, immagini di bambini con giocattoli più nuovi dei miei, vestiti più colorati o una stanza tutta per loro. Non che fossimo indigenti, i miei genitori erano entrambi laureati e non dovevamo pagare l’affitto – il padre di mio padre era muratore –, ma non eravamo ricchi per “diritto di sangue”. I miei nonni avevano dovuto lavorare molto per consentire ai miei di studiare e, i miei genitori, a loro volta, avevano dovuto studiare molto, per crescere me e le mie sorelle non più in una condizione di proletariato illuminato, bensì in una casa di fresca e irriverente borghesia intellettuale. Io, semplicemente, immaginavo che con lo ius sanguinis si fosse, come i re, a casa in ogni luogo e senza ius sanguinis si dovesse, invece, faticare per trovare il proprio posto. Lo ius sanguinis era l’esempio di qualsiasi esclusione. Lo ius sanguinis era irreparabile e dunque, inaccettabile. Ora so che su di esso fonda un’idea di cittadinanza basata sul sangue, sulla lingua e sull’etnia e che allo ius sanguinis si oppone lo ius soli per il quale la cittadinanza è una continua adesione alle istanze civili e democratiche di un paese. Così, quando ho letto le righe, al Presidente Napolitano, di Nayomi Andibuduge, figlia di genitori Srilankesi, nata a Roma, che parla e scrive correttamente e che certamente sogna e progetta in italiano, mi sono detta che lo ius sanguinis è sì anche una eco di privilegi, ma soprattutto è uno spreco. Abolirlo è una risorsa anticrisi. Quanti soldi sono stati spesi dallo Stato italiano per formare, nelle scuole pubbliche, come cittadino e come donna Nayomi. E tanti come lei. E perché questo cittadino non può, a causa del nostro ordinamento da tempi di grassa – quando lo stato poteva permettersi di essere padre e madre, di punire e premiare, escludere e accogliere, e non adesso che deve essere figlio di ogni cittadino e pensare così al futuro –, perché questo cittadino deve essere impossibilitato a restituire con la sua intelligenza, grazia, giovinezza e bellezza, lustro e possibilità al paese che lo ha fatto diventare ciò che è? E perché suoi genitori sono chiamati dal medesimo stato che non consente ai figli diritto di voto, a pagare tasse et alia e a sanare debiti? Penso che si è ciò che si decide di essere, si è ciò che si decide di diventare, e penso che le responsabilità siano legate alle scelte che si compiono. Nayomi Andibuduge che chiede di diventare italiana è più italiana di me, che non ho mai, come i re, dovuto pensarci.
l’Unità 28.8.12
Le convergenze in economia tra De Gasperi e Togliatti
di Laura Pennacchi
IL DIBATTITO SUL VALORE ISPIRATORE CHE DE GASPERI E TOGLIATTI POSSONO AVERE, SU VERSANTI DIVERSI, PER IL PD odierno e quello sul rilancio dell’intervento pubblico in economia – aperti dall’Unità negli ultimi giorni – hanno punti di contatto significativi che è bene esplicitare. A me, infatti, interessa, più che ragionare in astratto sul Pantheon fondativo da attribuire al Pd, discutere problemi di merito e di contenuto. Come il ruolo di traino che lo Stato può esercitare in economia, sul quale – mentre erano molto più possibiliste, e creative, la sinistra democristiana e quella socialista – tra De Gasperi e Togliatti si potrebbero rintracciare paradossali convergenze nel senso di una comune diffidenza per l’intervento pubblico. Non per nulla quelli che oggi sono per un’immediata assimilazione al «centrismo» degasperiano di un’«agenda Monti» da riproporre inalterata nel 2013 esprimono in genere un’elevata ostilità per l’esercizio di forti funzioni statali in economia, per la legittimazione della quale alcuni si appellano a Togliatti.
A tale proposito Rosati (l’Unità del 21 agosto) ricorda una faccia di De Gasperi che mal si concilia con la rappresentazione «antistatalista» e «anti sinistra democristiana» che ne ha fatto Zamagni nella relazione al convegno di Trento riportata dall’Unità del 18 agosto. Una faccia su cui non a caso si appuntò la polemica di Sturzo e in cui stanno l’esproprio del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini, l’avallo dato all’Eni di Enrico Mattei, l’affidamento a Vanoni del Piano di sviluppo dell’occupazione e del reddito. Ma della ricostruzione degasperiana compiuta da Zamagni c’è un altro aspetto critico da sottolineare: l’appello al Togliatti che vedeva nelle sinistre democristiane troppo inclini all’intevento pubblico «reazionari fautori di una sorta di corporativismo feudale» per avvalorare una paradossale svalutazione delle posizioni che caratterizzarono all’epoca Dossetti, La Pira, Moro, Fanfani, Lazzati e altri. C’è qui una singolarità che non può non essere interpretata. Ciò si fa risalendo al cuore della cultura economica del vecchio Pci, nella quale si può osservare un protratto ancoraggio alla visione, di matrice terzinternazionalista, del «capitalismo monopolistico di Stato» – con la sua polemica verso i grandi monopoli e l’esaltazione della concorrenza a vantaggio delle unità produttive minori – e al «finalismo» della soluzione rivoluzionaria (procrastinata nel tempo ma sempre lasciata sullo sfondo). Visione e «finalismo» esentati da analisi del presente più spesse e articolate, compresa la costruzione di una teoria dello Stato e delle istituzioni, del resto strutturalmente carente nel marxismo in quanto tale (se lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, non c’è nemmeno bisogno di una sua teoria). Tutto ciò ha finito con il generare nella cultura economica del Pci un’inclinazione «liberal-einaudiana» – in fin dei conti di storicismo crociano erano permeati molti dirigenti storici – e una sordità verso le correnti keynesiane e neoricardiane che venivano allora dagli Usa, dal Regno Unito, dalla socialdemocrazie scandinave. Queste ultime all’avanguardia nelle realizzazioni del welfare state viste, invece, con ambivalenza dai comunisti italiani, salvo poi eccellere nell’amministrazione welfaristica delle regioni rosse o farne, all’occorrenza, un uso «consociativo».
Dell’inclinazione «liberal-einaudiana» del vecchio Pci fanno fede il mancato sostegno alla fine della guerra del cambio della moneta pur suggerito dagli Alleati (con cui si sarebbero combattute le fortune speculative accumulate durante il conflitto), il sodalizio che Togliatti realizzò con Epicarmo Corbino (il ministro che realizzò la prima manovra restrittiva e deflazionistica del dopoguerra), l’avversione al piano Marshall, la congiunzione tra l’ostilità di De Gasperi e la freddezza dei comunisti con cui venne accolto il Piano del lavoro proposto nel ’49 dalla Cgil di Di Vittorio, Foa, Trentin, a cui collaborarono gli economisti più innovativi del tempo – Breglia, Steve, Fuà, Sylos Labini, ecc. – provenienti dalle file del cattolicesimo democratico, del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà, del socialismo eterodosso. In effetti tra quelle file è sepolto un tesoro ancora oggi largamente inesplorato, il quale animò le sfortunate politiche e esperienze di programmazione del primo centrosinistra – anch’esse non sostenute dal Pci – basate su quel comma dell’articolo 41 della Costituzione che si deve a Dossetti e che recita così: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, pubblica e privata, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
l’Unità 28.8.12
Il revival del fascismo ed il sacrario al maresciallo Graziani
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Le passeggiate romane del boia delle Ardeatine ed ergastolano Priebke, la costruzione di un sacrario intitolato al criminale fascista Graziani coi soldi della regione Lazio e per ultimo lo sfregio di una madonnina votiva a Catanzaro, coperta con la foto della madonna risalente al periodo fascista, per i ricordare i «martiri» fascisti del posto: il tutto in una sorta di indifferenza dei più e, in certi casi, nel menefreghismo delle Istituzioni. ALESSANDRO FONTANESI
Che ognuno la pensi come gli pare, ovviamente, ma l’idea di un sacrario per il maresciallo Graziani con soldi della Regione Lazio, e dunque di tutti noi, supera davvero il limite della decenza. Quelli che Rodolfo Graziani ha infangato guidando le follie coloniali di un duce e di un re alla ricerca di un improbabile impero italiano in Africa e uccidendo con un cinismo allucinante decine di migliaia di neri sono il nome e l’immagine del nostro Paese. Celebrarne in questo modo la memoria è un po’ come riconsiderare positivamente gli orrori di quelle «imprese» di cui la gran parte dei cittadini italiani oggi sentono di potersi solo vergognare. Come se qualcuno immaginasse in Francia un monumento a Petain o, in Germania, un sacrario dedicato ad Eichmann e ad Himmler e davvero c’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui i nostalgici del fascismo hanno potuto, con l’aiuto di un uomo senza principi come Berlusconi, dimenticare la lezione della storia e offendere in questo modo la Costituzione e la memoria di un intero popolo. E noi qui siamo ancora oggi, tuttavia, alla tranquillità con cui accolgono questa notizia, che per loro non fa scandalo, i qualunquisti alla Grillo, quelli per cui i politici sono tutti uguali e che aprono un’autostrada, con questi loro discorsi, al ritorno delle «idee» su cui si basò, novant’anni fa, la «rivoluzione» fascista. Quella che tanto piacque anche a Rodolfo Graziani.
La Stampa 28.8.12
Una regione a rischio collasso
L’incubo nell’isola dei cassintegrati
Ogni giorno spariscono 57 posti di lavoro, la disoccupazione giovanile sfiora il 45%
di Teodoro Chiarelli
Operai sul piede di guerra Una manifestazione dei dipendenti dell’Alcoa al porto di Cagliari. Nei mesi scorsi centinaia di operai delle aziende sarde hanno organizzato proteste e occupazioni per denunciare la scomparsa dei loro posti di lavoro L’ occupazione delle miniere della Carbosulcis di Gonnesa nel Sulcis. La disperata protesta in mare dei lavoratori dell’Alcoa di Portovesme. Prima ancora, gli operai dimenticati della Vinyls di Porto Torres, autoreclusisi all’Asinara, «Isola dei cassintegrati». Tre battaglie simbolo di una regione, la Sardegna, sull’orlo del precipizio. I numeri, i dannati numeri dell’Istat e della Banca d’Italia, parlano di una crisi che sembra irreversibile, drammatica.
«Rischiamo la desertificazione», ha denunciato appena un paio di mesi fa il presidente di Confindustria Sardegna, Massimo Putzu. La disoccupazione supera il 16%, ma arriva fin oltre il 45% per i giovani. Nell’ultimo anno hanno chiuso i battenti 1.213 aziende; 1.700 hanno dichiarato lo stato di crisi; 21 mila i posti di lavoro cancellati nel 2011. Dal 2007 al 2010 le esportazioni sono calate del 40%. In questo disastro l’unico appiglio è la cassa integrazione: 20 mila i lavoratori che ne usufruiscono, 110 mila le persone assistite in qualche modo con altri sostegni, 4 mila gli esodati fra operai e tecnici. Il Pil (prodotto interno lordo) della regione navigava ad aprile intorno al -1,3%, ma secondo Confindustria e Confcommercio a fine anno sprofonderà a -1,9.
Le cattedrali nel deserto
Delle cattedrali nel deserto degli anni Settanta e Ottanta restano solo ammassi di rottami a violentare coste e territori una volta selvaggi e bellissimi. Chi ricorda che negli anni del boom le miniere del SulcisIglesiente occupavano 14.500 persone? E guardando i flebili fumi della ex Sir, che pure ancora ammorbano l’aria di Porto Torres, come non pensare che sino all’inizio di questo secolo erano quasi 3.500 i lavoratori che risiedevano ad Alghero e nel golfo dell’Asinara? Il crollo di quello che fu l’impero di Nino Rovelli, il giro disinvolto di finanziamenti pubblici a fondo perduto (e infatti spariti nelle capaci tasche di finanzieri e politici senza scrupoli), i passaggi degli impianti all’Eni delle tangenti ai partiti: il risultato è che l’Italia è uscita dalla chimica dei detergenti e degli aromatici e la Sardegna ha finito per ritrovarsi con niente in mano.
Quel che resta di Ottana
Oggì tutto è fermo, arrugginito e in rovina. Cosa resta? Poco o nulla, se non qualche attività (non a caso definita «residuale» in un report del Sole 24 Ore) intorno a Ottana. Già, Ottana: fu il simbolo della rinascita economica della Barbagia con la creazione delle industrie «antibrigantaggio». Ancora chimica e tessile, soprattutto fibre e acrilico. Ancora un fallimento, ancora storie di malaffare e di tangenti.
A Cagliari il discorso non cambia: grande spazio al tessile a Macomer e Siniscola. Ma poi arriva la crisi, si smobilitano gli impianti e i telai si rimaterializzano nei Paesi dell’Est. E che ne è della gloriosa cartiera di Arbatax che ha rifornito decine di giornali italiani? Nulla, non c’è più nulla, tutto raso al suolo e spianato dai bulldozer. In attesa di nuove attività che, come Godot, non arrivano mai.
Industria e pastori in trincea
Persino la pastorizia, tradizionale attività sarda, rischia una mazzata tremenda. Diecimila i pastori che tremano e minacciano rivolte. C’è che le banche stanno chiedendo il rientro immediato dei mutui agevolati concessi dalla Regione negli ultimi vent’anni e che sono stati giudicati illegittimi dall’Unione Europea. Così restano le ultime fabbriche simbolo, protagoniste delle ultime disperate battaglie. Alla Euralluminia di Portovesme (fa capo ai russi della Rusal) operano solo 35 lavoratori su 400. L’azienda sconta, come Alcoa, l’alto prezzo dell’energia elettrica. Che in Sardegna costa il 25% in più rispetto a quel 305 che già penalizza le imprese italiane rispetto al resto dell’Europa. Motivo per cui la multinazionale americana Alcoa ha deciso di chiudere entro settembre lo stabilimento che occupa 500 addetti (più 300 nell’indotto). E sempre a causa del caro energia si è tirato indietro all’ultimo momento il fondo Aurelius che sembrava interessato a rilevare l’azienda.
Il futuro possibile
Tante parole, qualche pseudo-imprenditore approfittatore, scarse speranze per gli indomiti operai della Vinyls e la loro «Isola dei cassintegrati». Forse un miracolo, chissà.
Certo che è dura. Anche perché la Sardegna sconta un atavico ritardo nelle infrastrutture. È l’unica regione a non avere un’autostrada. La costruzione della strada Sassari-Olbia è attesa da 15 anni. Ed esistono solo 27 chilometri di ferrovia a doppio binario.
Resiste, sull’isola, una sola grande industria: la raffineria Saras della famiglia Moratti. È a Sarroch, vicino a Cagliari, e come tutte le raffinerie non è propriamente un toccasana per l’ambiente. Ogni mese, però, garantisce quasi 1.500 stipendi. Anche se il settore della raffinazione non va a gonfie vele un po’ in tutta Europa.
Restano le imprese agroalimentari di qualità e un robusto settore vinicolo: da alcuni anni conoscono una crescita costante. Poco, troppo poco, per la bellissima terra del vessillo con i quattro mori.
Repubblica 28.8.12
Lezioni di cuore
Luce Iragaray: l’educazione sentimentale andrebbe insegnata a scuola
La studiosa racconta perché le passioni vanno coltivate fin dall’infanzia
Bisogna imparare a rispettare l’altro, la sua trascendenza Per questo sono necessari parole e gesti diversi
di Luciana Sica
Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray: grande teorica della differenza sessuale, psicoanalista per quanto critica di Freud e soprattutto di Lacan, direttrice di ricerca in filosofia presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi. Nella sua formazione multidisciplinare, non solo la linguistica ha avuto un ruolo fondamentale, ma anche lo yoga che pratica da più di trent’anni: s’intitola Una nuova cultura dell’energia un saggio uscito l’anno scorso da Bollati Boringhieri, l’editore italiano di tutti i suoi libri principali. Tanti, e alcuni di gran successo come quell’Amo a te dedicato a sorpresa a Renzo Imbeni.
Se però le chiedi cosa può aver significato nella sua vita il sindaco di Bologna, agli inizi degli anni Novanta, la risposta avrà tutt’altro che un carattere personale.
Perché lei si esprime così: «Ho voluto dare un esempio di relazione sessuata civile, rispettosa sia dell’uomo che della donna. Volevo insegnare, ai giovani in particolare, che per vivere anche carnalmente una relazione amorosa, è indispensabile passare attraverso un atteggiamento civile. Inoltre un uomo politico che pretende di essere un democratico deve mostrarsi capace di un comportamento corretto verso una donna, una modalità che deve essere reciproca... Ho indicato per iscritto, e nelle numerose presentazioni del libro fatte insieme, i diversi mezzi per raggiungere quest’atteggiamento civile che sia sessuato, non sedicente neutro ma conforme alla nostra identità reale».
Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray, dell’importanza che assegna all’amore, eppure ignoriamo tutto delle sue scelte sentimentali. Ha un riserbo talmente radicale da somigliare anche un po’ a una civetteria. Per esempio, è difficile negare che sia nata in Belgio, dove ha preso una prima laurea in Filosofia all’università di Lovanio («Belga? Io sono francese! », dice lei...). Ma sarà nata nel maggio del 1930, come si legge ovunque? «Quella data, le assicuro che è sbagliata. La data giusta si saprà solo quando sarò morta...». Va bene, signora Irigaray, ma non se la prenda così a cuore con l’anagrafe e con quei cialtroni di Wikipedia.
In un’intervista sull’amore, non dovrebbe essere vietato chiedere qualcosa sul modo in cui si declinano e si vivono i sentimenti. Lei però non ha mai voluto parlare di sé... Non crede che una qualche conoscenza della sua vita privata la renderebbe più “umana”, senza sminuirne il ruolo intellettuale?
«So che è di moda raccontarsi, cosa che si può spiegare nel solco di una tradizione che ha mirato a un’esistenza ideale piuttosto che alla nostra vita quotidiana. Non ritengo però che la mia vicenda personale possa realmente interessare gli altri. Cerco piuttosto di partire dalle mie esperienze e di tradurle a un livello condivisibile. Inoltre nella mia vita sono coinvolte altre persone e non mi sembra opportuno svelare qualcosa di loro. Altro punto importante: i sentimenti hanno bisogno di riservatezza, di segretezza, l’intimità esclude la dimensione pubblica. Potrei anche aggiungere che troppo spesso le donne sono state ridotte alla dimensione affettiva o erotica: un motivo in più per mantenere nascosta la mia vita privata».
Alla lettura dei suoi libri, l’amore risulta un’esperienza cruciale non solo per le persone, ma per la cultura e la politica. Può dire in breve perché?
«Vede, la nostra tradizione si è troppo preoccupata della vita relazionale, del modo in cui ci riferiamo a noi stessi, al mondo, all’altro o agli altri. Ora è forse proprio la maniera di vivere queste relazioni che può distinguerci dagli altri esseri viventi, al livello delle relazioni amorose ma anche delle relazioni pubbliche. Siamo ben lontani da una pratica adeguata della nostra vita relazionale e spesso ci comportiamo in modo peggiore degli animali... Penso che sviluppare una cultura dell’amore possa contribuire al divenire dell’umanità in quanto tale, per non parlare della realizzazione di una democrazia che non si limiti a problemi di danaro. Per di più, praticare l’amore corrisponde al modo d’incarnare il divino, secondo la tradizione cristiana prevalente nell’Occidente».
Amo a te, è il suo libro più celebre. Come a dire: non amo te in una condizione speculare, ma amo “a te”, un altro radicalmente diverso da me...
«Il successo di Amo a te indica la necessità di questo discorso, che ho continuato a sviluppare in altri miei libri più recenti come La via dell’amore e Condividere il mondo.
Ovviamente l’amore non può rimanere un affetto solo immediato e quasi istintivo. La lettera “a” di Amo a te ricorda il lavoro necessario che richiede l’amore per rivolgersi realmente all’altro. Significa che prima di poter dire “ti amo” è indispensabile soffermarsi a considerare chi è l’altro, senza sottomettersi o sottometterlo solo ai propri impulsi. Vuol dire: amo “a” ciò e “a” chi tu sei, e cerco di creare una relazione d’amore con te in quanto persona e non solo in quanto oggetto o supporto dei miei sentimenti personali».
Dal possesso dell’altro al rispetto dell’altro, senza perdere la propria identità... Bisogna imparare ad amare, ma questa lezione come e dove si apprende? Può aiutare l’analisi?
«Senza dubbio, l’amore si deve imparare. Sarebbe l’insegnamento scolastico più importante fra tutte le materie in programma, e non a caso suscita un grande interesse da parte dei bambini, degli adolescenti e anche degli adulti - come ho verificato nelle esperienze condotte nelle scuole italiane. Ma i punti principali da insegnare non sono gli stessi per i maschi e le femmine: i primi spesso trasformano in oggetto la persona che amano, mentre le seconde hanno la tendenza a un atteggiamento fusionale con l’altro. Ciascuno deve dunque imparare in modo diverso a rispettare l’alterità dell’altro, la sua trascendenza, direi, per poter amare. Sono necessari altri gesti e parole, rispetto a quelli che ci sono consueti... Quanto alla psicoanalisi, se può aiutare a una presa di coscienza di ciò che proiettiamo di noi stessi sull’altro, temo che non si sia interrogata abbastanza sulle carenze della nostra cultura riguardo lo sviluppo e la condivisione dell’amore».
Attraverso la pratica dello yoga, nella sua accezione più spirituale, non esclude la possibilità di trasformare ognuno di noi in un ponte tra Oriente e Occidente... Ma c’è davvero un rapporto tra la capacità di respirare e la possibilità di amare?
«La nostra cultura troppo spesso ha fatto dell’amore un imperativo morale o religioso e non il mezzo e il luogo più determinanti perché l’umanità possa sbocciare. È accaduto perché non ci siamo abbastanza preoccupati di coltivare la vita, anzitutto la nostra vita umana, a cominciare dalla linfa che l’alimenta, che le permette di crescere e di fiorire. Questa linfa risulta da un’energia al contempo naturale e spirituale che si acquista proprio mediante la coltivazione consapevole del respiro... A me lo yoga ha senz’altro rivelato un modo di amare che la tradizione occidentale non mi aveva insegnato. Incrociare una cultura del respiro con una cultura dell’amore sarebbe una pratica davvero utile per un’evoluzione positiva dell’umanità ».
La Stampa 28.8.12
Pechino, la primavera uccisa dall’ossessione della stabilità
La protesta di piazza Tienanmen, nel 1989, è il modello che ha ispirato le rivolte in tutto il mondo. Ma non in Cina
di Ilaria Maria Sala
Lo studente a mani nude contro i carri armati: è l’immagine simbolo della protesta di piazza Tienanmen, a Pechino, stroncata nel sangue la notte del 3 giugno 1989
23 ANNI FA. Dopo la feroce repressione sembrava che le libertà negate prima o poi sarebbero venute"
OGGI Ogni ipotesi di apertura resta illusoria. Anche se è difficile imbavagliare i social network
Dal 1989 ogni rivolta di piazza, in qualunque parte del mondo, ha sempre un termine di paragone che prima o poi viene esplicitato: la primavera di Pechino, i fatti di Tienanmen.
È uno strano destino: prima delle primavere arabe, prima delle rivoluzioni colorate, prima ancora della caduta di Suharto in Indonesia, e perfino, più indietro nel tempo, prima della caduta del muro di Berlino, c’era Tienanmen. La primavera fallita, a cui però tutte le altre si sono ispirate. La primavera che lasciò per le strade della capitale cinese il sangue di studenti, operai, passanti, uomini e donne che avevano creduto nella possibilità di cambiare in meglio il paese. E il sangue di coloro che erano usciti in fretta nella notte fra il 3 e il 4 giugno per proteggere «i nostri studenti», come erano chiamati i manifestanti da tutti quelli che assistevano ammirati e inquieti alle loro proteste. Anche loro si trovarono ad affrontare i carri armati e i mitra dei soldati, e nei giorni successivi ci si rese conto che molti di questi osservatori partecipi pagarono con la vita il tentativo di difendere i giovani ribelli di Tienanmen.
Nel 1989 l’intera Cina era sospesa fra due possibilità, entrambe impensabili. Da un lato, l’idea rivoluzionaria e semplice di ottenere libertà di stampa e di espressione, di estirpare la corruzione e il privilegio, e di avere, per tutti i cittadini, l’opportunità di contribuire a determinare il proprio futuro. Dall’altro, quella di una società che si chiudeva politicamente, che aumentava i controlli e diminuiva lo spettro del possibile, che decideva, dall’alto verso il basso, quali strade potevano essere percorse e quali invece sarebbero state precluse, e che imponeva di nuovo una lista dei pensieri accettabili e di quelli da schiacciare sul nascere.
Fra le due ipotesi, come sappiamo, i governanti cinesi scelsero di imporre la seconda, ma i 23 anni che sono passati da quel momento hanno portato la Cina in una direzione diversa da ogni previsione, dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il paese è troppo grande e troppo complesso per prestarsi alle fantasie di chi vuole guardare nella sfera di cristallo. Oggi la Cina è riuscita a coniugare una sua versione della modernità con un tipo di censura atemporale e anacronistica, che resiste caparbia a ogni tentativo di essere soffocata a suon di sberleffi, una propaganda che non si lascia turbare da nulla e che non ha nessun timore del ridicolo. È una potenza commerciale davanti alla quale tutti hanno voluto inginocchiarsi, molto prima che ciò fosse necessario e molto più profondamente del dovuto.
Nessuno, proprio nessuno si sarebbe aspettato, 23 anni fa, che le cose avrebbero preso questa piega. Una volta ripulite le strade dai corpi delle vittime, dalle tende in cui dormivano gli studenti a Tienanmen, dai carri armati bruciati nei giorni di guerriglia urbana che seguirono la repressione, dalle barricate costruite con arredi urbani divelti, e malgrado un coprifuoco severo che rimase in vigore fino alla fine di quell’anno, dovunque si sussurrava che di nuovo «qualcosa» sarebbe successo e le libertà negate sarebbero state conquistate.
Dopo più di venti anni questi mormorii sono ormai rari, ma, nondimeno, in Cina si è sempre un po’ sul chi vive, perché chissà, forse una nuova primavera potrebbe avere inizio. Periodicamente, gli osservatori, tanto in Cina quanto all’estero, si illudono che il momento di un’apertura liberatoria sia arrivato: ora le speranze sono accese da uno dei cambiamenti ciclici della dirigenza, ora dai contraccolpi di eventi esterni che sembrano scuotere tutto, ora dal diffondersi delle nuove tecnologie, ora da alcune rivolte localizzate ma che parlano al paese intero, come nel 1989 ma meglio che nel 1989.
Il 2011, l’anno del sollevamento arabo che avrebbe potuto estendere il suo contagio al di fuori del Mediterraneo, ha visto dunque arrivare un altro di questi momenti in cui, per un attimo almeno, si guarda a quello che avviene in Cina chiedendosi se non sia giunta l’occasione che farà accendere la scintilla capace di illuminare a giorno le speranze dei riformatori. Tanto più oggi, nell’era di Twitter e Weibo, un’epoca in cui le notizie vanno di furia e invecchiano in fretta, e i famelici social network hanno bisogno sempre di nuove informazioni da consumare, in molti avevano già provveduto a scrivere articoli e editoriali sull’inevitabile domino che doveva rendere febbricitante anche la Cina. Doveva essere la primavera dei Gelsomini: ma non lo è stata. Sulla scena cinese c’è un protagonista forse poco noto all’estero, ma onnipresente: si tratta del weichi wending, solitamente abbreviato in weiwen, frutto dell’enfasi totale e assoluta che i governanti cinesi hanno posto sul «mantenimento della stabilità». Stabilità a ogni costo, ovvero anche modulando le risposte a seconda del pericolo che il potere reputa di avere davanti.
Una protesta può essere foriera di maggiore repressione nel caso si tratti di un movimento politico dissidente o, peggio ancora, di disordini che si accompagnano a tensioni etniche, come in Tibet o nel Xinjiang. Oppure può portare a concessioni impreviste e a compromessi soddisfacenti, quando invece si tratta di scioperi di operai e lavoratori che protestano per motivi contingenti (dai salari alle ore e condizioni lavorative), o della nuova borghesia urbana che si oppone a industrie inquinanti nel cortile di casa sua. Il regime sa adattarsi e anche ascoltare quando non si sente sotto attacco diretto, ma non perdona nel caso in cui si mettano in discussione la sua legittimità e i suoi metodi più profondi. E se questa spiegazione della Cina attuale, tutto sommato semplice, sembra chiarire le cose, ecco che in questo paese così restio alle generalizzazioni si devono aggiungere anche altre variabili - costituite, per esempio, dalle personalità che conducono i giochi, che si sia a Chongqing o nel Guangdong. Ma non solo, a complicare il quadro c’è di più: per quanto lo Stato si impegni a mantenere la censura, per quanto il governo si dia da fare per soffocare ogni informazione vera sotto tonnellate di notizie frivole senza peso specifico, i social network non sono del tutto imbavagliabili, e da sotto le dighe e le muraglie qualcosa riesce a filtrare più veloce del delirio censorio che lo vuole intrappolato.