mercoledì 4 luglio 2012

il Fatto 4.7.12
Il “giovane turco” Matteo Orfini
“Mai più il Pd con Monti”
di Paola Zanca


Né uomini, né programmi. Se vinciamo le elezioni, nessuna continuità con quello che sta facendo Monti”. Matteo Or-fini, “giovane turco” che si è messo in testa di modernizzare il Pd, non la pensa esattamente come i big del suo partito. Da D'Alema a Letta, fino a Bersani, tutti a dire che Monti è una risorsa che il centrosinistra non deve sprecare.
Orfini, ha i brividi?
Noi lo sosteniamo per senso di responsabilità. Ed è il miglior premier possibile per questa fase di emergenza.
Però?
Però è il simbolo di una fase straordinaria, che non deve ripetersi. A fine legislatura, dobbiamo tornare alla contrapposizione tra destra e sinistra.
Se nessuno stravince, ci toccheranno le larghe intese?
Intanto cambiamo la legge elettorale, se no poi non ci lamentiamo dell'astensionismo.
E poi?
E poi niente. La grande coalizione per me è una logica sbagliata. L'unico modo vero per uscire dalla crisi è un governo politico. Prendiamo la vicenda degli esodati: ai tecnici è esplosa in mano...
Eppure anche nel Pd c'è chi immagina di portare al governo professori, tecnici, amministratori dello Stato.
Io credo che, con una leadership forte di Bersani, ci sia bisogno di governare a viso aperto: è anche un modo per riavere credibilità, il resto sembrerebbero politicismi.
Oggi in libreria esce “Con le nostre parole”. Ha fatto a pezzi il centrosinistra. Con Veltroni è stato impietoso.
Ma no, non solo con lui. Lo sono stato con tutti.
Questione di ricambio?
Non dobbiamo sostituire i 50enni con noi. Però serve una valutazione seria: dopo 20 anni di Seconda repubblica, non possiamo non pensare di avere responsabilità, al governo ci siamo stati 7 anni anche noi.
Dove avete sbagliato?
Secondo me soprattutto con la subalternità al liberismo. E oggi c'è qualcuno che ha il coraggio di dire ‘rinnoviamo’ al grido di ‘il liberismo è di sinistra’.
C'è l'ha con Renzi?
Più che rottamare, direi che si accredita come erede degli errori del passato.
Si è fatto avanti per le primarie anche Stefano Boeri.
Ah sì, ho letto. Non ho capito su che linea, non ho capito in cosa la sua candidatura è diversa, ma l'ho letto.
Non ha gradito?
Figurarsi, benvenuto. Ma suggerirei di non vivere le primarie con eccessi di narcisismo.
Vendola invece pare tentato dal passo indietro.
Spero di no. È stato 2 anni a dirci che voleva partecipare e ora che ci siamo decisi si sottrae? Sbaglia a legarsi a Di Pietro.
Con l'Idv avete chiuso?
Con gli insulti che rivolge quotidianamente al Pd, è difficile pensare a un futuro comune.
Casini invece vi ha scelto.
Io lo dico da sempre che il problema di allearsi con il Pd ce l'avevano gli altri partiti, non noi. Ma non bastano le interviste per fare le alleanze.
Paletti?
Noi siamo il partito uscito più forte dalle amministrative, possiamo permetterci di porre le condizioni minime per la coalizione. Chi le condivide, partecipa alle primarie.
Le liste civiche?
Io non penso che tutto il buono sia fuori dai partiti e il peggio sia dentro. Io dico: andiamo a cercare tra le forze sociali che stanno uscendo dalla crisi. Nomi per le liste, magari anche per il governo.
Ci risiamo: bisogna cambiare facce.
Sì, ma non necessariamente sulla base della carta d'identità. Prendiamo la questione delle deroghe ai mandati.
Lo Statuto dice massimo 3, ci saranno una trentina di eccezioni.
Le regole sono troppo larghe. Si può fare di più. Per esempio: chi ha avuto già due esperienze di governo, ha già avuto tanto, dal Paese e dal partito: può rinunciare a fare il terzo giro da ministro?
Dovete aprirvi al nuovo?
Sì, ma non ai salotti. E tanto meno al salotto di qualche editorialista di qualche grande giornale.
Eugenio Scalfari su ‘Repubblica’ vi ha suggerito di candidare Roberto Saviano.
Ecco, anche quei salotti lì andrebbero rinnovati. Sono gli stessi anche loro, da trent'anni.

il Fatto 4.7.12
Hollande:  Sì dal 2013 ai matrimoni gay


François Hollande ha mantenuto la promessa. In Francia le coppie omosessuali potranno sposarsi e adottare bambini a partire dall’anno prossimo: a dare l’annuncio è stato il primo ministro Jean-Marc Ayrault, durante un importante discorso programmatico in Parlamento. “Nel primo semestre 2013, il diritto al matrimonio e all’adozione sarà aperto a tutte le coppie, senza discriminazione - ha spiegato Ayrault, confermando uno degli impegni elettorali del presidente socialista -. La nostra società evolve, i modi di vita e le mentalità cambiano. Emergono nuovi bisogni. Il governo risponderà in nome del principio di uguaglianza”.
Secondo un recente sondaggio, il 63% dei francesi è favorevole al matrimonio aperto a tutti e il 56% al diritto di adozione e filiazione per gli omosessuali. Sono 20.000 i bambini Oltralpe a vivere già con genitori dello stesso sesso. La procedura potrebbe richiedere diversi mesi tra il tempo di redigere il testo e di ottenere l’approvazione del Consiglio Superiore dell’Adozione e del Consiglio di Stato, prima che il progetto di legge sia presentato in Parlamento. E il percorso non sarà facile: il dibattito sulla parità di diritti anche per lesbiche e gay è caldo in Francia, soprattutto per quanto riguarda le adozioni o la filiazione (inseminazione artificiale). Durante la campagna elettorale, Hollande aveva previsto nel suo programma l’accesso al matrimonio e all’adozione per le coppie dello stesso sesso entro la primavera dell’anno prossimo.

l’Unità 4.7.12
Scure del governo sugli statali
Pagano gli statali. Tagli per 25 miliardi
Tagli nel pubblico: blocco degli stipendi, ferie coatte e stop ai concorsi
Via il 10% dei dipendenti e il 20% dei dirigenti. Sanità: i posti letto calano del 10%
Sindacati sul piede di guerra: così lo sciopero sarà inevitabile
Il Pd: il governo ci ascolti, niente forbici sul sociale
di Bianca Di Giovanni


Il governo non scopre le cifre: non lo fa con i presidenti di Regione e i sindaci e tantomeno con i sindacati. Ma i numeri ci sono, e sono pesantissimi: 25 miliardi da reperire da oggi al 2014. Tutto sulle spalle di dipendenti pubblici, delle amministrazioni centrali e periferiche, e della spesa sanitaria.
Sulla revisione della spesa il governo non scopre le cifre con i presidenti di Regioni e Province e con i sindaci, e tantomeno con i rappresentanti sindacali. Ma i numeri ci sono eccome, e sono pesantissimi: 25 miliardi da reperire da oggi al 2014. Tutto sulle spalle di dipendenti pubblici, delle amministrazioni centrali e periferiche, e della spesa sanitaria. All’inizio del lavoro Piero Giarda non aveva superato la soglia di 17 miliardi nel triennio, ma il terremoto, la questione esodati e l’andamento degli spread hanno imposto un intervento più pesante. Anche se Mario Monti insiste: «non è una manovra, ma un’operazione strutturale. Siamo contrari a tagli lineari fatti con l’accetta». Ma sul tavolo a Palazzo Chigi non si visto nessun piano analitico, il «bisturi» che il premier ha promesso di utilizzare non si è visto. Cosa che ha fatto balzare sulle barricate sia i sindacati che gli amministratori locali.
Sta di fatto che dal blocco di stipendi dei dipendenti pubblici (che non sembrano «sprechi»), da prepensionamenti e mobilità per il 20% dei dirigenti e il 10% dei dipendenti, la riduzione dei permessi sindacali del 10% per gli statali a partire da gennaio del 2013, dal taglio dei fondi per la sanità (già decurtati di 8 miliardi in tre anni) si dovranno reperire le risorse per evitare l’aumento dell’Iva, salvaguardare gli esodati e affrontare l’emergenza terremoto. Per il solo 2012 si punta a recuperare circa 8 miliardi. Monti avrebbe riferito alle parti sociali che per ora si troveranno le risorse per evitare l’Iva soltanto del 2012 (4,2 miliardi), per il 2013 si vedrà. Il decreto è atteso per venerdì: in tempo per presentarsi di nuovo a Bruxelles con i conti a posto, nel momento in cui si scriveranno le regole tecniche del fondo salva-spread. L’intervento fa parte di un piano in tre mosse. La prima è già stata varata con il decreto limitato al ministero dell’Economia, che contiene anche indicazioni sulla razionalizzazione delle società degli enti locali. Il secondo step avverrà in questa settimana, con l’intervento sui pubblici e sulla sanità, mentre l’ultimo gradino arriverà a fine luglio, e riguarderà l’accorpamento dei piccoli Comuni e la riorganizzazione delle Province. L’Anci ha fatto richiesta di anticipare la manovra sui piccoli Comuni, perché a fine luglio sarebbe troppo tardi per modificare l’articolo 16 del Salva-Italia sull’unione dei centri sotto i mille abitanti. In ottobre, poi, arriverà la legge di Stabilità: in quella sede si dovrebbero reperire ulteriori risorse per evitare l’aumento dell’Iva, anche parziale, dal 2013.
PUBBLICI
Il pubblico impiego è un territorio minato per il governo. Il ministro Filippo Patroni Griffi ha assicurato che si procederà alla riduzione del personale della Pubblica Amministrazione solo dopo «la verifica delle piante organiche e solo dopo sarà possibile selezionare e modulare l’intervento di riduzione attraverso la mobilità di due anni». Insomma, il governo non agirà unilateralmente. Ma da ora a fine settimana i tempi sembrano davvero stretti per sperare in un’intesa. Vero è che il ministro indica tempi più lunghi. Per lui la deadline è ottobre, quando l’intera organizzazione del personale verrà rivista. l’intervento dovrebbe riguardare circa 2,2 milioni di lavoratori, visto che la scula sembra esclusa. In sostanza si studieranno accorpamenti e possibili trasferimenti di personale. Solo dopo si procederà all’effettiva quantificazione di esuberi reali (quel 10% si riferisce alla pianta organica sulla carta). Per le eccedenze si profilerebbero due percorsi: il pensionamento con i vecchi requisiti del contributivo per chi è vicino alla pensione (ma il Tfr sarà versato solo quando si saranno raggiunti i requisiti previsti dalla riforma Fornero), e per gli altri la mobilità, che vuol dire due anni con una riduzione dello stipendio all’80%. I sindacati hanno sollevato da subito una questione di diritto. Nella stessa platea di lavoratori, magari con la stessa anzianità contributiva e la stessa età anagrafica, si profilerebbero così due diversi trattamenti: chi è individuato come esubero avrà la pensione (magari non volendo andarci), gli altri saranno costretti a restare al lavoro con le nuove regole.
SANITÀ
Ancora da definire il pacchetto sanità. Il piano elaborato da Renato Balduzzi (senza interventi sui servizi) prevedeva risparmi di 1 miliardo per quest’anno e di due per ciascuno dei prossimi due anni (5 miliardi in totale). Con l’aumento della manovra complessiva, sicuramente il taglio lieviterà almeno a 3 miliardi per ciascun anno (totale 8 miliardi). Secondo una bozza circolata in serata, ma non confermata dal ministero, si sarebbe pensando a un taglio di circa 30mila posti letto, con la chiusura dei piccoli ospedali. Il piano Bondi poi dovrebbe consentire acquisti più vantaggiosi, soprattutto sulla logistica (pasti, lenzuola, ecc). Ci si sarebbe presi una pausa di riflessione sul fronte dei farmaci, dopo la levata di scudi di farmacie e case produttrici. Ma sul fronte delle spese sanitarie è ancora nebbia fitta: è possibile che anche sui vecchi tagli vengano fatte delle revisioni. Una cosa è certa: i presidenti di Regione hanno fatto barricate. «Dicano chiaramente che vogliono ridurre i livelli essenziali di assistenza (lea)», dichiara all’uscita di Palazzo Chigi Roberto Formigoni. «Nessuno toccherà i lea», fanno sapere dal ministero di Balduzzi. Oggi è in programma il primo incontro ministro-Regioni.

l’Unità 4.7.12
Si toglie all’università e si dà alle scuole private
Sacrifici per i pubblici: stipendi bloccati fino al 2014
30mila posti in meno negli ospedali
di La. Ma.


Ecco le principali misure previste dalla bozza sulla spending review. Blocco degli stipendi: per due anni, dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2014, lo stipendio dei dipendenti delle società pubbliche non potrà superare quello del 2011. Ridotte le assunzioni: le «facoltà assunzionali» sono ridotte al 20% per tutte le amministrazioni nel triennio 2012-2014, del 50% nel 2015 e del 100% a decorrere dal 2016. Sono anche sospesi i concorsi per l’accesso alla prima fascia dirigenziale, non oltre il 31 dicembre 2015. Pianta organica ridotta: estensione a tutte le amministrazioni pubbliche della riduzione delle piante organiche attraverso un taglio del personale del 10% per i dipendenti e del 20% per i dirigenti. E, tra le ipotesi formulate dal governo, anche l’eventualità di derogare dalla riforma Fornero sulle pensioni mandando in pensionamento anticipato obbligatorio i dipendenti e i dirigenti che abbiano realizzato i requisiti previsti dalle vecchie regole, entro il 31 dicembre 2013. Riduzione dei permessi sindacali del 10% a partire da gennaio 2013. Ferie obbligatorie per una settimana a Ferragosto, Natale e Capodanno. Sarà vietato monetizzare su ferie, riposi e permessi non goduti. Buoni pasto: non potranno superare i 7 euro, a partire dal 1 ottobre. Fondi Università: 200 milioni in meno dal 2013. Fondi alle scuole non statali: arrivano fondi per 200 milioni. Riduzione delle Province entro 20 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto. La redistribuzione degli obiettivi del patto di stabilità interno tra gli enti «è operata a invarianza del contributo complessivo». Meno risorse alle Regioni: ridotte di 700 milioni per il 2012 e di 1 miliardo a decorrere dal 2013. Esodati: salvati altri 55mila rispetto ai 65mila già interessati. Riduzione compensi Caf: il compenso scende a 13 euro per ciascuna dichiarazione elaborata e trasmessa e a 24 euro per l’elaborazione e la trasmissione delle dichiarazioni in forma congiunta. Il decreto riduce anche del 10% i trasferimenti a favore dei patronati. Uso gratuito beni pubblici per lo Stato di beni di proprietà degli enti territoriali e viceversa. Blocco delle tariffe fino al 31 dicembre 2013. Dimezzata spesa auto blu nel 2013 rispetto al 2011. Presidenza del Consiglio: si annuncia un taglio per 15 milioni al 2013, 5 dei quali già quest’anno, 10 il prossimo. Sanità: 30mila posti letto in meno in ospedale, con un rapporto di 3,7 posti letto per mille abitanti contro gli attuali 4,2. In sostanza, i posti letto passeranno da 252mila a 222mila. Taglio del 5% per l’acquisto di beni e servizi. Fondo sanitario: tre miliardi in meno in due anni, un miliardo per il 2012 e due per il 2013. Farmacie: l’ulteriore sconto dovuto dalle farmacie convenzionate è rideterminato al valore del 3,65% (fino al 31 dicembreal 6,5%). Per il 2012 l’onere a carico del Servizio sanitario nazionale per l’assistenza farmaceutica territoriale è rideterminato nella misura del 13,1%. Mentre dal 2013 questo stesso tetto è ulteriormente abbassato all’11,5%. A decorrere dal 2013, «gli eventuali importi derivanti dalla procedura di ripiano sono assegnati alle Regioni, per il 25%, in proporzione allo sforamento del tetto registrato nelle singole Regioni e, per il residuo 75%, in base alla quota di accesso delle singole Regioni al riparto della quota indistinta delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale». Radio e Tv locali: contributi ridotti di 30 milioni a decorrere dal 2013. Missioni di pace: meno 8,9 milioni già per quest’anno. Polizia: i dipendenti delle forze di polizia di età inferiore a 32 anni, salvo casi eccezionali, devono essere utilizzati a servizi operativi. Nell’ambito della riduzione delle spese per il personale (articolo 14), «le strutture interessate dalla limitazione delle assunzioni previste adottano misure per destinare a servizi operativi un numero di unità di personale non inferiore a quello corrispondente alle minori assunzioni da esso derivanti». Liquidatori: i commissari liquidatori di enti pubblici potranno avere un incarico non superiore ai 3 anni, che potrà essere prorogato una sola volta per un periodo massimo di 2 anni, quindi per complessivi 5 anni. Uranio impoverito: viene dimezzato il fondo per le vittime dell’uranio impoverito, meno 10 milioni per il 2012. In origine il fondo era superiore ai 21 milioni di euro, di cui 9 già erogati, su oltre 600 domande di risarcimento da parte dei familiari di militari e civili impegnati nelle missioni italiane ammalati o morti per gli effetti letali dell’uranio impoverito. Strade sicure: per l’operazione «strade sicure» autorizzata la spesa di 72,8 milioni nel 2013. Autotrasporto: per il settore vengono destinati 200 milioni per il 2013. Enti: riorganizzati Cnr, Infn e Ingv, cancellati altri istituti. Sono soppressi l’Istituto nazionale di ricerca metrologica, la Stazione zoologica Anton Dohrn, l’Istituto italiano di studi germanici e l’Istituto nazionale di alta matematica. Sopresso anche l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, quello di astrofisica e il Museo storico della fisica e centro di studi e ricerche «Enrico Fermi».

il Fatto 4.7.12
Palazzo Chigi non si tocca
Un “taglietto” da 15 milioni in due anni E le auto blu restano quelle di quando c’era B.
di Eduardo Di Blasi


 C’è un’unica voce, nella bozza circolata ieri sulla spending review, che riguarda direttamente Palazzo Chigi. È la diminuzione, di 5 milioni nel 2012 e di 10 per il 2013 del “fondo di funzionamento” della Presidenza del Consiglio. Una miseria se pensiamo che, quando al governo c’erano i berlusconi, i brunetta e le brambille, quel fondo lievitò in un solo anno da una previsione di 363 milioni di euro a un consolidato quasi doppio di 616. Per “pesare” la misura basti pensare che solo sul capitolo “auto blu” il palazzo di governo segna in un anno la cifra di 9 milioni di euro, e nulla è cambiato nemmeno con le “severe” norme varate da Brunetta. Come prima, infatti, i capi dipartimento della Presidenza dispongono di due autisti dedicati e di una macchina. L’unica differenza formale è che l’auto è in capo al dipartimento e non più al dirigente. È per l’appunto una formalità. Oggi come allora infatti, quell’automobile serve che è a capo del dipartimento.
NON È L’UNICA anomalia di una macchina che non riesce a riformare sè stessa. Bruno Stramaccioni, sindacalista Usb a Palazzo Chigi, ne cita diverse altre: “Hanno esternalizzato i servizi informatici. Sa quanto costano? Undici milioni di euro nel triennio. Hanno azzerato un comparto che funzionava, con professionalità che si erano formate con anni di lavoro, per fare cosa? Per darlo alla Selex? ”.
Il problema delle auto blu, poi, è strettamente connesso alla presenza di forze di polizia all’interno del Palazzo. All’ultimo censimento ce n’erano oltre 500 sui circa 4100 impiegati della Presidenza. “Tra questi 259 - spiega Stramaccioni - scadevano al 30 giugno. A quella data sarebbero dovuti tornare nelle loro amministrazioni di provenienza: polizia, gdf, penitenziaria. Il dipartimento invece ha chiesto la proroga per tutti. Resteranno qui: a guidare le auto, a vigilare sull’ufficio passi, ma anche a stare negli uffici, cosa che non dovrebbero poter fare”. Pazienza. Tutto resta immobile nei corridoi del Palazzo.
Ricordate la struttura di missione per i 150 anni dell’Unità d’Italia? A un anno dalla sua scadenza naturale, è ancora lì. A guidarla è sempre Giancarlo Bravi, pensionato da diversi anni, rimasto in Presidenza con una consulenza. Anche questa struttura di missione dovrebbe andare a scadenza, ma pare già pronta la soluzione: verrà trasformata in una struttura di missione per gli Eventi. Niente taglio.
A fronte di spese che continuano ad essere fuori controllo, di dirigenti arrivati per diretta collaborazione di politici, e poi rimasti, senza nè arte nè parte, nei posti direttivi dell’amministrazione di governo (o anche a non far niente), tra i dipendenti serpeggia il malumore. “Vogliono mandare a casa il 10% dei dipendenti della pubblica amministrazione? Inizino da questi raccomandati che ricoprono posti di responsabilità senza aver sostenuto concorsi e senza titoli adeguati”.
NEI MEANDRI di questa amministrazione pietrificata ci sono anche due curiosità. La prima: Mario Monti non ha compiuto nessun atto formale per rinunciare al proprio compenso (ovviamente non l’ha ritirato e non lo farà, ma non c’è nessuna regola perchè non lo faccia in futuro). La seconda: il ministro Moavero non ha dato i propri ferimenti bancari all’ufficio del Personale. È lì da mesi ma non sanno come pagarlo.

il Fatto 4.7.12
“Così Intesa ha aggirato il fisco”
Le carte dell’inchiesta in cui è coinvolto il ministro Passera
di Luigi Franco e Vittorio Malagutti


A chi non piacerebbe comprare un titolo che rende il 33 per cento l’anno? Altro che Bot, altro che Btp. Un’obbligazione sicura, sicurissima. Investite diecimila euro e dopo quattro mesi (quattro!) ve ne tornano indietro più di 11 mila. Fantastico. Nel 2006, Banca Intesa ha comprato 300 milioni di questi titoli miracolosi. Complimenti. Particolare importante, il gruppo bancario milanese ha prontamente restituito i ricavi dell’operazione alla controparte che l’aveva proposta. Insomma, al venditore, che nel caso in questione era l’istituto svizzero Credit Suisse, tramite una propria controllata con sede in Inghilterra.
Come si spiega questo affare in apparenza illogico? Semplice, la compravendita di titoli aveva un solo scopo. Quello di creare un flusso di interessi sul quale Banca Intesa potesse ricavare un credito d’imposta. Insomma, tutto quel giro di soldi non ha nessuna giustificazione economica. È un’impalcatura costruita con l’unico obiettivo di ottenere dei vantaggi fiscali. In estrema sintesi: la banca realizza un profitto milionario e a pagare il conto sono le casse pubbliche.
PARTE DA QUI, da questo gioco di sponda tra Intesa e il Credit Suisse l’indagine che vede tra gli indagati anche Passera, nel frattempo passato dalla poltrona di numero uno del gruppo creditizio milanese a quella di ministro dello Sviluppo. L’inchiesta è stata aperta a Biella perché all’operazione ha partecipato una pattuglia di banche controllate da Intesa. Ognuna si è presa una fetta del profitto complessivo. Tra gli istituti coinvolti compare, appunto, anche Biverbanca, che ha sede a Biella e fino al giugno del 2007 faceva capo alla banca allora guidata da Passera.
Non finisce qui, perché secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano all’operazione con il Credit Suisse, o ad altri affari simili a quello, hanno partecipato anche la Banca di Trento e Bolzano, la Popolare Friuladria, la Cassa di risparmio di terni, quella Ascoli Piceno, quella di Rieti e infine la Cassa di Spoleto e quella Parma e Piacenza. All’epoca dei fatti, cioè la seconda metà del 2006, tutti questi istituti dipendevano da Intesa.
A proposito dell’inchiesta penale ieri il procuratore capo di Biella, Giorgio Reposo, ha voluto confermare l’ovvio con un comunicato in cui afferma testualmente che “l'iscrizione del dottor Passera nel registro degli indagati costituiva un atto dovuto, anche a garanzia dell'interessato”. In effetti il fascicolo aperto a Biella nasce nel 2011 da una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate e adesso tocca ai magistrati stabilire se gli atti compiuti dal ministro allora top manager hanno una qualche rilevanza penale. Passera infatti è indagato per aver firmato la dichiarazione fiscale della banca. Niente di più, al momento, mentre proseguono le indagini dei pm piemontesi, che hanno ottenuto una proroga di sei mesi.
Il fatto certo, al momento, è un altro. E cioè che negli anni scorsi alcuni istituti di credito, con Intesa in prima linea, hanno comprato a piene mani quelli che in gergo vengono definiti tax product. Ovvero prodotti finanziari che “sono concepiti per il fine esclusivo di ottenere benefici fiscali abusivi o illeciti a favore di soggetti residenti in Italia”. Questo è quanto si legge nel processo verbale di constatazione nei confronti di Banca Intesa redatto nel giugno 2011 dal Nucleo di polizia tributaria di Milano.
Secondo l’Agenzia delle Entrate le obbligazioni ad alto rendimento emesse dalla società inglese La Defense II plc, controllata dal Credit Suisse, altro non erano che tax product. Intesa le ha sottoscritte perché grazie a un complicato meccanismo finanziario (in pratica un pronti contro termine) hanno garantito alla banca un credito d’imposta milionario.
SECONDO la ricostruzione della Guardia di Finanza l’operazione con il Credit Suisse avrebbe fruttato 6,4 milioni, pari a un rendimento del 5,5 per cento su base annua. Mica male, se si pensa che quei 300 milioni di euro altro non erano che un investimento virtuale, visto che il rimborso integrale del denaro da parte della controparte, cioè il Credit Suisse, era garantito da un contratto parallelo.
Tutto regolare, tutto secondo la legge, è tornata a ribadire ieri in una nota Banca Intesa. E se nei mesi scorsi l’istituto ha preferito arrivare a una transazione milionaria con l’Agenzia delle Entrate è solo per l’inopportunità di “coltivare procedure contenziose defatiganti ed onerose”. Insomma, meglio chiudere in fretta la questione. Nella speranza, forse, che non se ne parlasse troppo in giro.

Corriere 4.7.12
E Brunetta a sorpresa bacia premier e ministro


Mario Monti questa volta è rimasto un po' spiazzato. Arriva alla Camera con Elsa Fornero, reduce dalla maratona della spending review con i sindacati e gli enti locali, e viene subito fermato da un ex ministro del governo Berlusconi che non può certo essere annoverato tra i fan del presidente del Consiglio. A sorpresa Renato Brunetta si avvicina alla coppia puntando proprio sul premier. Prima gli tende la mano, poi, non soddisfatto del gesto formale, prende l'iniziativa e, di slancio, lo bacia sulle due guance. E lo stesso trattamento viene riservato ad Elsa Fornero, nonostante il «no» che ha riservato alla fiducia sul ddl lavoro. Il ministro del Welfare accetta di buon grado, in attesa che venga messa ai voti questa mattina la sfiducia, presentata da Lega e Idv. Dove l'esito (a favore di Fornero) appare scontato, ma dove sarà interessante annotare i distinguo e le eventuali assenze.

La Stampa 4.7.12
Sui sacrifici l’Italia non può tirare ancora la corda
di Marcello Sorgi


Mario Monti potrà dire oggi ad Angela Merkel che più di così, per stare al passo con l’Europa, l’Italia proprio non può fare. Contestata in Germania, dove la Csu è arrivata a minacciare la crisi di governo in caso di nuovi cedimenti nei confronti dei partners deboli dell’Unione, la Cancelliera tedesca arriva a Roma con la chiara intenzione di riequilibrare le conclusioni del vertice della scorsa settimana. Va in questa direzione l’appoggio espresso ieri alle riserve maturate da Olanda e Finlandia sul fondo salvaspread uscito da Bruxelles su proposta di Monti. Ma la vigilia dell’incontro sembrava fatta apposta per far dire al premier che l’Italia sta facendo di tutto per mantenere gli impegni di risanamento presi con la Ue, ma anche che la corda non può essere tirata più di tanto.
Più o meno con queste parole ieri Monti s’è presentato al Senato e ai sindacati, per fare il punto sulla situazione ed annunciare - ma senza alcuna possibilità di negoziare - i prossimi due decreti sulla spending review, una manovra da 4,2 miliardi volta ad evitare l’aumento di due punti dell’Iva che si profila ad ottobre e a finanziare gli aiuti ai terremotati e la soluzione del problema degli esodati. Le durissime dichiarazioni dei tre leader sindacali, Camusso, Bonanni e Angeletti, ormai chiaramente orientati a uno sciopero generale contro i tagli al pubblico impiego, lo hanno lasciato impassibile. Qualche aggiustamento invece richiederà, in vista del prossimo consiglio dei ministri di fine settimana, la maggioranza, da cui continuano a levarsi mugugni simmetrici di Pd e Pdl.
Poichè il piano del governo prevede circa centomila posti in meno nell’apparato pubblico entro il 2014 e un taglio consistente a cominciare da subito, è logico che i partiti si preoccupino delle possibili conseguenze elettorali di un provvedimento del genere, e tentino almeno di ottenerne un qualche ridimensionamento, o uno scaglionamento che tenga conto della scadenza delle politiche nella prossima primavera. Che la data delle elezioni sia ormai con certezza quella del 2013, Monti lo ha ribadito in un inciso del suo intervento al Senato, senza peraltro sollevare alcuna reazione. Stretti come sono tra il rischio che un nuovo aumento dell’Iva colpisca indiscriminatamente anche le famiglie più deboli e quello che il nuovo piano di tagli alla spesa intervenga su categorie sensibili da un punto di vista elettorale, i partiti della maggioranza hanno intanto messo in pratica, votandolo nuovamente in Parlamento, il dimezzamento della rata dei rimborsi elettorali in pagamento a luglio.

Repubblica 4.7.12
Il leader Cgil Camusso: “Sarà inevitabile che si passi dalla mobilitazione alla piazza”
“Così Monti ci fa sprofondare questo è un attacco ai lavoratori”
Intervista di Roberto Mania


ROMA — «Vedremo quale sarà il decreto che il governo approverà. Ma se saranno confermate le cose che ci hanno detto a Palazzo Chigi sarà inevitabile che si passi dalla mobilitazione allo sciopero». Susanna Camusso, leader della Cgil, ha appena terminato l’incontro con il governo sulla spending review. Aveva chiesto all’esecutivo di non «gettare benzina sul fuoco». Ma non
sembra abbia avuto ascolto.
Delusa o arrabbiata?
«Tutte e due non si può? Sono delusa per il fatto che dal governo ci sia stata un’informativa reticente e criptica. Non ci è stata fornita nemmeno l’entità del decreto. E in più c’è un metodo inaccettabile: si esaurisce tutto in queste informazioni senza alcun confronto sulle conseguenze per i lavoratori. C’è una progressiva riduzione del ruolo delle parti sociali».
Un governo tecnico non ha bisogno di mediare tra gli interessi in campo. Lo ha detto più volte il premier Monti.
«Il risultato è che da mesi inseguiamo i problemi che via via vengono creati dal governo. Alla prova dei fatti questo è un metodo fallimentare. Pensi solo agli esodati. E sono arrabbiata perché noi il 3 maggio scorso abbiamo firmato un accordo con il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi che doveva essere propedeutico all’approvazione di una delega per la riorganizzazione della pubblica amministrazione. Che fine ha fatto quell’accordo? Perché il governo non dà seguito a quegli impegni?».
Lo sa anche lei: c’è una divisione tra Patroni Griffi e la Fornero sull’estensione del nuovo articolo 18 al pubblico impiego.
«L’accordo che abbiamo firmato è molto più ambizioso: non si può ridurre tutto alla volontà di licenziare di qualche ministro».
Il governo ha detto che prima dei tagli agli organici si passerà alla ridefinizione delle cosiddette piante organiche degli uffici pubblici. Non è una garanzia?
«Ma se l’unica cosa che ci hanno detto è che taglieranno del 20% i dirigenti, ma solo quelli a concorso e non quelli a chiamata decisi dalla politica, e del 10 % gli impiegati! Questi non sono altro che tagli lineari, non hanno niente a che vedere con una spesa pubblica più efficiente e di maggiore qualità. Ma si può tagliare allo stesso modo i dipendenti del ministero dell’Economia, i vigili del fuoco, gli infermieri di un ospedale o i poliziotti?».
Avrebbe preferito l’aumento dell’Iva?
«Abbiamo sempre detto no all’aumento dell’Iva perché si traduce in una compressione dei consumi e in una riduzione di fatto del reddito disponibile. E meno consumi vogliono dire meno produzione e dunque aziende che chiudono e lavoratori che perdono il posto».
Avete ingoiato il rospo delle pensioni e ora siete pronti allo scioperare perché viene toccato il pubblico impiego, dove c’è il più alto tasso di sindacalizzazione. Non è una contraddizione?
«Non può dirlo certo alla Cgil. Noi scioperammo in un clima di isolamento anche contro la riforma delle pensioni. Dicemmo che sarebbe scoppiato il caso degli esodati. Scioperammo, da soli, anche contro il blocco della contrattazione decisa da Berlusconi.
C’è continuità, non contraddizione nella nostra azione. Abbiamo sempre cercato di contrastare le politiche che scaricano tutti i sacrifici sui lavoratori e che alimentano la spirale recessiva».
Sta dicendo che Monti anziché tirarci fuori dalla crisi ci sta facendo sprofondare in una recessione più profonda?
«La sola logica del rigore porta a questi effetti».
Monti si è battuto per la crescita a Bruxelles.
«Ecco, nelle politiche nazionali non ritrovo la stessa fermezza con cui Monti, grazie soprattutto all’arrivo di Hollande in Francia, ha contrastato le misure di austerity senza crescita. Questa, piuttosto, mi pare una contraddizione».
Ma come si fa a difendere la pubblica amministrazione italiana?
«E chi la difende? Siamo i primi a dire che si deve tagliare».
Dove?
«Tutte le consulenze, per esempio. Valgono 1,5 miliardi. Si possono dichiarare esuberi e poi rivolgersi ai consulenti?».
Altro?
«Abolire le società controllate al 100% dagli enti locali e che non forniscono servizi ai cittadini. Sono solo poltrone in meno per la politica».

l’Unità 4.7.12
Pd: no scure sociale Il Pdl a Monti: ignori i sindacati
I democratici: «Questa volta è meglio che il governo ci ascolti»
La destra allineata alle posizioni più dure
di Giuseppe Vittori


Non sono soltanto i sindacati a essere preoccupati dai contorni della «spending review» voluta dal governo Monti. Per il Partito democratico le prime ragioni di preoccupazione si chiamano «tagli lineari». Un metodo considerato socialmente insostenibile e politicamente inaccettabile, dopo anni di scontri durissimi, proprio su questo, con Giulio Tremonti.
Riorganizzare la spesa va bene, dice il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani, ma sulla sanità «abbiamo già fatto un lavoro significativo e non credo che per il 2012 si possano chiedere ulteriori passi indietro». Pier Luigi Bersani mette le mani avanti sin dalla tarda mattinata. «Non conosco i contenuti di questa operazione dichiara il segretario del Pd durante il “web talk” organizzato da Youdem ma ho chiaro un criterio: sulla spending review sono d’accordo, sui tagli al sociale no. È giusto abbassare i costi di una siringa, ma non accetto che si tagli il posto di un infermiere che fa le punture».
Mario Monti prova a rassicurare tutti, garantendo che non si tratta di una nuova manovra, ma le sue parole incontrano un diffuso scetticismo, e anche qualche ironia, come quella del segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero («Se la spending review non è una manovra allora ha ragione Berlusconi e Ruby è la nipote di Mubarak»). «Se c’è da evitare l’aumento dell’Iva noi siamo d’accordissimo, ma vorremmo discutere nel merito perché siamo un po’ tecnici anche noi», dice Bersani, senza negarsi un riferimento alla vicenda degli esodati, su cui pure, a suo tempo, il Pd aveva proposto una soluzione diversa («Se avessimo fatto come dicevamo noi, oggi non avremmo il problema»).
Ma è anche vero che il sentiero del governo è assai stretto. Stefano Fassina, sul Mattino, avverte che «sul piano macroeconomico i tagli sono recessivi quanto l’aumento dell’Iva», e avverte che per il Pd «un intervento stile Tremonti non va bene», mentre il governo dovrebbe invece «preparare un piano industriale per ogni singola amministrazione». Esattamente quello che vuole fare il governo, assicura il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca: «Ragionare amministrazione per amministrazione, verificando quali sono, in una logica non dissimile da quella del rigore, gli interventi che il governo vuole fare. Di selvaggio non c’è nulla, perché non si andrebbe da nessuna parte».
In compenso, non brilla per civiltà l’intervento alla Camera del dipietrista Francesco Barbato. «A nome dei giovani italiani vi dico che questa maggioranza ha rotto i coglioni», dichiara, guadagnandosi subito l’espulsione da parte del presidente della Camera. «Mi scuso con tutti i colleghi per lo spettacolo indecoroso», dice il suo collega di partito Antonio Borghesi, intervenendo poco dopo. Altrettanto prevedibile l’opposizione della Lega. «Il governo premia le cicale, ma ricordiamoci che anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano», motteggia il presidente del Veneto, Luca Zaia.
Più complicata, come al solito, la posizione del Pdl. Intervistato dal Corriere della Sera, Fabrizio Cicchitto sceglie un tono minaccioso. Se il governo Monti, afferma, è in grado di fare «un intervento efficace sul debito, sulla spesa e quindi sulla riduzione della pressione fiscale», allora «il gioco vale la candela fino al 2013». Altrimenti, «dovremmo fare una riflessione sul rapporto costi e benefici». Ma nel corso della giornata il crescere dell’allarme e delle proteste da parte dei sindacati sembra ricompattare subito il partito.
«Le misure sulla spending review sono sicuramente un primo segnale positivo. Per questo non comprendo la posizione dei sindacati», afferma Maurizio Lupi. «La spending review del governo Monti va nella direzione giusta, quella di uno Stato sano e non sprecone... l’esecutivo non ceda alle pressioni strumentali dei sindacati», afferma la vicecapogruppo Isabella Bertolini. «È bene che Monti segua il percorso appena iniziato senza cedere alle resistenze e ai veti del “partito della spesa pubblica”, che trova autorevoli e numerosi iscritti tra burocrazie di ogni livello e in una certa casta sindacale. Su questa linea il premier potrà contare sull’appoggio del Pdl», assicura Anna Maria Bernini.

l’Unità 4.7.12
Il tradimento del federalismo
Dal federalismo-aziendalista alla manovra anti-Comuni
Oggi domina uno strano statalismo liberista che impone dall’alto l’eutanasia del pubblico
di Michele Prospero


QUESTA SPENDING REVIEW SOMIGLIA SEMPRE DI PIÙ A UNA ENNESIMA MANOVRA ECONOMICA CORRETTIVA. Il nome solo di manovra ci viene risparmiato, forse per incutere meno spavento dinanzi allo spettro di ennesimi sacrifici improduttivi richiesti da sua maestà il rigore. La sostanza purtroppo non cambia. Ed è la prosecuzione di tagli (lineari?) che paiono destinati a incidere sulla qualità dei servizi e quindi sulla vita delle persone.
Le forbici sono ancora una volta lo strumento principale brandito dal governo per affrontare il riordino dei conti pubblici rimasti fuori controllo. Dopo vent’anni di retorica federalista, che innalzava il mito della periferia come l’antidoto più efficace agli sprechi annidati nella grande macchina statale centralista, si scopre che proprio la devoluzione di poteri ai territori rigonfiava la spesa spingendola al di là di ogni possibile contenimento.
Allo Stato nazionale che con politiche pubbliche dà forma inclusiva al territorio, l’asse del nord ha opposto l’immagine del territorio che de-forma lo Stato e sconquassa la cittadinanza. Il risultato perverso non si è fatto attendere: meno diritti, con più spese e più tasse.
Eppure, ben altre erano le promesse del ventennio, la cui ideologia era condita con delle dosi massicce di retorica aziendalista. La ricetta era molto semplice: immettere i codici dorati del mercato nella città, i canoni di comando propri dell’azienda nell’amministrazione, gli stampini della sacra proprietà privata nella sfera pubblica e tutto funzionerà alla perfezione, con costi ridotti e rendimento assicurato. La chiacchiera aziendalista sull’efficienza e l’efficacia degli obiettivi gestionali verificabili, il lessico economicistico che irrompeva nel cuore dell’amministrazione trasferendovi pratiche negoziali o la forma privatistica del contratto, ha prodotto però solo incertezze, irrazionalità, sprechi ulteriori. Il liberismo, promosso come paradigma unico di una governance multilivello situata oltre lo Stato, ha registrato un clamoroso fiasco, di cui poco si parla.
Al di sotto del credo aziendalista, riverito come una nuova divinità, rimaneva in questi anni la realtà frammentata e diversificata che ha accompagnato lo Stato unitario sin dalle origini. E cioè regioni (soprattutto quelle centrali, eredi del grande riformismo sorto all’ombra della subcultura rossa) con una spiccata capacità di governo e di innovazione, malgrado le restrizioni e i tagli, e altre esperienze territoriali invece contrassegnate da sprechi, inefficienze, parassitismi. Il fallimento del miscuglio perverso di federalismo e aziendalismo, che si è rivelato un fattore di irrazionalità e di decrescita, non viene affatto sfiorato dalla spending review, che anzi s’abbatte alla cieca su tutto il comparto pubblico, senza nessuna apprezzabile lettura delle segmentate situazioni concrete. C’è un odio del pubblico che inquieta. Anche la consueta demonizzazione delle società partecipate dai Comuni, denunciate in quanto tali come la spia di chissà quale devianza criminogena, da curare con le nuove ondate di privatizzazioni, appare del tutto incomprensibile. Spesso proprio dalla partecipazione a enti e servizi, i Comuni traggono le risorse minimali oggi necessarie per conservare nei territori le tracce di una antica civiltà di buon governo, preservata miracolosamente da bravi amministratori malgrado la drastica strozzatura delle entrate. Che grazie a una raffica di tagli più o meno lineari nell’intera macchina pubblica si possano risanare i conti e favorire la crescita è soltanto un atto di fede preteso dall’ortodossia liberista ancora imperante.
Oggi domina uno strano statalismo liberista che, in spregio a politiche pubbliche capaci di coesione sociale, conquista il centro del potere e impone con decisioni dall’alto ulteriori dismissioni, tagli, semplificazioni, chiusure, privatizzazioni, dirottamenti di risorse per le grandi banche. Costruire un deserto di diritti di cittadinanza, favorire una eutanasia delle politiche pubbliche e poi confidare nel miracolo della crescita spontanea degli spiriti animali è però una credenza veteroliberista del tutto assurda in tempi di cruda recessione che mostrano come la crisi del mercato non sia meno profonda della crisi dello Stato.
La ripresa economica non può in alcun modo prescindere da una rinnovata stagione del pubblico (inteso alla maniera di oggi: non solo Stato, ma enti territoriali molteplici, settori di società civile). Essa non può quindi che partire dai livelli più vicini alle inquietudini e ai bisogni dei cittadini, cioè dalle autonomie locali che devono partecipare alla gestione di grandi obiettivi pubblici condivisi.
E se, per la crescita, invece delle cieche forbici alla Tremonti, che in realtà ci vedono bene perché spostano la domanda sociale dai beni pubblici ai beni privati, si usasse per una volta un po’ di sana cultura delle istituzioni democratiche?

Repubblica 4.7.12
I sindacati pronti allo sciopero generale. Bersani: non si tagliano i posti di lavoro
Protestano le regioni. Il premier: avanti fino al 2013. Le parti sociali
di Roberto Petrini


ROMA — «Preoccupazione», da parte delle Regioni. «A rischio i servizi dei cittadini, dalla sanità al trasporto locale», hanno detto all’unisono i governatori, da Errani, a Formigoni, da Zaia a Polverini. Stesso sentimento da parte dei Comuni: «Giudizio molto negativo», ha detto il presidente dell’Anci Graziano Delrio. Usciti dal vertice di un’ora e mezzo con il presidente del Consiglio, Monti affiancato da Grilli, Passera, Balduzzi, Giarda e Bondi sia i Comuni che le Regioni protestano perché non hanno avuto dati definitivi e certezze.
La spending review non è piaciuta nemmeno ai sindacati che, sulla base delle indiscrezioni della vigilia, avevano già minacciato lo sciopero generale. I toni tuttavia sono meno ultimativi, ma resta la sostanza di una «insoddisfazione» palese soprattutto per le misure sugli statali e sulla sanità: «Il giudizio è sospeso, sullo sciopero generale ancora non abbiamo deciso. Siamo comunque contrari ai tagli al pubblico impiego, serve concertazione con le parti sociali», ha detto il segretario della Cisl Bonanni dopo il vertice di Palazzo Chigi. «È un buffetto sui costi della politica euna stangata per gli impiegati», ha detto il leader della Uil Angeletti. «Rimane lo stato di mobilitazione», conferma Susanna Camusso, segretario della Cgil. Mentre sul piede di guerra sono le rappresentanze del pubblico impiego, della scuola e dell’università di tutti i sindacati.
La manovra, che dovrebbe essere varata venerdì, si aggirerà per quest’anno sui 5-6 miliardi (il doppio per il prossimo e il successivo), si incentrerà su pubblico impiego e sanità ma le limature delle ultime ore sembrano avere circoscritto gli aspetti più temuti. L’ipotesi di mandare in pensione i 10 mila esuberi degli statali con le vecchie regole pre-Fornero in cambio di un congelamento dei Tfr continuerebbe ad essere il punto più avanzato di mediazione in un settore che dovrebbe dare circa 1,2 miliardi. La sanità continuerebbe ad essere colpita per circa 2 miliardi, ma non gli 8 ventilati nei giorni scorsi. Resterebbe il taglio delle 40-50 province in grado di dare 1,2 miliardi e il ridimensionamento dei fondi di riequilibrio territoriali dei Comuni in grado di fornire almeno un paio di miliardi. Manovra dura, ma data le necessità inevitabile: servono i 4,2 miliardi per evitare l’Iva, un miliardo per l’Emilia e 700 milioni per le missioni. Resta appeso l’intervento sulle tariffe (nero su bianco sulla bozza circolata ieri) al quale si è opposto Passera ma viene ritenuto una carta «concertativa» in
grado di far digerire ai sindacati un punto di Iva in più per il prossimo anno.
Lo stesso Monti ha rassicurato le parti sociali: «Siamo contrari a tagli lineari fatti con l’accetta», ha detto durante la riunione di ieri e ha aggiunto che non si tratta di una «manovra» ma di una «operazione strutturale». Intervenendo in Parlamento il presidente del Consiglio si è mostrato fiducioso: «Nei pochi mesi, intendo dire fino alla primavera del 2013, che il governo ha ancora davanti ci vedrete spesso interagire tra il fronte italiano e quello europeo, speriamo con una serenità sempre maggiore».
Toni cauti anche da parte del ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca: «La strada del governo non è quella dei tagli, ma dell’efficientamento della spesa». Anche Mr. Forbici, Enrico Bondi, ha cercato espressioni rassicuranti: «Vogliamo fare di più con meno spesa», ha detto nel corso dei vertici di Palazzo Chigi».
Sul fronte politico insiste ancora il leader del Pd sulla necessità di un incontro con il governo per «discutere nel merito». «Sulla spending review sono d’accordo - ha detto Bersani - ma sui tagli sociali no. È giusto abbassare il costo di una siringa, ma se si taglia il posto di lavoro di un infermiere allora sono contrario».
Intanto anche la Camera ha portato a termine il suo lavoro sulla spending review: ieri Montecitorio ha dato il semaforo verde alla conversione in legge del decreto che istituisce il meccanismo anti-sprechi che scadrà il 7 luglio. Il provvedimento, che ora torna in Senato per il via libera definitivo, ha avuto 387 i voti favorevoli, 20 contrari, 47 gli astenuti.

l’Unità 4.7.12
Bersani: il mio governo farà cose nuove e diverse
Unioni civili: «Necessario dare una risposta legislativa alle convivenze stabili tra omosessuali»
Temi etici: «Anche le diverse sensibilità laiche e cattoliche possono incontrarsi»
Il segretario alla web-talk: «Il prossimo esecutivo sarà in continuità con il meglio di Monti»
Al Financial Times: «Contrapporre il dialogo sociale alle decisioni è un errore tecnico»
«Del centrosinistra difficilmente può far parte chi, come Di Pietro, tutti
i giorni ci azzanna»
di Simone Collini


«Il governo prossimo sarà in continuità con il meglio del governo Monti, ma dovrà anche fare delle cose nuove, avendo una maggioranza solida politicamente». Pier Luigi Bersani sorride di fronte alla «capacità di metterci in dibattiti metafisici eccezionali». Tipo quello sulla auspicabile (vedi Enrico Letta) o impensabile (vedi Stefano Fassina) continuità tra questo esecutivo e un eventuale governo Bersani. Il leader del Pd però, rispondendo a un gruppo di blogger che lo intervista on-line a Web Talk (trasmesso su Youdem), approfitta della domanda per lanciare un paio di messaggi: alcuni rassicuranti, all’indirizzo di un elettorato che alle volte fatica ad orientarsi nella selva di dichiarazioni su come dovrà essere il post-Monti, altri utili a mo’ di sollecito per un governo che deve tener conto delle posizioni delle parti sociali, e altri ancora ad uso e consumo di chi sostiene che con la sinistra al governo non si potranno approvare le riforme utili al Paese.
«Il prossimo sarà un governo in continuità con il meglio del governo Monti,ma dovrà fare anche cose nuove e diverse, avendo una maggioranza solida e univoca dal punto di vista politico», dice allora prima di tutto Bersani ricordando la compagine anomala che oggi sostiene l’esecutivo e il fatto che il Pd non abbia la maggioranza in questo Parlamento: «Siamo lì che tutti i momenti, essendo leali verso un governo di transizione, cerchiamo di portare a casa qualcosa come lo vogliamo noi. Ma quel che pensiamo noi non è esattamente quel che vediamo adesso, anche se vedo qualcosa di quel che faremmo anche noi».
Il discorso riguarda i contenuti, perché Bersani ha già avuto modo di dire che se non si farà ora, per esempio, sarà il prossimo governo ad abbassare l’Imu e a inserire un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari. Ma riguarda anche le modalità con cui si deve arrivare alla definizione delle misure da approvare per affrontare le questioni economiche e sociali.
«Il dialogo sociale non impedisce le decisioni», dice Bersani giusto nelle stesse ore in cui a Palazzo Chigi si svolge un difficile confronto tra governo e sindacati e enti locali sulla spending review. Un messaggio all’esecutivo ma anche a chi, dentro e fuori i nostri confini, inizia a sostenere la tesi che il centrosinistra potrà anche vincere le prossime elezioni ma non avrà la capacità di approvare le riforme necessarie al Paese.
DIALOGO SOCIALE E DECISIONI
Lo ha fatto il “Financial Times”, e la cosa non è affatto piaciuta a Bersani. «Io rispondo coi fatti. Se oggi ci sono dei privati sui binari, se noi abbiamo fatto lo spezzatino dell’Enel, se abbiamo liberalizzato le licenze del piccolo commercio, si è fatto con uno che si chiama Bersani e che parlava ogni giorno con i sindacati», dice il leader del Pd ricordando le misure adottate quando era ministro di un governo di centrosinistra. «Contrapporre il dialogo sociale alle decisioni è un errore tecnico perché senza dialogo sociale le decisioni possono paralizzarsi, anche perché senza il confronto con i grandi soggetti sociali le piccole lobby possono prevalere». Insomma, «i fatti» per rispondere alle perplessità dei commentatori italiani e stranieri e l’assi-
curazione alle parti sociali che se dovesse toccare a lui guidare il prossimo esecutivo il dilalogo con i sindacati non si chiuderebbe. Anche se, precisa Bersani, questo «naturalmente non significa essere in coda di un processo, e significa invece essere in testa e sapere dove si vuole andare. Tutto il resto sono luoghi comuni».
LEGGE SULLE UNIONI DI FATTO
Tra le «cose nuove» che Bersani è convinto di poter approvare nel dopo-Monti, con il sostegno di un «centrosinistra di governo» (di cui difficilmente può far parte chi, come Antonio Di Pietro, «tutti i giorni ci azzanna o ci insulta») c’è una normativa per regolare le unioni di fatto, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. «Le convivenze stabili tra omossessuali bisogna che trovino una risposta scegliendo al meglio nella legislazione europea», dice facendo riferimento alle normative esistenti in Inghilterra, Francia e Germania. «Bisogna che lo risolviamo questo problema, senza ambiguità e con una certa decisione». Bersani è convinto che si possa trovare una soluzione anche nel confronto tra progressisti e moderati, su questi temi come su altre questioni eticamente sensibili come il fine vita o la fecondazione assistita: «Sui temi di frontiera penso che si debba ragionare con una chiave umanistica, a partire dalla dignità e dalla libertà della persona. Attorno a questa logica anche le diverse sensibilità, laiche e cattoliche, possono incontrarsi attorno alla dignità dell’uomo».

La Stampa 4.7.12
Pensando al voto, le strategie dei partiti
L’asse Sel-Idv disturba i piani di Bersani
Il segretario Pd vuole un accordo soltanto con il governatore pugliese
«I gruppi parlamentari dovranno decidere a maggioranza e poi tutti devono adeguarsi»
Il leader democratico «Il partito di Di Pietro tutti i giorni mi azzanna alle caviglie»
di Amedeo La Mattina


ROMA Bersani eviterebbe di parlare ogni giorno di alleanze e primarie perché ci sono altri problemi che incombono, a cominciare dalla crisi economica e dai tagli dolorosi della spending review. Così ai giornalisti che lo intervistano su YouDem chiede perché si agitano tanto per le primarie, se e quando si faranno. Non c’è fretta, saranno fatte due o tre mesi prima delle elezioni del 2013. È più interessato invece nel rassicurare certi osservatori, nazionali ed esteri, che guardano con diffidenza alla possibilità che il centrosinistra vinca le elezioni. Come il Financial Time che dubita sulla capacità di Bersani di portare avanti le riforme. Ecco, il leader dei Democratici non ci sta e ricorda la sua esperienza di ministro per l’Attività produttive. «Io rispondo con i fatti. Se oggi ci sono dei privati sui binari, se abbiamo fatto lo spezzatino dell’Enel e liberalizzato le licenze del commercio, l’abbiamo fatto con uno che si chiama Bersani e che parlava tutti i giorni con i sindacati. Contrapporre il dialogo sociale alle decisioni è un errore tecnico perché senza questo le decisioni possono essere paralizzate». E se il problema è meglio i tecnici che i politici, afferma che «dopo tanto tempo siamo tecnici pure noi».
E comunque, il prossimo esecutivo sarà in continuità con «il meglio del governo Monti, ma dovrà fare anche cose nuove e diverse, avendo una maggioranza solida e univoca». Il punto è: il centrosinistra commetterà gli stessi errori del passato con le sue divisioni interne? Necessariamente si ritorna al discorso delle alleanze con Vendola e Di Pietro. Il Pd vuole scaricare l’Idv e tenersi Sel, ma anche con quest’ultimo partito sarà difficile trovare un programma comune. Ieri il capogruppo dell’Italia dei Valori al Senato Belisario ha invitato Bersani a riflettere sui «provvedimenti iniqui» del governo votati anche dal Pd. Stesso discorso viene fatto da Vendola che di fronte alla spending review potrà alzare la sua voce a tutto volume. I Democratici si troveranno presto in difficoltà, proveranno ad attenuare gli effetti sociali delle misure, ma alla fine dovranno adeguarsi. Del resto, spiega spesso Bersani, i provvedimenti di questo governo non coincidono sempre con ciò che farebbe e farà in caso di vittoria elettorale. Detto questo però ci vuole un centrosinistra di governo che vuol dire «cessione di sovranità, su punti controversi. Non si può governare se uno dice “Tav” e l’altro dice “noTav”. Ecco, i gruppi parlamentari dovranno decidere a maggioranza e tutti poi dovranno adeguarsi». E non si può oggi dire «io sto se ci sta quell’altro». Bersani si riferisce a Vendola che non vuole rompere con Di Pietro e a Di Pietro che potrebbe voler imbarcare Grillo.
«Per la verità - spiega Donadi, capogruppo dell’Idv alla Camera - non abbia mai chiesto di imbarcare Grillo, anche perché Grillo non si farebbe imbarcare. Noi non abbiamo nessuna pregiudiziale nei confronti dell’Udc, ma non vogliamo che altri ce l’abbiano nei nostri confronti». «Vogliamo discutere di programmi - precisa Di Pietro - e poi vediamo chi viene escluso e chi si autoesclude». Nel Pd però un’alleanza con Di Pietro viene considerata improbabile. Follini sostiene che Bersani farebbe male a pensare che alla fine del percorso sarà l’Idv a toglierà il disturbo: «Dovrebbe dire fin da oggi che non sarà possibile. Dubito pure di Vendola: sarà difficile trovare un’intesa sulle cose da fare una volta al governo visto che quello che sta facendo Monti saremo costretti a farle anche in futuro».
Insomma, Di Pietro no, anche perchè c’è pure una questione di «buona educazione», dice Bersani. «Io non ho mai detto una parola men che rispettosa dell’Idv. Ma quel partito tutti i giorni mi insulta, mi azzanna alla caviglia. Penso ai cittadini che devono credere al centrosinistra».

Corriere 4.7.12
«Io azzanno? Il Pd scelga con chi sta sul lavoro»
Di Pietro: gli aut-aut i democratici li diano a casa loro, se hanno coraggio
di Maria Teresa Meli


ROMA — Onorevole Di Pietro, D'Alema ha dichiarato al Corriere che lei e il governo del Paese siete incompatibili. Ergo, non vi vuole nell'alleanza elettorale.
«Governo per fare cosa? A noi non piace il governo del ragioniere Monti: e allora, che male c'è? Se il duo D'Alema-Casini vuole costruire una coalizione in continuità con il governo Monti, noi certamente non ci saremo. Ciò detto, noi non pensiamo a una coalizione alternativa al centrosinistra. Noi vogliamo fare un governo politico con un programma politico su cui confrontarci con il pd, con i suoi elettori, più che con i suoi dirigenti».
Di Pietro, se la prende con D'Alema, ma è Bersani che dice che lei sta sempre lì ad azzannargli la caviglia.
«Non confondiamo: non si tratta di azzannare o insultare. Io sto ponendo al Pd delle questioni politiche. Oggi in aula discutiamo della sfiducia a Fornero. Noi dell'Italia dei valori siamo favorevoli a questa mozione contro il ministro del Welfare per due ragioni fondamentali. Primo, Fornero lascia a casa migliaia e migliaia di esodati mentendo sui numeri. La sua è una menzogna: in un paese civile si sarebbe dimessa senza bisogno di una mozione di sfiducia. Ebbene, che fa il Pd? Sono curioso di vedere come voteranno tutti i suoi parlamentari. E che cosa farà Bersani? Continuerà a fare il San Sebastiano che si immola per il governo del ragionier Monti? Secondo elemento: il ministro stravolge l'articolo 1 della Costituzione dicendo che il lavoro non è un diritto. Poi, per giustificarsi dice che in realtà intendeva dire che il lavoro si ottiene con il sacrificio e la meritocrazia. Morale della favola: in maniera truffaldina Fornero sostiene che chi non trova lavoro è colpevole. Oltre il danno, la beffa. E la mia domanda al Pd è sempre la stessa: come si comporteranno i parlamentari del Partito democratico? Faranno finta di non vedere? Voteranno per partito preso?».
Ma allora è vero che lei azzanna...
«No, anzi io mi auguro che da parte del Pd ci sia un ripensamento operoso. Come dice giustamente Bersani l'alternativa di governo deve nascere sulle cose concrete».
Veramente Bersani ha anche un altro messaggio in serbo, ed è rivolto proprio a voi: la ricreazione è finita, o vi adeguate o siete fuori dalla coalizione.
«Il "chi ci sta, ci sta" quelli del Pd lo dicessero a casa loro, voglio vedere se hanno il coraggio di dirlo agli elettori».
Agli elettori, comunque, Bersani propone le primarie. Un modo per coinvolgere il popolo di centrosinistra.
«Ben vengano le primarie. Sono un sistema trasparente per fare delle scelte, dopodiché ha ragione Vendola: non si possono accettare senza sapere che cosa si vuole fare, senza conoscere i programmi. Comunque lo voglio ribadire: per noi quella di Bersani è comunque una candidatura di qualità».
Onorevole Di Pietro, dicono che lei comunque deve rimanere sul carro del Pd perché Grillo non la vuole.
«Con Grillo ci sentiamo spesso e volentieri. E comunque guardate i sondaggi: noi in ogni rilevazione abbiamo molto di più di quello che abbiamo ottenuto alle ultime elezioni. Vuol dire che siamo un partito vivo che ha dimostrato di sapere interpretare le aspettative di una parte dell'elettorato del centrosinistra».
Onorevole, ancora sul Pd: Bersani vuole fare l'accordo con l'Udc e per raggiungere il suo obiettivo potrebbe decidere di farvi fuori dalla coalizione, perché Casini non vi vuole.
«Non credo che si vorrà fare a meno di noi».
Bè, dopo che Barbato ha mostrato il dito medio in aula non è escluso che il Pd si rafforzerà nella convinzione che l'Idv non è presentabile.
«Io non ero in aula e non so nulla di questa storia, ma se il problema riguarda anche le mie critiche a Napolitano non mi resta che ripetere: che problema c'è? Possibile che il cittadino Di Pietro non abbia libertà d'espressione? La violazione alla Costituzione non è rappresentata dalle mie critiche ma dalla censura nei mie confronti. Con tutto il rispetto per la funzione e il ruolo ricoperti da Napolitano, io ritengo che il presidente abbia avuto delle sollecitazioni improprie da un testimone processuale, poi finito indagato. Perciò lui avrebbe dovuto rifiutare l'interlocuzione con questa persona o avvertire il pubblico ministero che seguiva l'indagine perché c'era un inquinamento probatorio in corso».
Non cambia mai, onorevole Di Pietro.
«Non su temi come questi. E comunque mi porto avanti, perché come dice mia sorella Concetta, che è il mio faro in politica: avviati sempre per tempo».

La Stampa 4.7.12
Intervista
“Se c’è Vendola non ci stiamo”
Fini: anche Casini la pensa esattamente come me. E nel 2013 ripartiremo dal lavoro di Monti
di Ugo Magri


ROMA Coerenza, Per il presidente della Camera è impensabile un’alleanza con i partiti che hanno contrastato l’azione del governo Monti, anche perché il «risanamento non è finito»
Monti è al sicuro, presidente Fini, o c’è chi ancora spera di votare a ottobre?
«Elezioni in autunno causerebbero all’Italia danni inimmaginabili. E per quanti irresponsabili possano esserci in giro, escludo che vogliano spingersi a tanto. Semmai vedo un altro rischio. Che l’ultimo scorcio di legislatura, anziché spingere Pd e Pdl a sostenere il governo, li renda sempre più interessati a piantare bandierine qua e là... Mi auguro che sappiano resistere alla tentazione».
Dovrebbero votare i tagli di spesa senza fiatare?
«No, anzi io credo che le parti sociali e i gruppi politici abbiano ragione quando invitano Monti, il quale ne è ben consapevole, a varare il decreto della spending review dopo un sia pur minimo confronto preventivo. A patto che questo confronto non diventi, si capisce, una telenovela».
I tagli al pubblico impiego si preannunciano sanguinosi...
«Intervenire sul numero dei dipendenti si può, anzi si deve. Sempre ricordandoci dove possiamo ottenere i veri risparmi. Qui parlano chiaro i dati di bilancio. Quelli del 2011 dicono che, solo per acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione, sono stati spesi 140 miliardi di euro».
Una montagna.
«Cresciuta negli ultimi 5 anni del 17 per cento per quanto riguarda la spesa dei ministeri, del 23 per quella dei comuni, del 37 per le regioni e addirittura del 50 per cento nella sanità».
Quindi sarebbe sbagliato concentrare i tagli sul numero dei dipendenti...
«Incominciamo col risparmiare sui beni e servizi. A quel punto molti timori sul pubblico impiego e sui tagli al sociale sarebbero ridimensionati».
Al posto di Monti, che altro farebbe?
«Poiché l’Imu è una sorta di patrimoniale, prenderei in considerazione l’ipotesi di detrarla dalla dichiarazione dei redditi».
Che può fare di buono il Parlamento di qui alla primavera 2013?
«Deve occuparsi di riforme. A cominciare da quella, ineludibile, del sistema elettorale. Se vogliamo davvero rilegittimare il ceto politico, non si può fare a meno di restituire intera ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Quindi meglio collegi maggioritari dove venga eletto chi arriva primo, e perfino i leader dei partiti corrano il rischio di restare fuori».
Alfano vi sfida ad approvare il semi-presidenzialismo con doppio turno. Accetta il guanto?
«Da 30 anni sostengo il modello francese, e non ho certo cambiato idea. Però questo baratto con cui Lega e Pdl stanno ipotizzando un’elezione diretta del Presidente in cambio del Senato federale, sembra solo un’operazione propagandistica e Fli ha contribuito a bocciarla. Bene fa Napolitano a ricordare che queste riforme debbono essere largamente condivise. Già nel 2006 la riforma costituzionale del centrodestra venne bocciata al referendum confermativo per il mancato appoggio della sinistra. E referendum ci sarà pure stavolta».
Torniamo alla legge elettorale.
«Deve garantire stabilità. La sera in cui si apriranno le urne il mondo vorrà sapere chi governerà questo paese. Non possiamo permetterci situazioni di tipo greco. Già ora, all’estero si chiedono: dopo Monti, che succederà in Italia?».
Ecco: che succederà dopo Monti?
«C’è grande incognita. Io mi auguro che venga superata con la nuova legge elettorale e con alleanze che nascano dai programmi, dalle cose da fare. Andrebbe evitato invece il teatrino delle coalizioni “contro” qualcuno e non “per” qualcosa, dove viene dimenticato o si considera ininfluente tutto quello che il governo e la maggioranza hanno fatto per senso di responsabilità. Lei lo vede Bersani che tiene un comizio con Di Pietro o con Vendola, senza poter dire una parola su mercato del lavoro, pensioni, tagli alla spesa e su tutto il complesso delle riforme perché gli altri due sarebbero in disaccordo?».
Su Vendola, l’Udc aveva dato segnali di apertura...
«Credo che Casini la pensi esattamente come me. Identica difficoltà avrebbe Alfano se si trovasse Maroni a fianco: fino al giorno prima su fronti opposti, e il giorno dopo come se nulla fosse insieme...».
Il Polo che lei e Casini interpretate, con chi conta di stringere alleanze?
«Anzitutto con le personalità, le associazioni, le liste che nascono dalla società civile e anche alle ultime Amministrative hanno dimostrato di non essere un fenomeno passeggero».
Okay. Ma tra i partiti tradizionali, quali possono essere i vostri potenziali partner?
«Quelli che si collocano entro il perimetro rappresentato dalla maggioranza attuale. Non possono essere la Lega, la Destra di Storace, l’Italia dei Valori e Sel per il semplice motivo che l’azione di risanamento e sviluppo avviata da Monti non potrà certo ritenersi conclusa alle prossime elezioni. Anzi, di lì dovrà ripartire».

l’Unità 4.7.12
Vagoni nuovi per il treno della sinistra
Dopo il dominio dell’economia sulla politica e la morale, è giunto il tempo di una riscossa della democrazia e dell’etica
di Gianni Cuperlo


FORSE IL CENTROSINISTRA DOVREBBE «PECCARE» DI PIÙ E RIFIUTARE IL RICATTO di un tempo di crisi destinato per ciò stesso a ridurre le ambizioni della politica. È vero il contrario: proprio dalle grandi crisi tendono a scaturire le rotture più profonde. La stessa unificazione dell’Europa, per quanto incompiuta, origina da una tragedia immane la guerra e da un’élite di giganti che replicò a quelle macerie morali e materiali con la più radicale delle fantasie: la pacificazione di un continente che nei trent’anni precedenti aveva contato cento milioni di morti. Certo, non è compito dei tecnici a Bruxelles coltivare l’utopia. Quello dovrebbe essere mestiere degli statisti e di un pensiero non schiavizzato da emergenze e compatibilità. Prendete l’ultimo scritto di Habermas. È del tutto interno alla crisi più pesante che ha investito l’Europa da decenni, ma non esita a coltivare la prospettiva di una «società mondiale retta da una Costituzione», e lo motiva nel richiamo all’efficacia globale di una politica dei diritti umani. Fuga dal mondo? Insisto, forse no. Forse il nostro compito, allo scadere del primo lustro di crisi, è nell’immaginare le alternative rispetto al corso storico degli ultimi quarant’anni. Credo sia l’opposto dell’andare per farfalle.
In questo senso fa bene Reichlin a collocare gli eventi compreso l’esito felice dell’ultimo vertice europeo dentro quel clima di rabbia che ci inchioda a domande drammatiche. Perché la crisi questo produce. Disancoraggi, paura, ribellismo, o anche solo rassegnazione. Il 36% di disoccupazione giovanile, un impoverimento spaventoso, le donne penalizzate due volte, come ieri e come sempre. Basterebbe questo a spiegare perché la nostra lealtà al governo non si discute. Detto ciò non ha senso cavarsela sul dopo in nome di una continuità «programmatica e di uomini» come ha detto l’altro giorno Enrico Letta. Servirà agire in continuità su molte cose ma su altre non secondarie a noi viene chiesto di sperimentare un’altra via, altre soluzioni, per offrire a chi oggi sta in fondo al pozzo la speranza e la spinta di una risalita.
Di questo si parla quando diciamo che «dopo Monti deve tornare la politica». Non è, né potrà essere la «rivincita» dei partiti. Saremmo incoscienti solo a pensarlo. Dev’essere la saldatura del disagio con l’emancipazione dell’Europa dai totem dottrinali della destra. Almeno se vogliamo prendere in parola il capo della Bce quando ci ammonisce sulla fine del modello sociale europeo. Perché se ha ragione e probabilmente ce l’ha tocca a questa parte del campo scavare le fondamenta di un altro modello. E serve farlo prima che le spinte populiste e disgreganti muovano un attacco violento a quell’edificio politico dell’Europa che, di suo, palesa segni d’instabilità.
Ora, quali chance la sinistra è in grado di giocare su questo scacchiere? Direi due sul le altre. La prima è che è la sola famiglia politica dotata tuttora di un proprio «esperanto». Di una lingua comune o comunque abbastanza condivisa che le consente di proporsi a centinaia di milioni di elettori come il timoniere alternativo cui affidare la rotta. Forse è bene ricordarlo: Monti ha gestito con maestria il braccio di ferro notturno a Bruxelles, e certo l’asse con Madrid ha contribuito alla causa, ma senza la svolta socialista dell’Eliseo avremmo letto altri editoriali e commenti diversi. Dunque, mai come adesso l’alleanza dei progressisti, e la sua apertura a forze moderate e responsabili, è la sola risposta al disegno dell’austerità. La seconda opportunità è che quella democratica e progressista è la sola famiglia in grado di mobilitare un popolo. E questo non perché le spinte più estremiste che si diramano come i cerchi nell’acqua siano prive di retroterra sociale. Ma perché quelle pulsioni, negando legittimità all’Europa e alla sua matrice (no Euro, no migranti, no debito....) tendono a riparare nell’antico incubo nazionalista.
Ciò non rende quelle forze meno pericolose, anzi. Ma le sottrae a uno spazio comune di strategie e indirizzi. Il punto però è che solo la dimensione comunitaria può aggredire le cause della crisi. E quindi solo un di più di istituzioni politiche ha la forza di superare gli ostacoli davanti a noi. In questo senso, altro che «distruzione creativa». Il collasso temuto dell’Euro ha reso evidente il fallimento, anch’esso politico, di una divisione del lavoro che prevedeva l’affido della stabilità monetaria a un istituto «tecnico» come la Bce, mentre i singoli Paesi avrebbero spicciato, ciascuno per sé, l’intera disciplina della stabilità finanziaria, dell’equità e della crescita. Qui si è consumato l’errore. Qui le leadership degli anni ’90 e ’00 si sono mostrate timide e renitenti all’utopia. Accelerare l’integrazione politica, fiscale e sociale non era una corsa imprudente nel futuro, ma condizione per scortare il varo della moneta con una nuova costituzione materiale, fondata almeno per noi, cittadini d’Europa sul sogno a occhi aperti di Habermas e di tanti con lui. La più grande area commerciale del pianeta perché questo siamo, e tuttora integrata in un modello di civiltà che nessun’altra nazione o continente è in grado di elaborare. Non è solo la combinazione classica tra democrazia, coesione e sviluppo. È l’idea di una sinistra di governo che sulle macerie della crisi ricolloca nella politica il primato della dignità umana consentendo a un principio morale l’uguaglianza di ogni persona di plasmare nuovamente il diritto e la legislazione. Vuol dire fare davvero dei diritti una realistica utopia.
Insomma, dopo decenni di dominio dell’economia sulla politica e sulla morale è giunto il tempo di una riscossa della democrazia e dell’etica. In fondo altre epoche, per molto meno, hanno scatenato rivoluzioni. La prova per noi è meno cruenta. Si tratta di scardinare un pensiero egemone, ma percorrendo la via del consenso e ridando orgoglio a popolazioni stremate. Senza questa leva, del resto, non si sarebbero riempite le piazze parigine e neppure fatti i dovuti distinguo quelle milanesi di Pisapia. È un peccato non vedere la portata di tutto questo. Insomma, la crisi ha messo ciascuno dinanzi alla propria storia. La destra, soprattutto in Italia, ne sta uscendo lacerata e implosa. Noi possiamo trarre da questo passaggio le conferme del nostro certificato di nascita e buoni spunti per una futura identità. Per farlo però non possiamo salire sui vecchi vagoni. Tocca allestire un altro treno. In fondo se crediamo di avere delle cose da dire, e soprattutto da fare, perché dovremmo temere la sfida?

il Fatto 4.7.12
La base non vuole l’alleanza con Casini


La base del Pd, o almeno quella che usa i social network, si è espressa in modo inequivocabile: l’accordo con l’Udc non lo vuole. Basta dare un’occhiata alla pagina facebook ufficiale del segretario dei democratici, Pierluigi Bersani. Sul dorso riservato ai commenti degli utenti, l’umore è nero. Lo riassume, per tutti, l’intervento di Federico Maisenti: “Segretario ma la leggi questa pagina? Per un Casini che trovi, tanti elettori che perdi. Le chimere non si inseguono”. Sul web negli ultimi giorni si sono letti commenti ancora più netti: “Se non avete ancora le sedi occupate è solo perché si tratta di interviste”. Oppure: “Potrebbero imbarcare anche Fli, così finiranno finalmente di prendere per i fondelli i propri elettori con la favola della legge elettorale da fare per il bene del Paese”. E ancora: “Per continuare a farsi del male, dobbiamo sentire D’Alema dichiarare che in un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. Ma che erba fumano questi dirigenti del Pd?”.

l’Unità 4.7.12
Per cambiare politica le sinistre devono unirsi
Contro l’antipolitica servono scelte chiare
E le alleanze rientrano in questo quadro
di Cesare Salvi


AL PIÙ TARDI ENTRO FEBBRAIO DEL PROSSIMO ANNO LE CAMERE DOVRANNO ESSERE SCIOLTE E AVRANNO LUOGO ELEZIONI POLITICHE TRA LE PIÙ IMPORTANTI DELLA STORIA ITALIANA. Mancano pochi mesi ma ancora i cittadini non sanno con quale legge elettorale e con quale alleanze politiche e programmatiche saranno chiamati a pronunciarsi. Credo che entrambi i nodi vadano sciolti al più presto, anche per non incrementare la protesta e il rifiuto della politica che crescono nel Paese e che potrebbero avere conseguenze anche elettorali imprevedibili. Sulla legge elettorale, il consiglio che mi sento di dare a chi ci sta lavorando è di adottare un sistema chiaro, comprensibile ai cittadini. Meccanismi intricati e tortuosi rischiano di incentivare la cosiddetta antipolitica.
D’altra parte se il problema è il Movimento 5 Stelle, o altre proposte che dovessero configurarsi nei prossimi mesi a destra, anche estrema, è difficile (oltre che ingiusto) che vi siano meccanismi che possano impedirne una significativa presenza parlamentare. La risposta a quella che viene definita “antipolitica” risiede a mio avviso in una tempestiva chiarezza di scelte programmatiche e, correlativamente, di alleanze politiche. La scelta delle alleanze politiche non è questione di foto di gruppo più o meno “vasto” o, come ho pure sentito dire, di “figurine”. Alle diverse ipotesi di alleanze politiche di cui oggi si discute sono legate proposte diverse per il futuro dell’Italia e dell’Europa.
La continuità con il governo di Monti, compresa la possibilità di affidargli un rilevante ruolo politico, è correlata all’alleanza con l’Udc di Casini. Quale che sia il giudizio che viene dato sul governo in carica, mi pare evidente che il problema riguarda a questo punto le politiche che l’Italia si darà per il quinquennio che inizia nel 2013.
Quelle del governo attuale non sono le uniche politiche possibili. Il nuovo governo francese, ad esempio, senza ovviamente rinunciare al necessario rigore (che è diverso dall’austerità, come ha ricordato Holland), ha un taglio sociale ben diverso da quello dell’attuale ministra del Welfare. Basti ricordare che le prime misure da esso prese riguardano il ritorno a 60 anni dell’età pensionabile per chi ha cominciato a lavorare da giovane, l’aumento del salario minimo, la tassazione sui redditi elevati.
Penso che il Pd debba compiere una scelta preliminare tra le due prospettive, e su questa base definire linee programmatiche condivise con gli alleati.
Il Partito democratico è oggi il più forte partito del centrosinistra, anche se non è autosufficiente, quale che sia la legge elettorale con la quale si andrà a votare. A me pare che proprio questa posizione comporti una maggiore responsabilità, e richieda scelte chiare e tempestive. Altrimenti, sarà inevitabile che si formi a sinistra un’aggregazione politica che si faccia carico di una proposta alternativa, com’è accaduto in Grecia di fronte all’alleanza fra Nuova Democrazia e il Pasok.
Come si vede, siamo di fronte a scelte destinate a pesare a lungo sul futuro politico e sociale dell’Italia. Un po’ come accadde tra il ’94 e il ’96.
Ritengo che in questo decisivo passaggio l’unità delle forze di sinistra e progressiste sia necessaria, per difendere e rilanciare i principi della Costituzione repubblicana, che oggi è sotto attacco, a partire dalle sue fondamenta: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Su questo tema abbiamo aperto un confronto nella Federazione della Sinistra. Nel suo recente consiglio nazionale il Movimento per il partito del lavoro (che unisce l’area vicina alla sinistra Cgil e “Socialismo 2000”) ha proposto che si realizzi intanto l’unità con Idv e Sel, per verificare insieme, superando le pregiudiziali esistenti, le condizioni politiche e programmatiche di una eventuale alleanza con il Partito democratico.

Repubblica 4.7.12
La politica dei movimenti
di Stefano Rodotà


Il “principio di realtà” sembra irrompere nella politica solo quando si fanno più drammatiche le questioni dell’economia, alle quali tuttavia si guarda troppo spesso come se in esse si manifestasse una ineludibile legge “naturale”. I mercati “votano”, si attendono le “reazioni” dei mercati. Soggetti onnipresenti e impersonali, alle cui pretese la politica si piega, e palesa le sue impotenze, smarrisce ogni filo razionale, sembra rassegnata alle dimissioni. Di questo contagio la politica è vittima consapevole. Prigioniera della sola dimensione economica, perde la capacità di misurarsi con le grandi questioni della società, di elaborare strategie di più largo respiro e di più lunga durata. E si priva così degli strumenti che possono consentirle di ricominciare a pensare lo stesso mercato come una creazione sociale, non come una entità naturale, alle cui leggi si è costretti ad obbedire.
Nella realtà vi sono più cose da vedere, analizzare, comprendere. A questa ricchezza la politica deve attingere. Non è una impresa impossibile, a condizione che si voglia davvero uscire dall’autoreferenzialità e dalle logiche oligarchiche che si sono impadronite dei partiti. I punti di riferimento non mancano. Questa sembrava l’indicazione venuta dal segretario del Pd quando, lanciando la sua candidatura verso primarie aperte, l’associava con una dichiarata attenzione per le nuove dinamiche sociali, per le richieste di partecipazione, per i diritti civili, per il tema centrale del lavoro, dando la sensazione che si volesse così dar vita ad una agenda politica finalmente espressiva di contenuti concreti, abbandonando le abitudini che hanno trasformato l’azione del partito in una eterna schermaglia tra persone. Solo in questo modo si può evitare che le primarie si trasformino in un’altra tappa verso quell’estrema personalizzazione della politica che è all’origine di infinite distorsioni istituzionali.
Il principio di realtà dovrebbe portare verso una riflessione sulle effettive dinamiche degli ultimi tempi. Tutto quello che usciva fuori dai canali della politica ufficiale è stato sbrigativamente etichettato come antipolitica. Questo non è stato solo un errore analitico. Si è rivelato come un modo per sottrarsi ad un confronto scomodo, non con l’antipolitica, ma con l’altra politica che si è presentata in modo incisivo sulla scena italiana, suscitando nei partiti una reazione di fastidio e di sufficienza, quasi che si trattasse di inutili iniziative “movimentiste” e protestatarie.
Le cose non sono andate così. Tra il 2010 e il 2011 si sono svolte grandi manifestazioni di donne e lavoratori, studenti e mondo della cultura. A questa iniziativa diffusa si deve la reazione che ha bloccato la “legge bavaglio” sulle intercettazioni, fino a quel momento contrastata blandamente dall’opposizione parlamentare. Quel variegato movimento ha contribuito grandemente ai successi nelle elezioni amministrative dell’anno scorso, non a caso vinte, in città chiave come Milano e Napoli, da candidati scelti fuori dalle indicazioni dei partiti. In quelle campagne elettorali, come ha ricordato Ilvo Diamanti, vi fu una straordinaria e spontanea presenza dei cittadini. Punto di approdo di tutta quella fase fu il voto referendario del 13 giugno dell’anno scorso, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, alle leggi ad personam.
Altro che movimentismo sterile, del quale disinteressarsi. Quelle sono state tutte iniziative vincenti, che avrebbero dovuto sollecitare la massima attenzione della politica “ufficiale”, rimasta invece sorda, lontana, ostile. Ora proprio a quel mondo si dice di voler rivolgere l’attenzione. Ma questo non è affare di parole.
Non si può dire di voler prendere sul serio i segnali che arrivano dalla società e poi contribuire a una strategia che vuole sostanzialmente cancellare i risultati del referendum sull’acqua. Sta accadendo proprio questo con una rottura della legalità costituzionale che giustifica un appello al Presidente della Repubblica. Migliaia di cittadini si organizzano in una campagna di “obbedienza civile”, pagando le bollette dell’acqua in base a quel che essi stessi hanno deciso con il referendum. Una convincente nuova politica non può eludere questo terreno, che i cittadini hanno pacificamente occupato non con iniziative sgangherate, ma con il loro voto. Quale credito può recuperare un partito che ignora la voce di ventisette milioni di persone?
Vi è una lezione generale da trarre da questa storia recente. Tutti quei movimenti non hanno mai scelto la strada non solo antipolitica, ma antistituzionale, che altri hanno imboccato o vogliono imboccare. Al contrario. I loro interlocutori sono stati i parlamentari al tempo della legge bavaglio. Gli strumenti adoperati sono quelli della democrazia quando si sceglie di partecipare convintamente alle elezioni ammini-strative e quando si raccolgono le firme e si vincono i referendum. Se davvero si vuole rafforzare la partecipazione, la via da seguire è nitidamente segnata.
Tutto questo, infatti, è avvenuto all’insegna della Costituzione, salvata nel giugno del 2006, da sedici milioni di cittadini che, dicendo no alla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi, indicavano pure una strada da seguire. Se oggi si vuol discutere seriamente di riforma costituzionale, bisogna tenere nel giusto conto le indicazioni venute in questi anni da milioni (insisto, milioni) di cittadini, non dalle intemperanze di gruppetti o dalle pretese di professori (anche se un po’ di attenzione per la grammatica costituzionale non guasterebbe). Queste indicazioni sono chiarissime. Il rifiuto dell’accentramento del potere e di una più intensa personalizzazione dovrebbe essere ancor più tenuto in considerazione oggi, di fronte alla minaccia di pericolose derive populiste. L’attenzione per la partecipazione dei cittadini non può essere ridotta a una giaculatoria. Ma nelle proposte di riforma costituzionale non vi è nulla (insisto, nulla) che vada in questa direzione, anzi si va verso accentramenti e smantellamento di equilibri e garanzie. E questa è una linea autolesionista, al limite del suicidio, perché la stessa democrazia rappresentativa può essere salvata solo da una sua intelligente integrazione con forme di partecipazione dei cittadini. Dall’Europa ci vengono indicazioni che consentono, ad esempio, di rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, come vado dicendo da anni.
Ma l’altra politica manifesta pure una fortissima richiesta di diritti, che non può essere sacrificata all’economia con il trucco della politica dei due tempi, come ha benissimo ricordato Chiara Saraceno, né può essere affidata a documenti come quello predisposto dal Pd, elusivo su troppe questioni. I diritti del lavoro sono emblematici del legame scindibile tra economia e diritti, come dimostrano alcuni opportuni interventi dei giudici, resi possibili anche da indicazioni provenienti dall’Europa che, anch’essa, deve essere considerata nella dimensione dei diritti.
Sono molte, dunque, le possibilità concrete di riprendere il filo del rapporto spezzato tra partiti e cittadini. Ma questa, evidentemente, non è una operazione a costo zero. Esige l’abbandono di pessime abitudini e qualche segnale immediato. Torno alla questione dell’acqua come bene comune e ricordo che in Parlamento, su vari temi, giacciono proposte di legge di iniziativa popolare o regionale. Perché non metterle all’ordine del giorno, cominciare a discuterle? I cittadini capirebbero.

l’Unità 4.7.12
Primarie, meglio rinviare l’assemblea Pd
Non è il caso di discutere di regole e cavilli sulle primarie mentre è in gioco il destino dell’Europa
di Pier Luigi Castagnetti


Nell’ultima direzione del partito è stata approvata all’unanimità la proposta di Bersani di svolgere in autunno le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza del consiglio. Per la verità l’assemblea era divisa tra chi era più e chi era meno convinto. Personalmente ero tra i primi, non solo perché so che le primarie sono la «cifra costitutiva» del Pd.
Ma perché pensavo che le primarie in questo momento rappresentassero un modo generoso e coraggioso da parte del segretario di raccogliere la sfida all’innovazione che investe tutta la politica e perché, comunque, ho sempre pensato che la campagna per le primarie fosse un modo per porre il partito al centro del dibattito politico nazionale e, dunque, una occasione di coinvolgimento e mobilitazione del nostro elettorato.
I primi passi di questa competizione per ora solo fra Bersani e Renzi, promettono in effetti un agonismo molto interessante, anche se un po’ troppo asimmetrico quanto ai temi a confronto. In Bersani prevale il progetto per il Paese e del Paese in Europa, in Renzi prevale invece una diversa modalità di intendere e agire la politica oltreché il desiderio di rottamare sul nascere la tendenza a una strutturazione della forma partito che evoca un po’ troppo quella tradizionale della sinistra italiana, che mi troverebbe d’accordo se questo fosse l’oggetto in discussione.
Ma la situazione nel volgere di poche settimane sta cambiando rapidamente e sta ponendo alla nostra responsabilità questioni nuove e non eludibili. Il dibattito sulla possibile coalizione di centro sinistra ha registrato una svolta positiva e inattesa da quando Pierferdinando Casini ha dichiarato l’interesse del suo partito ad una alleanza con il Pd. Fra le tante reazioni positive se ne sono manifestate anche alcune preoccupate o di segno negativo, mi riferisco in particolare a quella del leader di Sel. È del tutto evidente che un’alleanza il cui perimetro può oggi realisticamente andare da Casini a Vendola (e un mese fa questo non era prevedibile) pone problemi che debbono essere affrontati con la pazienza e l’intelligenza che Bersani ha già mostrato in questi mesi.
Mi chiedo allora se questo obiettivo, che al tempo dell’ultima direzione pensavamo potesse concretizzarsi solo in prossimità o dopo le elezioni e che oggi invece sappiamo che si può e si deve affrontare subito, sia compatibile con il contestuale svolgimento di elezioni primarie che portano inevitabilmente il discorso altrove. Tra le novità successive alla direzione nazionale vi è poi anche l’esito positivo del Consiglio europeo di giovedì scorso che ci impone di continuare a serrare le file intorno all’azione del governo italiano che, proprio per
quello che è avvenuto a Bruxelles, sarà chiamato ad assumere ulteriori impegnative iniziative sul piano comunitario. Accompagnare Monti nelle difficili scelte sul piano nazionale ed europeo per il Partito democratico è compatibile con il contemporaneo svolgimento di elezioni primarie a cui eventualmente partecipassero candidati che non hanno condiviso e continuano a non condividere l’appoggio al governo? Mi chiedo allora se non convenga soprassedere all’Assemblea del partito, già prevista per il 14 luglio prossimo. Non sfugge poi a nessuno che queste primarie sono ulteriormente complicate dal fatto che sono veramente inedite, nel senso che anche il precedente rappresentato dalla scelta di Romano Prodi come candidato premier non prevedeva allora la partecipazione alle primarie stesse del segretario del maggior partito, cioè di quel partito cui compete l’onere di realizzare le condizioni di una alleanza politicamente la più ampia possibile. Oggi, invece, si renderebbe necessario disciplinare sul piano statutario e politico una eventuale convivenza del maggior partito della coalizione, con un candidato che risultasse vincente (l’ipotesi è astratta, ma non si può non prevedere) avendo battuto proprio il segretario di quel partito. Anziché inoltrarci nella definizione di un regolamento assai complicato in un momento in cui è ancora in corso di definizione il perimetro della coalizione elettorale, forse conviene, ripeto, soprassedere allo svolgimento dell’Assemblea stessa. Si eviterebbero inutili polemiche su articoli, commi e codicilli quando ciò che è in ballo non è la forma, ma la sostanza. Cioè la politica.

La Stampa 4.7.12
Cristiani lavoratori. Carlo Costalli è presidente del Movimento cristiano lavoratori
e ispiratore del «conclave» di Todi del 2011
“I cattolici non siano la stampella a progetti politici gestiti da altri”
Costalli: serve un movimento legato alla dottrina sociale della Chiesa
Vaticano. «Non cerchiamo benedizioni: è ora di rischiare in proprio»
di Andrea Tornielli


Capisco che con la difficile situazione economica che ci troviamo a vivere, parlare di un nuovo movimento politico con i cattolici protagonisti sia una notizia destinata a passare in secondo piano… Ma credo sia il passo giusto per cercare di tornare a rappresentare un’area significativa del nostro Paese, ancora radicata e popolare». Carlo Costalli, presidente del Movimento Cristiano Lavoratori, uno degli ispiratori del «conclave» di Todi dell’ottobre 2011, sta lavorando per dar vita a un nuovo movimento politico ancorato ai principi della dottrina sociale della Chiesa.
C’è chi dice che farete un nuovo partitino cattolico, irrilevante… «Non vogliamo fondare un partitino cattolico né rifare la Dc. Un partitino c’è già, ed è l’Udc…».
Che cosa avete in mente, allora?
«Un movimento politico non confessionale, aperto, dove cattolici e laici possano collaborare. La nostra bussola è la dottrina sociale della Chiesa, che è più innovativa di quanto si pensi, se la si legge senza paraocchi e senza sceglierne solo alcune pagine. Si tratta di valori che appartengono a una parte consistente del Paese, a quei cittadini che non si sentono rappresentati né dal liberismo selvaggio e dalla politica disinvolta dei privilegi, né dalle derive zapateriste di chi vorrebbe stravolgere i valori condivisi sui quali si fonda la nostra convivenza».
Esponenti del Pdl dicono che non siete abbastanza attenti ai valori non negoziabili.
«Ho apprezzato il lavoro svolto da alcuni parlamentari in questi anni. Credo che la difesa della vita e la promozione della famiglia – cellula insostituibile della nostra società fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, come prevede la Costituzione – siano elementi qualificanti per un cattolico in politica. E credo che su questo si possa dialogare e lavorare insieme con chi non è cattolico. Ma limitare alla difesa di questi valori la nostra presenza in politica oggi sarebbe un errore».
Perché parla di errore?
«Perché la stessa dottrina sociale non si limita ai valori non negoziabili. I cattolici non possono più fare da stampella a progetti politici gestiti da altri, in cambio della difesa di certi valori. Abbiamo da proporre anche un’idea di Stato, di società, di partecipazione, di giustizia sociale. Un’idea di politica vissuta come servizio al bene comune, che promette solo ciò che può mantenere. I cattolici devono cercare di tornare protagonisti e la dottrina sociale rappresenta una Magna Charta».
Che cosa intendete proporre?
«È necessaria una scossa per far ripartire il Paese, bisogna che la politica – oggi purtroppo screditata – si riappropri del suo ruolo, cambiando le facce e cercando di essere vicina alle esigenze dei cittadini. Giustizia sociale, welfare, riforma del mercato del lavoro, sussidiarietà, lotta ai privilegi delle caste, legge elettorale che ridia agli elettori il diritto di scegliere chi mandare in Parlamento. Le nostre realtà associativeche operano nel territorio sono in grado di esprimere una classe dirigente. La cosiddetta antipolitica ha avuto spazio perché non c’è stata politica. Serve un’iniziativa nuova, in grado di mandare un messaggio forte e comprensibile».
La Chiesa vi appoggia?
«Credo che i cattolici in politica debbano ascoltare la voce dei pastori, ma poi rischiare in proprio, senza cercare o pretendere benedizioni. Un’iniziativa politica è di per se stessa di parte. Non si deve trascinare la Chiesa in queste vicende».

Repubblica 4.7.12
Legge elettorale, il ritorno del proporzionale
Collegi uninominali, sbarramento e premio del 15%. I dubbi del Pd: 48 ore per l’intesa
di Giovanna Casadio


ROMA Due giorni per trovare un brandello di accordo. Una settimana per metterlo nero su bianco e per riformare così la legge elettorale dichiarata “una porcheria”, il Porcellum appunto. Mentre il Senato, in commissione, a sorpresa boccia l’elezione diretta del presidente della Repubblica (13 a 12, perché si astiene il finiano Valditara, e il voto vale come contrario), e giovedì tutto il “pacchetto istituzionale” torna alla lenta, e inutile, discussione d’aula. Peraltro senza relatore.
Nella partita riforme è quella elettorale ad avere qualche chance in più. Anche se l’ultima (e incompleta) bozza tessuta da Bersani e Alfano (con l’appoggio di Casini) è a bagnomaria da più di una settimana. Maurizio Migliavacca - capo segreteria del Pd e ufficiale di collegamento politico ha detto a Denis Verdini - ormai plenipotenziario del Pdl nella trattativa - che il tempo stringe. Il segretario Bersani precisa: «Io immagino che tra pochi giorni si saprà se si riesce a concludere qualcosa che poi bisognerà tradurre in atti parlamentari». E Migliavacca dà il timing: «Tra una settimana o abbiamo messo l’accordo per iscritto, oppure la riforma elettorale non si farà più; entro sabato, speriamo di sapere qualcosa».
I pidiellini garantiscono che, tra pochissimo, la loro posizione su come cambiare il Porcellum
sarà chiara come acqua di fonte. Ignazio La Russa è pronto a scommetterci. Infatti la questioneriforma elettorale è ufficialmente sul tavolo del vertice con Berlusconi a Palazzo Grazioli ieri sera. Il Cavaliere vuole un sistema più proporzionale possibile. L’ultima ipotesi messa in circolazione è di assegnare i seggi per l’85% con metodo proporzionale, modello greco. «Da 118, una follia - commenta Stefano Ceccanti per il Pd -Così il Pdl sta portando noi Democratici in un buco nero». La Russa nega: «Siamo consapevoli che si deve cambiare; lasciare lo sconcio del Parlamento di nominati è la fine della politica». Significa sommare discredito a discredito. E questo sembra un argomento convincente per tutti. Basterà per superare i veti incrociati?
Ecco, lo stato dell’arte. Per ora il modello anti-Porcellum su cui si è raggiunto il massimo comune denominatore prevede di lasciare per un/terzo le liste bloccate (com’è ora) e per due/terzi adottare il cosiddetto “Provincellum”, cioè collegi uninominali piccoli, ma sono eletti coloro che hanno i migliori quozienti in una sorta di ripartizione proporzionale. Su questo anche i “falchi” del Pdl - gli ex An (fan del sistema con le preferenze) - sono diventati possibilisti. Ripetono che «con le preferenze è meglio»: Meloni, Rampelli, Marsilio hanno presentato una proposta di legge ad hoc, e la prossima settimana, tanto per ripararsi dall’eventuale via libera ai collegi, depositeranno un’altra proposta sulle primarie obbligatorie per scegliere i candidati in lista. Ma lo scoglio resta il premio di maggioranza. Va alla coalizione o alla lista/partito che arriva primo? «Per noi resta ferma l’opzione- coalizione», ribadisce Migliavacca. E che sia un premio di maggioranza consistente del 15/20 per cento. Rema contro Casini. Anche Berlusconi vuole il premio per il partito che vince. Bersani però non transige su un punto: gli elettori devono sapere prima quale coalizione (e con quale leadership). Nello stallo-riforme ha preso quota l’idea (anticipata da Repubblica) di un’assemblea costituente. Pera ha già presentato un ddl sulla Costituente e insiste: «Si voti». Che si vada in questa direzione (che prevederebbe anche la proroga per Napolitano al Quirinale) sembra difficile. Nel Pd, Zaccaria la definisce «una patetica fuga in avanti». Chiti e Ceccanti lanciano il referendum d’indirizzo sulla forma di governo.

Repubblica 4.7.12
Finocchiaro non boccia la proposta di Pera, “ma Alfano ha violato i patti senza vergogna”
“La Costituente è cosa seria, il Pdl no ci fidiamo se cambia il Porcellum”
di Alessandra Longo


ROMA — Si può discutere di «una proposta seria» con degli interlocutori che hanno dimostrato di essere «inaffidabili»? Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, reagisce con prudenza assoluta ai boatos che descrivono il Pdl fulminato sulla via della Costituente. Davvero Berlusconi e Alfano, reduci da una conferenza stampa in cui lanciarono il semipresidenzialismo da votarsi cotto e mangiato in aula, adesso sono disponibili a sposare la proposta di Marcello Pera? Il punto di domanda, la diffidenza, ci sono tutti. Intenzioni serie o manovra «digressiva»? Anna Finocchiaro non dimentica la «clamorosa violazione del patto sulle riforme» commessa dal centrodestra, e sposta le priorità in agenda. Se davvero il Pdl ha voglia di passare alla storia e cambiare la Costituzione, dia prove concrete di buona volontà. Dunque prima la legge elettorale, poi il resto.
Senatrice Finocchiaro, che qualcosa si stia muovendo? Si farà la Costituente sotto forma di assemblea elettiva come propone l’ex presidente del Senato Pera?
«Sicuramente è una proposta seria, dalle linee precise. Una proposta però che prescinde dal lavoro sulle riforme costituzionali che avevamo fatto in questi mesi fino a raggiungere un testo votato dalla commissione affari costituzionali e firmato da tutti i gruppi parlamentari che compongono la maggioranza di governo. Sappiamo com’è andata. Il Pdl
ha affossato tutto violando clamorosamente gli accordi. Alfano, che pure quegli accordi aveva sottoscritto, non ha avuto vergogna. Hanno trattato con la Lega, per puri fini propagandistici ed elettorali: noi incassiamo il sempresidenzialismo, voi il Senato federale... Un
atteggiamento spregiudicato sulla carne viva della Costituzione».
Lei dice: di questi non ci si può fidare.
«Le ripeto: la proposta della Costituente, come del resto quella che avevamo lanciato del referendum di indirizzo e del dibattito pubblico, è seria e anche ben definita nelle sue linee essenziali. Se lei mi chiede perché il Pdl improvvisamente sembra orientato a sponsorizzarla le rispondo così: il Pdl butta la palla dall’altra parte. Vogliono recuperare quell’affidabilità che hanno perso. Però, nel frattempo, Gasparri dalle piazze lancia la sua bandiera semipresidenzialista. E’ questo il punto. La Costituente richiede un vincolo di responsabilità tra i soggetti politici che ne fanno parte. Questo vincolo non c’è, visto come si sono comportati. Non c’è il clima politico per cambiare la Costituzione. E ancora mi chiedo: non sarebbe forse una Costituente che nasce con il pregiudizio su Senato federale e semipresidenzialismo?
Quindi?
«Quindi voglio capire che gioco stanno facendo. Per ora non c’è nulla di ufficiale, solo boatos. Ricordiamoci che hanno affossato una riforma che era assistita sulla carta da una maggioranza superiore ai due terzi».
Ma lei si fida o non si fida?
«Se mi devo fidare, allora prima si cambi la legge elettorale. Le riforme costituzionali sono indispensabili ma resta alto l’allarme sulla legge elettorale. Non possiamo assolutamente permetterci di andare a votare di nuovo con il Porcellum o, peggio ancora, con il Porcellum con le preferenze».
Da bookmaker le percentuali di nascita della Costituente?
«Bassissime».

l’Unità 4.7.12
Fascisti da tutta Europa a Milano
L’incontro previsto per il fine settimana è organizzato da Romagnoli della Fiamma Tricolore
Le proteste Anpi e Cgil contro il raduno Pisapia: «Oltraggio alla città e alla Resistenza»
di Giuseppe Vespo


Le camere a gas? «Non ho nessun mezzo per poter affermare o negare» che siano esistite. È la frase più celebre di Luca Romagnoli, esponente di Fiamma Tricolore, già europarlamentare e inquilino della Casa delle Libertà alle politiche del 2006, tornato in queste ore sulla ribalta come organizzatore del meeting neofascista in programma a Milano per il fine settimana.
Tra venerdì e sabato si ritroveranno all’hotel “Michelangelo” vari rappresentanti di movimenti e partiti di estrema destra, anche razzisti e xenofobi, riuniti sotto l’«Alleanza Europea dei Movimenti Nazionali», associazione nata nel 2009. Sono attesi, tra gli altri, gli inglesi del British National Party, i francesi del Front National di Marine Le Pen, gli ungheresi di Jobbik (terzo partito al Parlamento di Budapest), gli sloveni di Slovenska Nacionalna Stranka e i portoghesi del Partido Nacional Renovador. Non sono annunciati i greci di Alba Dorata, famosi per le recenti performance elettorali ma anche per le botte in diretta televisiva ai colleghi di altri partiti.
Il programma prevede due giorni di dibattito, il primo a porte chiuse, il secondo aperto e dedicato all’attualità della «Crisi dell’Europa e dell’euro». Un tema molto caro ai partiti dell’Alleanza di destra, che immaginano per il Vecchio Continente una politica diversa da quella di oggi.
In città cresce il malumore per l’evento: l’Anpi, la Cgil, i movimenti e le associazioni riunite nella Rete Antifascista milanese, sono contrarie dal raduno. Per questo nei giorni scorsi hanno chiesto al questore di impedire la manifestazione e ai partiti e al sindaco di esprimere pubblicamente la propria contrarietà.
Ieri Giuliano Pisapia ha ricordato su Facebook come «ancora una volta Milano, Medaglia d’oro della Resistenza, si ritrova ad ospitare un convegno di organizzazioni che, in un momento di crisi, fondano la loro politica istigando all’odio e amplificando inaccettabili discriminazioni razziali, sessuali e religiose». Il sindaco scrive «ancora una volta» perché appena nel 2009 il capoluogo lombardo si ritrovò a dover ospitare un altro meeting di gruppi neofascisti invitati, sempre al chiuso di un hotel, da Forza Nuova. L’incontro fu anticipato dalle polemiche sull’atteggiamento assunto dall’allora sindaco Letizia Moratti: «Se le manifestazioni sono manifestazioni di idee, e non diventano un problema di ordine pubblico diceva Moratti non me la sento di intervenire. Siamo in una città in cui ciascuno deve poter esprimere le proprie opinioni».
Pisapia affida il suo pensiero alla rete internet: «Auspico fortemente che sia oggi che in futuro, a fronte di eventi simili, venga effettuato ogni necessario ed approfondito controllo da parte delle autorità competenti dell’avvenuto rispetto della Legge Mancino», che punisce le discriminazione di tipo razziale, etnico e religioso.
IL MINISTRO INTERVENGA
«Mi riconosco nelle parole espresse dal sindaco», commenta Emanuele Fiano, responsabile forum Sicurezza del Partito democratico, che ieri ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri: «Chiederò di sapere se sussistano i presupposti di salvaguardia dell’ordine pubblico per lo svolgimento di tale manifestazione. Ovviamente aggiunge il deputato a posteriori sarà necessario verificare se nel corso di tale incontro verranno commessi reati ascrivibili alla legge Mancino o altri legati all’apologia di fascismo».
L’Anpi si dice «indignata». L’associazione nazionale dei partigiani non nasconde la propria preoccupazione per il «rifiorire di formazioni neofasciste e neonaziste in Europa». Un’onda, aggiungono i partigiani, «cresciuta trasversalmente da Est a Ovest». Magari in modo diverso da Paese a Paese, ma con scelte simili «da parte dei partiti o movimenti di scagliarsi, in primo luogo, contro un nemico esterno, di volta in volta identificato nei rom, nei gay, negli ebrei, nei musulmani o negli stranieri in genere».

l’Unità 4.7.12
Diaz, perché è importante evitare la prescrizione
di Andrea Ranieri


IN ATTESA DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, LA CUI CONFERMA O MENO DEL GIUDIZIO DI CONDANNA DELLA CORTE D’APPELLO, AVRÀ COME EFFETTO PRATICO PIÙ EVIDENTE, LA POSSIBILITÀ O MENO di alcuni alti funzionari dello Stato, a vario titolo coinvolti nell’assalto alla Diaz, di continuare a ricoprire le loro cariche, vale la pena riflettere sulle conseguenze che la sentenza potrà avere sul modo in cui tanta parte della nostra società, e in particolare gran parte dei giovani, guardano allo Stato e alle sue Istituzioni. In tempi di grandi tensioni economiche, politiche, sociali. La stragrande maggioranza di quelli che erano a Genova per il G8 del 2001, e di quelli che trovarono ospitalità nella scuola Diaz, non avevano nessun atteggiamento pregiudiziale verso le istituzioni. Le loro iniziative consuete avevano bisogno di una interlocuzione istituzionale. Volevano uno Stato che in tutte le sue articolazioni aprisse spazi alla loro azione solidale e mettesse a disposizione risorse e opportunità. Lo volevano cambiare, non abbattere.
L’aggressione della polizia, come spesso capita, prese di mira proprio i più miti e indifesi. Non li fece passare, per lo meno la maggioranza di loro, sul fronte dell’estremismo rivoluzionario, ma provocò una sfiducia nella possibilità di cambiare. Una perdita della credibilità complessiva delle istituzioni. Fra i più giovani fece sorgere un senso di sfida permanente verso le forze dell’ordine. L’abuso di potere fu individuato come il peggiore dei crimini. Si saldò progressivamente con stati d’animo maturati negli stadi e nelle notti metropolitane. Chi era a Roma alla manifestazione di «Uniti contro la crisi», ha visto come i giovani ribelli più arrabbiati fondessero il ricordo di Carlo Giuliani con quello del tifoso laziale Sandri ucciso da un poliziotto a un autogrill e a quello di Cucchi, entrato a Roma e mai uscito dalla cella in cui venne rinchiuso. Una ferita grave questa, che dura. Ha provato a sanarle il giudice che nella sentenza d’appello per la Diaz ha chiesto che i colpevoli pagassero per la colpa gravissima di aver fatto perdere a tanti giovani e alle loro famiglie fiducia nelle istituzioni democratiche e in chi dovrebbe far rispettare la legge.
Occorrerebbe ripartire da lì, e che la politica si rendesse conto dei danni enormi che l’impunità di cui troppo spesso godono i tutori della legge, è un fattore determinante dello scollamento fra tanta parte della giovane generazione e l’esercizio della democrazia. Siamo certi che la Corte di Cassazione giudicherà con imparzialità e competenza. Ma ci stupisce che l’Avvocato dello Stato, che dovrebbe rappresentarci tutti e che ascolta ed è ascoltato da chi ci governa, abbia richiesto sostanzialmente di rifare il processo, con ciò avallando la tattica dilatoria, di fatto mirante alla prescrizione dei reati, fin qui seguita dalla difesa degli imputati delle forze dell’ordine. Speriamo vivamente che non sia questo l’esito. E la lucida requisitoria del procuratore generale della Corte di Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne, fa ben sperare. Non è affidabile uno Stato che al vertice delle istituzioni che dovrebbero garantirne la sicurezza schiera persone impegnate ad evitare un giudizio su di loro o, ancor peggio, dei «prescritti».

il Fatto 4.7.12
“Politici e istituzioni fanno di tutto per ostacolare i pm”
Barbara Spinelli: “Li isolano, rischiano di finire come Falcone e Borsellino”
“L’intervento del Quirinale nelle indagini per aiutare Mancino mi sembra improprio”
di Silvia Truzzi


E fu così che le emozioni entrarono nella storia dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia: ai turbamenti dell'ex ministro Mancino, Ernesto Galli della Loggia dedica il suo editoriale di ieri sul Corriere, perché questi timori “sono la spia di una condizione del generale del Paese”. Un'Italia ostaggio dei meccanismi inquirenti della macchina giudiziaria. Anche Barbara Spinelli, su Repubblica, critica i politici. Ma con tutt'altre motivazioni: per lo scarso sostegno alle inchieste sulla stagione delle stragi.
Crede che la difesa di Mancino giustifichi l'attacco alla magistratura?
Galli della Loggia si concentra sullo stato d'animo di una persona oggi indagata per falsa testimonianza, sulla sua paura di essere "incastrato". È stupefacente che nessuna parola sia dedicata alle lacrime che Borsellino versò un mese prima di morire, quando scoprì che poteri ritenuti vicini tramavano la sua morte. O al pianto irato di Rosaria Schifani, vedova di un agente della scorta di Falcone. Nessuna pietà per i morti per mano della mafia. Stupisce che uno storico s’improvvisi psicologo, per dedurre che c'è un potere giudiziario persecutorio, che va ridimensionato.
Il professor Cordero ha detto: “non è buon segno che riappaia un'idea di justice re-tenue”, come quando i monarchi potevano impadronirsi dei processi.
Certo, così si ritorna ai giudici sottomessi al buon volere del re. Si dice: i giudici tracimano nell’esercizio dei loro poteri. Non è vero, i magistrati si muovono nell'ambito dei loro poteri. Sono le autorità politiche che trascinano.
A proposito: Galli della Loggia sostiene che i politici non hanno il coraggio di denunciare le distorsioni della magistratura. L’opposto di quello che lei sostiene su Repubblica
Cosa vuol dire che i politici non hanno saputo frenare i magistrati e i loro “teoremi”? O Galli della Loggia sa una verità che i giudici ignorano, e il “teorema” allora è suo. Oppure, come credo, fa parte di coloro che la verità non la vogliono. La verità di questi trent'anni è quella di una classe politica che - contro le vittime e i parenti delle vittime - non vuole lo scoperchiamento di quello che il procuratore Scarpinato chiama il fuori scena, il rimosso, il nascosto.
Antonio Ingroia ha detto: “Le istituzioni ci lasciano soli”.
Ho le stesse sue preoccupazioni. Il problema, non da oggi, è che le istituzioni fanno di tutto per ostacolare le procure che si attivano sul patto Stato-mafia.
Atteggiamento che getta una terribile ombra, perché genera un sospetto.
C'è una frase, detta da Ingroia, che chiede alla politica di fare la sua parte, accertando la verità storica. Sono le parole che Borsellino disse prima di morire: la politica non faceva la sua parte, la giustizia era sola. Siamo sempre lì: le istituzioni vogliono o non vogliono sapere la verità? La vogliono dire agli italiani? È dalla morte di Dalla Chiesa e Chinnici che non la vogliono sapere: aspetto prove del contrario. E poi: che giudizio viene dato sul patteggiamento tra parti dello Stato e la mafia? Un negoziato non presunto, come dicono tanti, ma certificato dalla sentenza che condannò all'ergastolo il boss Tagliavia. Si tratta ora di configurare il reato, se c’è.
Cordero ha definito le dichiarazioni del presidente Napolitano sulle intercettazioni una gaffe. Lei è d'accordo?
Sì, perché la legge sulle intercettazioni in Italia ha una storia torbida, scritta da leader politici insofferenti all'indipendenza della stampa. Se anche ci sono dei problemi sulle conversazioni pubblicate, non è in occasione di una discussione sul patto Stato-mafia che si ritira fuori dal cassetto la legge bavaglio. Comunque non sono apparse sui giornali le conversazioni del capo dello Stato, sono circolate quelle del consigliere giuridico D'ambrosio: diranno i giudici se hanno qualche rilevanza penale. Non vedo nessuna aggressione al Capo dello Stato.
L'aggressione starebbe nell'aver chiesto conto al Quirinale delle telefonate di D'ambrosio e Mancino. Nel suo editoriale, lei ha parlato “d'improprio favore del Colle a Mancino”.
Il favore è stato di verificare, come chiesto da Mancino, il buon coordinamento tra le procure: un coordinamento già assicurato un anno prima da un protocollo fra procure, su iniziativa del Procuratore nazionale anti-mafia Grasso. Il Colle si è attivato perché un politico gli ha chiesto aiuto. Questo mi pare improprio.
Ci sarà mai un momento di verità o andremo avanti con gli slogan usati come bandierine durante le cerimonie?
Ormai sono ipocrite le frasi sulle “verità da cercare a ogni costo”, e anche le commemorazioni. Condivido lo “spaesamento” di Scarpinato, sempre più grande man mano che passano gli anni e le cerimonie. Ma i giudici stanno lavorando. Ne usciremo perché dev'essere dato un senso al loro lavoro e sacrificio, anche se, come tutti, sono fallibili. Perché rischiano di essere isolati e attaccati come lo furono, ai tempi del pool di Palermo, Falcone e Borsellino.

Corriere 4.7.12
Due richiami alla Costituzione
di Valerio Onida


Caro direttore, all'opinione pubblica, che assiste con distratta preoccupazione alle polemiche sulle indagini giudiziarie riguardanti la presunta trattativa fa lo Stato e la mafia, è bene offrire due elementi di informazione e di valutazione, non certo nuovi, ma forse talvolta trascurati.
Primo. Uno dei temi della presunta trattativa sarebbe stato l'applicazione del cosiddetto 41-bis, cioè del regime carcerario speciale previsto nei confronti dei detenuti che non abbiano interrotto i loro collegamenti con la criminalità organizzata. Un regime carcerario caratterizzato da rigorosa separazione rispetto agli altri detenuti, sorveglianza più stretta e deroghe alle regole ordinarie: riduzione e modalità controllate dei colloqui e delle telefonate, riduzione dei tempi trascorsi fuori dalle celle. L'applicazione del regime speciale avviene sulla base di decisioni prese in sede amministrativa, dal ministro di Giustizia. Vale la pena di ricordare che su questa disciplina di eccezione erano state sollevate, proprio all'inizio degli anni Novanta, numerose questioni di costituzionalità da tribunali di sorveglianza, dubitandosi che essa fosse rispettosa dei diritti fondamentali dei detenuti. La Corte costituzionale, con ripetute pronunce (n. 349 e n. 410 del 1993, n. 351 del 1996, n. 376 del 1997, ribadite ancora di recente dalla sentenza n. 190 del 2010), ha ritenuto che tale disciplina, pur giustificata dall'esigenza di ridurre al minimo il rischio di perduranti collegamenti fra detenuti mafiosi e fra questi e i loro complici in libertà, non violasse la Costituzione solo a patto di darne una interpretazione costituzionalmente orientata: il contenuto delle restrizioni non può essere tale da trasformare la pena in un trattamento contrario al senso di umanità o da rendere impossibile perseguire la finalità rieducativa e i provvedimenti ministeriali sono soggetti a un pieno controllo giurisdizionale, sia in ordine ai loro presupposti, sia in ordine al loro contenuto. E lo stesso legislatore è intervenuto per adeguare la norma ai principi enunciati dalla Corte. Difficile dunque prescindere da questo sfondo nel valutare le condotte degli organi responsabili, non potendosi certo intendere tout court come un «favore» fatto alla mafia l'adozione di indirizzi e determinazioni tendenti a contenere l'applicazione del 41-bis in termini rigorosi e tali da non travalicare i confini costituzionali.
C'è poi un secondo punto. La «trattativa» di cui si parla avrebbe coinvolto (e difficilmente avrebbe potuto non coinvolgere) anche componenti del governo dell'epoca: e infatti si fanno i nomi di diversi ministri dell'Interno e della Giustizia e perfino quello di un capo dello Stato. Ma le Procure che indagano non possono ignorare che nel nostro sistema costituzionale i reati commessi da ministri nell'esercizio delle loro funzioni (reati ministeriali) sono soggetti a una disciplina processuale speciale: la Procura alla quale perviene la notizia di reato deve trasmettere gli atti entro 15 giorni, «omessa ogni indagine», al cosiddetto tribunale dei ministri, il quale, svolta una rapida istruttoria, deve entro 90 giorni (prorogabili al massimo di altri 60) o disporre l'archiviazione, ovvero chiedere l'autorizzazione a procedere alla Camera competente. Questa a sua volta può negare l'autorizzazione, deliberando a maggioranza assoluta, solo se ritiene, con valutazione insindacabile ma motivata, «che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo». Quanto ai capi dello Stato, poi, com'è noto, essi possono essere chiamati a rispondere, per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni, solo in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione: l'accusa è riservata al Parlamento e il giudizio alla Corte costituzionale.
Dunque le Procure, se viene ipotizzato un reato di questo genere, non possono né protrarre ad libitum le loro indagini né indagare ministri o ex ministri. Accusare tali soggetti di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero, in relazione a procedimenti formalmente diversi ma per dichiarazioni che coinvolgano condotte suscettibili di configurare, in ipotesi, reati ministeriali, rischierebbe di rappresentare un espediente elusivo della disciplina costituzionale.
Anche senza conoscere nel dettaglio origini, fondamento e sviluppi delle indagini in corso, è spontaneo domandarsi se e quanto esse siano in linea con questi caratteri del nostro sistema costituzionale.
Presidente emerito della Corte costituzionale

Corriere 4.7.12
Gotti a Orsi: il sistema ti difende
Microspia al bar intercetta l'ex presidente Ior e quello di Finmeccanica
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — C'è un «sistema» di potere che si è mosso per far rimanere Giuseppe Orsi al vertice di Finmeccanica. A rivelarlo allo stesso Orsi è Ettore Gotti Tedeschi, l'ex presidente dello Ior. La conversazione tra i due, intercettata grazie a una «cimice» il 23 maggio scorso, svela come il banchiere si sia adoperato per il suo amico manager e lo abbia fatto contattando alcuni dirigenti delle società controllate dalla holding. Primo fra tutti Ignazio Moncada, potente amministratore delegato di «Fata spa». Ed è per questo motivo che ieri i magistrati napoletani che indagano sulle commesse estere ottenute dal Gruppo hanno ordinato ai carabinieri del Noe di perquisire l'abitazione e l'ufficio di Moncada a Torino. Nel provvedimento firmato dai pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio è specificato che l'atto viene eseguito perché «vi è fondato motivo di ritenere che presso i luoghi a lui in uso possano trovare elementi di prova (appunti, relazioni, schemi, rubriche, elenchi) circa i rapporti intrattenuti tra lo stesso e altre persone non identificate, costituenti, secondo le riferite parole di Gotti Tedeschi parte di un «sistema» più ampio e informale che parrebbe condizionare non solo le scelte aziendali del gruppo Finmeccanica da adottarsi in conseguenza delle indagini in corso condotte da questa autorità giudiziaria (con conseguente necessità di acquisire traccia di eventuali inquinamenti probatori in atto), ma che potrebbe anche aver svolto un ruolo sulla gestione di provviste illecite formatesi all'estero e facenti capo al predetto gruppo industriale».
«Sei l'unico che può stare lì»
L'incontro avviene il giorno prima il licenziamento di Gotti dall'Istituto opere religiose. Orsi ha saputo da circa un mese di essere sotto inchiesta a Napoli per corruzione internazionale e riciclaggio, sospettato di aver pagato tangenti per aggiudicarsi commesse estere quando era amministratore di Agusta Westland. Ed è consapevole di rischiare il posto al vertice di Finmeccanica. È Gotti a rassicurarlo spiegando di aver visto poco prima Moncada, che definisce «un grande burattinaio».
Gotti: «Sono andato siccome sapevo che ci dovevamo stare... oggi sono andato da Moncada... Io Moncada lo conosco meglio di te».
Orsi: «Sì, ma io lo conosco».
Gotti: «No va bè, ma io lo conosco... però tu lo conosci e sicuramente perché sai chi è e ti hanno ... io lo conosco da molti anni e ho un'opinione molto precisa su Moncada... eh primo, gli ho detto quello che penso e poi gli ho detto cosa pensi tu! Lui ha un'enorme stima di te, lui dice "Orsi è la persona giusta! che va difesa e va supportata!" Quindi sappi che Moncada... comunque lui me l'ha detto, m'ha persino detto con quali persone ieri si è discusso il caso Orsi, e tutti! anche persone importantissime, hanno detto? "Orsi è una persona che va difesa e va supportata!" Sappilo...».
Orsi: «Io...».
Gotti: «Quindi, il "sistema" è a tuo favore e ti difenderà! Adesso per quanto tempo, se è per mille anni o per preparare una... un qualcosa questo nessuno lo può sapere, però oggi sei l'unica persona che può stare lì! e loro lo sanno... Intanto io scherzando gli ho detto ma gli togli la presidenza, "be' se viene tolta la presidenza faccio io il presidente!". Non togliamo niente resta amministratore delegato e presidente!».
«Fa giochi grossi»
La conversazione è coperta da numerosi «omissis» e tanto basta per comprendere che sono diversi i filoni esplorati dai magistrati. A un certo punto i due fanno riferimento all'incontro con «il gobbo», ma non ci sono altri dettagli per identificarlo. In una parte della conversazione Orsi sembra lamentarsi di come il Corriere della Sera tratta la vicenda che lo riguarda e Gotti afferma «ma de Bortoli è così, lui è uno che da un colpo al cerchio e uno alla botte...». Poi i due discutono di alcuni manager di Finmeccanica.
Gotti: «Ma Moncada non è mai stato pro Pansa (l'amministratore Alessandro Pansa, ndr)».
Orsi: «Non lo so, lui è sempre stato... a che ora hai visto il gobbo?».
Gotti: «Dieci».
Orsi: «Ah, ok e questo gli ha detto Passera, Pansa ha preso una sberla bestiale!».
Gotti: «Secondo te lui era pro Pansa?».
Orsi: «Assolutamente, lui ha sempre cincischiato con Pansa, sempre nel suo ufficio. È sempre... Pansa dice che lui c'ha tutto il supporto di Moncada...».
Gotti: «Non semplificarlo come agente della Cia o come un massoncello qualsiasi... è veramente un grandissimo burattinaio! Non ti scontrare con lui, portatelo dalla tua parte».
È su tutto questo che adesso si concentrano le verifiche dei pubblici ministeri.

Corriere 4.7.12
Quei bambini sbarcati in Italia e poi scomparsi
di Virginia Piccolillo


ROMA — C'è un esercito di bambini fantasma di cui non ci siamo occupati. Sono i minori stranieri sbarcati in Italia da soli, durante la «primavera araba». Secondo le stime ufficiali, da gennaio 2011 in circa nove mesi ne sono arrivati quasi 4 mila. Ma di ben 835 se ne sono perse le tracce. Sono per lo più maschi, tra i 16 e i 18 anni, ma tra loro ci sono anche ragazzine. Di tutti loro non ci siamo presi cura. Distratti probabilmente dai problemi di ordine pubblico di quella che burocraticamente è stata denominata «emergenza Nord Africa».
Ora quei minori senza volto e senza storia danno notizia di sé. E non è una buona notizia. Quelli che non sono scomparsi sono finiti nelle comunità o in case-alloggio che, a seconda della maggiore o minore sensibilità, li ospitano con il compito ambizioso di reinserirli. Peccato però che nessuno paghi più per il loro sostentamento da oltre un anno, malgrado l'emergenza sia stata prorogata fino al prossimo 31 dicembre.
Ecco perché è partito un appello firmato da molti Comuni, prevalentemente del Sud, dove le Regioni, in assenza di trasferimenti del governo attraverso la Protezione civile, non ripianano le spese delle comunità che denunciano: fra poco saremo costrette al fallimento e a mandar via i ragazzi.
Bambini traditi due volte. Lo denuncia Sandra Zampa (Pd), relatrice per la Bicamerale Infanzia di un documento che all'unanimità sollevò il problema dei ragazzi fantasma: «Prima abbiamo scoperto con troppo ritardo, nonostante le denunce delle ong, che erano spariti — attacca —. Adesso c'è la seconda grave violazione delle convenzioni internazionali che ci obbligano a prenderci cura di loro. Ma sappiamo che fine fanno i minori quando finiscono i fondi. Ce lo ha detto un prefetto in commissione. Spuntano spesso bei vestiti per le femmine, avviate alla prostituzione, e telefonini per i maschi reclutati da lavoro nero o criminalità. Spero che il governo dia segni di discontinuità».
L'appello dei Comuni è stato inviato al ministro del Welfare Elsa Fornero, presso il quale è istituito il comitato minori stranieri non accompagnati del Nord Africa, ai presidenti di Regione, ai prefetti e a Natale Forlani, direttore del dipartimento immigrazione del ministero. Ma lui ha già risposto: «Non è possibile soddisfare le richieste di erogazione di contributi ancora pendenti poiché non sono state stanziate a favore dello scrivente risorse finanziarie ulteriori rispetto a quelle indicate (pari a 9 milioni 800 mila euro) per altro già integralmente impiegati». È così? Forlani non solo ammette: «Mancano ancora i fondi per tutto il 2012 e per una quota del 2011». Ma rivela: «Attualmente accolti in assistenza i minori non accompagnati sono 2.200». L'esercito fantasma è cresciuto ancora.

l’Unità 4.7.12
Inferno Siria, ecco i 27 lager della tortura
Il rapporto di Human Rights Watch
Abusi sessuali, acidi, bastonate: così il raìs «piega» i ribelli
di Umberto De Giovannangeli


Le «Abu Ghraib» di Bashar. Carceri trasformati in centri di tortura permanenti. Nel giorno in cui Bashar al-Assad prova a ricucire con la Turchia la Siria non voleva l’abbattimento del jet turco che ha causato una crisi tra Ankara e Damasco, afferma il presidente siriano in una intervista al quotidiano turco Cumhuriyet, in cui Assad assicura inoltre che non permetterà che le tensioni politiche tra i due Paesi degenerino in un conflitto aperto nel giorno delle «scuse», si apre un altro capitolo dell’orrore. Abusi e umiliazioni sessuali, bastonate, maltrattamenti di ogni genere, scosse elettriche ai genitali, finte esecuzioni: sono questi alcuni dei brutali metodi di tortura usati dai principali servizi di intelligence siriani in 27 centri di detenzione che ospitano decine di migliaia di persone, molte delle quali vengono sottoposte «sistematicamente» a queste pratiche dal marzo 2011, quando sono cominciate le dimostrazioni contro il regime. È la denuncia-shock contenuta in un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) dal titolo, quanto mai appropriato, «L’arcipelago della tortura».
VIAGGIO NELL’ORRORE
Nel documento, di 81 pagine, l’organizzazione lancia un appello al Consiglio di sicurezza Onu affiché denunci la situazione in Siria alla Corte penale internazionale e adotti sanzioni mirate contro i funzionari sospettati di essere coinvolti negli abusi. Il rapporto, che si basa su oltre 200 interviste ad ex detenuti e disertori siriani, costituisce una dura denuncia dei metodi di repressione utilizzati dal presidente Assad, tanto da indurre gli esperti di Hrw a parlare apertamente di crimini contro l’umanità. Gli artefici sono le quattro principali agenzie di intelligence, conosciute con il nome di mukhabarat: il Dipartimento di intelligence militare, il Direttorato di sicurezza politica, il Direttorato di intelligence generale e il Direttorato di intelligence dell’aeronautica militare. Tra loro gestiscono i 27 centri di detenzione sparsi in tutto il Paese: 10 a Damasco, quattro a Idlib, quattro a Homs, quattro a Latakia, tre a Doraa e due ad Aleppo. Affferma Ole Solvang, ricercatore di Human Rights Watch. che «pubblicando l’ubicazione di questi centri, descrivendo i metodi di tortura e identificando i responsabili, stiamo avvertendo queste persone che dovranno rispondere di questi crimini orribili». Quasi tutti gli ex detenuti dei centri che sono stati intervistati hanno riferito di essere stati torturati o di avere assistito a torture durante la loro detenzione. Un ex detenuto di 31 anni ha raccontato di essere stato torturato tra gli altri metodi con una pinzatrice: le graffe venivano applicate sulle dita, sul petto e sulle orecchie».
I testimoni citano le percosse prolungate con bastoni e cavi e il fatto di costringere i detenuti a mantenere posizioni dolorose per lungo tempo, ma si parla anche dell’impiego dell’elettricità, di bruciature con l’acido, di aggressioni sessuali, asportazione delle unghie ed esecuzioni simulate. Damasco non ha ratificato lo Statuto di Roma della Cpi, per questo motivo la Corte può avere giurisdizione sulla Siria solo se il Consiglio di sicurezza adotta una risoluzione in tale senso. Tuttavia, ricorda Hrw, finora Russia e Cina hanno bloccato ogni tentativo delle Nazioni Unite di intervenire nella crisi siriana. «La portata e la disumanità di questa rete di centri di tortura sono veramente orribili – conclude Solvang la Russia non dovrebbe garantire la sua protezione a persone responsabile di questo». In un precedente rapporto – reso pubblico il 15 giugno – Hrw aveva denunciato che i soldati fedeli ad Assad fanno uso di violenze sessuali per torturare uomini, donne e minori detenuti durante la repressione. Nel documento si legge che militari e milizie filogovernative hanno abusato di donne e ragazzine, le più giovani delle quali di 12 anni, durante raid e operazioni in aree residenziali.

Corriere 4.7.12
Diplomazia debole e protezione russa
Impotenti davanti ai massacri in Siria
di Guido Olimpio


Rapporti terrificanti sulle torture commesse dal regime siriano. Bombe sui centri abitati. Vendette non meno sanguinose dei ribelli. E morti. Tanti morti. Il conflitto in Siria scrive ogni giorno pagine brutali e nessuno sa bene cosa fare.
L'Occidente per ora si è limitato ad aiutare gli insorti con forniture di armi dirette o indirette attraverso gli alleati arabi. Un supporto — si racconta — affiancato da operazioni dell'intelligence. Più determinati alcuni Paesi arabi, come Arabia Saudita, Qatar, Libia, che hanno fornito materiale bellico in quantità all'opposizione. Ma questo è il limite. Nessuno per il momento sembra pensare a un intervento in stile Libia. Gli Usa lo hanno escluso, non meno prudenti i partner europei. Un'azione militare aprirebbe scenari imprevedibili e sarebbe costosa in termine di vita umane. Poi ci sono le diffidenze verso i ribelli, dove non sono pochi gli estremisti. Come dice saggiamente l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, meglio stare alla larga se non sei sicuro di ciò che viene dopo. E la Siria rientra in questa categoria.
Le indecisioni della diplomazia sommate alla protezione della Russia danno una mano al regime. La satrapia perde i pezzi ma è ancora solida. L'impressione è che il clan Assad, insieme alle minoranze che lo appoggiano, sia pronto ad andare fino in fondo. Con le armi in pugno. Allora si manovra. Pressioni diplomatiche piuttosto sterili e il sostegno — contenuto — all'insurrezione. Si spera di provocare un punto di rottura, quel crac che spinga Mosca a chiedere al leader di farsi da parte per favorire una transizione come invoca l'inviato dell'Onu, Kofi Annan. Un'uscita in extremis per evitare il bagno di sangue finale. L'impressione, però, è che sia troppo tardi. Quando si compiono certe nefandezze e si bruciano migliaia di vite non c'è spazio per soluzioni intermedie. Gli insorti lo hanno fatto capire. Difficile perdonare l'eccidio. La conseguenza è che cinicamente si aspetta una svolta sul terreno. Qualcosa che spezzi il regime o che renda possibile un intervento oggi escluso.

Repubblica 4.7.12
“Le decisioni spettano al popolo sono pronto a dimettermi se i siriani me lo chiederanno”
Il presidente Assad: “Non accetto diktat esterni”
intervista di Utku Cakirozer


È presidente della Siria dal luglio del 2000, confermato da un referendum popolare dopo la morte del padre Hafez al-Assad, che fu a capo dello Stato per trent’anni. Dal marzo del 2011 fronteggia una contestazione durissima esplosa sull’onda delle primavere arabe

SIGNOR presidente, la tensione tra Siria e Turchia dopo l’abbattimento dell’aereo turco porterà a un conflitto?
«Viviamo una fase storica in cui viene ridisegnata la mappa dell’intera regione, forse come un centinaio di anni fa, ai tempi del declino dell’Impero ottomano. Arabi e turchi entrarono in conflitto. Però la storia ci ha insegnato molto: perdemmo entrambi, arabi e turchi. È irragionevole tornare a quella situazione. Negli ultimi quindici mesi, dall’inizio della crisi, abbiamo cercato di operare su più fronti: risolvere la crisi interna in Siria, e fronteggiare i terroristi. In secondo luogo, preservare i risultati ottenuti nei rapporti fra noi e la Turchia. Ma l’attuale governo turco ha distrutto gran parte di ciò che abbiamo costruito. Però è rimasta la base fondamentale, il buon rapporto tra i due popoli. La gente in Turchia non consentirà, come noi, che si arrivi al conflitto, una situazione perdente per la Siria e la Turchia».
Riguardo all’aereo abbattuto, è stato un atto intenzionale, ordinato da lei, come sostiene il governo turco?
«Affermarlo è ridicolo. Odiamo forse il popolo turco? L’aereo è stato abbattuto da un’arma con una gittata dai 2 ai 2 chilometri e mezzo. Perciò l’aereo si trovava a meno di due chilometri e mezzo dal territorio siriano. In tempo di pace non si abbattono aerei, tanto meno di un Paese amico come la Turchia. Ma noi siamo in stato di guerra e quando l’identità di un simile aereo è ignota, si presume che sia un aereo nemico. Volava a bassissima quota, perciò non era visibile sui radar siriani. Ma c’è un altro dato importante, di cui non si è parlato: lo spazio aereo è stato violato nello stesso punto in cui Israele ha sempre cercato di farlo».
Perché non sono stati inviati segnali di avvertimento?
«Sarebbe stato fatto, se l’aereo fosse apparso al centro dello schermo radar. Ma quando non si ha alcuna informazione o istruzione che l’aereo passerà da quel punto specifico, le regole d’ingaggio prevedono che il soldato faccia fuoco senza rivolgersi al comando, perché tutto succede in una manciata di secondi. All’interno delle acque territoriali, se un aereo vola a bassa quota i radar non lo catturano. Lo dimostra l’aereo israeliano che violò la stessa area per bombardare un sito militare siriano nel 2007, sfuggendo ai radar siriani. Per di più, non esistono missili di contraerea in quella zona con una gittata in grado di superare i limiti delle acque territoriali. Si tratta quindi di pure menzogne».
Lei come ha reagito alla notizia dell’abbattimento dell’aereo?
«A livello psicologico non è stato piacevole, perché i turchi sono un popolo fratello. Per quanto ci riguarda il nemico è solo Israele. Ma abbiamo avuto la sensazione che Erdogan e il suo governo vogliano sfruttare questo incidente per trarne vantaggi politici. E questo è molto pericoloso».
Intanto sono morti due piloti, due giovani. Cosa dice alle loro famiglie?
«Nonostante la politica di Erdogan sia fonte solo di sangue e distruzione per il popolo siriano, la morte di un cittadino turco è per noi la morte di un fratello. Perciò inviamo ai familiari delle vittime le nostre più profonde condoglianze. Il padre di uno dei piloti, rivolto ad Erdogan, ha detto: “Il morto è mio figlio, e non vogliamo che l’incidente venga manipolato per provocare la guerra”. È una posizione onorevole».
Il governo turco ora sta schierando truppe al confine siriano. Qual è la risposta
della Siria?
«I due momenti peggiori nei rapporti tra i due Paesi si ebbero nel 1998, quando la Turchia schierò l’esercito, e negli anni ‘50, ai tempi dell’Alleanza di Baghdad. Ciò nonostante non abbiamo mai considerato la Turchia un paese nemico, né vogliamo farlo oggi né in
futuro. Infatti la Siria non schiera l’esercito contro la Turchia».
In Turchia si discutono nuove regole di ingaggio: sarà aperto il fuoco su qualunque aereo, carro armato o pezzo di artiglieria siriano si avvicini al confine turco.
«Nessuno Stato ha il diritto di aprire il fuoco a meno che il suo territorio sia stato violato. Nel caso del tutto ipotetico che colpiscano un bersaglio entro i confini siriani, si tratterebbe di un’aggressione contro la Siria».
Come giudica il summit di Ginevra, e i punti elencati da Kofi Annan?
«Non c’è stato alcun contatto diretto tra noi e Kofi Annan o i russi. Ma hanno fatto affermazioni precise. La prima è che la decisione spetta al popolo siriano, e questa è la nostra posizione. Deve cessare la violenza, i gruppi armati vanno disarmati, e anche queste sono le nostre posizioni. Le mani sporche di sangue siriano, come ha detto Kofi Annan, non esistono solo in Siria, ma anche fuori della Siria. Questo dimostra il ruolo degli altri Paesi coinvolti. Tutti i punti sono essenziali, ma il più importante è che tutto va deciso in Siria, non all’esterno».
Secondo il Segretario di Stato Clinton, il piano di Kofi Annan prevede che lei, presidente, si dimetta. Lei come lo interpreta?
«La posizione americana è già ostile alla Siria in questa crisi, e per noi le loro parole non sono affidabili. Gli Stati Uniti sono parte del problema. Sostengono palesemente i terroristi. Perciò non ci interessano granché i loro discorsi».
A Ginevra si è parlato di transizione in Siria, con o senza il presidente, e di richieste interne, regionali e internazionali da soddisfare riguardo alle riforme. Lei che ne pensa?
«Noi non accettiamo imposizioni esterne. Tutto verrà deciso all’interno. Se il mio unico interesse, personale, fosse di conservare la presidenza, avrei soddisfatto le condizioni americane e le richieste pervenutemi coi petrodollari, avrei potuto vendere i miei principi in cambio di petrodollari. Di più: avrei accettato d’installare uno scudo missilistico in Siria».
Se la sua uscita di scena servisse a salvare il popolo e la Siria, lei lascerebbe?
«Se fosse nell’interesse della Siria, il presidente dovrebbe andarsene. È ovvio. Non si deve restare in carica nemmeno un solo giorno, se il popolo non lo vuole. E il popolo si esprime attraverso le elezioni».
Significa che non pensa di restare in carica per sempre?
«Glielo ripeto: l’incarico non ha alcun valore per me. È importante ciò che riesco a fare».

La Stampa 4.7.12
Milioni di anziani vivono in povertà: una legge imporrà il rispetto dei tradizionali vincoli famigliari
La Cina torna a Confucio: curate i genitori
In Cina gli over 60 sono circa un ottavo della popolazione, ma le strutture pubbliche sono rare. C’è posto solo per l’1,6% degli anziani
di Ilaria Maria Sala


I figli si trasferiscono in città padri e madri avanti negli anni spesso cadono in miseria
Molti, ancora legati ai valori confuciani della famiglia, non vogliono ammettere la realtà"
185 milioni. Sono le persone che in Cina hanno più di 60 anni

Mentre Pechino si appresta a rivedere la legge per i diritti degli anziani, che sarà approvata nei prossimi mesi, ecco che si prospetta un’aggiunta che, secondo molti, sarebbe necessaria, ma che sta facendo parecchio discutere: fare in modo che sia legalmente obbligatorio che i figli rendano frequenti visite ai genitori, in particolare se sono avanti con gli anni. Poche leggi possono essere più problematiche di questa, dal momento che i cambiamenti sociali degli ultimi anni hanno portato a nuclei familiari molto dispersi, un’urbanizzazione coatta che ha costretto molti giovani adulti a trovare lavoro lontano dal luogo di nascita, o dal luogo di residenza dei genitori, e a condizioni lavorative che rendono spesso arduo avere il denaro o il tempo necessari a compiere il lungo viaggio per ritornare da mamma e papà, indipendentemente dal loro stato di salute, o dalla loro età. Il problema è molto sentito in Cina, e la stampa si è fatta portavoce di un dibattito inevitabilmente confuso: da un lato, come ha mostrato un programma televisivo andato in onda su Cctv qualche giorno fa, secondo i sondaggi ufficiali il 42,2 per cento degli interpellati si sarebbe detta favorevole al rendere obbligatorie le «frequenti visite a casa» (pur senza specificare che cosa si intenda per «frequenti»). Il 35,6 per cento è contrario, mentre il 22,2 per cento non si è pronunciato.
Fino ad ora, però, l’intera questione è stata inquadrata nel contesto del rapido invecchiamento della Cina: un dato in gran parte conseguenza di quel drastico tentativo di ridurre la popolazione noto come «politica del figlio unico», che ha portato a un netto calo della natalità. Calo che, combinato con il miglioramento delle condizioni alimentari e salutari della popolazione, fa sì che la Cina sia il Paese a invecchiamento più rapido mai registrato.
Che la popolazione sia più sana e più longeva potrebbe essere visto in modo positivo, ma, a giudicare dagli stessi programmi televisivi, l’invecchiamento della popolazione è interpretato invece come «il problema numero uno della Cina», e gli ultrasessantenni sono, ancora una volta, affrontati non come una risorsa, ma come un potenziale peso sui bilanci, malgrado l’allungarsi della vita in buone condizioni di salute.
Secondo i dati demografici disponibili, le persone che hanno più di 60 anni in Cina sono 185 milioni, il 13,7 per cento della popolazione. Secondo alcune statistiche pubblicate la scorsa settimana dal quotidiano China Daily, alla fine del 2015 i cinesi con più di 80 anni saranno 24 milioni. A inquietare le autorità sono in particolare quei 51 milioni di persone al di sopra dei 65 anni i cui figli hanno lasciato non solo la casa dei genitori, ma anche la loro città e vivono molto lontano.
A tutto questo si aggiunge poi la drammatica questione della pensione, ancora tutt’altro che universale e che sta entrando in vigore solo ora per chiunque abbia più di 85 anni. Regione pilota, in questo, è il Tibet, dove le autorità regionali hanno istituito pensioni universali dal mese di gennaio.
Torniamo dunque alla proposta di legge: uno degli elementi più controversi, ovviamente, è quale tipo di pena imporre ai figli «negligenti». L’idea che sta prendendo piede è quella di autorizzare i genitori trascurati a citare in giudizio i figli. Una proposta a dir poco scioccante, stando a quanto dicono i commentatori interpellati dai media: l’idea che i figli decidano di trascurare i genitori in un Paese che continua ad avere una moralità confuciana, con una forte enfasi sul rispetto per gli anziani, e che ha come valore portante proprio l’amore filiale, è semplicemente sconvolgente.
La parte che ancora non è stata definita del progetto di legge, e che viene discussa in modo acceso, è se i figli non sufficientemente attenti ai genitori possano finire in prigione (il che avrebbe però un effetto del tutto controproducente) o se si debbano invece imporre delle multe.
Come fanno notare i legali interpellati, infatti, una legge cui si può contravvenire senza sanzioni non ha nessuna utilità. Ma come punire i figli irrispettosi, e come fare se le mancate visite non sono avvenute per disattenzione, ma per motivi contingenti, come l’assenza di ferie o di denaro per recarsi a casa dei genitori? Insomma, sembra che dopo decenni di sconvolgimenti sociali ed economici, potrebbe non bastare una legge per far sì che i figli unici cinesi siano vicini ai loro genitori. Come affrontare il problema, allora?

La Stampa 4.7.12
Se si fermano anche la tigre e il dragone
di Jaswant Singh


Jaswant Singh, ex ministro indiano alle Finanze, agli Esteri e alla Difesa, è l’autore di Jinnah: India - Separazione - Indipendenza

Al nadir della crisi finanziaria, quattro anni fa, molti governi asiatici giunsero a credere che la robusta crescita avesse portato quasi a un «disaccoppiamento» delle loro economie dall’Occidente e dei suoi attuali problemi. Ma ora, mentre l’eurozona vacilla e il recupero degli Stati Uniti rallenta, anche l’Asia sta mostrando segni di cedimento.
Alcuni politici asiatici, molto opportunisticamente, incolperanno l’Occidente per qualsiasi rallentamento della crescita. Ma la loro incapacità di porre in atto le necessarie riforme strutturali e le opportunità economiche è ugualmente se non maggiormente responsabile, per i crescenti problemi della regione.
Prendiamo l’India. Secondo i rilievi dell’International Market Assessment: «I flussi di capitali che si sono prosciugati... non sono un riflesso delle condizioni del mercato globale», ma di una perdita di fiducia tra gli investitori, derivante principalmente dalla cattiva gestione finanziaria, che ha portato a «instabilità dei prezzi, calo degli investimenti e, infine, a un calo della crescita». «Con il governo “in sonno” - conclude l’Ima -, l’India sta rapidamente perdendo terreno».
La situazione in India è davvero preoccupante. L’inflazione a due cifre dei prezzi alimentari è stata accompagnata dal dibattito sul numero degli indiani che vivono al di sotto della soglia di povertà, e persino dal dibattito su dove dovrebbe essere tracciata questa soglia. Le statistiche ufficiali utilizzano un reddito medio giornaliero di 32 rupie (0,57 dollari) al giorno per separare i semplicemente poveri dai disperatamente poveri.
Invece di affrontare il paradosso centrale della società contemporanea indiana - la povertà in mezzo all’abbondanza - il governo indiano ha seppellito la testa sotto la sabbia. Proclama riforme coraggiose, che ripudia prima che l’inchiostro sia asciutto. Ancora peggio, la crescita della corruzione ufficiale sta fiaccando il dinamismo del settore privato.
Ma l’India non è la sola a vacillare. Anche la Cina ha paura di un rallentamento della crescita e dell’aumento dell’inflazione. In risposta, la banca centrale cinese sta abbassando i tassi d’interesse per stimolare gli investimenti interni, e il conseguente deprezzamento del tasso di cambio del renminbi ha contribuito a mantenere a galla le esportazioni. Ma i numeri delle importazioni cinesi per il primo semestre di quest’anno segnano una stagnazione, suggerendo che le imprese cinesi non stanno investendo in nuove attrezzature - e quindi che l’economia cinese potrebbe presto andare in stallo.
Anche se i loro sistemi politici sono opposti e speculari, ci sono sorprendenti analogie tra alcuni dei più profondi problemi strutturali di Cina e India. Entrambi i paesi si sono impegnati in riforme – la Cina negli Anni 80 e l’India negli Anni 90 - che hanno decentralizzato i processi decisionali ed entrambi hanno conosciuto un rapido sviluppo. L’India è stata costretta dalla sua democrazia a perseguire un percorso politico di decentramento, ma molto del potere decisionale economico è rimasto incorporato nella burocrazia sclerotizzata di New Delhi, ritardando la crescita.
Per contro, la Cina ha realizzato il decentramento economico, ma ha conservato un potere politico centralizzato, trasferendo le responsabilità economico-gestionali in gran parte a funzionari provinciali, cosa che ha creato i suoi propri squilibri.
Così, mentre la Cina è costretta a passare dalle esportazioni ai consumi interni per sostenere la crescita, l’India continua a fare affidamento sugli investimenti interni, esportazioni di servizi e materie prime, e sgravi fiscali e deficit di conto corrente per mantenere il suo percorso di crescita. Ma il suo deficit più dannoso è la governance, così come in Cina, dove lo scandalo Bo Xilai ha esposto il lato patologico della tanto vantata leadership tecnocratica della Cina.
Anche da altre parti in Asia stanno sorgendo problemi strutturali. In Vietnam, l’inflazione si è attestata vicino al 20% o più e il governo sembra restio ad abbracciare le riforme più profonde. L’interminabile imbroglio politico in Thailandia ha lasciato la sua economia alla velocità di stallo, lo zelo riformista del presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono si è esaurito nel suo secondo mandato dopo la partenza del ministro delle Finanze Sri Mulyani Indrawati, e il Giappone sembra rimanere in uno stato di animazione sospesa.
Il malessere dell’Europa e la conseguente crescita della politica populista, suggeriscono che i governi asiatici non possono permettersi di sedersi sugli allori della crescita. Dovrebbero tener conto di un recente commento di Pavlos Eleftheriadis della Oxford University su un elettorato greco «livido per la rabbia di essere guidato da coloro che disonestamente hanno causato il problema». Infatti, secondo Eleftheriadis, oggi in Grecia gli esattori delle tasse devono fronteggiare cittadini armati di frusta. Questo assomiglia un bel po’ all’attuale situazione in India.
In Asia circolano idee coraggiose che potrebbero sostenere e promuovere la crescita. La recente decisione dei leader di Cina, Giappone e Corea del Sud di avviare i colloqui su un accordo trilaterale di libero scambio tra, rispettivamente, la seconda, la terza e la dodicesima tra le maggiori economie globali, è certamente audace, anche se il raggiungimento di un accordo tra due grandi democrazie dell’Asia e la Cina probabilmente farebbe sembrare semplice il fallito incontro di Doha sui negoziati commerciali mondiali.
Ma l’India in tutto questo non compare. Infatti, con l’economia birmana che si apre al mondo, l’India dovrebbe prendere l’iniziativa cercando di stimolare la crescita del sud asiatico e l’integrazione economica, perché solo così facendo può ancorare il suo vicino all’interno della regione. Eppure, quando il primo ministro Manmohan Singh di recente ha visitato la Birmania, aveva poco da offrire a parte le solite proposte di investimento. Una coraggiosa iniziativa verso il Bangladesh potrebbe anche produrre un impatto fortemente positivo sulla crescita, e tuttavia non sta succedendo niente nemmeno lì.
Con i principali paesi emergenti, in particolare Cina e India, già in difficoltà, l’Asia può aspettarsi duri contraccolpi se l’euro affonda. Prima che ciò accada, i governi devono prendere l’iniziativa politica, rafforzando così la fiducia dei mercati finanziari mondiali nella capacità dell’Asia di resistere al vento malato dell’Ovest.
Copyright: Project Syndicate, 2012. www.project-syndicate.org traduzione di Carla Reschia

Corriere 4.7.12
«Polonio sullo spazzolino di Arafat». Si riapre il caso

Rinvenute tracce di veleno su vestiti e oggetti personali consegnati alla vedova Suha

GERUSALEMME — Lo spazzolino da denti e la keffiah. Il mistero della morte di Yasser Arafat starebbe incastonato negli oggetti intimi usati durante i due mesi di malattia e nel simbolo che ha rappresentato la sua battaglia, quel foulard portato sulla fronte in modo da riprodurre la forma della Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo.
L'emittente araba Al Jazeera riapre il caso e i sospetti, un'inchiesta durata nove mesi a quasi otto anni dal decesso, l'11 novembre del 2004 nell'ospedale militare Percy, periferia di Parigi. È da quelle corsie che è ripartita l'indagine, dai beni personali del leader palestinese consegnati alla vedova Suha e da lei passati ad Al Jazeera.
Le tracce biologiche (sangue, saliva, sudore) rimaste sui tessuti o tra le setole sono state analizzate nei laboratori dell'Istituto di radiofisica alla clinica universitaria di Losanna. «La conclusione è che abbiamo trovato un livello significativo di polonio-210», spiega il direttore François Bochud.
È lo stesso isotopo radioattivo rilevato nel corpo di Alexander Litvinenko, l'ex colonnello dei servizi segreti russi che aveva denunciato le trame cecene ed era morto avvelenato a Londra nel 2006. È un elemento molto raro, che gli scienziati definiscono «esotico»: «Non si può certo preparare in casa». Fino ad adesso gli oltre cinquanta medici che avevano visitato Arafat non sono stati in grado di precisare le cause della malattia fatale i cui sintomi compaiono il 12 ottobre del 2004.
La cartella clinica del raìs — 558 pagine più le radiografie — riporta i risultati dei test tossicologici, che non hanno indicato veleni nel sangue. «O almeno non hanno scovato sostanze note e comuni — ha commentato da subito il nipote Nasser Al Kidwa, diplomatico per le Nazioni Unite, tra i primi a ipotizzare la macchinazione —. Non possiamo escludere che mio zio sia stato ammazzato».
Così la pensa anche Ashraf al-Kurdi, per diciotto anni medico personale di Arafat, che due anni fa ha ricostruito la sua teoria al sito Internet giordano Amman: «Nel suo sangue è stato rilevato l'Hiv, ma non è morto di Aids. Il virus è stato iniettato per coprire l'avvelenamento».
I complottisti accusano il Mossad, anche se non escludono una congiura al palazzo della Muqata, lotte interne di potere tra i palestinesi. Qualcuno ricorda un caso di quasi quarant'anni fa: Wadi Haddad, tra i leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, morto nel marzo del 1978 con i sintomi della leucemia. Per sei mesi i servizi segreti israeliani — racconta Aaron Klein nel libro Stricking Back — avrebbero fatto arrivare al golosissimo Haddad cioccolato belga, un lusso introvabile nell'Iraq di quel tempo. Cioccolato con un ingrediente in più, un veleno così sofisticato e così lento nell'azione da non poter essere individuato.

Corriere 4.7.12
Perché la riforma sanitaria non piace a tanti americani
risponde Sergio Romano


Perché negli Usa i democratici sono a favore della legge sanitaria e i repubblicani no? Che cosa ha di particolare questa legge per cui addirittura un intero schieramento è contrario? Normalmente nessuno di buon senso dovrebbe essere contrario ad una legge che garantisce il servizio sanitario a tutti. O non è così?
Angelo Ferrara

Caro Ferrara,
La legge di Obama non garantisce l'assistenza medica a tutti gli americani e non ha nulla a che vedere con il servizio sanitario nazionale introdotto dal governo laburista britannico di Clement Attlee dopo la fine della Seconda guerra mondiale, poi imitato dalla maggior parte delle democrazie europee. Se il presidente degli Stati Uniti avesse adottato questa soluzione, la maggioranza dei suoi connazionali lo avrebbe definito «europeo» e «socialista»: due definizioni che in America si equivalgono e hanno sempre avuto, ora più ora meno, una connotazione negativa. Per estendere un certo numero di benefici a circa 30 milioni di americani privi di qualsiasi protezione, Obama si è ispirato ai sistemi mutualistici utilizzati in Europa fino alla Seconda guerra mondiale (in Italia, per gli impiegati dello Stato, fu istituito nel 1942 l'Enpas, Ente nazionale previdenza e assistenza).
Per grandi linee le cose funzioneranno così. Entro una certa data tutti i cittadini americani privi di assistenza saranno obbligati a contrarre una polizza con una compagnia d'assicurazione, mentre le compagnie dovranno assicurare anche coloro che hanno malattie pregresse e rappresentano quindi un rischio maggiore. Per evitare polizze intollerabilmente costose e superare le resistenze di alcune categorie professionali (medici, ospedali, assicuratori), Obama ha dovuto impegnare il bilancio federale e stanziare somme che si dimostreranno, in corso d'opera, piuttosto consistenti.
L'obbligo dell'assicurazione e l'onere a carico dello Stato hanno suscitato l'opposizione dei repubblicani e di quella parte della società americana per cui anche questa riforma sanitaria è statalista e socialista. È stato sostenuto che le norme volute dalla Casa Bianca e approvate dal Congresso sono contrarie ai principi della Costituzione ed è stato chiesto alla Corte Suprema, oggi composta da una maggioranza di giudici conservatori, di pronunciarsi sulla materia. Con grande sorpresa di tutti gli osservatori, il presidente della Corte John Roberts (un conservatore cattolico nominato da George W. Bush nel 2005) si è schierato con i progressisti e ha salvato la legge. Ma ha usato un argomento che potrebbe essere motivo di un certo imbarazzo per Obama e per i democratici. Le legge è costituzionale, ha scritto Roberts nella sua opinione, perché è in realtà una tassa approvata dal Congresso. E anche la parola «tassa», per molti americani, è sinonimo di socialismo e statalismo.

Repubblica 4.7.12
Parla Jeffrey D. Sachs tra gli economisti più celebri del mondo, mentre in Italia viene pubblicato il suo nuovo saggio che propone una terapia per uscire dalla crisi
“Un modello di convivenza civile contro l’arroganza”
Il capitalismo gentile
Intervista di Federico Rampini


NEW YORK «Stiamo vivendo sotto gli effetti di un tracollo finanziario, ma la crisi finanziaria è solo una parte di un problema più vasto: le dinamiche sociali legate alla globalizzazione. Quel che sta accadendo nell’eurozona non si capisce altrimenti: come gli Stati Uniti, molte nazioni europee non hanno affrontato la dimensione sociale della globalizzazione; i ricchi si sono dissociati, abbandonando il resto della società al suo destino». Jeffrey Sachs è uno degli economisti più celebri nel mondo. Docente alla Columbia University di New York dove dirige lo Earth Institute, in passato Sachs ha esercitato la sua analisi e la sua verve polemica soprattutto contro due bersagli: il fallimento delle tradizionali politiche di aiuto allo sviluppo; e la distruzione dell’ambiente. Nel suo ultimo libro, Il prezzo della civiltà, che esce in Italia da Codice Edizioni, il tema è ancora più vicino a noi: è la nostra crisi, le cause, la terapia per uscirne. Il titolo si riferisce alle tasse: quasi parafrasando la definizione che ne diede Tomaso Padoa-Schioppa, Sachs vede nelle imposte il prezzo da pagare per la costruzione di una società solidale, un patto sociale inclusivo, un modo civile di convivere. In questa intervista, Sachs mi spiega anche perché la sua analisi rivaluta proprio il modello sociale europeo, nella sua versione più riuscita. Il mondo intero guarda all’eurozona come all’epicentro della nuova crisi. Per lei invece è solo un capitolo di una vicenda generale? «La crisi europea è la manifestazione finale degli effetti patologici della deregulation finanziaria, che ha esaltato la mobilità dei capitali, ha ingigantito il potere delle banche nei nostri sistemi politici, ha portato a bolle speculative, bolle immobiliari, accumulazione di debiti. Tutti i paesi sviluppati sono coinvolti: Stati Uniti, Europa, Giappone. Il punto di partenza comune risale a 25 anni fa, all’ascesa della Cina nell’economia globale, al modo in cui questo fenomeno è stato gestito politicamente, alle sue conseguenze sociali: un aumento delle diseguaglianze, l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio. Questa evoluzione del capitalismo contemporaneo ha indebolito le democrazie, il peso del denaro nella politica è aumentato a dismisura: l’Italia di Silvio Berlusconi è stata un esempio estremo, ma anche l’America soffre di un problema analogo». Nel suo libro infatti lei non si occupa solo di economia, ma invoca la costruzione di una “società consapevole”. Più del capitale finanziario le interessa il capitale sociale, in particolare le “virtù civiche”. E alla fine il modello che le piace di più, lo trova proprio nella vecchia Europa? «C’è una parte dell’Europa che sta andando bene, è la Scandinavia. Io sono un socialdemocratico, ammiro il modo in cui i paesi nordici affrontano questa crisi. Non cercano di risolvere tutto attraverso i tagli alle spese sociali. Hanno trovato un felice equilibrio tra un modello industriale fondato sulle produzioni di alta qualità, le tecnologie avanzate, insieme con un notevole livello di investimenti pubblici a favore della scuola e delle politiche familiari. Sono paesi che non voltano le spalle ai poveri». Ciò che lei dice della Scandinavia è un tabù qui negli Stati Uniti, dove in piena campagna elettorale la destra demobancari nizza ogni intervento pubblico, e perfino i democratici non si sentono di sfidare apertamente l’atmosfera anti-Stato. «La retorica dominante nel discorso politico americano indica come unica soluzione della crisi i tagli alla spesa pubblica. Ma un’analisi seria dei paesi che hanno i migliori risultati a livello internazionale, ci rivela che sono quelli che investono di più in favore dei giovani. Qui a New York i ristoranti di lusso sono pieni, si respira l’atmosfera di un nuovo boom, la vita per chi sta ai vertici è un party, non c’è mai stato così tanto denaro in circolazione, e il candidato repubblicano Mitt Romney può impunemente dare la scalata alla Casa Bianca pur essendo un multi-milionario coi conti offshore. Anche in Italia avete conosciuto un’era di connubio tra politica e denaro. Paesi come Stati Uniti e Italia non hanno fatto nulla per affrontare le dislocazioni e i traumi della globalizzazione. Il problema lo affrontano correttamente quelle socialdemocrazie dove ad ogni bambino che nasce, si cerca di garantire un percorso di opportunità: servizi sociali alla famiglia, scuole pubbliche di qualità, assistenza sanitaria». Il paradosso dell’eurozona, però, è un paese come la Germania che in casa sua ha un modello sociale avanzato, ma sta imponendo ad altri delle politiche di austerity che impoveriscono il Welfare. «È lo stesso errore che viene commesso qui negli Stati Uniti: basta ascoltare gli attacchi della destra contro la riforma sanitaria di Barack Obama, che sono perfino rinvigoriti dopo la sentenza della Corte suprema. La destra americana continua a ripetere che l’unica soluzione è meno Stato, più mercato. Mentre le migliori socialdemocrazie europee dimostrano che lo Stato eroga servizi – per esempio per la salute – in modo meno costoso e più efficiente del settore privato. Sta di fatto che, per l’effetto dell’ideologia o di interessi costituiti, la crisi sta conducendo molti governi ad abbandonare i più deboli al loro destino». Nel Prezzo della civiltà lei si occupa della radice politica di questi mali. Pur essendo un economista, lei vede le cause altrove: nella politica, nell’erosione delle virtù civiche. Perfino nell’ambiente universitario. «Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata della società civile, è un fenomeno che riguarda prevalentemente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confusione e distrazione dai problemi veri». Come può reagire la società civile? Lei ne ha avuto un assaggio di recente partecipando al vertice di Rio sull’ambiente, nel ventennale del primo summit? «L’esperienza che ho avuto a Rio è illuminante. Rispetto al 1992, lo stato dell’ambiente è peggiorato. Eppure l’impegno dei governi si è affievolito: a questo vertice di Rio nessuno dei grandi leader è venuto. In compenso c’è stata una straordinaria attenzione e partecipazione della società civile, degli scienziati, delle ong. I politici sono controllati da poteri forti, mentre l’opinione pubblica è molto più consapevole di vent’anni fa. È il fallimento della politica, quello che m’induce a cercare altrove delle forme d’azione diverse. Quando apparve il movimento Occupy, lo vidi come un segnale premonitore: anche agli albori del New Deal, il cambiamento ebbe origine al di fuori dei partiti tradizionali». “Il prezzo della civiltà” di Jeffrey D. Sachs (Codice Edizioni, pagg. 312, euro 21)

l’Unità 4.7.12
Agguato al Bosone
Probabilmente oggi arriverà la conferma della cattura
Ginevra La scoperta della particella proverebbe che il Modello Standard è la teoria giusta per spiegare i fenomeni noti in fisica delle alte energie
di Pietro Greco


L’APPUNTAMENTO È PER QUESTA MATTINA, ALLE 9.00 AL CERN DI GINEVRA. I RESPONSABILI DI ATLAS E CMS, DUE DEGLI ESPERIMENTI CHE VENGONO CONDOTTI CON LA MACCHINA PIÙ POTENTE DEL MONDO, Lhc, ci hanno dato appuntamento per un seminario scientifico cui seguirà una conferenza stampa. La sensazione è che abbiamo qualcosa di importante da dirci, dopo che lo scorso mese di dicembre avevano annunciato di aver raccolto, al termine di due anni di lavoro, una massa sufficiente di dati compatibili con la presenza del «bosone di Higgs» in una regione di massa compresa tra 124 e 126 GeV (miliardi di elettronvolt) e, dunque, pari a 120 volte la massa del protone. Una mole di dati considerata un serio indizio, ma non una prova. Ci avevano, dunque, rinviato all’estate per saperne di più. Ora l’estate è arrivata. E oggi, alla fine del seminario, ne sapremo di più. Gli scenari possibili sono due. Anche se hanno probabilità diversa. Uno è molto vicino alla certezza, l’altro molto lontano. Ma, prima di analizzarli in dettaglio, occorre ricordare perché la scoperta o meno del «bosone di Higgs» è così importante. E perché oggi, comunque vada, ci troveremo di fronte a una delle notizie più importanti degli ultimi decenni in fisica.
Il motivo è molto semplice. Sono passati quasi cinquant’anni da quando i fisici hanno elaborato il «Modello standard della fisica delle alte energie», una teoria in grado di spiegare la gran parte dei fatti noti a livelli microscopico. L’idea, corroborata da una serie enorme di misure sperimentali, che ci siamo fatti è che lo zoo delle particelle subatomiche è composto da tre famiglie di leptoni (i cui membri più noti sono gli elettroni e i neutrini) e tre famiglie di adroni (vari tipi di quark). Gli adroni risentono dell’interazione forte, quella che tiene uniti i quark nei nuclei atomici. I leptoni non risentono dell’interazione forte. A proposito di forse, secondo il Modello standard nell’universo è riempito da 4 campi di forze fondamentali (interazione elettromagnetica, interazione debole, interazione forte e gravità), che agiscono sulle particelle elementari (leptoni e adroni) mediante l’ausilio di altre particelle: le «particelle messaggero». Le particelle messaggero dell’interazione elettromagnetica, per esempio, sono i fotoni. I fisici sono convinti che le quattro forze siano in realtà espressione diversa di un’unica interazione fondamentale. E da sempre cercano le prove di questa unità. Il più grande successo in questo senso l’hanno ottenuto Carlo Rubbia, con un famoso esperimento effettuato proprio al Cern che gli è valso il premio Nobel, quando ha dimostrato che il Modello Standard aveva visto giusto nel prevedere che l’interazione elettromagnetica e l’interazione debole sono espressione diversa di un’unica forza, battezzata interazione elettrodebole, le cui «particelle messaggero» sono tre «bosoni intermedi»: W+, We Z0. Il quadro teorico non è tuttavia completo. Molti sono i punti critici. Il principale è che esso prevede l’esistenza di un nuovo campo di forze, il «campo di Higgs», la cui particella messaggero è, appunto, il «bosone di Higgs». La particella che conferisce una massa alle altre. Ecco perché da alcune decine di anni i fisici cercano, senza successo, il «bosone di Higgs». Assurto, ormai, a Santo Graal della fisica delle alte energie. Ecco perché la comunità internazionale ha investito alcuni miliardi di euro per costruire Lhc, il cui scopo principale è appunto «catturare» l’inafferrabile bosone.
A dicembre gli esperimenti Atlas e Cms hanno portato qualche indizio. Serio, ma statisticamente insufficiente. Ora sono in grado di sciogliere l’arcano. È molto probabile che questa mattina i responsabili dei due esperimenti confermeranno di aver finalmente catturato il «bosone di Higgs» e quindi di aver ottenuto la prova definitiva che il Modello Standard è la teoria giusta per spiegare i fenomeni noti in fisica delle alte energie. Ma se, per caso, i responsabili di Atls e Cms allargheranno le braccia e diranno di non aver ottenuto prove sufficienti per confermare la presenza del bosone, allora tutto dovrebbe essere messo in discussione. E i fisici dopo cinquant’anni sarebbero costretti a «fare a meno del Modello Standard». Vada come vada, la data di oggi, 4 luglio 2102, sarà segnata in rosso nella storia della fisica.

Repubblica 4.7.12
A 88 anni, il filosofo racconta il suo rapporto con la vita a partire dal saggio sulla misantropia
Manlio Sgalambro
“Mi sono improvvisato maestro di felicità ma pensare non mi ha dato gioia”
di Antonio Gnoli


Dall’ultima volta che ci siamo sentiti sono passati alcuni anni. Manlio Sgalambro non è molto cambiato. A 88 anni continua a vivere con saturnina rassegnazione un mondo che, con ogni evidenza, non sopporta. Che amerebbe cancellare con un atto del suo pensiero, dissolvere negli acidi della sua digestione filosofica. Eppure, sbaglierebbe chi pensasse che questo genere di pensatore sia ascrivibile alla categoria degli apocalittici. Egli è troppo sarcastico, e talvolta comico, nutrito di un pessimismo comico, per non capire che il mondo gli corrisponde e che se non ci fosse dovrebbe inventarlo, se non altro per il gusto di insultarlo. I libri che egli scrive ne sono la riprova. L’ultimo dei quali Della misantropia( pubblicato da Adelphi) ha la qualità e la forza di un trattato della denigrazione. Cos’è che le dà fastidio di ciò che la circonda? «Che dire? Ciò che vedo intorno stimola in me pensieri d’odio. È sempre un “odio” per la realtà che ci trascina a pensare. Mi rendo conto che pensare è costoso, per questo rivendico la mia personale ascesi mentale. Scrivo libri furiosi ma sono invaso da una calma che somiglia a una distesa di ghiaccio». Si immagina l’odio come un sentimento pericoloso. L’anticamera della violenza. «L’odio del misantropo non è violento. È un odio mite, tranquillo, sereno. Quasi annoiato. Ci vuole la calma di Seneca per scrivere l’Hercules furens». Il sentimento dell’amore non la sfiora? «Mi lascia indifferente». È mai stato innamorato? «Sì, ho ceduto a me stesso. E penso di aver concesso troppo». Meglio avaro che misantropo. «Un’avarizia un po’ spirituale non mi dispiace». Non è un bel sentimento. «Nei sentimenti ci siamo fermati alle analisi di Max Scheler, al suo sguardo rivolto all’indietro. Il sentimento da solo non mi fa palpitare. Oggi le passioni sono cieche, non conducono più alla conoscenza. L’unica che mi appare ancora fornita di un tratto nobile è l’odio». Lei scrive: «Chi non odia la propria filosofia non merita di averne una». Trova, a volte, insopportabili e ripugnanti i suoi pensieri? «Pensare è la cosa più disgustosa che ci sia in un uomo. Come se avesse dei genitali mentali. In effetti, io non penso mai con gioia». Ci dia una definizione di filosofia. «Un eccesso mentale che si è trasformato in spazzatura. Il filosofo è diventato un intellettuale acchiappatutto. Avrebbe dovuto restare il più lontano possibile dalla tentazione della polis. E invece c’è dentro fino al collo. Avrebbe dovuto osservare l’accadere da un luogo remoto per comprendere ma non per perdonare». Schopenhauer, del quale condivide il pensiero, fu misantropo, bilioso e invidioso. Si riconosce? «Non sono né invidioso né bilioso. Stavo per dire non sono nemmeno misantropo. Tutt’al più fingo di esserlo». Finge? «Sì, nella finzione mi giovo di me stesso. Elaboro conoscenza. Ho sempre scritto i miei libri recitandoli in me. Non parlo di un “me” come conquista della coscienza, ma come una sorta di pietra da possedere. Ho sempre detestato le filosofie problematiche. La filosofia deve dare soluzioni. A volte mi sono improvvisato maestro di felicità». La felicità sulle sue labbra suona come qualcosa di sarcastico. «Perché mai? Ho sparso la mia “cannabis” per ubriacare talmente l’altro affinché dimenticasse di morire». La teologia è stata il vaccino per l’immortalità. «Forse il veleno». Parla a lungo della figura teologo, senza il quale lei dice Dio non esisterebbe. La morte del primo ha portato anche alla morte del secondo? «La teologia non è affatto morta. Essa oggi si costruisce inaspettatamente sull’odio di Dio». Nella sua riflessione non c’è mai un accenno alla teologia politica. Una mancanza o una scelta? «La teologia politica identifica “Dio” con l’ecclesiastical power. Non mi interessa». E della politica, in genere, cosa pensa? Cosa le suscita la sua progressiva delegittimazione? «La perdita della sua reputazione mi lascia indifferente, come la perdita dell’onore di un buon nome. Mi occupo di altro. Ho cercato di indagare non solo l’“Io sono” ma anche l’“Io ho”. E io ho i miei pensieri. Quando penso non sono un civis e neppure un socius. Non devo rispondere a una società né a una politica. Rispondo ai miei soli averi: i pensieri». Eppure, non ignora di vivere in società? «La società si ferma sulla soglia della mia stanza. Poi c’è l’uomo con le sue poche relazioni cui arriva la cartella delle tasse». Le dispiace pagarle? «Mio padre diceva: “Manlio, le tasse non si discutono, si pagano”. Non riesco a stabilire se una tassa è giusta o ingiusta». Riesce a stabilire la differenza tra il bene e il male? «Bene e male sono due decisioni umane. Ciò che li distingue non è mai un taglio netto». A volte si lancia nell’elogio del cattivo. In che misura vi si riconosce? «È l’altra metà di me stesso». Riabilita perfino la figura del delinquente. «Non la riabilito. Ma considero anche il delinquente, per dirla con Hegel, una figura dello Spirito». Non capisco se in lei prevalga la paradossalità o la coerenza. «Paradosso e coerenza non stanno sullo stesso piano. In me comunque si incontrano». Dal saggismo sofisticato alle canzonette. Da Wagner a Me gustas tu. Tutto è possibile oggi? «Sì, come direbbe Debussy: “Tout est sauvé ce soir”». L’ho ammirata su YouTube mentre canta e se la spassa con un’aria tra il serio e il coinvolto. «Non ho Internet. Mi mondo dal peccato non guardando YouTube. Condivido il punto di vista di Nadia Boulanger che non distingueva l’importanza di Stravinsky da quella di Piazzola. La musica è un solo corpo di suoni che comprende tanto Wagner quanto il Rock». Vorrà essere ricordato per aver scritto trent’anni fa La morte nel sole o per la sua collaborazione con Franco Battiato? «Assolutamente per la prima. Come Battiato desidererà essere ricordato per le sue canzoni. Ma il mio rapporto con la musica è indiscutibile. Le canzoni non sono una deviazione dalla retta via. Indossi una maschera e vai per la tua strada». Com’è una sua giornata? Cosa fa, cosa legge, chi incontra? «Leggo pochissimo, ma per una questione di dignità. Per lo stesso motivo non incontro quasi nessuno». Non ha mai dedicato nulla di serio al tema dell’amicizia. Sentimento che detesta? «L’amicizia mi lascia freddo». Si avvicina all’età di novant’anni. Le capita di fare bilanci? «Qualunque età abbia il “vecchio” ha sempre mille anni, non novanta o cento. È un’età che si specchia in se stessa. Comunque non faccio bilanci». Cos’è la morte per lei? «Di fronte ad essa ho una forte curiosità e in ogni caso voglio morire come un eroe della vita. Sarà così? ». A parte il dubbio chi è l’eroe della vita? «È colui che ha vissuto la morte senza averne paura. Finora non ho mai provato paura. Se la provassi la trasformerei in un concetto». E il dolore non la spaventa? «Personalmente non l’ho mai vissuto. Quanto al “dolorismo” esso non ha niente a che fare con il pessimismo. Lo lascio a Werther». Non crede che anche il pessimismo sia oggi una merce troppo diffusa? «Non confonderei il pessimismo con il piagnisteo o con il dolore. Il pessimismo è la via maestra per vedere il mondo com’è, cioè incompiuto. Per cui quanto alla diffusione del pessimismo, mi sembra sempre poca». Cosa la intristisce o l’affascina della sua isola? «Per ogni isola vale la metafora della nave, vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium. Forse è qui l’origine della mia noia. È penso che solo nel momento felice dell’arte la Sicilia sia stata vera». A cosa sta lavorando? «A un nuovo libro che intitolerò: Esperienza di un intelletto traviato. Da traviato posso permettermi cose che una persona seria non oserebbe pensare». Le piace il canagliesco. «In fin dei conti sono un siciliano doc».

Corriere 4.7.12
Medea che (forse) uccise i due figli
di Eva Cantarella


Tutta Corinto ne parlava. Medea aveva ucciso i suoi due figli. Era stata abbandonata dal padre di quei figli, per amore del quale — lei, straniera — aveva tradito patria e famiglia, affrontando un esilio per lei senza ritorno. Ma Giasone, giunto a Corinto e ivi stanziatosi, aveva trovato una soluzione per lui molto più conveniente: si era fidanzato con la figlia del re. E come se questo non bastasse a Medea era stato ordinato di abbandonare Corinto con i figli. Secondo gli abitanti del luogo, l'uccisione dei figli era stata la vendetta di Medea. Una donna come quella, venuta da un paese lontano e sconosciuto, una «barbara» dai costumi diversi, era capace di qualunque crimine. Eppure vi era chi non credeva a quella versione, e sosteneva che a uccidere i bambini, in odio alla straniera, fossero stati i Corinzi. Euripide, invece, nella tragedia appositamente scritta, aveva sostenuto senza ombra di dubbio la sua colpevolezza. Ma alcuni credevano che lo avesse fatto su richiesta dei Corinzi, e qualcuno arrivava a dire che, per questa operazione, avesse ricevuto un compenso. Chi aveva ragione? Come erano andate le cose? Medea, comunque, non subì alcun processo e alcuna condanna: dopo la morte dei figli fuggì da Corinto e trovò rifugio temporaneo in un'altra città. Come spesso accade agli esuli.

La Stampa 4.7.12
Piazza Armerina, tornano a splendere i mosaici romani della Villa del Casale


Solo gli antichi romani l’avevano vista così. Ci sono voluti sei anni di lavoro ma adesso che il restauro della Villa del Casale di Piazza Armerina è terminato, mosaici, intonaci e ogni ambiente di questo patrimonio dell’umanità, restituiscono emozioni, suggestioni di un mondo che non c’è più ma che la Sicilia ha saputo conservare. Dopo l’inaugurazione, prevista per oggi, in cui sarà possibile ammirarla in notturna grazie alla sua nuova illuminazione, la Villa di epoca romana sarà finalmente riconsegnata al pubblico in maniera definitiva. È stato liberato l’ingresso e recuperata l’antica entrata, anche i mosaici sono tornati alla vita. In tutto ci sono 120 milioni di tessere, per oltre 4.100 metri quadrati di mosaici che, dopo il trattamento di pulitura e di disinfestazione, mostrano oggi i colori e le raffigurazioni di straordinaria bellezza di un tempo. Un intervento delicatissimo, costato circa 18 milioni di euro, che è servito per scrollare di dosso polvere, detriti, alghe e batteri che proliferavano sui mosaici favoriti dall’effetto serra provocato dalla vecchia copertura.

Corriere 4.7.12
Quanto è scandaloso il fatto che due giovani abbiano fatto sesso in piazza Santa Croce a Firenze?

E cosa è più scandaloso, che lo abbiano fatto in una piazza così frequentata o sotto la statua di Dante?

Bisogna capire in questa vicenda, come sempre, dove è più alto il livello di morbosità. Di solito, i più morbosi si rivelano i censori. Basterà ricordare quello splendido episodio di Fellini, «Le tentazioni del dottor Antonio»: Peppino De Filippo è un moralista intransigente ossessionato da un'immagine pubblicitaria con una Anita Ekberg troppo sensuale. Tutto il resto della popolazione ha un atteggiamento divertito, laico, sorpreso ma poi subito annoiato. Invece lui non riesce a pensare ad altro. Ed è su questa ossessione che fa leva la morbosità, e l'indignazione si trasforma in una passione incontrollata. Quindi, i due censori leghisti, scandalizzati e indignati, che vorrebbero far cadere la giunta per un episodio del genere, sono forse i più morbosi. Infatti pare che abbiano scattato foto e le abbiano diffuse tramite Twitter. Legare un episodio occasionale all'identità politica di una città è un'accusa talmente eccessiva da risultare, appunto, ossessiva.
Il problema, però, è che un episodio poco significativo, un po' scandaloso e tanto simbolico (due che si amano sotto la statua di un grande poeta) è salito alla ribalta delle cronache perché sono stati in tanti a fermarsi a guardarlo. Mentre due giovani facevano sesso alle dieci di sera, in mezzo alla strada, altri filmavano, scattavano foto, osservavano l'amplesso e lo commentavano. Molti di loro, probabilmente, scuotevano la testa, pensavano «a che punto siamo arrivati», ma non se ne andavano, volevano vedere tutta la scena. Nella classifica della morbosità, si piazzano al secondo posto: sono un po' meno moralisti, ma altrettanto accaniti.
Al terzo posto della morbosità metterei i due giovani che facevano sesso. Hanno esagerato, pare fossero ubriachi — e non si capisce nemmeno quanto consapevoli di dove si trovassero. Perché sopra di loro, si ergeva sicura la figura di Dante. Ma non si può essere sicuri che ne fossero consapevoli.
E soltanto all'ultimo posto, con un livello di morbosità bassissimo, si classificherebbe Dante. Non soltanto perché non ha potuto impedire né avrebbe potuto avvertire i vigili, o perché ha continuato a guardare alla sua sinistra, imperterrito. Ma per il fatto di aver attraversato tutti i vizi dell'umanità, averli rappresentati e aver trovato una ragione in ogni singola debolezza.
Dante avrebbe messo i due giovani in un girone dell'inferno. Perché non avrebbe potuto farne a meno, e del resto ci sono delle regole della comunità che vanno rispettate; Dante lo sapeva, e ha lasciato cadere all'inferno idoli, amici e parenti. Ma dopo averli condannati, si sarebbe occupato dei due giovani, dell'occasionalità o della grandezza del loro amore; e avrebbe scritto rime bellissime e piene di comprensione.

Corriere 4.7.12
Dante li avrebbe messi all'Inferno (ma poi cantati)
L'amore in piazza fa litigare Firenze
di Francesco Piccolo


Quanto è scandaloso che due giovani abbiano fatto sesso in piazza Santa Croce, a Firenze, mentre una piccola folla li riprendeva con i telefonini e scattava fotografie? Critiche e polemiche per la notte hard di due ragazzi rilanciata dal web.

Quanto è scandaloso il fatto che due giovani abbiano fatto sesso in piazza Santa Croce a Firenze? E cosa è più scandaloso, che lo abbiano fatto in una piazza così frequentata o sotto la statua di Dante?
Bisogna capire in questa vicenda, come sempre, dove è più alto il livello di morbosità. Di solito, i più morbosi si rivelano i censori. Basterà ricordare quello splendido episodio di Fellini, «Le tentazioni del dottor Antonio»: Peppino De Filippo è un moralista intransigente ossessionato da un'immagine pubblicitaria con una Anita Ekberg troppo sensuale. Tutto il resto della popolazione ha un atteggiamento divertito, laico, sorpreso ma poi subito annoiato. Invece lui non riesce a pensare ad altro. Ed è su questa ossessione che fa leva la morbosità, e l'indignazione si trasforma in una passione incontrollata. Quindi, i due censori leghisti, scandalizzati e indignati, che vorrebbero far cadere la giunta per un episodio del genere, sono forse i più morbosi. Infatti pare che abbiano scattato foto e le abbiano diffuse tramite Twitter. Legare un episodio occasionale all'identità politica di una città è un'accusa talmente eccessiva da risultare, appunto, ossessiva.
Il problema, però, è che un episodio poco significativo, un po' scandaloso e tanto simbolico (due che si amano sotto la statua di un grande poeta) è salito alla ribalta delle cronache perché sono stati in tanti a fermarsi a guardarlo. Mentre due giovani facevano sesso alle dieci di sera, in mezzo alla strada, altri filmavano, scattavano foto, osservavano l'amplesso e lo commentavano. Molti di loro, probabilmente, scuotevano la testa, pensavano «a che punto siamo arrivati», ma non se ne andavano, volevano vedere tutta la scena. Nella classifica della morbosità, si piazzano al secondo posto: sono un po' meno moralisti, ma altrettanto accaniti.
Al terzo posto della morbosità metterei i due giovani che facevano sesso. Hanno esagerato, pare fossero ubriachi — e non si capisce nemmeno quanto consapevoli di dove si trovassero. Perché sopra di loro, si ergeva sicura la figura di Dante. Ma non si può essere sicuri che ne fossero consapevoli.
E soltanto all'ultimo posto, con un livello di morbosità bassissimo, si classificherebbe Dante. Non soltanto perché non ha potuto impedire né avrebbe potuto avvertire i vigili, o perché ha continuato a guardare alla sua sinistra, imperterrito. Ma per il fatto di aver attraversato tutti i vizi dell'umanità, averli rappresentati e aver trovato una ragione in ogni singola debolezza.
Dante avrebbe messo i due giovani in un girone dell'inferno. Perché non avrebbe potuto farne a meno, e del resto ci sono delle regole della comunità che vanno rispettate; Dante lo sapeva, e ha lasciato cadere all'inferno idoli, amici e parenti. Ma dopo averli condannati, si sarebbe occupato dei due giovani, dell'occasionalità o della grandezza del loro amore; e avrebbe scritto rime bellissime e piene di comprensione.

Repubblica 4.7.12
I misteri dell’amore malato perché solo una donna su due lascia il compagno violento
Abusi in crescita, ma troppe temono la separazione
di Maria Novella De Luca


ROMA — Le donne ne parlano poco, a fatica, e di solito dopo molto tempo. Ammettere che per anni si è pianto ma sopportato, sofferto ma non denunciato, spesso davanti ai figli, senza aver la forza di rompere le catene, è qualcosa che fa male, troppo male. Eppure è così. La maggior parte delle donne vittime di violenza tra le mura domestiche resta con il proprio partner. Per sempre, per un periodo lungo, per alcuni anni: comunque la rottura non è immediata e molto dipende dall’età delle donne, dalla presenza dei figli, dalla regione in cui si vive. Fuggire da mariti, fidanzati, padri aguzzini sarebbe la cosa più ovvia, più giusta, mettersi in salvo, proteggere i figli. E invece si resta: per paura, per povertà, per dipendenza. O altro. Quasi fosse una specie d’amore malato. «Mi picchiava per gelosia, così credevo... ». Sono questi i risultati, sorprendenti e amari, di una ricerca dell’università di Bologna e della Fondazione Icsa, presieduta da Marco Minniti, dal titolo “Strategie di risposta alla violenza: chi resta e chi va”. Quanto conta l’età, l’avere figli, vivere al Sud o al Nord… Così, ad esempio, si legge nello studio curato da Federica Santangelo con la supervisione di Asher Colombo, docente di Sociologia all’università di Bologna, fra le donne nate negli anni Sessanta e Settanta «il 50 per cento abbandona il partner entro otto anni dall’inizio della relazione violenta». Un tempo che si dimezza, scendendo a quattro anni e mezzo per le donne del decennio successivo (1971-1980), contro i dodici mesi delle più giovani, nate dopo gli anni Ottanta. Mentre invece per le donne anziane, o comunque vissute tra gli anni 40 e 50, la statistica è quasi inesistente, perché era davvero raro che si fuggisse da un marito persecutore, in assenza, anche, della legge sul divorzio, arrivata in Italia soltanto nel 1970. Numeri che raccontano abusi ripetuti, case che diventano prigioni e abissi di dolore, con bambini spaventati costretti ad essere testimoni di violenze, che li cambieranno per sempre. Un dato interessante della ricerca dimostra infatti che l’aver assistito da piccoli ad abusi familiari, rende poi le donne più vulnerabili alla violenza di coppia, mentre i maschi tenderanno a ripetere da adulti ciò che hanno visto fare al padre. Un’eredità familiare malata dunque. «I figli apprendono l’uso della violenza, e interiorizzano norme che giustificano ruoli di genere, nei quali la donna sia vittima, e all’uomo sia consentito adottare forme di coercizione fisica e sessuale». E i dati in generale sulla violenza sessuale, dentro e fuori le mura domestiche, il 7,8 per cento di tutti i reati denunciati e gli unici in ascesa invece che in calo, dicono che non c’è differenza tra Nord e Sud. Anzi è tra le regioni del Centro Nord che si registrano (dati Istat) il maggior numero di aggressioni contro le donne, in Lombardia, Toscana, Emilia Romagna. Raccontava una giovane mamma rifugiata con i due figli in uno dei centri antiviolenza di Roma: «Chiudeva la porta a chiave ed alzava la televisione. Poi con un grosso asciugamano arrotolato e bagnato mi picchiava con rabbia. E quando uscivo pretendeva che coprissi braccia e gambe per non far vedere i lividi. Ma non riuscivo a lasciarlo: non avevo né soldi né amici, non sapevo dove andare. Sono scappata mentre lui era al lavoro, con l’aiuto di una vicina… ». Ma perché è così difficile abbandonare un partner che picchia, umilia, stupra? Nella ricerca dell’università di Bologna sono tre i fattori che bloccano le donne, che le “congelano” in balia di mariti, compagni, fidanzati torturatori: la durata della relazione allo scattare del primo episodio violento, la zona geografica di residenza, e la presenza o meno di figli. E se per una donna l’essere nata e vissuta al Sud può voler dire mancanza di lavoro e dunque di autonomia (elementi fondamentali per riconquistare la libertà) è davvero la presenza di figli a far esitare le vittime delle violenze domestiche nel decidere di rompere la relazione. In ogni caso, questa è la conclusione dello studio, la violenza di coppia spesso fa parte di un ciclo che parte, anche, dall’infanzia e dalle radici familiari. Ed è da lì che forse bisogna interrompere la catena degli abusi.

Repubblica 4.7.12
Quelle donne che restano con il marito violento
di Michela Marzano

“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”. Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo? Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”. Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui. Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud. Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo. Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.

il Fatto Lettere 4.7.12
Dal Vaticano contraddizioni e ipocrisie
 Le sciarade e i calembour che arrivano da Oltretevere avrebbero un certo successo se l’ufficio stampa del Vaticano li proponesse alla Settimana Enigmistica. L’ultimo gioco di parole, in ordine di tempo, l’ha creato il papa in persona il 29 giugno scorso, in occasione degli onomastici di Paolo e Pietro: riferendosi nella sua solita maniera sibillina ai casi di corruzione in seno alla Chiesa (ma sicuramente il discorso valeva anche per gli orrendi crimini di pedofilia scoperti negli ultimi anni e giorni), il signor Ratzinger ha parlato di “peccato” e “peccatori”, laddove le parole giuste sarebbero invece “reato” e “rei”. In effetti ci provano sempre: quando si tratta di aborto, fecondazione assistita, coppie di fatto e testamento biologico, fanno di tutto per far passare quello che loro considerano un peccato per un crimine aberrante; quando invece l’aberrazione si consuma sugli altari e nelle loro segrete stanze, ecco spuntare la sostituzione di parole inversa. Come a dire: le donne, i gay e tutti quei laici che vogliono decidere autonomamente delle loro esistenze devono essere puniti fine pena mai; al contrario, bastano una tonaca e una confessione e anche il peggiore reato sarà perdonato. Amen.    Paolo Izzo