D’Alema: è Bersani il nostro candidato alla guida del Paese
Massimo D'Alema è intervenuto ieri in diretta streaming allo stand de l'Unità alla festa di Roma. «Le misure di solidarietà decise dall'Ue sono misure significative ma la battaglia continua. Certo, le cose sono cambiate e certamente Monti ha una credibilità in Europa che ci consente anche di affermare alcune esigenze dell'Italia. A proposito del premier, ha aggiunto: «Se avessi voluto candidare Monti avrei detto "Candido Monti", perché io amo fare così. Questa è una notizia del Velino che si commenta da sola E dunque il candidato premier del centrosinistra deve essere il segretario del Partito democratico? «È il nostro impegno ha confermato D'Alema lo abbiamo deciso nella direzione del nostro partito e abbiamo deciso di candidare Bersani alla guida del Paese. Se avessi avuto delle obiezioni lo avrei detto in quella sede.
La Stampa 5.7.12
La fuga in avanti del Prof e la paura nascosta del Pd
A sinistra si teme un calo dei consensi, il Pdl sta a guardare
di Ugo Magri
ROMA Sui tagli, Monti procede sereno, al punto che non esclude di anticipare le decisioni: il Consiglio dei ministri sulla «spending review» potrebbe essere tenersi già nel pomeriggio, quando tutti se l’aspettavano per domattina. Può significare due cose: che problemi insormontabili non si sono fin qui appalesati, dunque tanto vale guadagnare qualche ora; oppure che, pure in presenza di ostacoli politici, il Prof è deciso a travolgerli tipo panzer. Da quanto confidano gli addetti ai lavori, è molto più vera la prima delle due. Cioè dietro le quinte non sta accadendo nulla di così drammatico.
Se però si giudica dalle apparenze, soprattutto a sinistra si coglie enorme tensione. Bersani è intervenuto con due colpi d’avvertimento, giù le mani dalla salute e dall’istruzione. A Sant’Andrea delle Fratte giurano di sapere ben poco di quanto sta bollendo in pentola, sostengono che fin qui il governo li ha informati solo per grandi linee. Ma soprattutto, nel Pd sono allarmati dal costo politico, specie in vista delle elezioni. Un autorevole esponente calcola il potenziale danno con la seguente formula matematica: «Quello che pagheremo in termini di consensi sarà pari alla riforma delle pensioni, più quella del lavoro, il tutto moltiplicato per due... ». Va bene essere ragionevoli, alza la voce il capogruppo alla Camera Franceschini, «ma non possiamo mica accettare qualunque cosa, c’è modo e modo di ridurre le spese».
Chi ha visto la bozza del decreto sostiene che l’impianto ha una sua dignità, merito del commissario «ad hoc» Bondi. Il quale è andato effettivamente a scovare una serie di sprechi, alcuni inaccettabili, e su quelli ha acceso i riflettori. Sennonché (ecco la critica) il provvedimento del governo non affonda il bisturi, non interviene direttamente sul marcio; si limita a quantificare le somme che volta a volta regioni province e comuni debbono recuperare nella loro autonoma responsabilità. Col risultato di mettere un po’ tutti sullo stesso piano, di colpire alla stesso modo i «reprobi» e i «virtuosi»...
È una critica che risuona pure nel Pdl. Con la differenza, però, che lì hanno deciso di non piantare grane, anzi di mettersi alla finestra. Il calcolo è riassunto in un altro teorema, la cui paternità viene attribuita a Tremonti, secondo cui «le tasse fanno più male a destra, i tagli più male a sinistra», dunque non c’è motivo per combattere la spending review, anzi. Insomma, a dispetto degli ex An in costante agitazione, non si preannunciano gravi intoppi. Tanto che il Professore ieri quasi non ci ha quasi messo la testa, impegnato di mattina dalla visita del vice-premier nonché ministro degli Esteri israeliano Lieberman, poi dopo pranzo dal colloquio con la Cancelliera Merkel. Monti si è limitato a ripetere pubblicamente che «la qualità della spesa pubblica è un fattore essenziale per una crescita sostenibile», dunque «è venuto il momento di agire in modo più convincente e strutturale sul settore pubblico, non in maniera tranchant ma dopo un’analisi molto precisa dei settori dove ci sono gli sprechi».
A limare il decreto dei tagli è rimasto il vice-ministro dell’Economia Grilli, insieme col direttore generale del Tesoro Fortunato. I contatti con i partiti della maggioranza li hanno tenuti essenzialmente loro due, proprio come avveniva ai tempi del governo Berlusconi. A Palazzo Chigi si assicura che con la maggioranza c’è stato un costante viavai di informazioni attraverso gli «sherpa», cioè i personaggi indicati nei giorni scorsi da Alfano, da Bersani e da Casini. Può essere che Monti consulti stamane i segretari al telefono, magari con la scusa di metterli al corrente degli sviluppi europei, oppure attraverso incontri separati. Comunque sia, ieri sera nessuna convocazione era ancora arrivata in via dell’Umiltà, e nemmeno a Sant’Andrea delle Fratte. C’è tempo fino a stasera.
l’Unità 5.7.12
È ora di superare le due sinistre
di Mario Tronti
È VERO QUESTA VOLTA QUELLO CHE DICONO UN PO’ TUTTI. IL RECENTE VERTICE DI BRUXELLES MARCA INDUBBIAMENTE UN PASSAGGIO DI FASE. Se ne sono sottolineati fin qui gli effetti macroeconomici, sia a livello nazionale, sia a quello sovranazionale. L’attenzione andrebbe portata sugli effetti di quadro politico, interno. La situazione in certo modo si stabilizza. Si squadernano, davanti a noi, questi dieci mesi, di qui alle elezioni politiche. La proposta per un’alternativa a sinistra da offrire al Paese, ha questo tempo per organizzarsi. Pensare strategicamente e operare nella congiuntura misurano qui le loro necessarie compatibilità.
Più d’uno i livelli: distinti, ma intrecciati. L’attività parlamentare vive l’urgente bisogno di recuperare una sorta di legittimità perduta: credibilità, fiducia, efficacia, decisione. La parte a sinistra dell’emiciclo ha il compito certo di contribuire responsabilmente all’uscita dalla fase acuta della crisi economico-finanziaria, ma ha un compito supplementare: contenere, quanto più possibile, i danni, i disagi, a volte le ferite, che le misure da prendere infliggono al suo popolo. Qui, il dialogo quotidiano con il fondo del Paese reale e forme periodiche di vera e propria concertazione con le forze sindacali, diventano indispensabili.
Poi, c’è il terreno politico-istituzionale. La volontà di un’autoriforma di sistema va messa in campo con più coraggio. Primo, nuova legge elettorale, subito. Secondo, quel minimo di modifiche costituzionali, possibili, in questo tempo, che per esse è molto breve, senza quei macroscopici stravolgimenti, agitati più per propaganda che per reale effettualità.
La vera legislatura costituente sarà la prossima. Ed è indubbio che bisognerebbe inventarsi una sede inedita in grado di approntare una proposta finalmente complessiva. Ragionevole, mi sembra, l’idea, di grande valore simbolico, che sta circolando: una Commissione dei Settantacinque, chiamata a istruire la materia. Da precisare forse in questo modo: personalità autorevoli, non elette direttamente, ma indicate dai partiti, prese dal loro bacino di competenze, proporzionalmente alla rappresentanza conquistata nelle prossime elezioni politiche. Al nuovo Parlamento quindi l’assunzione, la possibilità di modifica, l’approvazione della proposta. Vedo conseguenze virtuose: i partiti riprendono la loro funzione dirigente, in sintonia con la capacità di utilizzare una tecnicalità, questa volta politica, di alto livello. C’è anche qui il bisogno di fermarsi davanti a un baratro: un default istituzionale, per eccesso di domanda antipolitica.
Ma quanto detto fin qui è solo la premessa del vero discorso che voglio fare, spostando l’asse di ragionamento, che si è riaperto su alleanze, coalizioni, in Italia, per l’Europa. I gruppi parlamentari dell’attuale centro-sinistra sono perfettamente in grado di gestire al meglio quelle urgenze sociali e istituzionali, senza bisogno di consigli da mosche cocchiere. C’è invece un secondo fronte piuttosto da aprire. Lo dico in una frase, che poi va spiegata: per un centro-sinistra diverso è indispensabile una sinistra diversa. I dieci mesi vanno anche impiegati per definire una mappa di percorso che miri a delineare la forma organizzata con cui il progetto di governo della sinistra si presenta di fronte al paese. Il dopo ’89 ha consegnato alla cosiddetta seconda Repubblica e questa ne ha fatto un motivo quasi costituente la teoria e la pratica delle “due sinistre”. Se è vero che queste due cose seconda Repubblica e due sinistre stavano insieme, allora insieme cadono. Il terremoto che ha devastato l’Italietta berlusconiana ha messo a nudo anche queste rovine. Ma direi di più. È tutta la fase neoliberista del capitalismo-mondo che ha prodotto e tenuto in piedi quella teoria e quella pratica. Da un lato la radicalizzazione movimentista no-global e new-global, dall’altra le Terze Vie e il neue Mittel. Nemmeno antagonisti e riformisti, piuttosto contestatori e liberisti. Fallimentari sia lo scontro nelle piazze, sia la coalizione al governo. Due entità, infatti, imprecise, e provvisorie, non autonome, incapaci di vera autonomia, culturale e politica, sia l’una che l’altra, vittime o delle proprie parole d’ordine o dei propri atti gestionali. Chiediamoci, realisticamente, se questa separatezza, con queste conseguenze, abbia ancora senso. E chiediamoci se il popolo della sinistra è ancora disposto a sopportarla.
Due no, rispondono a queste due domande. Dunque: bisogna fare qualcosa. Il processo va aperto, senza ansie di prestazione, con rigore, con metodo, tenendo fermo l’obiettivo, nei tempi necessari. L’atto conclusivo va messo a dopo le elezioni, ma il processo le deve attraversare, perché è un momento di chiarezza, e di mobilitazione. Le vere primarie sono queste: non la scheda con questo o quel nome, ma una grande partecipazione, dal basso, al dibattito sul destino strategico della sinistra: che cos’è, che cosa è stata, che cosa deve essere, quale forma deve prendere, quali risposte, quali proposte. La fase è favorevole. La crisi paradossalmente aiuta, perché fa vedere le contraddizioni di sistema, la debolezza delle attuali classi dirigenti, la necessità, l’urgenza, di sostituirle. E spinge il vento d’Europa, che cambia direzione, dalla Francia verso di noi, ma non solo per mettere meglio a posto i conti, piuttosto per cominciare a fare i conti con i veri responsabili dello sfascio attuale delle economie, delle società, delle istituzioni, della politica.
Insomma, veniamo tutti dallo stesso spettacolo e le metafore vengono spontanee. Forse è il momento di cambiare schema di gioco. Non si può rifare la stessa partita. È cambiata, tra l’altro, la squadra avversaria. Non c’è più da metter via Berlusconi. La cosa è un po’ più seria. Dobbiamo proprio riadattarci al programma minimo? Monti al posto che fu di Prodi? Grazie, abbiamo già dato. Il nostro popolo si merita finalmente qualche cosa d’altro. È sempre solo a quello che bisogna guardare, fisso negli occhi, per capire, e per fare.
l’Unità 5.7.12
Prezioso l’impegno dei cattolici ma non serve un’altra Dc
La pluralità è importante anche nel Pd. I credenti pesino nel progetto politico
di Giorgio Merlo
UN NUOVO PARTITO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA NEL PANORAMA POLITICO, GIÀ SUFFICIENTEMENTE FRASTAGLIATO, DEL NOSTRO PAESE? È la domanda che agita molti commentatori politici e non. Mi limito a tre secche considerazioni che, credo, rispondono più a criteri oggettivi che non a semplici considerazioni personali.
Innanzitutto il pluralismo politico dei cattolici è ormai un dato storicamente acquisito. La lezione e l’eredità conciliare, su questo versante, non possono più essere messi in discussione. E la fine della Democrazia cristiana, su questo aspetto, segna uno spartiacque difficilmente revisionabile. Del resto, l’unità politica dei cattolici è sempre stata legata a precisi fatti storici e mai, tranne esigue minoranze clericali e confessionali, a valutazioni di carattere religioso, o teologico, o dottrinario o etico. E la stessa esperienza, straordinaria e irripetibile, della Dc era il frutto e il prodotto di quella contingenza storica.
Vagheggiare, oggi, una rinascita della Dc non può che essere una operazione astratta o puramente illusionista, priva di ancoraggi storici, politici e culturali definiti se non nella ripetizione di una esperienza che ormai è entrata nella storia del nostro Paese per quello che ha rappresentato in quella lunga, e per certi versi, drammatica fase storica.
In secondo luogo, però, il patrimonio storico, politico e culturale del cattolicesimo democratico e del popolarismo di ispirazione cristiana non può dissolversi perché la contingenza politica non prevede la ricostituzione di un «partito cattolico. E lo stesso dibattito sulla «irrilevanza dei cattolici in politica non lo si affronta e non lo si risolve soltanto con un nuovo partito. Questo patrimonio è possibile difenderlo ed inverarlo nella società contemporanea in molti modi. Dalla politica alla straordinaria e feconda galassia dell’associazionismo, dal mondo della cultura a quello economico e sociale e del terzo settore.
Insomma, non si esaurisce solo nell’alveo della politica e dei partiti l’originalità del cattolicesimo democratico. Certo, la politica è il settore più esposto e i riflettori si accendono di più su quel versante che non sull’opera quotidiana, incessante e meticolosa di chi dedica parte della propria vita agli altri. Diventa pertanto una discussione un po’ astratta, se non virtuale, quella concentrata sulla presunta «irrilevanza dei cattolici nella dimensione pubblica del nostro Paese se non c’è un partito di riferimento. Fuorchè si pensi, almeno per chi fa propria quella denuncia, che sia necessario oggi riproporre in tutta la sua interezza ed organicità un «partito cattolico. E, probabilmente, gli stessi propugnatori di quella tesi sarebbero gli stessi che, dopo qualche tempo, ci spiegherebbero che in nome giustamente – della laicità dell’azione politica, della laicità dello Stato, del pluralismo politico ormai acquisito, della autonomia del temporale ecc. la presenza di un «partito cattolico sarebbe, semplicemente, un progetto vecchio e forse anche un po’ confessionale.
Ecco perché allora, ed è la terza ed ultima considerazione, la vera sfida oggi la si gioca in campo aperto. Cioè nella cosiddetta «pluralità che caratterizza il profilo e la stessa identità di molti partiti, Pd compreso. Una «pluralità dove, paradossalmente, dovrebbe vedere proprio i cattolici ancora più presenti ed incisivi nella definizione concreta della proposta politica del partito. Una presenza, ovviamente laica, ma decisiva nel saper declinare il proprio patrimonio culturale nel nuovo soggetto politico e, soprattutto nel saper incidere sulle singole politiche. Una presenza non riduttivamente confessionale dove si viene interpellati solo e soltanto su alcuni temi di stretta pertinenza religiosa. E cioè, una sorta di rinnovata presenza degli «indipendenti di sinistra degli anni 70 o dei «testimonial cattolici degli anni 90. No, la presenza dei cattolici democratici anche nel Pd deve essere visibile, continuativa ed efficace. Senza derive clericali e senza scivolamenti confessionali ma con la consapevolezza che si è «veri cattolici solo quando si è veri cittadini.
Solo così, credo, potremmo essere fedeli alle nostre origini senza cadere nella trappola di chi vorrebbe confinare ancora di più i cattolici invocando, seppur in buona fede, la formazione di un nuovo partito cattolico.
La Stampa 5.7.12
Incognita alleanze
E Vendola va all’attacco: “Casini? Meglio Casarini”
ROMA «Al governo con Casini? No, molto meglio Luca Casarini (anima dei No Global, ndr)». Con questa battuta, rivelata dalla Tribuna di Treviso, Nichi Vendola, il leader di Sinistra ecologia e libertà (Sel) ha concluso un dibattito a Padova durante il quale si era parlato delle possibili alleanze con Pd e Idv da un lato e Udc dall’altro. E, ancora, sul no del numero uno di Fli, Gianfranco Fini, ad un possibile accordo, il governatore della Puglia ha risposto: «Di questo sono abbastanza contento. Credo che Fini, che ha come prospettiva di ricostruire un nuovo centrodestra, debba andare per una strada. Io vado per l’altra strada, quella opposta». Poi un messaggio diretto ai Democratici: «Io vorrei legare il destino del Paese ad una prospettiva di cambiamento. Chiedo al Pd di rimettere in campo il centrosinistra. Se le formule alchemiche a cui il Pd si sta consegnando sono l’alleanza con Casini, Fini e Monti - ha chiarito - Sel andrà da un’altra parte». E il presidente di Sel è andato oltre. Forse è il nome di Monti che l’ha spaventata di più? Vendola ha replicato con forza: «Sono soprattutto gli italiani spaventati dal nome di Monti...». Quindi, uno sfogo diretto all’ex ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni (Pd): «Non trovo sconveniente l’ingresso trionfale di Casini e Fini nell’alleanza con il Pd. Dico solo: non chiamatelo centrosinistra!».
Repubblica 5.7.12
Vendola: meglio Casarini di Casini
ROMA — «Al governo con Casini? No, molto meglio Casarini». Così, secondo La Tribuna di Treviso di ieri, Nichi Vendola aveva concluso la sera prima un dibattito a Padova, salutando l’esponente No Global. Ieri sono arrivati il no comment di Casini e la reazione di Fioroni che parla di «battuta infelice » del governatore aggiungendo che «scherzando si dice la verità, ma così si incrementa solo la distanza tra di noi». E la replica di Vendola: «Dispiace che Fioroni voglia far discutere il mondo intero della mia fantomatica alleanza con Casarini, piuttosto che della sua concreta alleanza con l’Udc. Io non trovo sconveniente l'ingresso trionfale di Casini e Fini nell’alleanza con il Pd. Ma non chiamatelo centrosinistra».
l’Unità 5.7.12
Divisi sul «premio e sui collegi: in salita la legge elettorale
di Simone Collini
Tre settimane per trovare un’intesa sulla legge elettorale, era stata la sfida lanciata da Alfano. Bersani l’ha raccolta. E però ora che le tre settimane sono abbondantemente passate, non è stato siglato alcun accordo per superare il “Porcellum”. Anzi, ultimamente le distanze tra Pdl e Pd sono aumentate, ed è già alle spalle l’ipotesi di una legge che assegni il 50% di seggi in collegi uninominali a un turno e l’altro 50% col proporzionale in circoscrizioni medio-piccole e lo sbarramento al 5%.
È soprattutto su due punti che si è bloccata la trattativa: quale meccanismo introdurre per permettere agli elettori di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento e come garantire la governabilità. Insomma, i due punti cardine. E a poco è servito che sia cambiata la compagine degli sherpa che stanno portando avanti il confronto. Gli ultimi colloqui tra Maurizio Migliavacca (Pd), Denis Verdini (Pdl) e Ferdinando Adornato (l’Udc) non sono bastati a trovare la quadra.
PREFERENZE CONTRO COLLEGI
A rendere impossibile l’accordo, spiegano nel Pd, sono le divisioni e le ambiguità che dominano nel Pdl. Nel Pdl puntano invece il dito contro il niet posto dal Pd all’introduzione delle preferenze. Sono vere entrambe le cose.
I vertici di via dell’Umiltà sono divisi tra chi vuole le preferenze, chi i collegi uninominali e chi delle liste bloccate corte. E un vertice notturno a palazzo Grazioli non è servito a scegliere una posizione univoca. Berlusconi, spiega chi ha partecipato all’incontro, si sarebbe detto favorevole alle preferenze (opzione che per l’ex premier premierebbe la scelta di presentare insieme alla lista del Pdl una serie di liste civiche utili a interecettare il voto degli indecisi). In questo segnalando già un primo asse con il leader leghista Roberto Maroni («utile introdurre almeno una preferenza, dice). Ma già ieri mattina una fetta del partito si è scagliata contro l’ipotesi, parlando del «peggio della vecchia politica (Capezzone) e di aumento esponenziale dei costi della politica «con tutte le conseguenti degenerazioni (Calderisi e La Loggia).
È esattamente questa la posizione del Pd, che per la scelta dei parlamentari propone di ricorrere ai collegi: anzitutto maggioritari, per ricostruire un legame con i territori, ma con una quota anche di proporzionale. Bersani, dopo il muro alzato dal Pdl nei confronti del doppio turno, ha inviato alla controparte un messaggio molto esplicito sul fatto che il suo partito non accetterà una riforma al ribasso basata sul sistema delle preferenze. È vero che tra i Democratici c’è anche ci non vede di cattivo occhio questo strumento (Beppe Fioroni in primis). Ma non si aprirà su questo nessun braccio di ferro, nel Pd. Anche perché l’Udc, storicamente difensore delle preferenze, è disposto a rinunciarvi pur di portare a casa una riforma che faccia superare il “Porcellum”.
IL NODO PREMIO DI MAGGIORANZA
C’è poi un’altra questione su cui Pd e Pdl sono in disaccordo: come garantire la governabilità. Il che si traduce in una discussione sul premio di maggioranza. Il Pd non accetta che si assegni il 55% dei seggi alla Camera a chi arriva primo qualunque sia la percentuale di voti incassata alle urne. Tra le ipotesi in discussione c’è la previsione di un premio che vada dal 10 al 15%, e che verrebbe assegnato soltanto in caso di un 35-40% ottenuto alle urne (al di sotto scatterebbe un meno consistente premio di consolidamento).
Dopodiché la discussione non manca su chi potrebbe ottenere il premio, ovvero il partito o la coalizione. E anche, nel caso si decida per la seconda opzione, se escludere dall’assegnazione dei seggi ulteriori le forze della coalizione che non abbiano superato la soglia di sbarramento (che dovrebbe essere fissata al 4 o 5%).
l’Unità 5.7.12
Cittadinanza. Il Pd scende in piazza
Manifestazione davanti a Montecitorio per chiedere una legge che stabilisca lo ius soli: chi nasce in Italia è italiano
Bersani: «Sarà il nostro primo atto quando andremo al governo
di Giuseppe Vittori
«Quando tocca a noi, la prima norma che il nuovo governo farà, sarà sulla cittadinanza. Chi nasce qui è italiano. Stiamo parlando di ragazzi nati qui, che lavorano e pagano le tasse e non sono nè italiani nè immigrati. Ed invece sono italiani e non è lui fuori dal mondo nuovo ma noi. Così Pier Luigi Bersani ha rilanciato, intervenendo al sit-in, promosso ieri dal Pd davanti a Montecitorio, la battaglia per il riconoscimento del diritto di cittadinanza sulla base dello ius soli ai figli di immigrati. «Un grande paese ha aggiunto deve capire che questa è una battaglia di civile, morale e etica se vuole offrire un grande futuro ai propri figli. Un milione di Balotelli che ci sono in Italia devono veder riconosciuti i propri diritti. Bersani ha poi ricordato che «l’articolo 3 della Costituzione . parla chiaro e deve essere la nostra bandiera. Lo facciamo per i diritti negati di questi ragazzi. Ci siamo impegnati in questo percorso per rendere esplicite agli italiani le nostre intenzioni ha continuato dobbiamo tirar via questo tema dal ’non detto’, dove è stato relegato da anni di ideologia di destra, che ha fatto danni al paese non solo economici ma anche di natura civile e sociale.
Presenti in prima fila i protagonisti della seconda generazione di figli di immigrati, centiniaia di giovani provenienti da diverse città italiane, assieme a parlamentari ed esponenti del Partito Democratico.
Sono quasi un milione di giovani e bambini figli di immigrati con il permesso di soggiorno nel Paese dove sono nati o cresciuti. Cambiare la legge attuale è stato ribadito è una questione di civiltà democratica. E adesso finalmente, dopo anni di battaglie e centinaia di migliaia di firme raccolte, su iniziativa del Pd, approda in Parlamento la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza, che il centrodestra in questi mesi ha continuato a bloccare, basata sul principio secondo cui chi nasce e cresce in Italia è italiano.
Sul palco Livia Turco, responsabile immigrazione del Pd, ha ribadito il no a leggi al ribasso: «La nostra posizione è chiara e dice che chi nasce in Italia ed è figlio di immigrati regolari da almeno 5 anni possa fare domanda di cittadinanza. Mentre chi viene da adolescente può farla al completamento del primo ciclo scolastico.
Kalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd ha lanciato un appello a tutti i parlamentari: «Guardateci negli occhi e diteci come intenderete votare in occasione della discussione della legge in Parlamento. Come nuovi italiani impegnati nel Partito Democratico non ci rassegneremo perché siamo certi che questa battaglia la vinceremo tutti insieme, innanzitutto per il bene dell’Italia. E Marco Pacciotti, coordinatore nazionale del Forum Immigrazione: «Siamo determinati a continuare il nostro impegno perchè l’Italia finalmente si doti di una legge che rispetti il cambiamento avvenuto nella società e che ridia finalmente un po’ di giustizia e di civiltà in un Paese che ne ha un bisogno assoluto.
l’Unità 5.7.12
La sfida dei nuovi italiani
di Khalid Chaouki, Responsabile Nuovi Italiani PD
L’Italia a Kiev purtroppo ha perso, i nuovi italiani invece hanno vinto. Può sembrare un paradosso, ma è la verità emersa in queste ultime giornate di campionato europeo di calcio. Milioni di italiani hanno scoperto grazie alla doppietta di Mario Balotelli che esistono anche i “neri italiani”, un popolo di un milione di ragazzi e ragazze che sono italiani di fatto, ma ancora stranieri per una legge ingiusta e ingiustificata. Balotelli è diventato cittadino italiano solo a diciotto anni e fino a quell’età aveva in tasta un permesso di soggiorno nel comune dov’è nato.
A Mario Balotelli va quindi il merito di aver posto al centro dell’attenzione popolare non tanto la rivendicazione del diritto alla cittadinanza italiana, quanto la semplice esposizione di una realtà che mai prima d’ora era stata così al centro dell’attenzione. In tutti i bar delle piazze d’Italia, anche nei paesini più remoti della provincia, terre padane comprese, il nome di Mario Balotelli, la sua storia, il suo abbraccio alla madre e le sue lacrime dopo una finale durissima sono state oggetto di commenti e discussioni. La questione dei “nuovi italiani” è diventata finalmente una questione largamente popolare. Finalmente ci siamo almeno per metà del lungo viaggio che dovrà condurci verso una riforma giusta e civile della legge sulla cittadinanza in Italia basata sullo Ius Soli: è italiano chi nasce o cresce in Italia da genitori immigrati.
Da oggi in poi raccontare le storie e la discriminazione a cui sono sottoposti i “nuovi italiani” sarà sicuramente più semplice anche di fronte alle platee più scettiche o meno informate. Ma al contempo si dovrà riflettere in modo serio su quanti altri Balotelli e a quante altre “doppiette” stiamo volutamente rinunciando danneggiando il complesso della nostra società e alimentando pesanti frustrazioni in chi quest’Italia la ama veramente, nonostante tutto.
Quanti bravi avvocati, giornalisti, medici, poliziotti, magistrati, sindaci, diplomatici, funzionari pubblici e tante altre figure professionali a cui oggi rinunciamo per una legge stupida e arretrata. Giovani che con il trenta e lode all’università continuano a vivere con la minaccia della perdita del permesso di soggiorno nel Paese dove sono nati o cresciuti.
A questo punto della lunga battaglia e in vista della discussione della legge sulla cittadinanza in Parlamento su richiesta del Partito Democratico, dobbiamo essere in grado di rilanciare il tema della cittadinanza sotto il profilo non solo dei diritti legittimi dei “nuovi italiani”, ma anche per il diritto dell’Italia di non vedersi sciupata una straordinaria opportunità. Senza Mario Balotelli non saremmo arrivati in finale, senza i “nuovi italiani” l’Italia perde una marcia in più. D’altronde come immaginare la scuola italiana oggi senza decine di bambini portatori di culture lontane ma straordinariamente radicati nei quartieri e negli oratori vicino alle proprie case? Come immaginare la propria città senza il negozio di alimentari gestito dall’ormai amico di famiglia di origine pakistana, la propria nonna senza la sua assistente di origine moldava o la propria pizzeria senza il bravissimo cuoco egiziano? L’Italia è diventata tutto questo. Un nuovo paese multiculturale, trasformato rapidamente nell’arco di vent’anni, ma senza particolari incidenti di percorso grazie alla giusta dose di convivenza all’italiana.
l’Unità 5.7.12
Cittadinanza, questione morale
di Luigi Manconi
Esistono ancora idee e valori capaci di distinguere nitidamente tra conservazione e progresso, tra posizioni reazionarie e posizioni riformiste e in buona sostanza tra destra e sinistra?
Il mondo è cambiato dalle fondamenta, le ideologie si sono sgretolate e le appartenenze via via deperiscono e, soprattutto, le fratture sociali seguono percorsi nuovi e imprevedibili. Eppure. Eppure resistono contraddizioni e conflitti che, tuttora, consentono di aggregare movimenti e di mobilitare energie e passioni intorno alla tutela dei diritti fondamentali della persona e della sua dignità. Contraddizioni vecchie e nuove e conflitti antichi e moderni. Quando questo è il terreno di confronto, scegliere diventa più agevole e, talvolta, ineludibile. Consideriamo le due frasi seguenti: «Cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia? È senza senso e poi: «Senza il reato di immigrazione clandestina, l’Italia diventerà la cloaca d’Europa. La prima di queste citazioni è di Beppe Grillo e nessuno se ne stupirà. La seconda è, in apparenza, di più difficile attribuzione: ma se ci pensate un attimo, la prosa preziosa, la selezione sofisticata dei termini, l’inesorabile sequenza logica denunciano che l’autore non può essere altri che Antonio Di Pietro.
Si tratta di due affermazioni che vale la pena memorizzare in queste ore: intanto perché ieri, davanti a Montecitorio, il Forum immigrazione ha tenuto una manifestazione in vista del dibattito parlamentare sulla riforma della cittadinanza; e poi perché questo obiettivo (una nuova normativa sulla cittadinanza) è stato indicato dal segretario del Pd come il primo punto del programma di governo del centrosinistra per la prossima legislatura. E c’è una terza ragione. Qualche giorno fa, il Corriere della Sera, riprendendo le parole di Massimo D’Alema, chiede a Nichi Vendola, «quali valori di sinistra veda in Di Pietro. Il leader di Sel risponde ribaltando la critica su chi lo contesta, accusato di votare «insieme al Pdl lo sfregio dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e altre simili nequizie.
La replica è abile e, tuttavia, Vendola sorvola su quali siano «i valori di sinistra di Di Pietro. (Di Beppe Grillo, ovviamente è meglio tacere). Non si tratta di una polemica futile. Tutt’altro. E qui soccorre il tema della cittadinanza. Quest’ultimo e, in generale, la questione relativa a migranti e profughi, così come altri temi incandescenti e controversi (dal mercato del lavoro alle garanzie del sistema penale, dall’autodeterminazione del paziente ai diritti delle minoranze sessuali) costituiscono un test cruciale. Non solo per agitare «le belle bandiere, ma anche per disegnare i tratti concreti di una organizzazione sociale più equa e più libera. Si tratta di problematiche fortemente politiche, destinate a tradursi in norme e misure conseguenti, a contribuire a produrre mutamenti sociali e cambi di mentalità, a influire sulla qualità della vita di tutti. E sono, allo stesso tempo, opzioni morali, in quanto hanno strettamente a che fare con la nostra idea di bene collettivo e di società giusta. Per questo il tema della cittadinanza ha già oggi, ed è destinato ad assumere sempre più, il valore di una grande questione pubblica ad alta intensità etica. Perché dà a un termine fin troppo abusato, quale inclusione, il senso così concreto di processi sociali che riguardano uomini e donne e bambini e il loro stesso destino. Perché allude a cosa siano i diritti fondamentali della persona in un contesto geo-politico che non è più quello angusto e discriminatorio degli antichi stati nazionali. Perché, infine, rimanda a una possibile idea, faticosa e ancora tutta da costruire di «cittadinanza umana capace di accogliere e di elaborare, in senso profondamente innovativo, il meglio di quanto è stato prodotto dalle culture più fertili della storia europea: il cattolicesimo sociale, il riformismo del movimento operaio, la tradizione radicale, liberale e libertaria, il pensiero ecologista.
A fronte di questo c’è quella frase di Antonio Di Pietro prima ricordata: «Senza il reato di immigrazione clandestina, l’Italia diventerà la cloaca d’Europa. Come sempre, la scelta del vocabolario è fattore qualificante e dirimente: quella «cloaca d’Europa è, inequivocabilmente, linguaggio fascistoide; o, se preferite, immorale.
Un impasto di corruzione intellettuale e di quel disturbo del comportamento, non esclusivo delle fasce adolescenziali, che è la coprolalia.
La Stampa 5.7.12
Il futuro. Seconde generazioni
Italiani, ma senza poterlo essere
Vivono, amano e lavorano nel Belpaese. Tifano per gli Azzurri, ma non sono cittadini come Balotelli
di Francesca Paci
ROMA Si sentono chiamati in causa quando la disoccupazione under 24 sfiora il 37%, quando il presidente Napolitano esorta i giovani a scendere in campo, quando Montolivo sbaglia il rigore contro l’Inghilterra e soprattutto quando l’icona Balotelli castiga due volte la Germania (e pazienza per la coppa d’Europa mancata). Si sentono italiani dentro ma fuori così così. Sono le seconde generazioni d’immigrati, il Paese del futuro, oltre un milione di ragazzi e ragazze che in virtù dello ius sanguinis faticano a ottenere la cittadinanza pur essendo nati o cresciuti a Roma, Bologna, Vercelli, Lecce (in Italia, come in Grecia e parzialmente in Germania, la cittadinanza dipende dal fatto che almeno uno dei genitori ce l’abbia e non dall’essere nato sul territorio dello Stato come in Francia e negli Stati Uniti) .
«Rispetto ai nostri padri abbiamo la consapevolezza di non essere più portatori di bisogni ma di diritti e doveri» spiega il responsabile dei nuovi italiani del Pd Khalid Chaouki al termine del sit-in organizzato ieri davanti a Montecitorio per chiedere la modifica della legge sulla cittadinanza. Il segretario Pierluigi Bersani ha appena garantito alle decine di manifestanti avvolti nel tricolore che, una volta al governo, sostituirebbe lo ius sanguinis con lo ius soli perché «chi nasce e cresce qui è italiano». E pazienza se nel frattempo il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri definisce quella promessa una «regolarizzazione facile e in controtendenza con l’Europa»: chi s’identifica nel siculo-ghanese-bresciano in maglia azzurra SuperMario Balotelli non ha mai avuto veri dubbi circa la propria identità.
«Parlo meglio l’italiano del dialetto marocchino, il mio film preferito è “La ricerca della felicità” di Muccino, fino a poco tempo fa avevo una fidanzata italiana, eppure a settembre, quando compirò 18 anni, sarò tecnicamente un clandestino» lamenta Adil el Youssoufi, emigrato da Marrakesh nel 1999 e cresciuto con i genitori e i fratelli a Imola, dove frequenta l’istituto tecnico e soprattutto le briose discoteche della riviera. Il connazionale venticinquenne Abderrahmane Amajou, «cittadino» ma solo grazie alla moglie italiana, ammette che, per esempio, non potrebbe affrontare un libro in arabo: «Sono arrivato nel Cuneese a 7 anni, ho studiato scienze politiche a Torino, ascolto Jovanotti e Vasco Rossi e leggo molto, ho appena terminato “Il mio migliore amico”, la mia lingua è l’italiano».
Quasi tutti quelli in sit-in a Montecitorio sono originari del Maghreb o dell’Albania. C’è qualche sudamericano come la commessa di McDonald’s Vanessa Cuvas, padre peruviano e madre colombiana ma entrambi senza cittadinanza italiana, o il grafico capoverdiano trentunenne Ireneo Spencer che vede e rivede su internet i film di Totò e, dice, non cambierebbe Roma con nessuna città del mondo. Ci sono un paio di pakistani, qualche nigeriano. Mancano i cinesi, una delle comunità straniere più numerose, ma il loro è un caso a parte perché Pechino non riconosce il doppio passaporto e diventare italiani significherebbe un aut aut. Tutti diversi e tutti simili. Per capire a che nazionalità sentono d’appartenere basta chiudere gli occhi e ascoltarli mentre si prendono in giro in romagnolo, romano o pugliese.
Corriere 5.7.12
«Agli islamici stessi diritti dei cristiani» Così volle Cecco Beppe 100 anni fa
Celebrato a Vienna l'anniversario di una legge che resta all'avanguardia
di Giorgio Pressburger
Austria, Austria!
Il razzismo più feroce si aggira in Europa da varie centinaia di anni. Ne è diventato uno dei più orribili fantasmi al principio del Novecento. Eppure proprio in Austria dove è nato il fautore più orrendo del razzismo etnico-religioso, Adolf Hitler, esattamente cento anni fa, nel 1912, è stata emanata una Imperial-Regia Legge, che dava ai cittadini di religione musulmana gli stessi diritti dei cattolici, dei protestanti, degli ebrei, dei buddisti. I cittadini musulmani dell'Austria hanno celebrato in massa, pacificamente e allegramente la ricorrenza dei primi cento anni di questo evento. Il vecchio Impero austro-ungarico era un crogiuolo multietnico. In tredici lingue si cantava il suo inno, il famoso «Gott erhalte» o «Serbidiola» come si chiamava in Istria e a Trieste (serbi Dio l'austriaco regno). La tradizione di quel tipo di armonizzazione dei rapporti tra religioni e popoli risale alla fine del Settecento, al regno dell'imperatore Giuseppe II d'Austria e al suo celebre Editto di tolleranza. Brutto termine questo, di «tolleranza» ma dietro a esso c'era forse qualcosa di più nobile di una semplice sopportazione di chi fino ad allora era stato considerato un estraneo, se non un essere inferiore e un nemico. I rapporti di quell'impero con l'Islam, ma specialmente con la Turchia musulmana, fino al 1683 erano stati pessimi. Guerre, stragi, esecuzioni atroci ne marchiavano la storia, fino appunto al 14 luglio 1683, data d'inizio del famoso assedio di Vienna da parte di un esercito turco di 140 mila soldati. L'assedio terminò con la sconfitta dell'esercito di Mustafa Pascià. Nel luglio del 1912, più di duecento anni dopo venne emanata la Legge di Francesco Giuseppe, Cecco Beppe per gli italiani, che dava pieno diritto di culto e di istruzione islamica ai cittadini di origine musulmana. Naturalmente c'era anche dell'interesse dietro a questa azione. L'imperatore contava di inglobare nell'esercito austriaco i soldati della Bosnia-Erzegovina musulmana. Ma in quegli anni si trattava della legge più avanzata in Europa. Due anni più tardi scoppiò la Prima guerra mondiale, un esempio pauroso per chi vede nell'Europa moderna ancora un grande potenziale per una buona politica, una convivenza fraterna tra i popoli. La base per questa possibilità ci sarebbe. Per quanto si voglia infangare e demolire, l'Unione Europea ha ancora questa prospettiva. Se si fossero ascoltati i grandi europeisti italiani come Eugenio Colorni e Altiero Spinelli non saremmo a queste insensate risse e rivalità. Ma quando si pensa a ciò che l'Impero austro-ungarico era riuscito a costruire e ai nostri europeisti che hanno a volte pagato con la vita (come Colorni) questa loro fede e amore per un grande stato federalista europeo, beh, non si mettono ancora da parte le speranze. Se i turchi dell'Austria ancora oggi, come informa la Bbc britannica, vanno in giro per il mondo dichiarandosi con orgoglio cittadini austriaci, vuol dire che le orrende volgarità risuonate in Italia meno di un anno fa possono essere rintuzzate. In Italia come altrove. Nel 2000 c'era Haider il razzista antisemita in Austria, l'Europa era allarmata, oggi quel movimento è scomparso. Altri movimenti simili sono sorti altrove e sono pure tramontati. Questa sanguinosa stupida e pericolosa commedia dovrebbe essere tolta dal cartellone per sempre e chiunque voglia nutrire un po' di fiducia nell'umanità deve fare qualcosa perché questo succeda.
Anche nel nostro Paese ci sono antichi esempi di «tolleranza» — chiederei l'invenzione di un termine migliore — per esempio a Trieste, dove il primo cimitero musulmano (turco) risale al Trecento. Pure Trieste è una città con molte popolazioni diverse, sempre vissute insieme in pace, salvo il periodo del fascismo. Mussolini andò proprio in quella città ad annunciare l'avvento delle leggi razziali, nel 1938. Ecco dove porta il nazionalismo.
Ma vorrei chiudere con una piccola nota di colore. Il primo cornetto, o brioche o «croissant» (crescente, luna crescente) in francese, è stato cotto in un forno di Vienna, al termine dell'assedio turco, nel 1683. In tedesco si chiama «Kipferl». I malevoli pensano che sia il simbolo del voler mangiare i turchi e i benevoli — io do ragione a loro — che sia un segno di pacificazione.
Repubblica 5.7.12
Sono almeno 400 mila i braccianti arruolati dal caporalato che ogni estate dalla Puglia al Trentino lavorano nelle campagne
I sindacati denunciano lo sfruttamento ma serve una ribellione della società civile
E una legge che punisca i “mandanti”
Così il pomodoro “giusto” salva gli schiavi invisibili
di Carlo Pietrini
Tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300 kg sotto il sole a 40 gradi. Due euro e mezzo se si è clandestini. È questa la paga che un immigrato riceve nelle campagne pugliesi, dove fa anche 14 ore al giorno. Lavora a cottimo. I più robusti riescono a portare a casa 20/25 euro al giorno (il 40% in meno di un italiano con le stesse mansioni), al netto di un taglieggiamento su trasporto, cibo, acqua e altre necessità elementari controllate dai caporali che li assumono e distribuiscono il lavoro. Mentre gli italiani iniziano ad andare in vacanza, non lontano dalle spiagge più belle si raccolgono pomodori, meloni e angurie, impiegando migliaia d’immigrati africani extra-comunitari o dei neo-comunitari provenienti dall’Est Europa.
Vogliamo aspettare un’altra drammatica protesta come a Rosarno nell’inverno 2010? O un altro sciopero come quello di Nardò, della scorsa estate, per renderci conto che ciò che mangiamo rischia di essere passato per le mani di uomini ridotti in semi-schiavitù? Non abbiamo garanzie: i pomodori che ci portiamo a casa, o le passate di pomodoro, l’anguria che divoriamo assaliti dalla calura è probabile che siano il frutto di condizioni di lavoro e di vita (in abitazioni di fortuna, senza servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria, sotto costante minaccia) inaccettabili, tanto più per un Paese che si definisce civile.
È una tragedia umana, un incubo per tante persone che si consuma ogni anno, in tutte le stagioni, sotto un pesante velo di omertà e su cui campa buona parte della nostra agricoltura e del nostro decantato made in Italy. Flai-Cgil stima che in Italia ci siano 400mila lavoratori che vivono sotto i caporali. Hanno la loro stagionalità come cel’hal’ortofrutta:aluglioeagosto si concentrano in Puglia, soprattutto nella Capitanata in provincia di Foggia o in Salento; subito dopo passano in Basilicata, nella zona di Palazzo San Gervasio dove i pomodori si raccolgono un po’ dopo; ci sono in Campania, nelle province di Salerno (Piana del Sele) e Caserta (Villa Literno e Castel Volturno). In autunno/inverno tocca agli agrumi: la Calabria con la Piana di Gioia Tauro dove si trova Rosarno, la Sicilia dove ci sono fenomeni di caporalato fino a primavera, con la successiva raccolta delle patate e di altri prodotti orticoli.
Ma non è esente il Nord: si segnalano fenomeni in Emilia-Romagna (frutta a Modena e Cesena), in Veneto (Padova), in Lombardia (Mantova e i meloni) e perfino nel civilissimo Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele. Fenomeni settentrionali che sono ancora marginali, ma che vista la crisi sono in forte ascesa. Crisi che colpisce i lavoratori stagionali, gli immigrati che accettano loro malgrado di sottoporsi a condizioni sempre peggiori, ma crisi che colpisce anche l’agricoltura e i suoi imprenditori, i quali devono ridurre al minimo il costo del lavoro, per non fallire o lasciar marcire il cibo nei campi.
È una crisi che accentua l’assurdità del nostro sistema del cibo industriale, in cui diventa facile puntare il dito contro i caporali, ma in cui è ora che anche altri soggetti si assumano delle responsabilità. I caporali sono terribili, e rappresentano un fenomeno che riguarda anche altri settori lavorativi, soprattutto l’edilizia. Oggi non sono più soltanto italiani, spesso sono africani come gli sfruttati, scatenando una guerra tra poveri che non è esente da fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Gli imprenditori affidano ai caporali il potere di gestire le vite dei braccianti lontano dei centri abitati come lontani sono i campi: se l’occhio non vede nessuno s’indigna, tantomeno chiede regolarità e legalità. Tutto in nero: si calcola che per l’agricoltura il sommerso incida per il 90% al Sud, per il 50% al Centro e per il 30% al Nord.Altro che far rispettare i contratti, questi lavoratori neanche esistono.
Per fortuna, dopo lo sciopero di Nardò dell’estate 2011, è stato accelerato l’iter per una legge che preveda il reato di caporalato, che tuttavia è stata approvata solo in parte: per esempio non vi è traccia di sanzioni per le imprese e non ci sono meccanismi di tutela per i lavoratori che denunciano i loro caporali. Sono tanti le associazioni e i sindacati che si stanno impegnando su questo fronte, ma non possiamo andare avanti con la loro limitata capacità strutturale di sopperire alle mancanze dei sistemi istituzionale e agricolo che sembrano non volerci sentire. Bisogna colpire duramente gli imprenditori agricoli coinvolti: che lo facciano le leggi, le forze dell’ordine, le associazioni di categoria. Un primo risultato si è ottenuto proprio a Nardò a maggio, dove insieme ai caporali, dopo una lunga indagine, sono stati arrestati anche gli stessi imprenditori, i “mandanti”. Gente che tra l’altro esporta la quasi totalità del proprio prodotto, e che dunque farebbe l’orgoglio di chi si lamenta che la nostra agricoltura «è poco competitiva».
Intanto però bisogna che si sollevi la società civile. Si può fare in diversi modi: lo fanno le associazioni o i sindacati come Flai/Cgil, che parte in questi giorni con “Gli invisibili delle campagne di raccolta” eun “camper dei diritti” su cui viaggiano medici, insegnanti di lingua, avvocati, sindacalisti, volontari e Yvan Sagnet, il leader dello sciopero di Nardò. Toccheranno la Puglia, poi la Calabria e infine il Trentino. Vogliono risvegliare le coscienze dei lavoratori, spesso inconsapevoli dei loro diritti e del potere che hanno quando incrociano le braccia: la frutta e la verdura non si raccolgono da sole, e vanno raccolte al momento giusto.
Però possono mobilitarsi le persone che vivono in quei luoghi, darsi da fare di più per l’accoglienza, trovare coraggio e protestare, sposare le battaglie dei braccianti, non accettare che nel loro territorio accadano tali nefandezze. Infine tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi, e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare, e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie. Perché è pur vero che bisogna aiutare i bravi agricoltori.
È ora che il sistema Italia rigetti con forza il caporalato in tutte le sue forme. È urgente, perché intanto queste povere persone sono lì nei campi, a soffrire, in alcuni casi a morire. Sono necessari un intervento del governo (in fondo anche queste sono tasse che vanno recuperate) e della politica locale, un coordinamento nazionale delle forze dell’ordine, l’auto-certifcazione delle aziende virtuose, la nostra scelta quotidiana di un cibo che non sia soltanto buono e sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche giusto: giusto per chi lavora, giusto per chi non vuole diventare complice di questa vergogna italiana.
l’Unità 5.7.12
Dominique Bertinotti
«Famiglie tutte uguali. Vittoria della gauche»
di Umberto De Giovannangeli
La ministra francese rivendica la scelta del sì alle nozze tra gay: «La nostra è una visione generosa che include
Stanca ma soddisfatta. Ed orgogliosa perché «sono fermamente convinta che sia un onore per la sinistra essere il vero difensore delle famiglie e dell’uguaglianza. Un onore e, insieme, un dover essere, perché battersi per l’uguaglianza in ogni campo, è un tratto identitario della sinistra. Parola di Dominique Bertinotti, 58 anni, ministra francese della Famiglia. L’Unità la raggiunge telefonicamente il giorno dopo l’annuncio del premier Jean-Marc Ayrault che dal 1 ̊ settembre 2013 in Francia sarà possibile anche per le coppie omosessuali, «senza alcuna discriminazione sposarsi legalmente e adottare dei figli.
La conferma di Ayrault è arrivata a pochi giorni dalle celebrazioni del Gay Pride a cui ha simbolicamente partecipato anche la ministra della Famiglia Dominique Bertinotti. Di recente la ministra della Sanità, Marisol Touraine, ha annunciato che agli omosessuali sarà anche permesso di donare il sangue. «L’anno prossimo le persone dello stesso sesso che lo desiderano potranno sposarsi e adottare insieme – ribadisce a l’Unità la Dominique Bertinotti -. Avranno gli stessi diritti e gli stessi doveri delle altre coppie sposate. Per la ministra si tratta di «una visione generosa che include e non esclude. Non c’e un unico modello di famiglia prosegue -. È un onore per la sinistra essere il vero difensore delle famiglie e dell’uguaglianza. E aggiunge: «Spero che il dibattito sia condotto in nome del principio di uguaglianza tra tutte le famiglie. Io sono la ministra di tutte le famiglie.
Un concetto, quest’ultimo, che sta molto a cuore alla ministra socialista: «Al giorno d’oggi riflette Bertinotti è necessario vedere la società così come è: abbiamo famiglie monoparentali, sempre più numerose e che spesso sono le più esposte alle difficoltà economiche e di accesso all’educazione per i propri figli. Abbiamo famiglie ricongiunte, famiglie composte da solo un genitore, famiglie tradizionali e anche famiglie omoparentali. Dobbiamo lavorare sui principi di uguaglianza: stessi diritti, stessi doveri. Perché fare discriminazioni? Se da un lato riconosciamo che oggi abbiamo differenti tipologie di famiglie e dall’altro che abbiamo l’istituzione del matrimonio, è giusto che ogni tipo di famiglia abbia accesso all’istituto del matrimonio. Il discorso si amplia e investe dice Dominique Bertinotti quel “Patto con i francesi stretto da Francois Hollande in campagna elettorale; un patto che non è rimasto sulla carta, confinato nell’ennesimo libro delle buone intenzioni rimaste tali, ma si sta trasformando in atti legislative che hanno riguardato sia grandi questioni sociali sia i diritti civili e di cittadinanza. E tutto ciò è stato fatto prestando ascolto alle associazioni, gruppi di base, Ong, che operano con passione e in un impegno quotidiano, su queste tematiche.
Il percorso, prevede la ministra, non sarà facile: il dibattito sulla parità di diritti anche per lesbiche e gay è «caldo in Francia, soprattutto per quanto riguarda le adozioni o la possibilità di avere figli con l’inseminazione artificiale. Sabato scorso, la stessa Bertinotti era stata fischiata dalle associazioni delle famiglie francesi durante una conferenza a Tolone dopo aver invocato «uguaglianza tra le famiglie. «So che quello dell’uguaglianza tra le famiglie spiega la ministra francese è un tema delicato, che incrocia tante sensibilità diverse, ognuna delle quali merita rispetto e verso cui la politica deve prestare ascolto. Allo stesso tempo, però, il concetto stesso di famiglia va aggiornato, coniugato al plurale e nessuna delle tipologie familiari va discriminata. Gli stili di vita evolvono, emergono nuovi bisogni, e il governo di cui faccio parte è intenzionato, come ribadito dal premier Ayrault, rispondere a questi nuovi bisogni in nome del principio di uguaglianza.
Prestare ascolto: un metodo che già di per sé è sostanza politica. Riflette in proposito la ministra socialista: «Chi assume responsabilità di governo deve essere giudicato per quello che realizza, o per gli impegni mancati, ma guai a presumere che prestare ascolto alla società civile e alle sue istanze organizzate sia un esercizio “didascalico”, una perdita di tempo. Al contrario, questo, l’ascolto attento, partecipe, è il modo giusto per arricchire il sistema democratico e per dare nuova linfa vitale alla vita politica. Anche questo, per me, è essere di sinistra. E contribuire a ridare una idea alta, nobile, del fare politica. «L’autorevolezza di una classe dirigente aggiunge la ministra della Famiglia si verifica e si rafforza nella sua capacità di far vivere gli ideali, la visione della società e della comunità nazionale, il senso dello Stato di cui è portatrice, nell’azione di governo. Questa è la sfida del cambiamento in cui siamo impegnati.
il Fatto 5.7.12
Lucio Dalla. L’eredità ai parenti, escluso il compagno della vita
di David Marceddu
Bologna Tutto come previsto. Il giallo dell'eredità di Lucio Dalla, a quattro mesi esatti dalla sua morte, si è chiuso ieri pomeriggio. Il testamento di cui si era parlato nei giorni successivi alla scomparsa del cantautore non c'è e il patrimonio andrà diviso in cinque parti uguali: a beneficiarne le sue quattro cugine di secondo grado e i figli di una quinta, scomparsa recentemente. Marco Alemanno, il compagno di vita dell'artista, rimane così fuori dai giochi, non essendoci in Italia alcuna legge che regoli le coppie di fatto.
Così ha deciso il curatore patrimoniale, Massimo Gambini, che insieme a una squadra di notai era stato nominato dal tribunale di Bologna all'indomani della morte del cantante.
Oltre alla casa di via D’Azeglio a Bologna, Dalla era proprietario di sei terreni e tre fabbricati in provincia di Catania, uno studio di registrazione vicino le isole Tremiti, terreni in Abruzzo e una villa alle pendici dell’Etna, oltre a un appartamento a Urbino. Senza contare la villa alle Tremiti, costruita a pochi passi dal mare. Poi c'è una barca, adattata anche a studio di registrazione.
Oltre alla ricchezza immobiliare c'è poi il lascito artistico: 581 canzoni che valgono 800 mila euro l'anno di diritti d'autore, con cui Lucio Dalla avrebbe voluto, proprio in questi mesi finanziare la sua fondazione benefica dedicata alla scoperta di nuovi talenti musicali. La scelta, anche su questo punto, passerà dunque in mano agli eredi.
Incerto è ora anche il destino di Marco Alemanno. “Mi hanno tolto le chiavi, cambiato le serrature. Ho solo la parte mia”, aveva detto qualche settimana fa in un’intervista. Da oggi potrebbero non lasciargli più neanche quella.
il Fatto 5.7.12
Il filo rosso tra l’industria italiana e Oltretevere
Finmeccanica e lo Ior. L’amicizia tra il numero uno del colosso industriale Giuseppe Orsi e l’ex presidente della banca del Vaticano Ettore Gotti Tedeschi tiene insieme mondi apparentemente distanti. Giuseppe Orsi è indagato dalla procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta su una commessa da 560 milioni di euro per la consegna di 12 elicotteri da parte di Augusta Westland (controllata di Finmeccanica) al governo indiano. Le indagini su Orsi iniziano in seguito alle dichiarazioni di Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, secondo cui il costo dell’affare Augusta-India sarebbe stato gonfiato, producendo una tangente di 10 milioni di euro che Orsi avrebbe versato alla Lega Nord. Ettore Gotti Tedeschi non è indagato nell’inchiesta su Finmeccanica, nonostante la sua abitazione sia stata perquisita dai pm napoletani. L’ex presidente dello Ior è invece iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma per violazione delle norme antiriciclaggio in relazione alla movimentazione sospetta di 23 milioni di euro, sequestrati nel settembre 2010 e poi restituiti alla Banca Vaticana.
il Fatto 5.7.12
Antiriciclaggio, così il governo ha coperto lo Ior
A Strasburgo “imbavagliata” l’autorità di trasparenza bancaria
Il governo italiano ha imbavagliato la delegazione della propria Autorità antiriciclaggio in Europa per aiutare il Vaticano
di M. L.
Il governo italiano ha imbavagliato la delegazione della propria Autorità antiriciclaggio in Europa per aiutare il Vaticano. E il capo dell’UIF, per protesta contro il Governo, ha ordinato il ritiro dei suoi uomini da Strasburgo. Ieri la Santa Sede è stata sottoposta all’esame finale dagli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa riunito in seduta plenaria a Strasburgo. Ma il Governo italiano ha scelto di non parlare alla sessione plenaria in cui si discuteva il caso. Anche grazie a questo assordante silenzio italiano sulle tante inadempienze delle autorità della Santa Sede, il Vaticano è riuscito a ottenere una mezza promozione insperata alla vigilia. La partita vinta dalla Santa Sede con l’aiuto del governo italiano era fondamentale per lo Ior e le istituzioni finanziarie d’Oltretevere. Moneyval è il fratello minore della principale organizzazione internazionale antiriciclaggio, il GAFI, e si occupa di dare le pagelle agli Stati membri del Consiglio d'Europa o agli esterni (come è accaduto prima della Santa Sede con Israele) che chiedono di essere valutati. Lo scopo di chi si assoggetta alle forche caudine di Moneyval è quello di essere inseriti nella lista dei Paesi affidabili per accedere poi alle procedure semplificate delle operazioni bancarie.
La promozione insperata
La sessione plenaria dell’organismo europeo è iniziata il 2 luglio e si concluderà domani. Ieri però è stato il giorno del Vaticano. Il Fatto aveva già pubblicato i contenuti della bozza della valutazione sulla Santa Sede stilata dagli ispettori di Moneyval e spedita ai Paesi membri (tra cui l’Italia) nella quale il Vaticano aveva ottenuto un voto insufficiente: solo 8 delle 16 raccomandazioni fondamentali del GAFI erano rispettate. Grazie anche all’atteggiamento dell’esecutivo italiano, ieri si è passato da un 5 in pagella (8 su 16) a un 6 risicato: 9 promozioni e 7 bocciature. In polemica con questa scelta del governo Monti, il direttore dell’UIF, cioè l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, Giovanni Castaldi ha ritirato i suoi due dirigenti dalla delegazione che rappresentava il nostro Paese a Strasburgo per non essere complice di una posizione sbagliata.
Grilli: “Non c’entro”
di tacere davanti al Consiglio di Europa sulle inadempienze di Oltretevere in materia bancaria – secondo quanto riferito da alcuni membri autorevoli della delegazione ministeriale a Strasburgo – sarebbe stata sponsorizzata dal viceministro dell’Economia Vittorio Grilli. Una circostanza molto grave, se confermata, perché il ministro dell’Economia (Monti che delega Grilli) è la prima autorità dello Stato in materia di antiriciclaggio secondo il decreto 231 del 2007. Grilli ha negato al Fatto ieri tramite il suo portavoce di avere fatto pressioni sulla delegazione, ma il risultato di cui l’esecutivo si dovrà assumere la responsabilità è che lo Stato italiano non ha tutelato gli interessi dei cittadini alla trasparenza bancaria, ma quelli del Vaticano e dello Ior all’opacità dei conti dei suoi correntisti incappati in indagini come Luigi Bisignani o Angelo Balducci.
I rappresentati dell’UIF di Bankitalia, cioè i principali testimoni “a carico” del Vaticano e a favore della trasparenza del sistema bancario nel piccolo processo allo Ior, al Vaticano e alle sue prassi opache che si teneva a Strasburgo, ieri erano assenti. Non c’era dall’inizio della sessione di Moneyval il rappresentante del ministero della Giustizia, che avrebbe potuto raccontare le rogatorie mai arrivate alla Procura di Roma da Oltretevere nelle indagini sui misteri della morte di Roberto Calvi. Ma non c’erano nemmeno i dirigenti del-l’UIF che all’inizio erano partiti convinti di poter dire la loro e che invece si sono sentiti imporre un bavaglio dal ministero.
Il 3 luglio, infatti, alla vigilia dell’esame decisivo, la dirigente del ministero dell’Economia che guidava la delegazione del governo italiano ha comunicato al rappresentante UIF che non avrebbe parlato nessuno perché così era stato deciso a Roma. A quel punto Castaldi, informato dai suoi due dirigenti dell’accaduto, ha ordinato loro di rientrare a Roma. A nome dell’UIF, Castaldi aveva inviato a fine giugno una lettera al ministero dell’Economia nella quale specificava la sua posizione sulla bozza di rapporto trasmesso da Moneyval come base della discussione che si sarebbe tenuta a Strasburgo di lì a poco. In quella bozza, svelata dal Fatto, il Vaticano riceveva 8 bocciature e 8 promozioni sulle 16 raccomandazioni del GAFI in materia di antiriciclaggio. L’UIF riteneva quella pagella troppo benevola ed elencava le ripetute inadempienze del Vaticano: le mancate risposte alle rogatorie, l’involuzione della nuova normativa voluta dal segretario di Stato Tarcisio Bertone nel gennaio del 2012 rispetto alla legge del dicembre 2010 che rappresentava un passo avanti e istituiva l’AIF, l’autorità antiriciclaggio del Vaticano e via elencando inadempienze su inadempienze della Santa Sede.
Bertone e così sia
Dopo avere letto quella lettera il governo italiano ha deciso di impedire all’UIF di commentare pubblicamente il rapporto ieri davanti agli ispettori Moneyval. Così a rappresentare l’Italia in questo dibattito sono rimasti solo gli uomini della quinta direzione del ministero dell’Economia preposta alla lotta contro il riciclaggio, guidata da Giuseppe Maresca che però ha inviato l’avvocato Francesca Picardi, la dirigente del ministero che, in qualità di capo della delegazione, ha trasmesso il diktat di Roma.
Castaldi, per evitare l’effetto silenzio-assenso, ha ordinato ai suoi due uomini di rientrare a Roma immediatamente. Una scelta accolta con sollievo dalla delegazione vaticana guidata dal braccio destro del segretario di Stato Tarcisio Bertone, monsignor Ettore Balestrero. L’obiettivo del Vaticano era quello di ottenere almeno una valutazione migliore di quella di partenza che permettesse l’inserimento della Santa Sede nella cosiddetta grey list, la lista grigia dei Paesi ancora inadempienti secondo i parametri Moneyval che però stanno migliorando il loro sistema al fine di aderire alle raccomandazioni del GAFI.
L’ostacolo principale per il Vaticano sulla strada verso la lista grigia era proprio l’UIF, l’autorità aveva segnalato infatti il peggioramento del sistema antiriciclaggio nel 2012 grazie alla nuova normativa voluta da Bertone. E così l’obiettivo del Vaticano è stato raggiunto.
La Stampa 5.7.12
Santa Sede sotto esame
Gli ispettori hanno visitato il Vaticano due volte negli ultimi mesi
Antiriciclaggio, ad agosto il rapporto di Moneyval
di An. Tor.
Nel corso della sua 39° riunione plenaria a Strasburgo, Moneyval ha «adottato» ieri il rapporto sulla Santa Sede. L’organismo del Consiglio d’Europa, che ha il compito di valutare l’efficacia della legislazione di un Paese sul fronte delle norme antiriciclaggio, ha dunque attestato che la metodologia usata dai valutatori nel redigere il rapporto è conforme agli standard internazionali in vigore, come pure che i fatti descritti sono basati su quanto rilevato nel corso della valutazione.
I voti attribuiti, con le allegate raccomandazioni, sono ritenuti equi e giusti da tutti i partecipanti. Il rapporto sulla Santa Sede viene dunque presa in carico da tutta l’assemblea e diventa un documento di tutti i Paesi membri.
Il riserbo sui risultati è strettissimo. Anche se era ormai noto che nel rapporto stilato dagli ispettori di Moneyval – che hanno visitato due volte il Vaticano negli ultimi mesi, dal 21 al 26 novembre e dal 14 al 16 marzo – si riconosceva il positivo cammino di adeguamento compiuto con le nuove norme antiriciclaggio entrate in vigore quest’anno in Vaticano, ma si indicavano anche alcuni passi ancora necessari per corrispondere pienamente ai criteri internazionali.
Adesso il rapporto, con le eventuali modifiche che sono state decise dall’Assemblea Generale e l’accluso Action Plan con una serie di raccomandazioni dettagliate sui passi successivi da adottare, verrà esaminato dalla Santa Sede, che potrà fare le sue osservazioni.
Secondo indiscrezioni circolate ieri, il rapporto sarà pubblicato sul sito di Moneyval presumibilmente verso metà agosto.
La Stampa 5.7.12
E per il maggiordomo in carcere si pensa alla perizia psichiatrica
I giudici: potrebbe essere stato vittima di un lavaggio del cervello
di G. Galeazzi e F. Grignetti
ROMA Da 44 giorni è chiuso in una piccola cella della Gendarmeria vaticana sotto l’occhio di una telecamera che non lo perde mai di vista, giorno e notte, e dà segni di comportamenti ossessivi tanto da far ipotizzare la necessità di una perizia psichiatrica. Ultime notizie dall’inchiesta sul Corvo: in Vaticano, visti i comportamenti anomali dell’ex maggiordomo del Papa, si vuole capire se Paolo Gabriele sia stato sottoposto ad una sorta di «lavaggio del cervello» da qualche gruppo di fanatici oppure se qualcuno abbia approfittato di una sua eventuale fragilità per farne una quinta colonna all’interno dell’appartamento papale.
Ai giudici vaticani che continuano con gli interrogatori non sembra però che l’infedele maggiordomo di Benedetto XVI abbia davvero vuotato il sacco sul furto di documenti riservati. È sicuro che ormai agli occhi degli investigatori è sufficientemente chiaro il quadro delle complicità di «Vatileaks»; i nomi di giornalisti e dei dipendenti laici in contatto con Paolo Gabriele sono nero su bianco. Quella dura detenzione, in strettissimo isolamento, comunque durerà ancora a lungo. Il processo a Paolo Gabriele inizierà soltanto a ottobre. Nel frattempo, la Segreteria di Stato ha bloccato l’invio delle rogatorie in Italia, alla magistratura italiana, nel tentativo di risolvere «autarchicamente» lo scandalo senza dover fornire all’esterno i propri documenti riservatissimi. I nomi dei complici e dei fiancheggiatori del maggiordomo infedele, in ogni caso, non resteranno segreti ancora a lungo: all’aprirsi del processo, inevitabilmente i documenti dell’istruttoria saranno resi pubblici.
Nel frattempo è in vista un nuovo turno di interrogatori «formali» per Paolo Gabriele, dopo di che il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet scioglierà forse la sua riserva sulla richiesta di revoca della custodia cautelare. Il codice di procedura penale vaticano prevede che i termini scadranno al 50°giorno di detenzione in cella, ma con la possibilità di prorogarli per altri 50 giorni.
La conclusione della fase istruttoria sfocerà nella decisione del giudice riguardo al rinvio a giudizio o al proscioglimento. «Se si arriverà a un formale dibattimento pubblico, questo si svolgerà dopo l’estate, non prima di ottobre», precisa il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. E per ora Paolo Gabriele resta l’unica persona indagata. Nel corso dell’inchiesta, ovviamente, «sono state acquisite le testimonianze anche di altre persone». Nulla per il tramite di una rogatoria internazionale con l’Italia, però. «Gli inquirenti si sono mossi nell’ambito dell’ordinario vaticano», puntualizza padre Lombardi.
La commissione cardinalizia presieduta da Julian Herranz, membro eminente dell’Opus Dei, a sua volta ha acquisito elementi ritenuti utili all’accertamento della verità. Sono state sentite 28 persone sospettate o informate dei fatti. La serie di testimonianze confluiranno nel rapporto conclusivo che verrà presentato al Pontefice a fine luglio.
Parallelamente a quella dei tre porporati (Herranz, De Giorgi e Tomko), l’indagine dei magistrati ha riguardato sia lo studio della documentazione sequestrata sia l’opera di riscontro, verifica, comprensione più approfondita di quanto è stato acquisito. «Alcune persone sono state sentite in entrambi i procedimenti», spiega padre Lombardi. Come dire, controlli incrociati della commissioni cardinalizia e della magistratura vaticana su nomi e circostanze a caccia di riscontri.
il Fatto 5.7.12
“Mancino, pressioni inammissibili e D’Ambrosio doveva liberarsene”
Intervista a Stefano Rodotà: bloccare la legge bavaglio, chiunque la supporti
di Sivia Truzzi
Roma Sul tavolo ci sono le bozze di un voluminoso libro, Caronte fuori dalla finestra: Stefano Rodotà lavora, ma non è tipo da distrarsi. Subito dice: “Per non dare giudizi superficiali bisogna capire bene quello che sta accadendo. Se si parla un po’ a orecchio, un po’ sull’onda dello sconcerto, forse non si fanno grandi passi verso la chiarezza. Questa pagina della trattativa Stato-mafia è una delle più inquietanti della storia d’Italia: e anche in caso non si dovessero rilevare profili penali, potrebbero esserci responsabilità politiche. Le due cose non vanno sovrapposte”.
Professore, ha letto l’editoriale di Galli della Loggia, Lo stato d’animo d’un ex ministro?
L’attacco alla magistratura non è una novità. È la prosecuzione di una linea e di un orientamento che partendo da ciò che è avvenuto ai tempi di Mani pulite ha interpretato la storia d’Italia come contrassegnata da un’aggressione della magistratura nei confronti della politica. Questa inconcepibile linea interpretativa continua. E ritorna, prendendo pretesto dalla vicenda legata alle indagini sulla trattativa che invece richiederebbe da parte di tutti grandissima attenzione, per come si sono svolte e come si stanno svolgendo le cose. Questa occasione è sfruttata per un rinnovato attacco alla magistratura e per riproporre la questione delle intercettazioni, particolarmente grave.
Lei è sempre stato molto vigile sul tema delle intercettazioni, anche prima che la stampa si facesse sentire e quando l’attenzione dell’opposizione parlamentare era molto bassa.
Con Arturo Di Corinto inventammo la formula “legge bavaglio”.
Il presidente Napolitano ha detto: si è perso troppo tempo per la legge sulle intercettazioni...
... nel senso che non è stata fatta una legge, quando c’erano le condizioni politiche, una modifica che avrebbe evitato le attuali polemiche. Per eliminare le polemiche, un intervento legislativo è opportuno. Ma va esattamente nella direzione opposta a tutto quello che in questo momento giace in Parlamento: bisogna dirlo senza mezzi termini. A cominciare dal tentativo furbesco di ripescare il ddl Mastella che colpevolmente fu votato dalla sinistra. Oggi tutte le ipotesi che sono state avanzate mi trovano assolutamente contrario, quale che sia la persona che sollecita l’approvazione della legge.
Spieghiamolo meglio.
Questa è una materia delicatissima, su due versanti: su quello dell’attività investigativa e su quello della libertà d’informazione. Non si possono suggerire riforme senza essere precisi, senza mettere paletti. Che sono: non interferire sulla attività investigava e sul diritto della pubblica opinione a essere informata. Se si dovesse riprendere su questa base la legge in materia d’intercettazioni, tornerei a essere in prima fila.
Parliamo di Mancino: non del suo stato d’animo, del suo comportamento.
Ho conosciuto Nicola Mancino quando ero parlamentare. Sono sorpreso dal modo in cui si è comportato. Non credo che - quale che fosse la sua situazione di difficoltà, angoscia, timore - avrebbe dovuto sotto pressione il Quirinale: istituzionalmente è inammissibile. E poi non si dovrebbe avere timore di una magistratura che proprio non mi sembra abbia le caratteristiche indicate da Galli della Loggia. Se temeva che nei suoi confronti si stesse facendo qualcosa che non era corretto, avrebbe potuto rivolgersi al Csm e non a una singola persona.
E Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico del Presidente Napolitano?
Non si è liberato tempestivamente delle pressioni di Mancino. Non so se possiamo qualificare il suo comportamento come un intervento, almeno per quel che sappiamo. Dire al telefono che si farà qualcosa e farlo, sono due cose diverse. Sull’opportunità, anche politica, di mantenere il rapporto con Mancino si può discutere. Non mi risulta però che ci siano state dichiarazioni da parte dei magistrati che possano indurre a pensare che questi interventi ci siano stati. Parlo di queste cose sulla base delle opinioni che mi sono fatto sino ad ora, pronto a riconoscere che le cose stanno in modo diverso.
Chiedere trasparenza è lecito?
La lettera resa pubblica da Napolitano non può essere considerata un’interferenza. L’averla resa pubblica è un fatto di trasparenza. Comunque lo si voglia giudicare, parlare come è stato fatto, per questa vicenda di impeachment significa andare sopra le righe. Siamo mille miglia lontani dalla vicenda che portò all’impeachment di Cossiga.
Però c’è stata una immediata levata di scudi contro chiunque chiedesse conto di quanto era accaduto.
Ho un’opinione molto netta su questo: ciascuno dica la sua. E poi ciascuno tragga le conclusioni che ritiene. Ma non si deve censurare nessuno. In questa vicenda è necessaria la massima chiarezza: siamo in una situazione politicamente molto difficile. Non si devono fare sconti a nessuno, ma nemmeno usare toni e argomenti che possano determinare distorsioni politiche anche gravi.
Il pm Ingroia, sottolineando la distanza della politica, ha fatto notare come “nessuna tra le commissioni antimafia che si sono avvicendate in questi vent’anni ha messo al centro della propria indagine, l’accertamento della verità su quel terribile biennio ‘92-‘93, su cui è nata la Seconda Repubblica”.
Non sono un entusiasta del lavoro che è stato fatto dalla commissione Stragi né dalle commissioni Antimafia, all’interno delle quali hanno giocato personalismi e convenienze: ho sempre dato una lettura prudente e critica del lavoro o del non lavoro di queste commissioni.
l’Unità 5.7.12
Chi spara sugli sprechi per colpire il welfare
Ospedali, stipendi degli statali, fondi per le vittime dell’uranio: sarebbero questi i soldi «buttati dallo Stato?
di Francesco Cundari
BLOCCO DEGLI STIPENDI AGLI STATALI, TAGLIO DEI POSTI LETTO NEGLI OSPEDALI, PERSINO UN TAGLIO AL FONDO PER LE VITTIME DELL' URANIO IMPOVERITO. Dopo anni di campagne martellanti, a giornali unificati, sulla montagna di sprechi accumulati nella spesa pubblica da una politica corrotta e clientelare, le anticipazioni sui risultati della spending review sono assai sorprendenti.
Smentite e precisazioni su questa o quella misura, questa o quella bozza, non diminuiscono lo stupore: se la vera ragione della crisi in cui ci troviamo sono gli sprechi accumulati dalla politica, se questa è la vera storia della Repubblica, perché tante difficoltà? Ora che al governo ci sono tecnici senza macchia e senza paura, dov’è il problema? Che bisogno c’è di bloccare gli stipendi degli statali o ridurre i posti negli ospedali?
Evidentemente, come ci risponderebbero senz’altro i diretti interessati se rivolgessimo loro queste ingenue domande, le cose sono un po’ più complicate. Ecco, appunto: tagliare sprechi, ridurre inefficienze, cancellare privilegi è certamente possibile e doveroso, ma non è facile. E coloro che insistono nel dire il contrario, come fa Maurizio Belpietro su Libero, sostenendo che bisogna semplicemente mollare il bisturi e imbracciare l’«accetta, non lo scrivono perché pensano che questo sia l’unico modo per tagliare gli sprechi. Al contrario, dicono così perché sanno che è il modo più sicuro per tagliare la spesa sociale: i racconti dell’orrore sulle folli spese delle amministrazioni pubbliche, la demonizzazione dei pubblici dipendenti, dipinti tutti come fannulloni, non servono a colpire né gli sprechi né i fannulloni. Tutto questo serve semplicemente a giustificare, e a rendere accettabile agli occhi degli elettori, il taglio dello stato sociale, che per i liberisti è un bene in sé. Di qui l’impazienza della destra, testimoniata ieri anche dal titolo del Giornale della famiglia Berlusconi: «Basta, adesso tagliate. Seguito dalla pronta denuncia dei veri nemici delle riforme: «Sindacati e casta remano contro.
Non sarebbe onesto, però, attribuire soltanto ai giornali della destra berlusconiana la lunga campagna di delegittimazione dell’idea stessa di spesa pubblica, che ha invece origini molto più antiche. Il fatto è che per tutto il trentennio che ha preceduto la crisi economica scoppiata nel 2007-2008, come documentano i rapporti dell’Ocse, le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi sono cresciute in misura esponenziale, specialmente in quei Paesi anglosassoni che tante volte ci sono stati portati a modello (e infatti, nelle statistiche sulla crescita delle diseguaglianze, l’Italia viene subito dopo Stati Uniti e Gran Bretagna). Fino alla grande crisi, tutto questo è stato giustificato con la tesi secondo cui la ricetta liberista, lasciando l’economia libera di correre a perdifiato sul mercato globale, promuoveva una crescita costante, e così, alla lunga, avrebbe portato benefici per tutti. Ora però che la corsa è finita nelle sabbie mobili della recessione, quella tesi non è più sostenibile. La delegittimazione di ogni intervento pubblico ne è dunque il surrogato: non potendo più dire che su quella strada si costruisce il migliore dei mondi possibili, si dice che l’alternativa è il peggiore degli inferni.
Il dibattito europeo sulla crisi dei debiti sovrani offre molti esempi di una simile operazione ideologica. Nella stessa intervista in cui afferma che la Germania non accetterà gli eurobond né ora né mai, il ministro degli Esteri tedesco, il liberale Guido Westerwelle, dice alla Stampa che anche «troppa solidarietà mette a rischio l’Europa. A dimostrazione di quanto, dietro tanti discorsi tecnici, pieni di numeri e dati apparentemente freddi e oggettivi, si nascondano sempre concetti, interessi e principi molto caldi e concreti.
Repubblica 5.7.12
“È stato raggiunto il limite ora basta con i sacrifici”
Balduzzi: non decida il governo dove intervenire
di Giovanna Casadio
ROMA — «Nei tagli alla Sanità non si può andare oltre, è stato raggiunto il limite». È la “linea del Piave” di Renato Balduzzi. Il ministro della Salute ha appena concluso l’incontro con le Regioni sulla spending review. Un incontro al calor bianco, con i “governatori” sulle barricate.
E lei, ministro Balduzzi su cosa batterà i pugni nel governo?
«Ho detto che non è pensabile sia Roma a decidere quali piccoli ospedali vanno chiusi».
Alle Regioni non basta; sono al collasso sulla spesa sanitaria. L’incontro è finito a insulti?
«Non ci sono stati insulti. Abbiamo constatato che non c’è accordo, ma l’abbiamo fatto con garbo».
I piccoli ospedali si chiudono o no?
«È necessaria una riorganizzazione della rete ospedaliera, non c’è dubbio. Le Regioni sono invitate a farlo, in particolare quelle che — proprio per la mancata razionalizzazione — sono in piano di rientro (Piemonte, Puglia, Sicilia) e quelle in commissariamento (Lazio, Campania, Abruzzo, Molise, Calabria). Ma non sarebbe coerente con il riparto delle competenze tra Stato e Regioni se i tagli fossero decisi da Roma. Ne andrebbe di mezzo la serietà di una politica sanitaria. Una cosa così non può essere accettata. Lo dirò in consiglio dei ministri».
Con quante chance di successo?
«Mi auguro che gli argomenti siano ascoltati».
Tre miliardi di tagli in due anni, più quelli già decisi dalle finanziarie Tremonti: sono una botta da Ko alla Sanità.
«Non si deve parlare solo di tagli, perché la somma in meno per le Regioni significa una revisione e riqualificazione della spesa. Questo sarà chiaro dal primo gennaio 2013, quando saranno compiutamente disponibili i prezzi di riferimento di beni e servizi sanitari e dei dispositivi medici. E quindi ciascuna Asl verificherà meglio i propri scostamenti».
Tutto si può tagliare, ma con la salute non si scherza. La paura dei cittadini è la caduta della qualità delle prestazioni. E se per risparmiare si comprano protesi scadenti, ad esempio?
«Questo è ciò che va evitato. Ma confido nella capacità del sistema sanitario nel suo complesso. Ho aperto un confronto con le Regioni, specialmente con quelle che hanno già avviato processi di riqualificazione della spesa, e che dunque hanno più difficoltà a immaginare margini di risparmi. So bene che è una grande sfida».
Altra cosa che interessa i cittadini: dovremo pagare nuovi ticket sanitari?
«La manovra del luglio 2011 prevede dal primo gennaio 2014 nuovi ticket; io li considero non sostenibili. Sto cercando un meccanismo per evitarli».
Tornando alla spending review: i medici ospedalieri sono in agitazione; Farmindustria parla di 10 mila posti a rischio; il “governatore” della Puglia, Vendola minaccia la restituzione delle deleghe sanitarie perché non sarà più possibile erogare servizi. È una rivolta.
«L’intervento del governo a certe condizioni credo sia complessivamente sostenibile, almeno nel 2012. Certo ci vuole una riflessione sul servizio sanitario nazionale, accompagnata da una serie di leggi, da quella sulla responsabilità generale dei medici alla riforma della medicina generale, alla cosiddetta continuità assistenziale».
I tagli lineari sono giudicati “indigeribili” dalle Regioni.
«Lo sono in parte nel 2012, ma il prossimo anno non lo saranno più perché ci saranno i prezzi di riferimento. La linearità è legata all’emergenza dei risparmi anche per non fare aumentare l’Iva da ottobre. E anche la Sanità, voglio ricordare, paga l’Iva».
Però in definitiva i posti 16-18 mila posti letto negli ospedali vanno tagliati?
«Penso che la percentuale possa essere di 3,6 posti letto ogni mille abitanti, senza penalizzare i servizi ai cittadini ma razionalizzando. La spesa sanitaria era un cavallo imbizzarrito che è stato domato».
Repubblica 5.7.12
Così viene umiliata l’istruzione pubblica
di Nadia Urbinati
CON tutta la buona volontà richiesta in tempi di emergenza, non si può onestamente accettare un provvedimento che toglie risorse all’università statale per destinarle alle scuole private.
Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?
Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.
A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”. Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile. Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.
Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica. Le sue parole sembrano scritte ora: “L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico... Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione... Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito”.
Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali. Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.
Corriere 5.7.12
Sicilia, più dipendenti del Governo inglese
La presidenza della Regione ne conta 1.385, Downing Street si ferma a 1.337
di Sergio Rizzo
ROMA — Esiste in Italia un ufficio pubblico dove c'è un dirigente ogni sei impiegati. Si trova a palazzo dei Normanni, Palermo: è la presidenza della Regione siciliana. Ma il governatore Raffaele Lombardo sappia che non è l'unico in Europa a guidare un esercito pieno zeppo di generali. Il premier britannico James Cameron è nelle sue stesse condizioni: anche a Downing Street ogni dirigente ha in media sei sottoposti. Il fatto è che pure i numeri sono più o meno gli stessi. Cameron ha 198 dirigenti, Lombardo 192. Quanto ai dipendenti il Cabinet Office, equivalente della nostra presidenza del Consiglio, ne ha 1.337: quarantotto meno dei 1.385 che la presidenza della Regione siciliana contava alla fine del 2011.
Ciò basta per immaginare quali stupefacenti risultati potrebbe dare da queste parti una seria spending review. Afferma la relazione della Corte dei conti sul rendiconto del bilancio 2011 che la Regione siciliana ha ufficialmente 17.995 dipendenti. Su questo numero si è a lungo polemizzato, anche a proposito di paragoni che pure in Sicilia non vengono ritenuti congrui come quello con la Lombardia, Regione che ha il doppio degli abitanti ma un quinto del personale. Ma è una cifra che non dice ancora tutto. Intanto perché nel 2011, anno in cui riesplodeva la crisi economica più drammatica da un secolo a questa parte, ben 4.857 di questi dipendenti, in precedenza reclutati con contratto a termine, sono stati assunti in pianta stabile, a tempo indeterminato. Il che, argomentano i giudici contabili, non mancherà di avere ripercussioni future sui conti regionali. E poi perché a quei 17.995 se ne devono aggiungere altri 717 comandati e distaccati presso altre strutture che comunque fanno capo alla Regione. Oltre a 2.293 a tempo determinato il cui stipendio è pagato in qualche modo dall'ente. Totale: 21.005. Un totale, però, anch'esso incompleto. Dove mettiamo, infatti i 7.291 dipendenti delle 34 società controllate o collegate alla Regione siciliana? Se contiamo anche quelli arriviamo a 28.796. E facciamo grazia di forestali e lavoratori socialmente utili (24.880) in forza a molti Comuni, in parte a carico della casse regionali. Personale le cui retribuzioni sono state al centro di un durissimo scontro fra Lombardo e il commissario di governo che aveva impugnato l'ultima legge finanziaria nella quale era previsto il ricorso a un mutuo, anche per far fronte a quel problema, di 558 milioni. Una somma che avrebbe ingigantito ancora di più il debito della Regione, già cresciuto nel 2011 di altri 818 milioni arrivando al valore record di 5,3 miliardi.
I soli dipendenti «ufficiali» assorbono 760,1 milioni, e si tratta di un costo superiore del 45,7% rispetto al 2001. Se però calcoliamo anche gli oneri sociali, allora si arriva a un miliardo 80 milioni. Cioè poco meno della metà del costo del personale delle quindici Regioni a statuto ordinario. Le quali hanno, tutte insieme, un numero di dirigenti pari a quello della sola Sicilia. Sono 1.836. Ce n'è uno ogni 9 impiegati, con vette di 5 o 6 in alcune strutture, come appunto la presidenza della Regione. L'anno scorso sono entrati in posizioni di responsabilità anche diversi soggetti esterni, circostanza che ha indotto la Corte dei conti a queste considerazioni: «È poco plausibile, a fronte di oltre 1.800 dirigenti di ruolo, ritenere che non siano già disponibili idonee professionalità all'interno dell'amministrazione. La mancata valorizzazione delle risorse interne è in definitiva la causa dei costi sostenuti per retribuire i dirigenti esterni per i cui emolumenti è previsto un tetto massimo di 250 mila euro, di gran lunga superiore alla retribuzione massima dei dirigenti generali interni». Per non parlare dei sette «uffici speciali» istituiti, secondo i magistrati, con «motivazioni alquanto generiche» e spesso «duplicazioni di funzioni già attribuite» ad altre strutture. Nel rapporto si cita a titolo di esempio l'ufficio speciale Energy manager, che ha funzioni del tutto analoghe a quelle del Dipartimento regionale per l'energia.
Ma se al costo del personale «ufficiale» sommiamo anche quello dei dipendenti delle società partecipate (226 milioni) e dei dipendenti pensionati, che in Sicilia sono a carico della Regione (641 milioni), allora veleggiamo di slancio verso i due miliardi. Dal 2004 al 2011 la spesa previdenziale è cresciuta del 31%, anche a causa di alcuni privilegi assolutamente sorprendenti sopravvissuti fino allo scorso mese di gennaio e che avranno effetti a lungo, negli anni a venire. È appena il caso di ricordare che per i dipendenti della Regione la riforma Dini, quella che ha introdotto il metodo di calcolo basato non più sulla retribuzione ma sui contributi effettivamente versati, è entrata in vigore con otto anni di ritardo: il primo gennaio 2004, anziché il primo gennaio 1996 come per tutti i comuni mortali. Per giunta, fino all'inizio di quest'anno potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio tanto quelli colpiti da disabilità, quanto coloro che avevano un genitore disabile. Nel 2011 si sono pensionati anticipatamente perché figli di disabili 464 dipendenti regionali, contro 297 nel 2010, 230 nel 2009, 196 nel 2008, 165 nel 2007, 125 nel 2006, 138 nel 2005 e 121 nel 2004. Da quando, proprio nel 2004, è stata perfezionata questa disposizione, hanno avuto la baby pensione, con un crescendo rossiniano, in 1.736. Celebre il caso di Pier Carmelo Russo, pensionato a 47 anni per assistere il padre disabile, nominato però subito dopo assessore della giunta Lombardo. Alle polemiche, lui ha replicato: «Quando sono andato in pensione il mio stipendio era prossimo a diecimila euro ed ero segretario generale della Regione, il massimo livello della carriera burocratica. Ho preferito il mio amatissimo padre e sono orgogliosissimo di averlo fatto. Da quando faccio l'assessore non ho mai percepito un centesimo. Tutta la mia indennità (300.000 euro lordi annui) l'ho devoluta in beneficenza. Mi considero una persona oltremodo fortunata e desidero sdebitarmi con la Divina Provvidenza».
Ai posteri l'ardua sentenza. Sempre che la Regione possa in futuro pagare anche le loro, di pensioni. Già oggi il tasso di copertura dei contributi non arriva che al 28,7%.
Corriere 5.7.12
Partiti malati, sono i padri dell'antipolitica. Non capiscono la società (o fanno finta?)
di Corrado Stajano
Sembra quasi che l'antipolitica sia una novità. Spunta sempre fuori, invece, nei momenti di crisi, di transizione, di difficoltà economica e sociale, quando la politica non rispetta i suoi compiti e i suoi doveri. Sono i partiti ammalati i padri fondatori dell'antipolitica. Chiusi nei loro castelli hanno fatto saltare i ponti levatoi e non capiscono più, o fingono di non capire, il formicaio della società delusa che brulica tutt'intorno.
I sondaggi non sono la Bibbia, ma la classe dirigente politica non si preoccupa per il numero crescente di persone che non vogliono più saperne, fedeli elettori di un tempo non lontano, diventati ora astensionisti in pectore? I dirigenti politici del centrosinistra, i meno toccati dalla diaspora, nelle interviste che purtroppo concedono, si domandano sorpresi: dove nasce e perché questo distacco tra politica e società? Che cosa c'è sotto, un complotto? Gli altri, i berlusconiani e i leghisti, responsabili dello sfascio, frutto del loro quindicennio governante, da basso impero, sperano sempre, come nei film western, nell'arrivo dei nostri, ma consciamente o inconsciamente conoscono le ragioni del tracollo e si agitano come anguille nervose.
Basterebbe la vicenda della legge elettorale. La «strana» maggioranza del governo Monti, nonostante prometta da più di un semestre di cancellarla senza riuscirci mai, fa capire a tutti quanti le ragioni del rifiuto-disincanto-disprezzo dei cittadini con un po' di sale in zucca nei confronti del modo di far politica oggi.
La legge, del 14 dicembre 2005, fu definita «una porcata» dai legislatori del governo Berlusconi che allora la costruirono: la scelta dei parlamentari fatta d'autorità dai partiti e il sovrabbondante premio di maggioranza che cancella ogni rappresentatività popolare fanno infuriare chi non ha smesso di ragionare con buon senso e onestà.
Questo per dire che l'antipolitica, con la sua rozzezza, la sua volgarità, il suo alto tasso di ignoranza, le sue idee terra terra, non nasce dal nulla, ma è una forma politica con radici profonde.
I precedenti sono numerosi anche nel nostro passato prossimo. Si può cominciare dall'Uomo Qualunque, fondato — un settimanale — il 27 dicembre 1944 da Guglielmo Giannini, estroso commediografo di Pozzuoli, autore di commedie giallo-comiche. La vignetta della testata rappresentava, sotto una enorme «U» rossa, un omino schiacciato da un torchio: dalle sue tasche uscivano delle monete che gli venivano rubate. L'Uomo Qualunque divenne rapidamente un movimento politico: alle elezioni della Costituente, il 2 giugno 1946, ottenne un milione e 200 mila voti, con trenta seggi. Se si leggono gli scritti e se si guardano le vignette del settimanale ci si rende conto che la linea del movimento che rappresentava un piccolo ceto impiegatizio e bottegaio non è molto diversa dalle predicazioni di Grillo. I nemici, allora, erano il Cln, gli uomini della Resistenza, Parri, De Gasperi, Togliatti, Nenni. Il rifiuto della politica, la diffidenza per la democrazia, l'odio per i partiti facevano da mastice. L'italiano qualunque era l'omino angariato che rifiuta tutto ciò che sta fuori dalla sua casa e non si cura degli altri. Durò poco l'Uomo Qualunque, il 18 aprile 1948 era finito.
La Lega, con i suoi truculenti slogan su Roma ladrona, alla fine degli anni Ottanta fu forse ancora più violenta perché Giannini, se non altro, non predicò la secessione e la rottura del Paese unitario, non diffuse semi di razzismo, non inventò l'inesistente Padania da rendere indipendente. «MicroMega», la rivista di Paolo Flores d'Arcais, nel suo numero di giugno ha dedicato alcuni scritti a Beppe Grillo. Ne risulta che il Movimento 5 Stelle non ha un programma sui temi essenziali, il lavoro, la giustizia, l'informazione, i diritti civili, l'immigrazione. I sindacalisti sono i traditori dei lavoratori, la democrazia è un fastidio, i partiti politici sono tutti uguali nel malfare. Si ritrovano le idee dell'UQ e, in parte, quelle della Lega e di Forza Italia al suo nascere. Leader e guru, Grillo è l'unico titolare dei diritti d'uso del marchio 5 Stelle, un padrone. Secondo i sondaggi, in caso di elezioni anticipate, il suo movimento arriverebbe al 20 per cento diventando così, dopo il Pd, il secondo partito.
Una certa confusione. Ne abbiamo viste tante. Ma non bisogna scoraggiarsi né enfatizzare né minimizzare o demonizzare il fenomeno. Bisogna cercare piuttosto di capirne le ragioni anche perché, da quel magma informe sostanzialmente antidemocratico dell'antipolitica che nasce dalla Rete, possono saltar fuori energie positive utili in un momento di crisi profonda come questo che stiamo vivendo.
Dopo il successo di Monti a Bruxelles, la crisi non è certo finita, segna piuttosto l'inizio di altri sacrifici gravosi, se si vuol salvare la comunità. I palloni si sgonfiano rapidamente, ma è necessario che i partiti, indispensabili, si rendano conto che devono comportarsi con serietà.
l’Unità 5.7.12
Costruire una nuova idea di pubblico
Non bisogna contrapporre lo Stato con il mercato. L’uno serve all’altro
di Massimo D’Antoni
A CHI PER USCIRE DALLA CRISI RIPROPONE LA VECCHIA TESI LIBERISTA PER CUI LA VIA DELLA CRESCITA PASSA PER UN RIDIMENSIONAMENTO DEL RUOLO DEL PUBBLICO, le forze progressiste hanno il dovere di opporsi. La risposta rischia tuttavia di essere debole se si limita ad una difesa dell'esistente. La sfida di ripensare modi e confini del pubblico, e di farlo entro un quadro non subalterno alla visione a lungo dominante, può e deve essere raccolta. Senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, ecco alcuni criteri che credo possano caratterizzare un approccio progressista al tema.
In primo luogo, occorre abbandonare l’idea che il pubblico sia un ostacolo allo sviluppo di un'economia di mercato. Se storicamente l’estensione del ruolo del pubblico è andata di pari passo con la crescita economica è perché, al contrario, il primo è stato un ingrediente essenziale del secondo. L’istruzione pubblica ha garantito l'accesso universale a codici di comunicazione condivisi, necessari allo sviluppo capitalistico, la sanità pubblica ha innalzato il livello di salute della popolazione a costi più bassi delle alternative private, l’estendersi dei sistemi di welfare ha consentito l’assorbimento collettivo di rischi che altrimenti avrebbero compromesso lo stesso funzionamento del mercato.
Non solo: in alcuni Paesi (tra cui il nostro) lo stato imprenditore ha svolto un ruolo essenziale come volano di sviluppo industriale, e anche nell’esperienza più recente di Paesi dalle tradizioni liberali più marcate sono pubblici gli investimenti che hanno consentito alcune delle principali innovazioni tecnologiche. L’idea che il rilancio dell'economia coincida con l’arretramento della responsabilità pubblica, tanto popolare nell’ultimo ventennio, non trova riscontro fattuale, visto che molti dei Paesi che godono delle più elevate condizioni di benessere e crescita sono paesi ad alta spesa pubblica. Secondo, bisognerebbe evitare di parlare del pubblico in generale. La raccolta dei rifiuti, la manutenzione delle strade, la sanità e l’istruzione non sono la stessa cosa. Diverse sono le motivazioni per il coinvolgimento del pubblico, diverse quindi le risposte e le modalità con cui il pubblico può esercitare la propria responsabilità nei confronti dei cittadini.
Anche a questo riguardo, pensare in termini di contrapposizione è fuorviante: la responsabilità pubblica non coincide con la gestione pubblica diretta, ma può limitarsi in molti casi al ruolo di regolazione, avvalendosi dell'iniziativa e delle competenze degli operatori privati. E, d’altra parte, il ricorso al privato non va inteso come una scorciatoia per affrontare i problemi di cattivo funzionamento del pubblico: un pubblico che funziona male sarà un cattivo gestore, ma risulterà un altrettanto cattivo regolatore, incapace di contenere gli interessi di un gestore privato. è un governo forte e autorevole quello che può permettersi un rapporto proficuo con il privato, orientandone l'iniziativa al perseguimento dell'interesse dei cittadini.
Terzo, occorre evitare di ridurre l’economia a bilancio. La nozione di efficienza economica è ben più ampia di quella contabile di contenimento del bilancio pubblico. Dimenticandosi di questa differenza, si sono spesso ottenuti risparmi di spesa pubblica al prezzo di uno scadimento nella qualità o aumenti del costo sopportato dall’utenza, come se tali effetti non fossero rilevanti ai fini di un corretto calcolo di costi e benefici. Se taglio una linea di autobus e aumento l’uso del mezzo privato, la collettività non ha fatto un buon affare, anche se paga qualche euro di imposte in meno.
Infine, occorre superare l’idea che parlando di pubblico la questione dei diritti riguardi primariamente il lavoro pubblico e non invece l’utenza, i cittadini in quanto fruitori di servizi. Mi rendo conto che questo è un punto difficile, anche per una parte della sinistra. Ma senza partire dalla funzione svolta, dal servizio fornito, c’è il rischio che ogni battaglia sia intesa come difesa dell’occupazione pubblica invece che difesa di beni e servizi forniti a vantaggio di tutti. In special modo di chi non avrebbe possibilità di provvedere alle proprie necessità acquistando quei beni sul mercato, cioè coloro che, in ultima analisi, finiscono per pagare in misura maggiore sia il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione che un suo ridimensionamento senza criteri.
Corriere 5.7.12
L'Occidente deve imparare a dialogare con il nemico
È l'unica via di salvezza di Stati Uniti ed Europa
di Charles A Kupchan
La dimensione della politica interna è tornata al centro della scena, per almeno due ragioni. La prima è che negli Stati Uniti e in altri Paesi sono in calendario, nel 2012, elezioni cruciali. La seconda, di gran lunga più importante, è che la globalizzazione sta causando in tutto il mondo sconvolgimenti economici e grande malcontento sociale, ponendo i governi di fronte a problemi nuovi. A livello nazionale, queste dinamiche interne si ripercuotono in modo particolarmente accentuato sulla sfera della politica estera e sulle capacità di governance. Dalla difesa della solidarietà transatlantica alla gestione delle relazioni Usa-Cina, passando per le conseguenze strategiche della Primavera araba, a politici e diplomatici non mancano certo le sfide; ma ancora più difficile sarà governare la dimensione politica interna della diplomazia internazionale, in un mondo nel pieno di un tumultuoso risveglio.
(...) Non è una coincidenza che Stati Uniti ed Europa, insieme al Giappone, si trovino simultaneamente in questa condizione di disfunzionalità politica. Comune è il male perché comune ne è la causa: la globalizzazione. Questa sta producendo, nelle società aperte dell'Occidente, un crescente divario tra ciò che gli elettorati chiedono ai governanti e ciò che questi sono in grado di offrire. Il contrasto tra la crescente domanda di buongoverno e il progressivo ridursi dello stesso sta compromettendo pericolosamente il potere e la funzionalità del mondo occidentale.
Nelle democrazie industrializzate, gli elettori chiedono ai governi di trovare soluzioni al declino degli standard di vita e alle sempre più ampie disuguaglianze generate da un flusso di beni, servizi e capitali senza precedenti. Negli Stati Uniti, la causa di fondo del malessere politico è lo stato catatonico dell'economia nazionale. Dal 2008 in poi, molti americani hanno perso casa, lavoro e risparmi, dopo decenni di sostanziale stasi dei salari della classe media. Negli ultimi dieci anni, il reddito familiare medio in America è diminuito di oltre il 10%, e parallelamente le disuguaglianze economiche sono costantemente cresciute, facendo degli Stati Uniti il paese industrializzato a maggiore tasso di disuguaglianza: nel 2010, l'1% più ricco della popolazione possedeva quasi il 25% del reddito complessivo, contro un 10% scarso di metà anni Settanta. La competizione globale è stata la causa principale della tempesta abbattutasi sui lavoratori americani, che hanno visto i propri posti prendere il largo sull'onda delle delocalizzazioni produttive.
(...) Se gli Stati Uniti piangono, l'Europa certo non ride. Le opinioni pubbliche sono in rivolta contro gli effetti congiunti dell'integrazione europea e della globalizzazione. La vita politica del Vecchio continente sta subendo una progressiva rinazionalizzazione: gli Stati membri dell'Ue puntano a riappropriarsi delle loro prerogative sovrane, minacciando così il progetto d'integrazione politico-economica avviato dopo la Seconda guerra mondiale. Populismo e nazionalismo stanno erodendo il senso di destino condiviso su cui poggia il progetto europeo. Come negli Usa, alla radice del problema vi sono le condizioni dell'economia: negli ultimi vent'anni, il reddito della classe media è precipitato e le disuguaglianze sono aumentate.
Il progetto europeo è a un bivio: con i governi nazionali messi alle corde da cittadini esasperati, l'Ue ha tortuosamente e faticosamente messo a punto un piano di salvataggio dell'euro, ma questa risposta lenta e timida si scontra con l'impazienza dei mercati, esacerbando e prolungando la crisi finanziaria. La governance collettiva, di cui l'Ue ha disperato bisogno per prosperare in un mondo globalizzato, risulta scarsamente compatibile con la crescente ostilità della piazza al progetto di unificazione. Così l'Ue diventa sempre più introversa, frammentata e incapace di rappresentare quel partner valido e affidabile cui l'America anela.
Se la politica interna condizionerà le relazioni fra amici, essa giocherà un ruolo ancora più importante nei tentativi di costruire rapporti più distesi con regimi «nemici». Un tratto distintivo della politica estera di Obama è stata la prontezza nell'intavolare un dialogo con gli avversari dell'America: il presidente ha perseguito il «reset» dei rapporti con la Russia, ha puntato a stemperare la rivalità con la Cina, ha stabilito relazioni più strette con il Myanmar e ha teso la mano a Iran, Corea del Nord e Cuba. In tutti questi casi, il fronte interno si è rivelato non meno ostico dello sforzo diplomatico: parlare col nemico comporta infatti un rischio politico elevato, se gli avversari in patria sono sempre pronti a dipingere i tentativi di dialogo come una resa.
(...) Nel dialogo con gli avversari, gli ostacoli che Obama si trova a fronteggiare in patria non sono minori di quelli che lo attendono nei Paesi con cui sta tentando di costruire un rapporto più costruttivo. I Repubblicani non gli risparmiano critiche taglienti: l'opinionista conservatrice Michelle Malkin ha rinfacciato al presidente di «essersi fatto la fama mondiale di grande rabbonitore e leccapiedi numero uno»; Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca, lo ha accusato di perseguire una politica estera «irresponsabile», che configura una «vera e propria rinuncia alla leadership mondiale».
Se parare questi colpi è difficile, ancora più complicato sarà far sì che gli accordi internazionali siglati in nome del riavvicinamento passino indenni per le forche caudine del Congresso, che molto difficilmente si limiterà a un ruolo passivo. Obama ha faticato non poco per convincere il Senato ad approvare il nuovo trattato «start» sulla riduzione degli arsenali nucleari, e la sua politica di «reset» con la Russia si scontra con la costante resistenza del Congresso. (...) Come se non bastasse, Obama deve preoccuparsi della politica interna non solo a casa, ma anche all'estero: i suoi interlocutori — da Mahmoud Ahmadinejad a Vladimir Putin, passando per Raul Castro — giocano infatti costantemente in patria la carta dell'antiamericanismo per rafforzare il proprio potere. Di conseguenza, anche quando vogliono venire a patti con l'America si ritrovano ostaggio delle passioni popolari da essi stessi suscitate.
(...) Osservatori e politici occidentali dovrebbero deporre l'illusione che la diffusione della democrazia in Medio Oriente implichi automaticamente l'affermazione dei valori occidentali. È anche probabile che la voglia di riscatto e dignità che è stata alla base della richiesta di democrazia si traduca in uno spirito di rivalsa nei confronti degli Stati Uniti, dell'Europa e di Israele: in un sondaggio effettuato nella primavera 2011 (dopo la caduta di Mubarak), ad esempio, oltre il 50% degli egiziani si diceva favorevole ad annullare il trattato di pace stipulato con Israele nel 1979. In una regione come il Medio Oriente, a lungo dominata da potenze straniere, più democrazia può benissimo comportare una drastica riduzione della cooperazione strategica con l'Occidente.
In gran parte del pianeta, dunque, le dinamiche politiche interne tornano al centro della scena. Forse è giusto così, ma questo renderà molto più difficile governare gli affari di Stato. Allacciamo le cinture.
l’Unità 5.7.12
Arafat avvelenato col polonio? L’Anp riesuma la salma
di U.D.G.
È il passato che non passa. E che riporta di attualità una vicenda (volutamente) mai chiarita: la morte di un leader scomodo, non solo per il nemico israeliano ma anche per una parte della nomenklatura palestinese. Riemerge dal sepolcro la salma di Yasser Arafat, prossima a essere riesumata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) sull’onda di una nuova raffica di sospetti sulla morte del rais e dell’ipotesi di un presunto avvelenamento radioattivo a base di polonio. Ad agitare le acque sono stati questa volta i risultati di una ricerca svizzera, diffusi l’altro ieri con enfasi da un documentario della tv panaraba Al Jazira, che accreditano la presenza di tracce anomale di polonio (la micidiale sostanza che avrebbe fra l’altro ucciso nel 2006 l’ex spia russa Aleksandr Litvinenko, transfuga a Londra), sullo spazzolino, fra i vestiti e sulla celeberrima kefiah di «Abu Ammar (il nome di battaglia di Arafat: deceduto nell’ospedale militare francese di Percy (sud di Parigi), nel 2004, dopo una misteriosa infermità sfociata in un repentino (e per molti inspiegabile) deperimento. La «rivelazione è detonata come una bomba a Ramallah e nei Territori palestinesi, dove la morte del «presidente martire Arafat è da sempre denunciata come un omicidio: frutto d’un avvelenamento ordito da Israele (secondo quanto affermato pubblicamente appena pochi mesi fa dal nipote dello scomparso ed ex ambasciatore palestinese all’Onu, Nasser al-Qidwa), magari in combutta con traditori interni all’establishment dell’Anp.
Dalla Muqata sede della presidenza palestinese ai tempi di Arafat e oggi residenza del suo successore, Mahmud Abbas (Abu Mazen), anche lui in passato sfiorato da velenosi sospetti è riecheggiato l’impegno a «fare chiarezza, anche a costo di disseppellire a questo punto il cadavere del defunto per un accurato esame dei resti. «L’Anp, come sempre, è pronta a collaborare con chiunque per indagare le vere cause che condussero al martirio di Yasser Arafat, dichiara il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeinah, annunciando il via libera all’esumazione della salma a patto che i familiari l’autorizzino dopo un incontro con Tafuq Tirawi, responsabile di un organismo d’inchiesta locale. Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, si è spinto a lanciare un appello alla «formazione di una commissione d’indagine internazionale, sul modello di quella creata per far luce sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafik Hariri.
La sollecitazione a riesumare il cadavere custodito solennemente dalla stessa Anp nel mausoleo della Muqata era rimbalzata già martedì, non senza accenti polemici, dalla vedova del rais, Suha Arafat, che vive in una sorta di esilio di fatto a Malta da dove nei mesi scorsi aveva provveduto in prima persona a mettere a disposizione dei laboratori elvetici citati da Al Jazira oggetti personali del marito. Dalla Svizzera, tuttavia, i responsabili della ricerca che ha fatto riesplodere il caso mettono le mani avanti. «Posso confermare solo che abbiamo misurato livelli sorprendentemente e inspiegabilmente elevati di polonio-210 fra gli effetti di Arafat, ha detto Francois Bochud, direttore dell’Istituto di Radiofisica di Losanna, puntualizzando come i sintomi che accompagnarono la fine del leader palestinese non sembrano poter essere messi in diretta relazione con tale sostanza. La sua conclusione è che le analisi fatte finora non sono in realtà in grado di determina-
re con certezza se avvelenamento ci sia stato oppure no. Per tagliare la testa al toro occorrerebbe davvero esaminare i resti. Ma bisognerà farlo in fretta ha avvertito Bochud perché il polonio, nel giro di qualche anno, decade senza lasciar traccia.
La Stampa 5.7.12
La sua vita in tre momenti
Arafat e il mistero del polonio L’Anp: riesumiamo il corpo
La notizia del presunto avvelenamento può riaccendere le tensioni in Medio Oriente
di Mimmo Càndito
Che Yasser Arafat sia stato avvelenato è una storia che gira in Medio Oriente già dal giorno stesso della sua morte, l’11 novembre del 2004. Erano troppi i misteri che avevano accompagnato il suo ricovero improvviso in un ospedale militare francese, alla fine di ottobre di quell’anno, e troppe erano le voci che raccontavano dell’inarrestabile e inspiegabile degrado, «assolutamente non naturale», delle sue condizioni fisiche. Ma quei misteri e quelle voci se ne son dovute restare nell’ombra per tutto questo tempo e fino a ieri pomeriggio, quando il dottor François Bochud, direttore dell’Institut de Radiophysique di Losanna, in Svizzera, ha fatto sapere che in alcuni indumenti del vecchio leader dei feddayin palestinesi erano state trovate «tracce significative» di Polonio-210, in una quantità che «non può essere prodotta da cause naturali». Pare che, dal punto di vista scientifico e della stessa consistenza giudiziaria, queste parole non siano sufficienti a confermare un avvelenamento. Ma l’informazione era troppo succosa perché l’intero sistema mondiale dei massmedia non formulasse la sentenza definitiva: Arafat è stato avvelenato, ha fatto la stessa fine della ex-spia sovietica Litvinenko; il Polonio-210 non perdona, e come Putin ha fatto ammazzare Litvinenko, allo stesso modo Abu Ammar lo hanno fatto fuori gli agenti del Mossad.
In un Medio Oriente cui primavere e guerre hanno strappato i connotati di quell’ormai lontano 2004, un Arafat avvelenato è una buona carta propagandistica per riaccendere tensioni utili a dirottare verso obiettivi antichi (e però, in questo momento, marginali) la rabbia furiosa di popoli che oggi appaiono frustrati nelle loro impazienti attese d’una palingenesi epocale. E i riscontri delle analisi di Losanna sono un elemento di giudizio che comunque non può non avere una ricaduta immediata sulle società arabe.
Il portavoce dell’Istituto di Losanna, il dott. Darcy Christen, ha fatto sapere che «i sintomi clinici» rilevati nel decorso della malattia che aveva portato alla morte «non sono coerenti» con un avvelenamento da Polonio-210; ma è anche vero che nel 2005 il «New York Times» era riuscito ad avere copia della riservatissima cartella clinica dell’ospedale di Percy, dove Arafat era stato portato d’urgenza dopo che stuoli di medici egiziani tunisini e giordani lo avevano visitato senza riuscire a concordare una diagnosi credibile, e le ipotesi che in quel documento si ricavavano erano che il vecchio guerrigliero poteva essere stato ammazzato da tre cause: un germe sconosciuto che gli aveva avvelenato il sangue; oppure il virus dell’Aids; oppure un veleno.
Il Polonio-210, altamente radioattivo, si trova in natura in quantità relativamente basse, non dannose al nostro organismo; e se su un qualsiasi paio di mutande i test di Losanna trovano tracce equivalenti a 6,7 mBq (milliBecquerel), in quelle di Arafat il valore rilevato è stato di 180 mBq. Un dato inoppugnabile, dal punto di vista delle conclusioni giudiziarie. A molti un paio di mutande non parrà un reperto cui affidare una sentenza storica, ma quell’indumento e una kefyiah del leader sono stati gli unici oggetti consegnati dalla vedova al dottor Bochud, insieme a un vecchio spazzolino, e di quelli il direttore dell’Istituto di Losanna ha misurato radiazioni e pericolosità.
Dietro questa inquietante rivelazione sta la tv araba Al-Jazira, che ha condotto una vera inchiesta poliziesca sulla morte del capo palestinese e ha potuto ora annunciare il suo scoop: Arafat avvelenato. Al-Jazira è stata la più importante televisione «all news» del mondo arabo, capace di straordinari reportage e di scoop clamorosi dalle guerre in Afghanistan e in Irak. Ma poi, durante la guerra di Libia dello scorso anno, una guerra dove il Qatar (e Al-Jazira è qatarina) ha avuto un ruolo determinante, le informazioni che inviava dal campo sono apparse condizionate dagli interessi politici e strategici dello sceicco del Qatar; e l’incanto si è rotto.
Comunque, la fondatezza dello scoop è ora affidata a un esame che parta dalla riesumazione della salma del vecchio leader. E verso questo obiettivo pare che si stia intervenendo, con l’assenso dell’Autorità Palestinese e della stessa vedova di Arafat. Poi, che del probabile avvelenamento sia responsabile il Mossad, o che ci siano altri possibili responsabili all’interno della intricata rete di interessi politici e strategici del Medio Oriente, resta comunque che si sta aprendo la possibilità di chiarire un oscuro mistero politico della storia recente. E il giornalismo può servire anche a questo.
Repubblica 5.7.12
Il giallo della morte di Arafat. Abu Mazen ordina l’esumazione
L’Anp crede all’avvelenamento da polonio. Il nipote: “Assassinato”
di Fabio Scuto
Stanno impalati a fianco della lastra di marmo con le iscrizioni in arabo, i due soldati della Guardia d’onore palestinese che vegliano sulla tomba di Yasser Arafat nella Muqata di Ramallah. Forse non ancora per molto perché il presidente dell’Anp Abu Mazen ha dato ordine di riesumare la salma del raìs palestinese, una decisione inconsueta nel mondo arabo. Perché otto anni dopo la misteriosa morte nell’ospedale militare di Percy a Parigi, emergono altre inquietanti ipotesi sulla scomparsa di Yasser Arafat: il leader palestinese sarebbe stato assassinato, forse avvelenato da polonio radioattivo, come l’ex spia russa Aleksandr Litvinenko ucciso a Londra nel 2006.
Una squadra di giornalisti di Al Jazeera è entrata in possesso di documenti classificati, ma soprattutto ha avuto accesso ai risultati e alle analisi che l’Institut de radiophysique di Losanna ha effettuato sugli effetti personali di Arafat che vennero restituiti alla vedova Suha dall’ospedale militare francese. Le analisi hanno accertato la presenza di polonio-210 in misura elevata e anomala nei vestiti, nella inseparabile kefiah del leader palestinese ma anche nel suo spazzolino da denti.
I circa 50 medici che lo hanno avuto in cura in quelle quattro settimane di malattia, non hanno mai saputo spiegare le ragioni del repentino deterioramento delle condizioni di Arafat, che all’epoca aveva 75 anni, e della sua morte l’11 novembre del 2004. Le 100 pagine delle conclusioni mediche delle équipe francesi che lo hanno avuto in cura sono un segreto di Stato, ma anche su questo dossier fioccano le indiscrezioni. I campioni di sangue di Etienne Louvet — il nome in codice dato al paziente Yasser Arafat per tutelarne la privacy — vennero analizzati dal Laboratorio tossicologico della Polizia di Parigi, e nel rapporto sono citati diversi veleni che i medici cercarono di individuare nel sangue, ma il polonio-210 non compare sulla lista.
I molti misteri attorno alla scomparsa dell’icona nazionale dei palestinesi hanno sempre tormentato la dirigenza dell’Olp che però non è mai stata in grado
finora di avere delle prove «dell’assassinio », come spiega Nabil Abu Roudeina, portavoce di Abu Mazen e all’epoca di Arafat. Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, chiede «una inchiesta internazionale dell’Onu, come quella per la morte dell’ex premier libanese Hariri», per fare chiarezza. Magistratura e polizia dell’Anp non dispongono né di laboratori né di capacità investigative all’altezza di un compito così difficile.
Israele, visto da molti arabi come il principale sospettato per la misteriosa malattia che ha ucciso Arafat, ha cercato di distanziarsi nuovamente dalla sua morte. Alcuni rivali politici di Arafat hanno sostenuto per anni che la sua morte era dovuta all’Aids, notizia sempre smentita dal medico tunisino che lo visitò poco prima che lasciasse Ramallah per Parigi. Ma la tesi dell’avvelenamento da parte di qualche servizio segreto israeliano (lo Shin Bet, il Mossad, l’Aman) è sempre stata quella con più proseliti in Palestina; rilanciata anche da suo nipote Nasser Al Qidwa, ex ambasciatore palestinese all’Onu: «L’hanno assassinato, adesso ne abbiamo la certezza». Avi Dichter — capo dello Shin Bet in quel periodo — ha smentito ieri ogni coinvolgimento di Israele, facendo riferimento a una richiesta fatta dagli americani di «non eliminare Arafat». Assediato da Israele nel quartier generale a Ramallah da tre anni, Arafat si ammalò nel mese di ottobre del 2004. Secondo i medici stranieri che accorrevano al suo capezzale dalla Tunisia, dall’Egitto e dalla Giordania l’anziano raìs aveva solo una forte influenza. Ma quando le tv inquadrarono quell’uomo dal volto scavato, debole, magrissimo che saliva un elicottero giordano per andare a farsi curare in Francia, fu chiaro a tutti che non si trattava di influenza.
I servizi segreti palestinesi propendono per avvelenamento attraverso gli alimenti o l’acqua. Arafat mangiava poco e rifiutava il cibo cucinato nella Muqata per il corpo di guardia. Le sue guardie andavano in un popolare ristorante di Ramallah a prendere l’unico pasto che consumava durante la giornata. Molti leader arabi hanno nella cerchia di sicurezza “l’assaggiatore” per i cibi e le bevande, ma non Arafat. Il polonio- 210 era probabilmente contenuto — dice una fonte dell’intelligence a Repubblica — nel kebab o nella frutta che Arafat mangiò la sera del 12 ottobre 2004. Com’è arrivato il polonio-210, materiale fissile, usato nel nucleare militare, fino al vassoio con la cena di Arafat? Il mistero continua. Il vecchio raìs aveva certamente più nemici che amici, non solo in Israele ma anche nell’ambito palestinese, nel mondo arabo e in Occidente.
il Fatto 5.7.12
Rapporto Amnesty
Torture e arresti arbitrari, Senza Gheddafi la Libia non cambia
Un anno senza Gheddafi, ma la situazione dei diritti umani stenta a migliorare. In Libia - assicura Amnesty International - rischieranno di ripetersi gli stessi crimini che diedero vita alla “rivoluzione del 17 febbraio”, se chi vincerà le elezioni per l’Assemblea Costituente previste per sabato prossimo non porrà in cima alle priorità il primato della legge. “È assai triste che dopo così tanti mesi, le autorità non siano state complessivamente in grado di allentare la stretta mortale delle milizie sulla sicurezza del Paese, con conseguenze drammatiche per la popolazione”, ha affermato Hassiba Hadj Sahraoui, vice-direttrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty. "Furono soprattutto le richieste di porre fine alla repressione e all'ingiustizia a condurre alla “rivoluzione del 17 febbraio”. Senza un'azione immediata per fermare le violazioni e porre rimedio all'assenza di legge, la Libia rischia concretamente di riprodurre e rafforzare quel sistema di violazioni dei diritti umani che abbiamo già visto in opera negli ultimi quattro decenni” - ha aggiunto Sahraoui presentando l’ultimo rapporto sulla situazione nel Paese nordafricano.
TRASCORSO poco meno di un anno dalla caduta di Tripoli nelle mani dei combattenti rivoluzionari, le continue violazioni dei diritti umani - tra cui arresti arbitrari, torture con conseguenze anche mortali, omicidi e sfollamenti forzati di popolazioni eseguiti con impunità - stanno gettando un'ombra negativa sulle prime elezioni nazionali dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi.
Durante la visita in Libia a maggio e giugno, Amnesty ha verificato che centinaia di milizie armate, continuano ad agire al di sopra della legge, molte delle quali rifiutando di disarmare o di arruolarsi nell'esercito e nelle forze di polizia. Il ministero dell'Interno ha dichiarato all'organizzazione per i diritti umani di essere riuscito a smantellare quattro milizie della capitale, poco considerato l'alto numero delle milizie. Le milizie continuano ad arrestare persone e a trattenerle in strutture detentive segrete e non ufficiali. Nonostante alcuni progressi nel sottoporre a controllo centrale i luoghi di detenzione, sarebbero 4.000 i prigionieri fuori dal controllo delle autorità nazionali, alcuni anche da più di un anno. Amnesty ha anche visto i segni di recenti pestaggi e di altre violenze alcuni casi equiparabili a torture - in 12 dei 15 centri di detenzione dove ha potuto incontrare in privato i prigionieri. Tra i metodi di tortura usati regolarmente, figurano la sospensione in posizioni contorte, le scariche elettriche e i pestaggi prolungati con svariati oggetti, come sbarre e catene di metallo, cavi elettrici, bastoni di legno, tubi di plastica, cannelle dell'acqua e calci dei fucili. Amnesty ha ricevuto inoltre informazioni dettagliate su almeno 20 casi di morte in custodia a seguito della tortura da parte delle milizie a partire dalla fine di agosto 2011. Continuano anche gli scontri tra le milizie armate, col ricorso sconsiderato a mitragliatrici, lanciagranate e altre armi contro le aree abitate, come nella città meridionale di Kufra, dove vive la minoranza tabu, teatro di una serie di scontri tra febbraio e giugno 2012.
Repubblica 5.7.12
Dopo 132 anni di dominio francese e un milione di morti, 50 anni fa l’Algeria conquistava l’indipendenza. Ecco il racconto di quel giorno di libertà
Le battaglie di Algeri
di Bernardo Valli
Il Governo provvisorio arrivò nel centro d’Algeri su un autocarro. I ministri, tra i quali non mancavano i capi storici della rivoluzione, erano ammassati nel cassone, in piedi, come muratori diretti al cantiere. La semplicità di quell’apparizione attizzava l’entusiasmo della folla. I vincitori della lotta armata erano in maniche di camicia. Senza mitra e pistole. La scorta armata si era perduta tra la gente in delirio. Forse non c’era. Era quella l’autentica immagine della nuova Algeria?
In realtà la manciata di uomini che attraversava la capitale della nazione da poche ore ufficialmente indipendente, dopo centotrentadue anni di dominio francese, rappresentava un potere fragile, anzi già esautorato, ma nei suoi ultimi momenti di rappresentanza essa incarnava l’orgoglio di un popolo che per conquistare la dignità nazionale aveva perduto centinaia di migliaia di uomini e donne. «Un milione di morti», proclamava l’Fln, il Fronte di liberazione nazionale, arrotondando le cifre.
Era il 3 luglio di cinquant’anni fa ed io ricordo la mia affannosa ricerca di un telefono con il quale trasmettere la cronaca di quel giorno in cui si concludeva trionfalmente la guerra più sanguinosa della decolonizzazione africana. Fino a quel momento, la sola indipendenza nel continente strappata armi alla mano. Una lotta armata sostenuta da non molti ma neppure pochi occidentali. Ne auspicavano il successo l’America di Kennedy e i partiti di sinistra europei. E tanti intellettuali francesi. Sartre in testa, ma anche liberali come Raymond Aron. Alcuni erano portati dall’entusiasmo a credere che in quel coraggioso paese dell’Africa del Nord si potesse realizzare ciò che non era stato possibile alla caduta del nazismo e del fascismo in Europa. Nello slancio non tenevamo conto della realtà algerina.
Andandosene, i francesi si erano portati via anche i telefoni. Per questo faticavo a trovarne uno. Era con me, in quelle ore, Kateb Yacine, uno dei grandi scrittori algerini, che anni dopo sarebbe stato accompagnato al cimitero da amici che alternavano l’Internazionale e i versetti del Corano. Quel 3 luglio Kateb mi urlava dietro che era un bene che io non trovassi un telefono. Cosi non avrei trasmesso una cronaca falsa. Era infatti scontato che era mia intenzione descrivere con toni trionfalistici un avvenimento storico, mentre quello che si svolgeva sotto i nostri occhi era per lui una tragedia.
Non detti retta a Kateb, del quale avevo una grande stima. Era l’autore di Nedjma, un romanzo scritto in francese con uno stile faulkneriano, che aveva come sotto fondo la strage di Setif, nel ‘45, quando i francesi risposero con i cannoni e il napalm agli algerini che chiedevano anche per il loro paese la libertà appena ottenuta dalla Francia. Libertà per la quale molti algerini avevano combattuto nei ranghi dell’Armée. Ma quel giorno non vedevo la tragedia che lui, Kateb, leggeva nella folla che accoglieva con entusiasmo il Governo provvisorio dell’Algeria indipendente. E festeggiava la fine di una guerra che aveva travolto persino le istituzioni della “métropole”, come veniva chiamata allora la Francia.
Infatti (nel ‘58), in seguito alla rivolta dei militari francesi d’Algeria, reduci dall’umiliazione indocinese, conclusasi con la sconfitta di Diem Bien Phu (1954), e di nuovo delusi dai governi parigini scarsamente solidali, si era spenta la Quarta Repubblica, ed era ritornato al potere il generale de Gaulle, fondatore della Quinta Repubblica semi presidenziale. E, realista, il generale aveva trattato, tre anni dopo, con i capi dell’-FLN, per arrivare all’indipendenza dell’Algeria. Accettando cosi la sconfitta in una guerra (di guerriglia) cominciata nel 1954, ma da tempo in incubazione.
La società umiliata, e violentata, sulla quale si era sovrapposta una società europea (un milione di cosiddetti pieds noirs), era pronta ad esplodere. Anche se non sempre concorde sulla natura dei rapporti da conservare con la Francia, fonte di repressione e al tempo stesso di idee emancipatrici.
A scuola si insegnava la rivoluzione dell’89, e con essa i principi di libertà, uguaglianza e fraternità, mentre nel paese si praticava la repressione, la disuguaglianza e la discriminazione. De Gaulle era comunque un pragmatico e detestava inoltre i coloni europei d’Algeria che l’avevano osteggiato negli anni difficili, quando lui rappresentava la Francia libera non rassegnata all’occupazione nazista. Chiunque governasse in Francia non poteva mantenere in permanenza centomila uomini armati in Algeria; né era in grado di contenere la crescente opposizione interna a quella guerra; e ancor meno di sostenere l’ostilità del mondo arabo, di cui la Francia aveva bisogno.
Tra i negoziatori, impegnati a discutere con i francesi, per mesi, a Evian, in Svizzera, c’era Benjucef Benkhedda, poi diventato primo ministro del Governo provvisorio, e quindi quel 3 luglio in piedi, sul cassone del camion, che attraversava le strade di Algeri, fendendo una folla entusiasta, benché immersa in cinquanta gradi di caldo mediterraneo umido. Benkhedda era un farmacista, come era un farmacista Ferhat Abbas, il suo predecessore. Due uomini moderati, tenaci combattenti nella lotta per l’indipendenza, ma sensibili ai richiami democratici occidentali, e spesso in contrasto con gli altri dirigenti della rivoluzione, marcati dalla lotta armata e favorevoli a soluzioni autoritarie. Anche perché la società algerina, non disponendo di capitali e di una borghesia imprenditoriale, quella esistente essendo di stampo francese, non poteva che imboccare la strada di un socialismo senz’altro arabo, con venature islamiche, ma con chiari riferimenti al sistema sovietico. Non c’era mai stato, in realtà, un vero dibattito politico in seno alla resistenza, dopo il Congresso della Summam, nel ‘57, che si era concluso con sanguinosi regolamenti tra fazioni. E qualche settimana prima dell’indipendenza, la riunione di Tripoli si era conclusa con un nulla di fatto. Tanto che il Governo Provvisorio che percorreva le strade d’Algeri rappresentava soltanto se stesso. Aveva in quelle ore l’appoggio popolare, perché era il simbolo dell’Algeria indipendente. Ma il potere era altrove. Risiedeva nell’“esercito delle frontiere”,
negli ottanta mila uomini ben armati e organizzati schierati al confine tunisino e marocchino, al comando del colonnello Huari Bumedien, e pronto a marciare su Algeri. Kateb Yacine pensava a questo mentre cercava invano di dissuadermi dallo scrivere una cronaca trionfalistica. In quelle ore la rivoluzione vittoriosa veniva tradita dai suoi. Questa era la tragedia. Kateb diceva che i militari agli ordini di Huari Bumedien erano stati contagiati dai paras francesi del generale Massu. Non a caso alcuni ufficiali dell’esercito di Huari Bumedien venivano dall’Armée che avevano disertato. Mentre la Francia si sta liberando dei suoi paras mettendo fine alla guerra, noi ci prepariamo ad accogliere le loro imitazioni. Questo diceva sconfortato Kateb Yacine. E io non lo ascoltavo, perché la sua disperazione affogava spesso nella birra.
Ad Algeri si festeggiava un governo provvisorio ignorando che avesse ancora qualche ora di vita. Non di più. Ahmed ben Bella, arroccato a Tlemcen, era pronto a piombare su Algeri con l’aiuto degli uomini dell’allora quasi ignoto colonnello Bumedien, deciso a usare per un po’, un paio d’anni, la grande popolarità di ben Bellah, eroe della prima ora e celebre ospite delle carceri francesi. Il moderato Benkhedda e i suoi ministri erano insomma sul punto di essere messi al bando. E con loro i principi democratici che sostenevano.
Intanto nelle campagne si regolavano i conti. Collera, odio, gioia, entusiasmo, speranza. Tutti i sentimenti raggiungevano il parossismo. Il sangue colava abbondante. E per fortuna era ancor più abbondante il vino che inondava le cantine delle fattorie francesi abbandonate dove i contadini in rivolta sventravano le botti. Del milione di coloni, in gran parte poveri, ne erano rimasti molto pochi. In quei giorni ho visitato il ghetto di Orano semideserto. Erano rimasti soltanto vecchi ebrei che non volevano abbandonare la terra dei loro antenati, e che vagavano smarriti per le strade ingombre di masserizie piovute dalle finestre di chi se ne andava. Prima di partire molti avevano ucciso persino i gatti, i cui resti appestavano l’aria.
I francesi si erano impegnati evacuare Harki e Moghazni, algerini appartenenti a formazioni paramilitari francesi, spesso impegnate contro la resistenza. L’onore impediva a de Gaulle di lasciare in balia alle vendette i collaboratori dell’esercito francese, considerati traditori dagli algerini. Ma l’onore non è stato rispettato fino in fondo, perché la Francia ha portato in salvo soltanto circa quarantamila Harki, lasciando che altre migliaia venissero uccise o torturate nei villaggi.
Gli avvenimenti svoltisi quasi in segreto nelle ore dell’indipendenza hanno marcato il destino dell’Algeria indipendente. Riducendo all’essenziale in quelle ore si sono scontrati tre elementi: i capi della Wilaya, le regioni in cui era suddivisa la resistenza, il Governo provvisorio, e l’“ esercito delle frontiere”. Ha vinto quest’ultimo, il più forte. Portato subito al potere dal colonnello Bumedien, e dai suoi ottanta mila uomini, Ahmed ben Bella ha cercato invano di dare un’impronta politica libertaria al suo regime. Stanchi di quello che consideravano un insopportabile disordine, (nel 1965) i militari hanno preso direttamente il potere, e cacciato ben Bellah. E quelli che Kateb chiamava “i nostri paras” sono ancora, più o meno nascosti, nei posti di potere. Il 3 luglio di cinquant’anni fa resta tuttavia un grande giorno. Cosi l’ho vissuto e non me ne pento. Èsempre un momento particolare quello in cui un popolo prende in mano il proprio destino. E quindi la propria dignità nazionale. Che cosa poi ne sappia fare, in particolare sul piano dei diritti individuali, è un altro capitolo.
Repubblica 5.7.12
Lo scrittore Jérôme Ferrari ha raccontato i crimini commessi dai francesi
“Per noi quella sporca guerra è una ferita ancora aperta”
di Fabio Gambaro
«Per i francesi, la guerra d’Algeria è una ferita ancora aperta. Qualcosa però sta cambiando. Qualche anno fa, infatti, non avrei mai potuto scrivere un romanzo sull’uso della tortura durante il conflitto senza suscitare reazioni violente. Sarebbe stato impossibile». A cinquant’anni esatti dall’indipendenza dell’Algeria, nelle pagine intense e drammatiche di
Dove ho lasciato l’anima (Fazi) Jérôme Ferrari rievoca “la sporca guerra” condotta dai soldati francesi dal 1956 al 1962, per cercare di difendere la più importante delle loro colonie. Lo scrittore francese costruisce il romanzo attorno a tre personaggi (due ufficiali francesi e un militante algerino loro prigioniero) confrontati con la violenza del conflitto, l’uso della tortura, la sofferenza di chi la subisce e le contraddizioni di chi la infligge. Il risultato è un ottimo romanzo, pluripremiato in Francia, vero caso letterario del Paese. «Il crimine contro l’umanità colpisce l’umanità della vittima, ma anche quella del carnefice», spiega Ferrari, un corso di quarantaquattro anni, insegnante di filosofia e autore di una mezza dozzina di romanzi. «Non volevo scrivere semplicemente un romanzo storico o un romanzo realista. M’interessava piuttosto parlare di una situazione universale, ancora d’attualità in Iraq, in Afghanistan o negli Stati Uniti del dopo 11 settembre».
Perché uno scrittore nato sei anni dopo la fine della guerra d’Algeria decide di scrivere un romanzo su quel conflitto?
«Ho insegnato quattro anni ad Algeri, dove ho iniziato a interessarmi alla storia di quel periodo. Poi ho visto un documentario di Patrick Rotman, in cui un ex-tenente dei paracadutisti raccontava l’arresto di uno dei capi del Fronte di liberazione nazionale ad Algeri, Larbi Ben M’hidi, che poi fu torturato e giustiziato senza processo. Ne parlava con rispetto, riconoscendo il fascino che il prigioniero aveva esercitato su di lui. Il libro è nato da lì».
In effetti, lei mette in scena un capitano francese affascinato da un capo della resistenza algerina suo prigioniero...
«Anche tra i paracadutisti che si resero responsabili dei più atroci atti di tortura c’erano individui che s’interrogavano su quello che stavano facendo. Molti di quei militari avevano partecipato alla seconda guerra mondiale, spesso nelle file della resistenza, erano stati torturati e internati nei campi di concentramento. In Algeria però i carnefici erano diventati loro. Il capitano Degorce sa di essersi trasformato in ciò che in passato aveva combattuto ».
Accanto a lui, c’è il tenente Andreani che invece pratica la tortura senza farsi domande...
«Non m’interessava creare personaggi manichei, uno a favore della tortura e uno che vi si oppone. I miei due personaggi vivono la stessa contraddizione, reagendo però in modo diverso: uno se ne assume la responsabilità e l’altro no. La loro relazione e il conflitto rispetto al prigioniero sono al centro del libro. Attraverso il tenente Andreani, ho cercato di mostrare un discorso ignobile, moralmente indifendibile, ma sorretto dalla logica di chi ha una missione da svolgere e quindi usa tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la tortura».
A un certo punto il capitano smette di lottare contro “la propria infamia”. Significa che il contesto di guerra e odio trasforma inevitabilmente gli uomini, senza possibilità di resistere?
«Quando il capitano si rende conto di aver perso l’anima, per lui è ormai troppo tardi. Purtroppo la maggior parte delle persone non resiste al contesto. Sono pochissimi quelli che ci riescono, costringendo gli altri a interrogarsi. Se infatti nessuno fosse capace di resistere, in fondo il problema non si porrebbe e tutti potremmo usare la scusa delle circostanze. Quei pochi che ce la fanno dimostrano invece che la resistenza è possibile, togliendo a tutti noi un comodo alibi».
Nel romanzo uno delle vittime dei militari è un militante comunista francese che appoggia la resistenza algerina. La guerra d’Algeria è stata anche una guerra civile all’interno della società francese?
«Lo è diventata alla fine, quando sono cominciati gli attentati dell’Oas. Va detto però che all’inizio i francesi favorevoli all’indipendenza degli algerini furono pochissimi. Solo una minoranza ha appoggiato e aiutato l’Fln, a cominciare da Sartre e altri intellettuali. In realtà, più che una guerra civile, fu una classica guerra coloniale contro un popolo che cercava di riconquistare l’indipendenza e la legittimità cui aveva diritto».
l’Unità 5.7.12
Il bosone di Higgs
La verità dell’universo in una sola particella
L’annuncio al Cern di Ginevra. La potenza della teoria unita alla potenza della tecnologia
La particella catturata nel superacceleratore Lhc
È la base per una spiegazione del perché della massa
di Pietro Greco
È la vittoria di due potenze, quella annunciata ieri al Cern di Ginevra dall’italiana Fabiola Gianotti, spokeperson dell’esperimento Atlas, e dall’americano Joe Incandela, spokeperson dell’esperimento Cms. Una è quella della tecnologia scientifica di frontiera, incarnata (o meglio, imbullonata) in Lhc: la macchina (appunto) più potente mai costruita dall’uomo. L’altra è la potenza della teoria: capace di prevedere un fenomeno sconosciuto, la cui realtà verrà provata dopo molti mesi o, addirittura, molti anni. Sono queste due potenze congiunte che hanno realizzato quella che può essere considerata, ormai a ragione, la più importante scoperta in fisica degli ultimi decenni. Forse dell’ultimo mezzo secolo.
Se la «potenza della tecnologia è chiara a tutti fin dai tempi di Galileo, quando il toscano mise a punto un cannocchiale più potente, lo puntò al cielo e vide – letteralmente – cose mai viste prima, meno nota, ma non meno importante, è la «potenza della teoria. Per trovarne un esempio altrettanto limpido di quella manifestata dal Modello Standard della Fisica delle Alte Energie, in particolare, dall’elaborazione del Modello Standard quel signore di 83 anni le cui guance ieri sono state solcate da (meritate) lacrime di gioia, lo scozzese Peter Higgs, occorre risalire alla teoria dell’elettrodinamica quantistica elaborata da Paul Dirac alla fine degli anni ’20 e racchiusa in una formula (elegante) che prevedeva l’esistenza di un tipo di materia – l’antimateria – di cui mai nessuno aveva prima parlato. L’esistenza dell’antimateria fu empiricamente provata pochi anni dopo.
DA EINSTEIN E NEWTON
Ancora, la «potenza delle teoria si era manifestata nel 1919, quando l’inglese Sir Arthur Eddington misurò la deviazione della luce da parte del campo gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla teoria della relatività generale del tedesco Albert Einstein. Con quella misura, titolò con una certa enfasi il New York Times in prima pagina, Einstein detronizzò Newton. Ancora. Una manifestazione della «potenza della teoria si ebbe quando il chimico russo Dimitri Ivanovic Mendeleev elaborò la «tavola periodica degli elementi, prevedendo non solo l’esistenza di elementi chimici fondamentali fino ad allora sconosciuti, ma anche le loro precise proprietà chimiche. Ieri si è manifestata di nuovo, con limpida chiarezza, la «potenza della teoria, accanto in virtù della «potenza della tecnologia. Perché è stata individuata una particella – il bosone di Higgs – messaggera di un campo di forze, il «campo di Higgs, le cui esistenze erano del tutto sconosciute prima che Peter Higgs le immaginasse. Le sue lacrime, ieri, hanno salutato il nuovo trionfo della «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali.
Vero è che Fabiola Gianotti e Joe Incandela hanno mostrato un filo di prudenza nel presentare i loro dati. Hanno detto che con una probabilità statistica di 5 sigma – il che, tradotto dal linguaggio dei fisici e dei matematici, significa tecnicamente una probabilità abbastanza solida da poter parlare a ragion veduta di certezza pressoché assoluta e, dunque, di «scoperta – hanno individuato una particella sconosciuta di massa pari a 125 GeV (giga elettronvolt) con le caratteristiche di un bosone.
Ma che c’è bisogno di ulteriori studi per assicurarsi che il bosone catturato sia effettivamente il «bosone di Higgs. Tuttavia, proprio la «potenza della teoria suggerisce che la particella catturata non possa essere altro che la particella prevista da Peter Higgs. Il quale non a caso è stato convocato a Ginevra e non a caso ha pianto di gioia.
REALTÀ COSMICA
Resta da vedere, tuttavia, se il bosone la cui cattura è stata annunciata ieri abbia solo le caratteristiche previste da Peter Higgs. O, invece, non abbia anche proprietà che spalancano a «nuova fisica. O meglio, come spiega il Cern in un suo comunicato ufficiale, alla possibilità di trovare una qualche spiegazione a quel 96% di realtà cosmica di cui non conosciamo la natura. Viviamo infatti in un universo costituito al 73% da un’energia (chiamata, appunto, oscura) e al 23% da una materia (chiamata, anch’essa, oscura) di cui non sappiamo spiegare origine e costituzione.
Il bosone di Higgs finalmente individuato potrebbe fornirci la chiave per gettare un po’ di luce su tanta – è il caso di dirlo – oscurità. Il che dimostra come if isici – aLhc,ma non solo aLhc – siano già al lavoro per andare oltre il Modello Standard, il cui ciclo si è ormai chiuso con la scoperta annunciata ieri. Il Modello Standard funziona (eccome!) ma non ci dice tutto sulla realtà fisica. Occorre, appunto, andare oltre. E proprio la grande macchina può aiutarci a fare i primi passi in questa ricognizione ancora più approfondita.
Non sarà sfuggito ai più attenti tra i lettori dell’Unità il contributo italiano alla scoperta. L’esperimento Atlas è diretto da Fabiola Gianotti (figlia di un geologo piemontese e di un’umanista siciliana, laureata a Milano); l’esperimento Cms è stato diretto fino a poco tempo fa da Guido Tonelli, dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Pisa; italiano è anche il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci. Si tratta di una nuova evidenza empirica, è il caso di dirlo, che in alcuni settori la nostra comunità scientifica è all’avanguardia. E questa sua capacità le viene riconosciuta a livello internazionale. Ma è anche evidente – anche questa è, ahimè, un’altra ineludibile evidenza empirica – che la scienza italiana, anche quella di punta, è sottoposta a ristrettezze economiche senza pari e crescenti. E che in queste condizioni difficilmente il futuro – anche in fisica – potrà essere luminoso com’è il presente e com’è stato il passato.
Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, Fernando Ferroni, a sottolinearlo, nel franco dibattito telefonico con il ministro Francesco Profumo. Ma bene faremmo anche noi a tenerlo presente. Ce lo insegna la storia del pianeta degli ultimi sessant’anni (ma, a ben vedere, ce lo insegna la storia intera dell’umanità): non c’è nessuna crescita possibile, non c’è tantomeno alcuno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, se un paese rinuncia a investire nella conoscenza. E la mancanza di investimenti (ovvero di fiducia) nella conoscenza è tanto più commendevole per un Paese che detiene – fingendo di non saperlo, fingendo di non vederlo – un patrimonio come quello che si è espresso ieri a Ginevra.
l’Unità 5.7.12
È un raggio di luce sull’oscurità
di Margherita Hack
I FISICI DELLE PARTICELLE STAVANO CERCANDO IL BOSONE DI HIGGS DA PARECCHI MESI, ORA SEMBRA PROPRIO CHE L’ABBIANO TROVATO. Si tratta di una bella conferma della teoria chiamata Modello Standard. Il Modello Standard spiega concretamente vari comportamenti delle particelle elementari, ma, per fare questo, ipotizza che ci sia una particella più grossa del protone, il Bosone di Higgs appunto, che spiegherebbe come si formano tutte le altre particelle che conosciamo. Sarebbe questo Bosone, infatti, a dare a tutte le altre particelle la massa. Il Bosone di Hoggs sarebbe, quindi, un po’ come il babbo e la mamma di tutte le particelle elementari. Io lo chiamo addirittura dio. Se dio infatti ha fatto tutto quello che vediamo, allora la particella che spiega come si forma la materia delle altre particelle dalle quali poi deriva tutto le stelle, gli elementi che abbiamo sulla Terra, compresi quelli che compongono gli esseri umani è veramente dio.
Questa particella però non era mai stata trovata. Come l’hanno cercata? Noi sappiamo che esiste un’eguaglianza tra massa ed energia, da questa conoscenza possiamo dedurre che se c’è sufficiente energia, si può creare una particella. Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore di Ginevra, avrebbe potuto trovare questa particella perché è il più potente, quello che raggiunge livelli di energia mai raggiunti finora in laboratorio. Così Lhc ha cominciato a funzionare alla massima energia nella speranza di trovare il Bosone di Higgs. Sembra ci sia riuscito. Ora si comincia a capire concretamente la struttura della materia.
Qual è il prossimo passo? Dal punto di vista della fisica delle particelle non saprei dirlo, però so che noi astrofisici cerchiamo di capire cosa siano la materia oscura, che costituirebbe la maggior parte della materia dell’universo e sarebbe fatta da particelle elementari ancora sconosciute, e l’energia oscura. Non so se il Bosone di Higgs ci possa dare un aiuto in questa direzione, ma è possibile. Poi bisogna cercare di capire perchè l'universo è fatto di materia e non di antimateria. Oggi l'astrofisica riesce a vedere direttamente come era fatto l'universo 400mila anni dopo l'inizio dell'espansione. Dalle temperature e dalla densità della materia in quel momento, come i fisici, anche noi possiamo risalire ai valori di temperatura e densità della materia che si trovavano frazioni infinitesimali di secondo dopo il Big Bang.
l’Unità 5.7.12
Fabiola e Peter, l’abbraccio della scienza
Coronate dall’emozione di ieri, due storie che si incrociano: quella di un grande fisico ormai in odor di Nobel e di una giovane «eccellenza italiana
di Emanuele Perugini
Da una parte Fabiola Gianotti, con la sua polo rossa, i capelli raccolti dietro l’orecchio, e le mani che si nascondevano nelle enormi tasche dei pantaloni color cachi. Dall’altra, Peter Higgs, con i suoi pochi capelli bianchi e gli enormi occhiali da vista. Entrambi ieri mattina nell’emiciclo della sala conferenze del Centro di ricerche nucleari (Cern) di Ginevra, si sono scambiati spesso gli sguardi. Era infatti dai dati che Fabiola Giannotti stava illustrando al mondo intero, che l’anziano ricercatore aspettava la conferma attesa per una vita intera che la sua intuizione, era esatta.
Era infatti nel lontano 1964, mentre camminava sulle colline scozzesi, che la sua mente partorì il bosone che poi sarebbe stato chiamato «di Higgs. Come spesso accade, l’idea arrivò all’improvviso al punto che Higgs fuggì lasciando tutta la compagnia di stucco, perché aveva avuto una «big idea e aveva bisogno di doverla fissare. Ieri mattina, quella sua Big Idea, che avrebbe potuto mettere insieme una teoria che riuscisse a spiegare almeno in parte il funzionamento dell’Universo, veniva snocciolata, da una donna italiana di 48 anni, che sul grande schermo non faceva che rovesciare dati, numeri e grafici in sequenza impressionante.
Da un lato il vecchio professore delle Highlands e dall’altro una ricercatrice, figlia dell’Unità d’Italia nata a Torino da padre piemontese e di professione geologo e madre siciliana amante delle lettere, Fabiola Gianotti ha vissuto e studiato a Milano. L’Europa è anche questo.
L’EMOZIONE
Per l’ormai ottantetrenne scienziato britannico i circa 40 minuti della presentazione di Fabiola devono essere sembrati davvero interminabili, anche perché dalla bocca della fisica italiana non è mai uscita la frase «abbiamo scoperto il bosone di Higgs. Gianotti è infatti stata sempre molto prudente e non ha mai tradito l’emozione. «Ci sono forti indicazioni della presenza di una nuova particella attorno alla regione di massa di 126 GeV, ha detto. «È il bosone più pesante mai trovato, ha aggiunto. «Siamo dinanzi a risultati preliminari sottolinea e prima di sbilanciarci troppo è necessario ancora un po’ di tempo. Ma quando una scienziata dice «abbiamo osservato chiaramente una nuova particella, con probabilità di 5 sigma, significa che c’è una probabilità di errore dello 0,000028%. Così mentre tutto il mondo aspettava che venisse pronunciata quella frase, solo la platea dei fisici che era lì a Ginevra riusciva a cogliere il significato: anzi, loro direbbero, «la consistenza di tutti quei dati.
Lì in prima fila, tra gli altri grandi della fisica italiana ed europea, proprio Peter Higgs, che quando la Gianotti ha concluso la sua presentazione, non è riuscito a trattenere le lacrime della commozione. Mentre tutti in sala applaudivano, e urlavano e gioivano per il grande risultato raggiunto e per la grande fatica che è stata necessaria per raggiungerlo. «È la cosa più incredibile che sia successa nella mia vita. Sono le sole parole che Peter Higgs è riuscito a dire mentre tutti lo guardavano con affetto e mentre Fabiola Gianotti gli si è avvicinato e lo ha abbracciato.
Ora per il fisico, ne sono sicuri in molti, si tratterà solo di aspettare novembre, quando verrà annunciato il premio Nobel. Mentre per Fabiola Gianotti, l’altra grande protagonista della giornata, si aprono ancora di più le frontiere della ricerca, a cui, lei stessa con il suo lavoro, ha contribuito non poco ad allargare l’orizzonte. «Non avrei mai scommesso che la mia vita sarebbe andata così, confessa. «Spero che la mia esperienza sia da stimolo a tutte le giovani donne a intraprendere questa strada. Una strada ricca di ostacoli ma ineguagliabile come emozioni e soddisfazioni. Ora l’avventura di Gianotti si fa sempre più affascinante. «Non so dove i nostri risultati ci porteranno conclude ma sarà fantastico avere l’opportunità di fare ricerca su campi ancora inesplorati.
Corriere 5.7.12
La scoperta dell'ultimo tassello apre la strada a «nuovi mondi»
a cura di Giovanni Caprara
1 Che cosa è il bosone di Higgs?
Il bosone noto anche come «particella di Dio» era l'ultimo tassello del Modello Standard, la teoria quantistica che spiega l'architettura di base della natura costruita con particelle elementari, come l'elettrone e il protone, e tre delle quattro forze fondamentali (interazione forte, debole ed elettromagnetica). Alcune teorie avevano immaginato l'esistenza di una famiglia di cinque tipi di bosoni e quello individuato sarebbe il più leggero secondo quell'idea. Ma non è detto che esistano gli altri. La sua presenza stabilisce la massa delle altre particelle e di se stesso.
Per dare una raffigurazione del bosone di Higgs possiamo immaginare un lago con la sua superficie tranquilla. Questo è il campo di Higgs. Soffia una leggera brezza e si creano delle increspature, delle onde. Le onde sono i bosoni di Higgs e quando il vento cessa scompaiono. Altrettanto i bosoni che decadono in altre particelle (fotoni, ecc).
2 Che cosa hanno scoperto esattamente al Cern?
Innanzitutto si è visto che il bosone di Higgs esiste davvero e che ha una massa di 126 GeV (miliardi di elettronvolt) equivalente a 126 volte la massa del protone (il quale è nel nucleo di un atomo assieme al neutrone).
Scoprendolo «si è raggiunta una pietra miliare nella conoscenza della natura», come sottolinea il direttore del Cern Rolf Heuer perché se non ci fosse non avrebbero massa le stelle, i pianeti, le cose in genere e neanche noi stessi. Il bosone era nato assieme alle altre particelle nel primo millesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang da cui ha avuto origine l'Universo. Ed è in questo frammento di tempo primordiale che gli strumenti di Lhc riescono a guardare. Ora gli scienziati del Cern presenteranno la loro scoperta in Australia, a Melbourne, ad un convegno dedicato all'argomento e iniziato ieri.
3 Si è trovato veramente ciò che si cercava?
In parte sì e in parte no. Il bosone quando si manifesta decade in tre tipi di altre particelle. Quindi si è constatato che genera più fotoni e meno particelle quark e tau rispetto a ciò che si era previsto. Invece produce una quantità normale di particelle W-Zzero (scoperte da Carlo Rubbia). Adesso si dovranno misurare bene queste «anomalie» per capire di che cosa si tratta e che cosa significano. Potrebbero essere l'anello di congiunzione tra la fisica nota e la nuova.
4 Quali possibilità si aprono dopo questa scoperta?
Notevoli, varie e fantascientifiche per certi aspetti. Proprio le «anomalie» emerse, infatti, potrebbero essere il segno di una fisica nuova portandoci a trovare le particelle della materia e dell'energia oscura che riempiono il 96 per cento del cosmo. La materia visibile costituita da stelle e pianeti e galassie rappresenta solo il 4 per cento. Il bosone ha provocato la rottura della simmetria iniziale esistente immediatamente dopo il Big Bang consentendo quindi la formazione dei corpi celesti. Inoltre si apre la possibilità di scoprire la supersimmetria la quale dice che in natura esisterebbero, oltre alle particelle note come elettrone, quark e neutrino, altre particelle perfettamente simmetriche ma con una caratteristica diversa legata allo spin, come la chiamano i ricercatori. E queste particelle sarebbero selettrone, squark, sneutrino. Un altro mondo insomma. Inoltre si potrebbero scoprire nuove dimensioni oltre alle quattro in cui viviamo (altezza, larghezza, profondità e tempo). La teoria delle stringhe ne immagina una decina, ma anche quella non è mai stata dimostrata finora.
5 E il superacceleratore potrà aiutare a indagare la nuova fisica?
Anzi è stato costruito apposta. Ora si continueranno a prendere, ancora per tre mesi, ulteriori misure del bosone e poi verso la fine dell'anno Lhc sarà spento per un periodo di manutenzione di due anni nei quali si estrarranno molti degli aspetti enigmatici contenuti nei dati disponibili e ottenuti con scontri fra nuvole di protoni ad un'energia massima di 8 TeV. Quando la macchina verrà riaccesa sarà spinta a funzionare alla sua massima capacità e allora negli scontri tra protoni si arriverà a 14 GeV.
6 Ma il Modello Standard ora completato dal bosone mancante spiega tutto?
No. Ci sono aspetti fondamentali ancora non considerati da questa teoria. Ad esempio non vengono per nulla trattate la materia oscura e la forza di gravità, due elementi importanti e determinanti nella descrizione dell'universo. Quindi il Modello Standard non è ritenuto completo per decifrare la natura.
La Stampa 5.7.12
Un creatore ha voluto l’universo
di Elio Sgreccia, monsignore
La rilevanza della scoperta della «particella di Dio» è riconosciuta dall’intera comunità scientifica, ma un dato mi pare ancora più rilevante. E cioè che si va consolidando in tutti la convinzione che l’universo abbia un origine e una causa proporzionata. Lungo la storia della scienza si sono succedute teorie come quelle della nebulosa originaria o del Big Bang. Stavolta l’ipotesi va ancora più in profondità, fino al cuore della materia: si suppone che esista un elemento primigenio da cui sia scaturito il mondo. Noi la chiamiamo creazione in quanto è l’azione di un creatore intelligente che ha pensato e voluto l’universo. Questi vari punti individuati hanno una certa relazione con la fase iniziale del creato, ma la vera causa non può essere in questi fatti scientifici bensì in un essere intelligente che noi chiamiamo Dio la cui azione è appunto la creazione. Spetta alla scienza identificare il «fattore primo» dal punto di vista materiale, però supporre l’esistenza di un creatore richiede un salto filosofico. Può darsi che neppure questa meravigliosa scoperta indichi l’atto iniziale della materia, ma è indubitabile che vi sia un inizio della creazione. Tra fede e scienza non vi è opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione nei secoli. La Bibbia ci parla della creazione come del primo linguaggio attraverso il quale Dio ci rivela qualcosa di sé. Benedetto XVI ha più volte elogiato i tanti scienziati ispirati da stupore e gratitudine di fronte al mondo che ai loro occhi appare come l’opera buona di un Creatore sapiente e amorevole. Lo studio scientifico si trasforma così in un inno di lode. E’ in corso la causa di beatificazione dei quell’astrofisico Enrico Medi che scriveva: «Oh, voi misteriose galassie, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare».
La Stampa 5.7.12
Ma non è nella natura che si scopre il divino
di Gianni Vattimo
Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo. Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno. Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo? Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno.
Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. E’ una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso). E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico. L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti.
Corriere 5.7.12
Ma le verità della scienza sono provvisorie
di Giovanni Reale
Ciò che ho letto sui giornali in questi giorni mi ha lasciato, a dir poco, stupefatto. E non per l'evento comunicato, ossia la presunta scoperta di quella che si chiama «la Particella di Dio», ma per il modo in cui la notizia è stata comunicata e diffusa.
Si ha l'impressione che non pochi scienziati e gran parte degli uomini comuni siano rimasti inchiodati all'idea ottocentesca e del primo Novecento, secondo cui la scienza raggiunge verità ultimative e incontrovertibili. Ma l'epistemologia ha dimostrato il contrario, ossia che ciò che la scienza dice si colloca all'interno di «paradigmi», tutti quanti controvertibili con le conseguenze che questo comporta. Non poche volte alcune affermazioni della scienza, nell'evoluzione delle conoscenza, si sono capovolte nel loro contrario.
Popper ha dimostrato in modo preciso che ogni teoria scientifica è tale solo se — e nella misura in cui — risulta «falsificabile», ossia controvertibile. Una verità presentata come infalsificabile sarebbe, per definizione, non scientifica.
Se non si tiene ben presente questo, si trasforma la scienza in «scientismo», ossia se ne fa un idolo considerandola fonte di ipotesi, ossia di affermazioni modificabili, ma di verità assolute.
Molte dottrine cosmologiche sono, in realtà, forme di metafisica, trasfigurate e rivestite di simboli assai allettanti ma in realtà assai fragili.
L'antico problema da cui è nata la metafisica è proprio quello cui si connette la nuova «scoperta»: perché c'è l'essere e non il nulla. Ma questo problema non può essere affrontato da alcuna delle scienze particolari in quanto trascende i loro ambiti, e richiede ben altri strumenti per essere impostato e discusso, e in qualche modo risolto, o anche lasciato in sospeso.
La stessa espressione «Particella di Dio» rivela una tracotanza che alcuni scienziati hanno espresso senza mezzi termini, ossia la convinzione di essere, in qualche modo, mediante i nuovi strumenti di conoscenza, essi stessi Dio.
Mi viene in mente, a questo proposito, un'idea assai significativa, che mi pare di aver letto in Goethe: la verità, soprattutto se si tratta di una verità suprema, ha questo di caratteristico, di essere più grande di qualsiasi pensiero e di qualunque parola di uomo.
Corriere 5.7.12
L'intuizione di un ragazzo prodigio e quell'equivoco sull'Onnipotente
di Giulio Giorello
«Dimmi come ti muovi, e ti dirò chi sei», recita un vecchio adagio. Immaginate una sorta di oceano, ove le particelle che costituiscono il nostro universo, muovendosi contro corrente, sono ritardate alcune più di altre dal contatto con le acque: è per questo che le più «lente» ci appaiono di massa maggiore! Ma all'inizio erano tutte uguali, cioè tutte dotate di una «leggerezza» incredibile, proprio perché l'interazione con quel mare invisibile non era ancora incominciata. Ma è stato sufficiente che l'universo si raffreddasse per rompere la simmetria originaria. Oggi la teoria detta «elettrodebole», perché tratta delle forze che si esercitano tra quelle leggerissime particelle che sono i neutrini, e incorpora la teoria elettromagnetica, contempla una famiglia di particelle composta dal fotone (cioè il quanto di luce descritto da Einstein nel 1905) che è rimasto di massa nulla e altre tre particelle che sono invece dotate di notevole massa. È un po' come fossero delle biglie che cadono l'una in un bicchiere d'acqua e le altre in uno pieno di denso sciroppo: queste ultime appaiono di massa maggiore. La cosa è generalizzabile anche alle altre famiglie delle particelle «elementari». Tutta colpa di una ancor più elusiva particella, che genera quello «oceano» che i fisici chiamano «campo» (analogamente a come il fotone è responsabile del campo elettromagnetico). Decenni fa era solo una congettura di vari fisici; e solo uno, il britannico Peter Higgs, aveva espresso (1964) la convinzione dell'esistenza di una «nuova particella». Sarebbe diventata nota come «bosone di Higgs», anche se questo non significava affatto l'accettazione da parte di tutta la comunità scientifica; per di più, presso il grande pubblico, doveva diventare celebre sotto il nome fuorviante di «particella Dio», trovato da Leon Lederman (1993), e poi storpiato in «particella di Dio», come se questa fosse stata lo strumento utilizzato dall'Onnipotente quando aveva cominciato a differenziare i vari tipi di materia e di forza! Il vero responsabile era stato però il curatore del testo di Lederman, che interpretando i desiderata della casa editrice aveva attribuito al Signore (God in inglese) un interesse particolare per quella «particella maledetta»: goddamn particle, come aveva scritto inizialmente l'autore, alludendo alla difficoltà della sua individuazione. Higgs, che si definiva ateo, non aveva gradito l'intera faccenda, ritenendo che fisica e fede fossero «campi» che non dovessero sovrapporsi, e che ricorrere alla divinità per colmare le lacune della ricerca significasse «pronunciare invano il nome di Dio». Le risposte andavano individuate non nelle pieghe della teologia, ma tramite i grandi apparati della sperimentazione. Oggi i responsabili del Cern (tra cui spiccano vari fisici italiani), darebbero sostanzialmente ragione all'audacia dell'ex ragazzo prodigio del Kings College di Londra: la tanto sospirata «osservazione» del bosone che porta il suo nome potrebbe aggiustare non pochi difetti della concezione corrente delle particelle elementari (il cosiddetto «Modello standard») e ci regalerà orizzonti conoscitivi «più ampi e sconfinati», per dirla con una delle locuzioni care al filosofo Karl Popper.
Repubblica 5.7.12
La scienza e la sapienza
di Vito Mancuso
A QUANTO pare Stephen Hawking ha perso la partita con Peter Higgs, visto che aveva scommesso sulla non esistenza della particella subatomica oggi mondialmente nota come “bosone di Higgs”. Ma il richiamarlo ora ha un altro motivo, cioè il fatto che il suo libro più noto, Dal Big Bang ai buchi neri (1988) si conclude così: “Se riusciremo a trovare la risposta a questa domanda decreteremo il trionfo definitivo della ragione umana: giacché allora conosceremmo la mente di Dio”.
Hawking ha affermato che è stata questa frase finale a fare del suo libro un bestseller mondiale, e non a caso la medesima trovata è presente in molti altri libri di divulgazione scientifica, tra cui Paul Davies, La mente di Dio (1992) ; Riccardo Chiaberge, La variabile Dio ( 2008) ; Margherita Hack Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo (2011) ; Edoardo Boncinelli, La scienza non ha bisogno di Dio (2012). La logica che ha condotto a denominare il bosone di Higgs “particella di Dio” è la medesima che muove l’industria editoriale.
Ma perché la connessione tra religione e argomenti scientifici risulta così efficace? Per due motivi a mio avviso. Il primo è la capacità pressoché immediata del termine “Dio” di far comprendere l’importanza della posta in gioco quando si tratta degli ambiti fondamentali della scienza come l’origine dell’universo, della materia e di quella particolare materia dotata di movimento e di intelligenza che è la vita. Parlando della particella responsabile della massa, o dell’unificazione delle quattro forze fondamentali, o dell’unificazione tra relatività e meccanica quantistica perseguita dalla teoria delle stringhe, si toccano territori primordiali, di rilievo non solo fisico ma anche filosofico per l’importanza sul senso complessivo del nostro essere qui. E il termine Dio con solo tre lettere ha questa capacità evocativa. Era esattamente per questo che, volendo far comprendere la razionalità ordinata dell’universo, Einstein ripeteva: “Dio non gioca a dadi”.
Il secondo motivo è il bisogno primordiale della nostra mente di conciliare scienza e sapienza. Noi avvertiamo infatti l’esigenza non solo di conoscere dati e ricevere informazioni, ma anche di valutare il loro significato per l’esistenza e per i criteri con cui pensiamo la giustizia, la bellezza,
il bene e il male. Le civiltà del passato erano in grado di conciliare scienza e sapienza, si pensi al titolo posto da Newton al suo capolavoro, Elementi matematici di filosofia naturale, che indica il fatto che per Newton essere scienziato ed essere filosofo (ed essere biblista vista la sua passione per la Sacra Scrittura) erano la medesima cosa. Oggi però tale conciliazione è infranta e il risultato è l’attuale separazione tra discipline scientifiche e umanistiche, simbolo di una più complessa lacerazione interiore. Per questo, quando si prefigura la possibilità di ritornare all’antica visione unitaria, la mente umana si fa attenta e partecipe, si tratti di un’invisibile particella subatomica o di libri ben in vista in vetrina.
La Stampa 5.7.12
Sulla violenza “giusta” è polemica tra femministe
La filosofa Luisa Muraro in un pamphlet ne sostiene le ragioni, ma contraddice così la storia del movimento
di Mariella Gramaglia
Fa discutere l’ultimo testo di Luisa Muraro, madre storica di quel filone del femminismo italiano che fa della differenza di cui le donne sono portatrici – una scommessa di libertà per tutti. La filosofa si cimenta in un pamphlet ( Dio è violent, Nottetempo, pp. 75, € 6) scoppiettante di inventiva, ma anche di azzardi teorici. Il suo è un corpo a corpo con due pilastri della filosofia politica: il concetto di contratto sociale e quello di violenza giusta.
Del contratto sociale Muraro sottolinea la convenzionalità. Si tratta di un racconto filosofico, non di un’assemblea di gentiluomini convenuti dal monte e dal piano. Le donne vi partecipano? Non lo «firmano» all’origine, ci ricorda Muraro, ma in una fase successiva sì: fino a che la fine dell’idea di progresso non ha dato un colpo mortale alla prospettiva di uguaglianza che permetteva di plasmare il contratto sociale, di allargarne le maglie, di includere. Da quel momento, scrive: «io non ci sto, non do più il mio credito alle autorità costituite, mi riprendo intera la disponibilità di me e della mia forza».
Di qui la scandalosa conseguenza: «l’agire efficace comporta una certa violenza. Quanta esattamente? - si chiede - Non lo so e non penso che ci sia una risposta generale a questa domanda». Tuttavia, almeno in un caso, Muraro lo sa benissimo: scrive che gli abitanti dell’Aquila avrebbero dovuto mandare a casa Silvio Berlusconi «a fischi e a sassate». Lo dovevano ai loro morti e a suo avviso hanno abdicato all’azione. Le donne aquilane del movimento Terre-mutate rivendicano ( Leggendaria, numero 94) la storia della loro «legittima ribellione», diversa dalla violenza giusta, nei confronti dei giochi di potere del dopo terremoto.
Ma quando è finita la stagione relativamente felice in cui il contratto sociale non era una gabbia che imprigiona? L’autrice colloca la fine delle responsabilità politica, e dunque della validità del contratto sociale, al tempo della violenza abnorme della Grande Guerra. Perché? Al contrario, è dopo di allora che i grandi della non-violenza – Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi - ci hanno impartito le loro migliori lezioni, sia di azioni politiche efficaci, sia della disciplina interiore che consente di portarle a termine. Hanno ridisegnato il mondo, hanno trasformato i paria in cittadini. E lo hanno fatto prendendo la democrazia alla lettera, sottraendo alla violenza le proprie energie e quelle altrui.
Tutto ciò richiede forza, non violenza. Ma Muraro a questa distinzione non ci sta. E aspira alla violenza quanto basta «per combattere senza odiare, per disfare senza distruggere». Purtroppo tutta la memorialistica dei grandi e dei piccoli violenti, da Mao ze dong al più oscuro dei brigatisti rossi, ci ha insegnato che ognuno crede di brandire la pistola avendo la tenerezza nel cuore e la brutalità della storia nella mente. Forse consapevole di questo, Muraro chiede l’alleanza di Dio, nominato fin dal titolo (e non invano) per dare, come «sole di giustizia», una dignità più alta alla infuocata passione della violenza «che non è interamente a disposizione degli umani».
Il testo fa discutere, dicevamo. Da opposte sponde due quotidiani apprezzano il libro in modo particolare. Il manifesto (per la firma di Ida Dominijanni) sottolinea la rottura rispetto a tutta la sinistra novecentesca che «ormai si è piegata all’idea che l’ordinamento democratico escluda la violenza». Il Foglio sembra compiacersi della cruda distanza di Muraro dal pensiero democratico e dell’aura teologica che la anima.
A noi invece, che alla democrazia siamo affezionati, e vorremmo vederla rinascere e rivivere di continuo, piace in particolare una frase: «siamo diventati umani grazie a un ordine simbolico materno, perché qualcuno ci aspettava, non per via del contratto sociale». Nulla di più vero – si deve essere umani prima di diventare cittadini - nulla di più lontano dalla violenza, nulla di più interessante per disegnare il futuro delle relazioni fra i viventi.
l’Unità 5.7.12
Ragionamenti
La fine dei capi carismatici
Il super leader e il rischio di populismo e antipolitica
Va distrutto il mito allucinatorio del carisma personale e va ricostruito un altro orizzonte immaginario fatto di partiti, associazioni e movimenti civici democratici
di Bruno Gravagnuolo
PICCONATO DALLE REPLICHE DELLA STORIA, IL FANTASMA RESISTE IMPAVIDO. E NON C’È MODO DI ESTIRPARLO. È IL FANTASMA DEL «CAPO CARISMATICO, e della doppia sindrome che lo accompagna: populismo e antipolitica. Come mai nonostante le rovine dei totalitarismi novecenteschi, sindrome e fantasma riemergono ancora? Di nuovo al centro c’è l’Europa. Nazionalismi, xenofobia periferici certo. Ma anche corposi fenomeni sia pur di minoranza in Francia, in Gran Bretagna, Mitteleuropa, Paesi slavi, Grecia, ma anche Olanda, Danimarca e altre realtà scandinave. Per non parlare dell’’Italia, che dopo il caso Dreyfus, è stato la culla vincente di populismo e carismatismo, al punto da far scuola col fascismo. Fino a rifar scuola col berlusconismo, forma di populismo light ma altresì rovinosa e protratta. Eppure, si dice, i partiti personali sono finiti, almeno in Italia, e Pdl e Lega docent, visto il vortice distruttivo in cui hanno trascinato se stessi, a furia di strappi, arbitri e familismi. Quei due partiti personali hanno dissolto politicamente il blocco sociale di cui pure erano portatori, consegnandolo all’astensione, o allo spettacolo corrosivo di Grillo (altro esempio di capo carismatico, radicalmente più comico del Cavaliere).
Ma ciò che più inquieta è questo: il fascino discreto del capo carismatico alligna anche nello schieramento progressista. Nel fondamentalismo delle primarie intese come atto fondativo del partito liquido e imperniato sul leader. Ovvero, Il partito personale programmatico, su cui Michele Prospero ha scritto cose incisive nel suo ultimo libro (Il partito politico, Carocci, 2012): traviamento della stessa lezione di Max Weber e che non esiste nemmeno negli Usa. E alligna quel fascino persino in un certo gradimento che anche a sinistra paiono avere presidenzialismo, premierato a elezione diretta e semi-presidenzialismo. Benché sia evidente che acclamazione e potere del leader codificato in Costituzione rappresentino una de-strutturazione tanto del partiti come corpi intermedi democratici, quanto uno spiantamento integrale della repubblica parlamentare. Ma allora perché il fantasma del carisma infuria ancora e così nel profondo? Perchè, visto che poi né gli Usa col loro presidente bilanciato e le loro primarie di partito, né l’Inghilterra, né tutti gli altri Paesi di lunga tradizione democratica compresa la Francia dell’anti-carismatico Hollande valgono come esempi realizzati di carisma e partito personale in politica? Il sospetto è che si tratti di una malattia latente della modernità, anche di quella tarda e globale.
Come è noto il capo carismatico è invenzione di Max Weber in Economia e società, anno 1922 (Comunità, 1961). Un’idea ricavata dal ruolo che Weber assegnava al ruolo del «sacro nella secolarizzazione: un’irruzione teologica e mistica, antitradizionale. Nel fuoco dell’inerte potere burocratico legale, paralizzato dai divieti incrociati, dal «politeismo dei valori e dalla gabbia della tecnica. Weber si ispirava ai doni spirituali elargiti agli apostoli (i carismi), alla grazia per dono. E distingueva il carisma trasmesso in continuità dall’istituzione ecclesiastica e ispirata al servizio paolino verso la comunità, dal nuovo carisma della «democrazia dei capi. Gladstone era il suo eroe liberale, che manteneva però un nesso con la macchina partitica, l’unica in grado di generare altri capi e di routinizzare il carisma. Dunque una specie di dialettica, di rotture e discontinuità, dove l’alone del capo riproduceva sempre l’antico statu nascendi dei movimenti carismatici nella storia, concentrandoli in una figura del destino, oggetto di agnizione emotiva da parte dei sottoposti. Si sa, il liberalismo europeo, da Weber a Croce e anche Einaudi, non disdegnava le maniere forti per domare il movimento operaio, benché fosse molto al di qua di certe torsioni autoritarie. Resta però delineato in embrione il nucleo di un ben preciso corto-circuito: la fusione masse e capi. Che travalica i partiti e le assemblee «discutidore. Spaccando classi e ceti, e riunificando gli individui atomizzati nella calamita immaginaria del decisore plebiscitato.
LE RIFLESSIONI DI GRAMSCI
Ne parla anche Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, teorizzando una sorta di modernità antimoderna: «una fase primitiva dei partiti di massa...che ha bisogno di un papa infallibile. E che torna in certe fasi di «crisi organica, quando lo scontro sociale non permette la vittoria di un gruppo su un altro, e la situazione immediata «diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate da uomini provvidenziali e carismatici ( e cfr. Q. 2, 75, e Q. 13, 23, ed. Gerratana, Einaudi, 1975). Inutile dire che per Gramsci il cesarismo è sempre primitivo ancorché possa essere «progressivo (Cesare, Napoleone). E resta inteso che per il pensatore del carcere un capo, anche carismatico, ha senso solo se aiuta la formazione di gruppi dirigenti e la nascita di altri capi.
All’interno di un modello in cui il vero capo è il partito come intellettuale collettivo, agente di liberazione democratica di soggetti e gruppi subalterni. Sta di fatto che Gramsci intende bene la patologia del fenomeno, frutto di un processo molecolare catastrofico e per lo più reazionario. Ma c’è un altro autore decisivo che capisce molto bene la sindrome: Sigmund Freud. Nel 1921, in Psicologia delle masse masse e analisi dell’Io ( Bollati Boringhieri, 1975), sostiene: «i seguaci mettono il capo al posto del proprio ideale dell’io. Che significa: identificazione eroica e immediata dei soggetti con la potenza del leader. Fine dell’io. Fine di ogni morale soggettiva e senso critico. E alienazione in una «Servitù volontaria, che fa regredire i singoli alle fasi più primitive maniacali e onnipotenti della formazione del sé. Il tiranno introiettato come nel celebre pamphlet cinquecentesco di Etienne La Boétie fa diventare tutti tiranni in sedicesimo. Con i benefici del sado-masochismo di massa e del gregarismo condiviso. Tutte cose su cui torneranno anche Adorno e Horckheimer.
Ma che c’entra tutto questo con la dimensione post-moderna o post-industriale? C’entra. Perché media, finanza e capitalismo globale non solo hanno distrutto le forme di coscienza collettiva e di conflitto incarnate in radici politiche. Colonizzando in senso edonista e narcisista la politica (anche a sinistra). Ma hanno condotto l’area Euro-americana sull’orlo dell’abisso, creando di nuovo i presupposti di quella che Gramsci definiva «crisi organica, con ciò che ne consegue: liquefazione dell’individuo e delle sue difese, odio per i partiti, invocazione di un capo e omogeneità populista. Ecco perché occorre ricominciare di qui. Dalla distruzione del mito allucinatorio del «carisma personale. E dalla ricostruzione di un altro orizzonte immaginario: partiti, associazioni e movimenti civici democratici. Ma soprattutto dai partiti di massa come espressione valoriale di interessi. Prima che la crisi organica ci consegni ad altri incantatori di serpenti. Tecnici, comici o aziendalisti che siano.
Corriere 5.7.12
L'imperativo di Platone è la ricerca della verità
Così confutava la retorica vuota dei sofisti
di Corrado Ocone
Quello fra Socrate e il giovane Fedro è uno dei più importanti dialoghi platonici, uno dei principali «luoghi» del pensiero occidentale. La questione ontologica (la natura dell'anima umana) è trattata insieme a quella logica (il corretto procedimento del pensiero) e a quella metodologica (valore e limite della scrittura rispetto all'oralità). È nel Fedro, in particolare, che, nel riprendere e sviluppare il discorso sull'anima iniziato nella Repubblica, Platone fa l'esempio famoso della biga alata, che vaga nei cieli e a volte si approssima al regno degli dei e delle idee (l'iperuranio) e altre volte se ne allontana. La biga è composta da un cavallo bianco, che rappresenta la parte irascibile o emotiva dell'anima, facilmente assoggettabile, e un cavallo nero, simbolo della parte concupiscibile o istintuale, indomito e sfrenato. È sul cavallo bianco che deve soprattutto lavorare l'auriga, simbolo della ragione che conduce la biga.
In effetti, mentre l'emotività serve a sostenere la ragione, a darle il tono e l'energia passionale che possono sorreggerla, l'istinto, lasciato libero a se stesso, rende gli uomini simili alle bestie. È proprio per aver voluto sopprimere l'istinto, per aver sottovalutato le «ragioni del corpo» allontanando dagli uomini gli elementi di «telluricità» che pur li costituiscono, che l'Occidente, secondo Nietzsche, il più strenuo avversario di Socrate/Platone, ha costruito se stesso come «malattia». Anche se per lui la soluzione non è affatto nella creazione di una nuova gerarchia, cioè nel lasciare andare a briglie sciolte il cavallo nero, bensì in un rapporto più dialettico fra le parti di luce e di tenebra che ci costituiscono. Una luce assoluta finisce per accecare, e quindi ci rende ciechi come se stessimo al buio. Che la praticabile soluzione sia proprio in un nuovo rapporto fra cosmos e caos, dove l'uno elemento non pretende di sopprimere l'altro, e non in una prospettiva di nichilismo assoluto, viene in evidenza anche riflettendo sulla logica platonica.
Nel Fedro Socrate introduce l'importante distinzione fra dialettica e retorica. Quest'ultima era appannaggio dei sofisti e degli oratori che pullulavano ad Atene nel periodo in cui fu scritto il dialogo (370-360 a.C.), primo fra tutti quel Lisia di cui il protagonista del dialogo riassume a Socrate le idee espresse in un entusiasmante discorso. Socrate dimostra al suo giovane allievo che una cosa è la ricerca della persuasione, un'altra quella della verità: compiacere e soggiogare gli animi, avere l'adesione della maggioranza delle persone, non è garanzia di un corretto procedimento nel ragionamento. Anche se per Platone, al contrario di Hegel, la dialettica è un metodo del pensiero e non della realtà, anche per lui essa procede per successive unificazioni e separazioni, per tesi che si confrontano con le antitesi, con un'attenzione costante alla complessità del reale. Essa aborre le semplificazioni ammantate di parole efficaci dei demagoghi, i quali, forti ieri come oggi, sono nichilisti assoluti. Non che si debba fare a meno delle arti retoriche, ma esse devono essere subordinate alla dialettica: devono essere nulla più che uno strumento utile per la trasmissione del vero.
In questo caso la risposta platonica, riformulata alla luce delle acquisizioni più recenti della filosofia, ha un'indubbia potenza. Circola infatti nella nostra cultura, anche e soprattutto in quella liberale, un malinteso elogio del relativismo. Tuttavia, se viene meno il criterio che ci fa distinguere il vero dal falso (così come il bene dal male o il bello dal brutto), checché se ne argomenti, la conclusione non può che essere il nulla. Da questa situazione si esce riaffermando che la verità esiste, sebbene non ferma e stabile nel mondo dell'iperuranio, come voleva Platone, bensì come attinente alle specifiche situazioni storiche. Al platonismo, detto altrimenti, fa difetto la storicità.
Molto interesse ha poi suscitato nel nostro secolo anche la critica platonica della scrittura, Essa, così come è posta nel Fedro, va vista soprattutto in funzione dell'affermazione di un rapporto interiore e non estrinseco con la verità. Se non sappiamo in che mani mai capiterà e da chi sarà letto uno scritto, il dialogo presuppone al contrario un rapporto paritetico con l'interlocutore, insieme al quale, con procedere dia-logico o dialettico, si è impegnati nella ricerca del vero. Il dialogo permette, come dice Platone in modo molto efficace, che i discorsi fatti siano «scritti nell'anima».
Corriere 5.7.12
Un sublime gioco filosofico
Una delle più importanti e belle opere di Platone, il Fedro, sarà in edicola domani nel trentasettesimo volume della collana dei «Classici del pensiero libero. Greci e latini», al costo di un euro più il prezzo del quotidiano (da ricordare che ora i volumi dell'opera sono disponibili anche su iPad, scaricando da Apple Store l'applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera»).
Nella nuova e inedita prefazione di Giovanni Reale, tra i più grandi studiosi di Platone a livello internazionale, si leggono le motivazioni per cui il celebre dialogo platonico va considerato fondamentale per lo studio della filosofia dell'autore.
Con una prima parte dedicata ad Eros e una seconda all'arte oratoria, il testo mostra come in Platone «sussista un nesso strutturale — spiega Reale — fra "Eros" e "logos dialettico", ossia fra Eros e filosofia».
Un gioco sublime tra forma e contenuto, in cui si va dalla discussione sulla natura delle anime, alla «tesi dirompente secondo cui l'oralità sarebbe superiore alla scrittura». (i.b.)
Corriere 5.7.12
Giovedì 5 Luglio, 2012
Vendetta e rimorso: il tormento di Oreste
Ma alla fine il matricida verrà prosciolto
di Paola Casella
«Quale di queste azioni si potrà definire giusta?», domanda il coro all'avvicinarsi della conclusione dell'Orestea, la trilogia di Eschilo che inizia con l'Agamennone, prosegue con le Coefore e si chiude con le Eumenidi. Se l'Agamennone narrava l'uccisione del re di Argo da parte della moglie Clitemnestra, che non gli perdonava di aver sacrificato la loro figlia Ifigenia per assicurarsi venti propizi, le Coefore raccontano il matricidio perpetrato dal figlio di Clitemnestra, Oreste, per vendicare il padre, e le Eumenidi seguono Oreste perseguitato dalle Erinni, «vergini maledette nate per il male», invocate dallo spettro della donna uccisa. Solo il processo finale, alla presenza di Apollo e Atena, proscioglierà il matricida e ristabilirà l'ordine.
L'Orestea racconta una catena di delitti che causa sofferenza non solo alle vittime, ma anche — e soprattutto — agli assassini. A ben guardare, però, è soprattutto la storia di come una serie di atti compiuti contro la legge e la natura siano sottoposti alla giustizia degli uomini, più ancora che degli dèi, poiché il processo ad Oreste è celebrato di fronte ai cittadini ateniesi. In questo senso la trilogia di Eschilo è un ammonimento per tutti i greci (e non solo), con una fortissima valenza di contenimento sociale.
Tuttavia, se Eschilo si fosse limitato alla paternale, l'opera non sarebbe così efficace. È nella forza emotiva dei dialoghi e nella dinamica perversa dei rapporti fra i personaggi che l'autore mostra le sue capacità drammaturgiche e che la trama diventa irresistibile, in modo quasi voyeuristico: il matricidio di Oreste è raccontato con un'immediatezza e un pathos coinvolgenti per il pubblico attraverso le parole di Clitemnestra: «Ahimè, è un serpente questo che io ho fatto nascere e nutrito», e di Oreste, che chiama la madre «vipera o murena», «lupa» e «cuore di cane», concludendo: «Ch'io non abbia in casa una simile sposa; senza figli gli dèi mi facciano prima morire».
«Fermati, figlio», grida Clitemnestra nella scena clou delle Coefore, scoprendo il petto. «Abbi ritegno di questo seno su cui tu spesso ti addormentavi succhiando con le gengive il latte che ben ti nutriva». «Mi hai messo al mondo e mi hai buttato alla sventura», ribatte lui, cacciato dalla casa del padre dall'usurpatore Egisto. Eschilo arriva a questa scena madre (è il caso di dirlo) dopo un'escalation di tensione, seminata drammaturgicamente attraverso molteplici equivoci ed inganni: Clitemnestra non riconosce suo figlio quando le si presenta alla porta travestito da straniero; Oreste fa uscire di casa Egisto per ucciderlo con uno stratagemma e poi si finge morto per attirare Clitemnestra nella trappola mortale. Quando finalmente la madre si trova indifesa di fronte al figlio a spada tratta, dice rassegnata: «Ahimè, ho capito il senso dell'enigma. Per inganno moriremo proprio come uccidemmo».
L'ordine da ristabilire, sottintende Eschilo, non è solo quello legale, ma anche quello sociale, che assegna ruoli ben precisi agli uomini e alle donne. Se con l'uxoricidio Clitemnestra nell'Agamennone vendicava le «colpe del padre» assassino della figlia e ricordava la sua sorte di moglie trascurata durante la guerra, Oreste nelle Coefore denuncia «le passioni sfrenate di donne dall'animo audace», come quella che ha portato la madre ad accoppiarsi con l'amante Egisto, e le intima di non criticare «la fatica dell'uomo che dà da mangiare a chi se ne sta in casa seduta». Persino Atena alla fine dirà: «Non farò prevalere la morte di una donna che ha ucciso lo sposo, custode della sua casa». A difesa di Clitemnestra, nelle Eumenidi, restano le Erinni, «vecchie fanciulle nate in un tempo remoto, alle quali non si congiunge mai nessuno degli dèi, né uomo né fiera», assetate di sangue perché «incitate dal sangue di una madre» e intente a dare la caccia a Oreste, «come cagne rabbiose».
È proprio il contrasto fra la ferocia animalesca di tutti i personaggi e la saggezza imparziale della giustizia a rendere «socialmente utile» la tragedia di Eschilo, e il terrore atavico suscitato dalle immagini dell'Orestea serve ad incutere nei cittadini il rispetto delle regole: «Accade che talvolta ciò che è pauroso sia un bene e debba restare, assiso, a vigilare sulle menti degli uomini», recita il coro nel finale delle Eumenidi. E aggiunge, a uomo avvisato: «Giova essere saggi per via di costrizione».
Corriere 5.7.12
La politica entra in scena
Dopo l'Agamennone già presentato in questa collana, esce sabato 7 luglio il volume che contiene le altre due tragedie dell'Orestea di Eschilo, cioè Coefore ed Eumenidi, con la prefazione inedita di Luciano Canfora. Proprio Canfora spiega come si possa trovare nelle due opere la traccia dell'attualità ateniese del 459/458 a.C. Ambientata molti anni dopo l'Agamennone, la tragedia Coefore mostra la vendetta di Oreste contro la madre e l'amante Egisto, rei dell'uccisione di Agamennone. Ma le Erinni perseguitano e rendono folle l'omicida.
Nelle Eumenidi l'azione si sposta ad Atene, dove la dea Atena istituisce un tribunale per i reati di sangue, l'Areopago. Dopo il processo a Oreste i giudici si dividono in parti uguali, ma a favore di Oreste vota la stessa Atena. Le Erinni sconfitte sono mutate in Eumenidi «benigne». È dunque una «inattesa variante ateniese della truce saga degli Atridi — illustra Canfora — per ribadire il compito istituzionale dell'Areopago». L'attualità civile e politica entra sulla scena e si fa teatro immortale. (i.b.)
Corriere 5.7.12
Passeggiando per la città ideale
In mostra a Urbino le utopie architettoniche del Rinascimento
di Marco Romano
Quando qualche giovane architetto, alla metà del Quattrocento, propose di ispirarsi agli antichi esempi romani, il successo non fu affatto immediato — come ci piace immaginare — dal momento che i costruttori tradizionali, seppure sine latino, tenevano saldamente il campo. Il nuovo stile fu per il momento confinato a temi particolari; e se a Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta affidò a Leon Battista Alberti il mausoleo di famiglia, ricostruì poi il suo castello nelle più smaglianti forme turrite proprio come Riccardo Gualino, il mecenate degli architetti moderni torinesi che, negli anni Venti del Novecento, realizzò in campagna uno spettacolare castello medievale.
Per conquistare il campo dei palazzi privati, Leon Battista Alberti — nella notissima tavola conservata a Urbino che Krautheimer gli attribuirà con buoni argomenti — dovette mostrare come sarebbe stata più bella e più ordinata, se circondata nella parte anteriore da palazzi tutti nel nuovo stile, la piazza di San Giovanni Valdarno.
A quei tempi Arnolfo di Cambio, cui era attribuito il piano di questa città nuova fondata dai fiorentini nei primi decenni del Trecento, veniva considerato il più autorevole progettista di città — tanto che ancora a metà del Cinquecento Cosimo I lo farà affrescare da Giorgio Vasari nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio nell'atto di consegnare ai maggiorenti il progetto del nuovo piano regolatore di Firenze — e dunque per Leon Battista Alberti la dimostrazione più clamorosa della nuova architettura era proprio il confronto con il proscenio della piazza di Arnolfo, lasciando poi, dietro al nuovo palazzo civico evocato come un pantheon circolare al posto dell'edificio quadrato di San Giovanni Valdarno, la piazza del mercato con la chiesa e le case popolari che intravediamo sullo sfondo, con le loro gronde sporgenti che sono caratteristiche delle città di ambito fiorentino, e che non erano degne — come sostiene nel suo trattato — di un vero architetto.
La meritoria mostra organizzata nella Galleria nazionale di Urbino (La città ideale, fino all'8 luglio, catalogo Electa) consente di vedere, una di fronte all'altra, la tavola di Urbino e quella conservata a Baltimora, anch'essa il ritratto di un ambiente urbano, qui un proscenio popolato di edifici antichi, dal Colosseo all'arco di Costantino, che, pur non essendo beninteso attribuibile a Leon Battista Alberti, rispecchia la sua proposta di considerare l'intero foro romano il tema di una veduta prospettica unitaria, avanzata in concreto rilevandolo con le coordinate polari da un unico punto di vista.
La mostra propone come città ideale anche la Sforzinda di Filarete, che ha invece propositi normativi. Alla fine del XIV secolo, quando l'ondata delle nuove fondazioni in Europa è ormai esaurita — di almeno settecento conosciamo le piante — il frate catalano Francisco Eiximenis raccomanda che, nel caso se ne dovessero fare di nuove, le si tracciassero quadrate con una piazza centrale e con due strade maggiori a croce per delimitare quattro quartieri tematizzati da una piazza con un convento, botteghe e mercato. Ma la dimensione della sua città è dell'ordine delle centinaia di metri mentre Sforzinda ha un diametro dell'ordine delle migliaia di metri. Così Filarete sovrappone due città quadrate, ruotate di 45°, per ottenere otto quartieri triangolari con le relative piazze: uno schema con qualche variante adottato poi a Palmanova.
Nel 1573 Filippo II darà istruzioni per tracciare le città del nuovo mondo, mentre suggerimenti dettagliati per progettare le sequenze delle strade e delle piazze fino ad allora conosciute verranno da Vincenzo Scamozzi, proprio quando, nel 1616, Maria de' Medici diffonderà, con l'esempio del Cours de la reine a Parigi, le passeggiate alberate, seguite in quel medesimo secolo dai boulevard, dalle piazze monumentali e dagli square a giardino, le cui regole compositive saranno il fondamento dei piani regolatori studiati un secolo fa, cui dobbiamo anche a Milano quella città bella e civile costruita fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando i pianificatori moderni vorranno, loro sì, realizzare una città ideale che, come aveva sospettato Karl Popper, saranno quei lager che sono i nuovi quartieri. Così, dalla mostra di Urbino rinasce la speranza che le nostre città tornino ad affidare il loro futuro a un mestiere che consisteva poi nel disporre le strade e le piazze tematizzate nelle sequenze consolidate da un'esperienza secolare.
Corriere 5.7.12
Augé, Cacciari e Severino nell'Emilia della ricostruzione
di Paolo Fallai
Probabilmente ci sarebbero andati comunque, ma a leggere l'elenco dei filosofi italiani e stranieri che parteciperanno al prossimo festival di Modena, Carpi e Sassuolo, viene il sospetto di una sfida. Si ha come la sensazione che personalità come Bauman, Augé, Searle, Sennett, Latouche, Sloterdijk, la cinese Anne Cheng, Cacciari, Galimberti, Reale, Severino o Scott Lash, abbiano voluto raddoppiare il loro impegno dopo il sisma che ha travolto l'Emilia. Uno schiaffo alla sfortuna che ha colpito questa terra, un riconoscimento al valore di una manifestazione che ha saputo portare oltre un milione di persone a riflettere, in piazza, sui temi della nostra vita. Appuntamento segnato in rosso quindi, dal 14 al 16 settembre con quasi 200 eventi fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Hanno parlato proprio di «segnale preciso», nella conferenza stampa che ha illustrato questa edizione dedicata alle «cose», i sindaci delle tre città, Remo Bodei e Tullio Gregory del comitato scientifico e Michelina Borsari che ne ha cura dall'esordio: obiettivo «ripartire dalla cultura, riportando le persone a stare insieme, a discutere e confrontarsi per riacquistare fiducia, senza dimenticare il volano economico del festival, adesso più necessario che mai». Aperto e intrigante il tema scelto: dalle «cose» si parte per riflettere sugli oggetti della nostra quotidianità, sul loro consumo, su quelli che diventano idoli o feticci, dalle passioni che suscitano al senso che assumono; basti pensare, come ha ricordato Remo Bodei, al bosone di Higgs. Notevole, come sempre, lo spazio di riflessione sui «classici», da Platone a Marx. Nei tre giorni del festival le tre città saranno invase da musica, mostre e teatro, chiamati a fare da corona alle «lectio». Si chiama «Terzo paradiso» l'installazione di Michelangelo Pistoletto che sarà esposta nella grande piazza di Carpi, una delle più colpite dal terremoto. Oltre 20 le mostre, da una grande retrospettiva del fotografo americano Edward Weston a un'esposizione dedicata alle figurine Panini, che compiono 50 anni. Ormai una tradizione i menù filosofici ideati da Tullio Gregory per i ristoranti delle tre città «per cogliere il gusto delle cose colte nella loro stabilità, nel loro giacere, seducenti, sulle nostre tavole».
Repubblica 5.7.12
Anticipiamo il testo su estetica e religione che il Nobel per la letteratura leggerà durante la Milanesiana
L’arte dell’imperfezione
Da Platone all’India, la metamorfosi del modello ideale
di V.S. Naipaul
Comincerò dai Greci. Nel mondo in cui nacquero Platone e i suoi compagni c’erano gli Dei. Ce n’erano molti, e la maggior parte di loro aveva poteri infiniti. Avevano forma umana e potevano dare sfogo a invidie umane, ma virtù e qualità degli uomini e delle donne erano stati portati fino all’estremo. Gli umani pieni di difetti che popolavano la terra erano stati traslati nell’Olimpo come esseri perfetti. Gli artisti dell’epoca di Platone e quelli del Rinascimento non lasciarono sul piano dell’astrazione le perfezioni di queste creature divine, ma si sforzarono di dare una forma visiva ai loro ideali. Quando guardiamo la Pietà di Michelangelo o la Cappella Sistina, guardiamo ai più alti esempi di questa ricerca volta a rendere visibile la perfezione. Gli artisti classici vedevano il mondo com’era, e tentavano di trasformare quel che era terreno e particolare nell’ideale perfetto. Ma l’arte non rimane mai ferma, e ben presto questa idea di perfezione avrebbe perso d’importanza.
Con l’ascesa delle religioni semitiche, le considerazioni di ordine morale prevalsero, e furono queste ad alterare l’idea classica di perfezione. La perfezione non ha a che fare con la mente o il corpo, ma con lo spirito, governato dalla legge morale. Anche la pittura religiosa cambia. Non cerca più di ritrarre la perfezione, ma racconta lo sforzo per raggiungerla. Ci siamo spostati dalla forma ideale, dalla qualità umana ideale, alla vita ideale. Coloro che raggiungono tale perfezione sono canonizzati come santi. Ce n’è di ogni forma e taglia: non devono essere necessariamente belli o muscolosi. È la loro vita esemplare a circonfonderli di un’aura di perfezione. La continuazione delle religioni semitiche nella forma dell’Islam sostituisce a questo l’imitazione della vita del Profeta in quanto uomo perfetto.
Se l’idea di perfezione si basa sulla fede, che cosa succede quando questa fede è indebolita o sconfitta da qualche altra corrente del pensiero? Si deve abbandonare l’idea di santità e del raggiungimento del Cielo, della vita eterna e perfetta, tramite il martirio. Dio è morto, come disse Nietzsche. Il progresso della scienza, intenta a osservare, misurare e sperimentare, è lontano dalla perfezione del Cristianesimo e dall’idea di sottomissione a Dio (che è la traduzione letterale della parola Islam).
Se lasciamo il Cristianesimo e l’Islam e guardiamo all’India, troviamo idee di perfezione differenti. Io sono cresciuto nella famiglia estesa di mia madre, una famiglia indù brahminica, in epoca coloniale. Le tradizioni e i testi epici facevano parte della vita. L’idea dell’India era sempre presente in casa. Nessuno pretendeva che l’India fosse un modello di perfezione, ma, dato che costituiva il passato della famiglia, era considerata alla stregua di un ideale. Il mio secondo libro di viaggi, Un’area di tenebra, è stato scritto dopo un soggiorno di scoperta nel paese. E ciò che avevo scoperto era ben lontano da qualsiasi ideale, ed estraneo a qualsiasi idea di perfezione. Solo in seguito, studiando i grandi testi epici le cui storie avevo sentito da bambino, il Mahabaratae il Ramayana, compresi come l’idea indiana di perfezione fosse lontanissima da quella classica delle “qualità ideali” o da quella cristiana di una “vita perfettamente morale”. Nell’epica indiana ci sono due idee chiave: il dharma e il karma. Sono concetti relativi al dovere, inseparabili dall’idea di moralità propria di quell’universo. Dharmaè l’essere chi sei. È legato al destino e al ruolo per cui sei nato, nella tua vita attuale. L’adempimento del tuo dharma definisce il valore delle azioni che compi, ossia il karma. E il karma determina la tua condizione alla successiva rinascita. Il paradiso del Mahabarata, lo svarga, è un luogo cui possono accedere coloro che hanno adempiuto al loro dharmae hanno accumulato un karma positivo, per condividere la vita degli Dei. L’idea dell’adempimento del dharma sostituisce l’idea di perfezione. Se si legge il grande poema epico dal punto di vista della perfezione e dell’imperfezione, si scopre che il discorso ha un risvolto filosofico molto profondo; troppo profondo per la maggior parte della gente. L’idea – che sta al cuore della Bhagavadgita– è che fondamentalmente non esiste né morte né vita. Si tratta solo di illusioni generate dalla coscienza. Pensiamo, e perciò pensiamo di esistere. Ne deriva un’etica che può essere difficile da afferrare per la mente occidentale. In ultima analisi esiste solo un unico oceano dell’essere, da cui siamo stati separati in frammenti pieni di vanità, e in cui tutti dobbiamo infine dissolverci. La perfezione, insomma, nel messaggio vedantico è dissoluzione nell’oceano dell’essere.
Uno dei rimpianti che ho è quello di non aver cercato, negli anni passati, di leggere e comprendere maggiormente la letteratura scientifica. Invecchiando mi ritrovo davanti
a scoperte incomprensibili che gravano su tutti noi. Non alludo ai gadget elettronici che lasciano sconcertato chiunque non appartenga alla generazione più giovane, e nemmeno alle indecifrabili istruzioni di cui al giorno d’oggi è provvisto qualunque aggeggio. Intendo le notizie e le ipotesi intorno ai neutrini. E poi il bosone di Higgs: che cos’è e che cosa ci dice riguardo alla natura dell’universo...
Pur privo delle minime basi, ho cominciato a leggere qualche libro divulgativo sulla fisica, e ultimamente sull’astronomia. Beninteso: la mia capacità di lettura in questi campi è deplorevolmente imperfetta. Ciò che tuttavia mi colpisce – e gli amici che di fisica e astronomia sanno qualcosa me lo confermano – è che più queste discipline si approfondiscono, più diventano imperfette.
Mi dicono che la descrizione newtoniana del mondo aveva in sé una sorta di perfezione conchiusa in se stessa. Poi, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, quel modello così elegante è stato messo in discussione e scartato.
Werner Heisenberg ha sviluppato quello che chiamava il Principio di indeterminazione, secondo cui non possiamo conoscere contemporaneamente la velocità e la posizione di una particella subatomica. L’imperfezione è connaturata alla percezione.
Adesso ci dicono che questo vale per tutti i fenomeni dell’universo. Richard Feynman, vincitore del Premio Nobel per la fisica, ha scritto un libro di sei “pezzi facili” sulla fisica moderna: ho provato a leggerli, ma, lo ammetto, non ce l’ho fatta. L’unica cosa che mi è rimasta di quella lettura è la raccomandazione di Feynman di non provare a concettualizzare ciò che la fisica moderna descrive. La mente umana, che può pensare solo in tre dimensioni, non riesce ad afferrarlo. Un’imperfezione connaturata?
Siamo tornati, allora, nel regno della Bhagavadgita, con la sua catena della coscienza? La cosa potrebbe suonare pressappoco così: «Penso, perciò scopro che non potrò mai scoprire la verità». Non c’è, dunque, via di uscita dalle dimensioni dell’imperfezione. Non solo è così nella vita, non solo è così in amore: adesso è così anche nella fisica.
© 2012, V. S. Naipaul. V. S. Naipaul’s work is published by Adelphi
Repubblica 5.7.12
Vince il popolo della Rete “Il diritto d’autore è censura Internet deve restare libera”
Il parlamento europeo boccia il trattato anti-contraffazione
NOTIZIA attesa, ma non per questo meno clamorosa. Il Parlamento Europeo boccia definitivamente l’Acta, acronimo di Anti-Counterfeiting Trade Agreement. È il trattato anticontraffazione dalle mire globali tanto voluto dalla Casa Bianca e riguardante, fra le altre cose, la circolazione di contenuti sul web. Con 478 voti, 156 astenuti e solo 39 contrari, l’Unione Europea ha deciso che quello strumento è inadeguato. Ma soprattutto ha dato ascolto al popolo della Rete che si era sollevato più volte dando vita a una petizione firmata da poco meno di tre milioni di persone. Un popolo che, come fa sapere una nota dell’ Europarlamento, ha operato una «pressione senza precedenti con manifestazioni in strada, mail e telefonate agli uffici dei deputati».
«L’Acta era la soluzione sbagliata per tutelare la proprietà intellettuale», spiega a caldo
Martin Schulz, che da gennaio scorso è presidente del Parlamento Europeo. Per altri invece, per chi su Internet vive e lavora, l’Acta era semplicemente una catastrofe. Un tentativo di distruggere la Rete libera e aperta così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. In particolare quella parte del trattato che attribuisce l’intera responsabilità per la circolazione di contenuti ritenuti illeciti a piattaforme come Facebook o YouTube. Assieme ai service provider che forniscono l’accesso alla Rete, avrebbero dovuto operare un controllo preventivo, dunque applicare filtri e censure. Si sarebbe in pratica pagato un prezzo molto alto in nome della difesa del diritto d’autore, sacrificando libertà fondamentali degli individui e frenando la crescita economica di uno di quei pochi settori che anche in Europa è in ascesa costante. O almeno è questa la tesi dell’EuroIspa, l’associazione di settore che raggruppa più di mille e ottocento fra colossi delle telecomunicazioni e della Rete fra i quali anche Google Italia. L’accordo firmato a Tokyo il 26 gennaio, ma ancora non ratificato, da una quarantina di stati fra i quali Stati Uniti, Australia, Canada, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Singapore e Corea del Sud, era appoggiato dalla Commissione Europea guidata da José Manuel Barroso. In particolare da alcuni suoi membri, come il commissario al Commercio Internazionale, il belga Karel De Gucht. Il quale intende ora aspettare il giudizio della corte di giustizia europea sulla compatibilità di Acta con il diritto comunitario. Affermazione singolare, fanno notare alcuni, dato che il Parlamento Europeo ha respinto il trattato e quindi non si pongono problemi di compatibilità di alcun tipo. Finisce qui quindi, almeno in Europa, un percorso cominciato cinque anni fa. Una lunga trattativa internazionale voluta da associazioni come la Riaa, la Recording Industry Association of America, che dal 2009 aveva iniziato a sostenere che l’unica strada possibile per arginare la pirateria era chiamare in causa chi fornisce l’accesso al web e chi offre gli strumenti per condividere i contenuti. Ma già nel 2010, quando erano diventati di dominio pubblico i dettagli del trattato, l’Acta aveva sollevato parecchie perplessità e portato ad alcuni attacchi a siti istituzionali da parte del network di hacker Anonymous. Ora, volendo davvero regolare il mondo di Internet, bisognerà ripartire da capo. E, soprattutto, da presupposti completamente diversi.
«Mi è bastato incontrare Marco Bellocchio per capire il livello con cui si sarebbe occupato di questo tema di confine»
il Fatto 5.7.12
“Eluana è sempre il sorriso della vita”
Mia figlia diceva: “Libertà di vivere, non condanna a vivere”
di Elisabetta Reguitti
Il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, ha deciso di garantire alla Film Commission i fondi per finanziare le produzioni dell’anno in corso. Nell’elenco figura anche la pellicola di Marco Bellocchio ispirata alla vicenda di Eluana Englaro. Ripristinati i 330mila euro ed evitato quindi il peggio - anche dal punto di vista politico - verso gli elettori e l’opinione pubblica del Fvg, la regione che aveva garantito alla famiglia Englaro ciò che era stato negato in Lombardia. Ovvero, l’accesso alle strutture sanitarie. L’altra sera, quindi, dopo una lunga giornata di trattativa è arrivata la soluzione alla bega: un accordo tra Pd e Pdl che, attraverso un emendamento, permetterà di onorare gli impegni della Film Commission fino a fine anno; poi la chiusura.
Patuzza, provincia di Udine - al confine con l’Austria -, il paese in cui sono nati gli Englaro e dove dal 9 febbraio 2009 è sepolta Eluana. Beppino, abituato a guardare sempre oltre non si smentisce anche su questa vicenda.
Che idea si è fatto?
Che si sarebbe potuto evitare tutto. Che con ieri si è chiusa una discussione, evitabilissima, iniziata lo scorso dicembre. Mi astengo da ogni altro commento ricordando però come a fine dicembre 2008 il governatore Renzo Tondo, durante una sua visita privata a Eluana, affermò di non essere come Formigoni.
Cosa intendeva?
Che istituzionalmente le sentenze dei massimi organi giurisdizionali, in uno stato di diritto, vanno sempre applicate. Non a caso il Tar della Lombardia ci ha dato ragione proprio rispetto alla posizione assunta dal presidente Formigoni.
Il disegno di legge sul “fine vita” è fermo in Senato.
È un testo definito palesemente anticostituzionale dai massimi esperti della materia. Bene farebbero a cancellarlo perché imporre per legge che una persona sia obbligata ad accettare di essere alimentata e idratata in modo artificiale è qualcosa di assurdo. La politica su questo argomento è passata dal male al peggio.
Quindi il clima non è cambiato?
Certamente non dal punto di vista politico ma, al contrario, nell’opinione pubblica. Sempre più persone capiscono che non possono rimanere scoperte in caso di incapacità di intendere e di volere. Sotto il grande cielo delle norme, tra l’altro, dal 2006 è stata introdotta anche la figura dell’amministratore di sostegno. Nonostante questo, però, non mancano i tentativi di strumentalizzazione di una certa classe politica che dimostra tutta la sua limitatezza.
E l’impegno dei Comuni?
È relativo, nel senso che è la persona che si deve tutelare scrivendo le proprie volontà. Lo ripeto: la gente è più avanti della politica. Quello che manca piuttosto è un’informazione onesta e corretta. Come diceva Pulitzer: “Un’opinione pubblica informata è la nostra Corte suprema”.
Lei centellina dichiarazioni e interviste. Non si è mai lasciato tirare per la giacchetta da nessuno, eppure riesce a fare paura. Perché?
Io paura? Si sbaglia... (ride ndr). Fanno paura le due sentenze inappellabili che hanno messo la parole fine alla nostra vicenda.
Due?
Sì, due. La prima è quella della corte di Cassazione del 16 ottobre 2007. La sentenza guida che segna la storia e che molti politici farebbero bene a rileggere anziché fare finta che non sia mai stata scritta. È un testo in cui i magistrati restituiscono dignità alla persona e alla sua libertà di scelta, così come vorrebbe la Costituzione. L’altra sentenza è quella delle persone che incontro ogni giorno e mi ringraziano. Sacerdoti compresi. L’ultima volta è accaduto in un incontro a Pesaro.
Ha visto il film di Bellocchio che ha provocato il terremoto in Fvg?
Assolutamente no. Vede, Eluana per noi è sempre il sorriso della vita. Mi è bastato incontrare Marco Bellocchio per capire il livello con cui si sarebbe occupato di questo tema di confine.
Lei usa spesso il termine confine.
La storia di Eluana è una situazione di confine tra la vita e la morte che una certa medicina crea alle persone. La politica, su temi come la nostra vicenda, non ha capito di aver oltrepassato il confine di tolleranza delle persone che non sopportano più di sentire usare certi argomenti come slogan elettorale. Infine io sarò sempre grato al Fvg, proprio terra di confine, per avermi garantito il rispetto dei diritti fondamentali di mia figlia che mi ha sempre detto: “Libertà di vivere, non condanna a vivere”.
il manifesto 5.7.12
Quella macchina rodata della critica
di Toni Negri
Una spregiudicata e
avvincente lettura di Karl Marx in un volume dei filosofi francesi
Pierre Dardot e Christian Laval (Gallimard) che invita a fare i conti
con il fallimento del socialismo reale e pone il problema di una
rinnovata pratica dell'emancipazione. Da oggi a Londra l'annuale
kermesse internazionale dedicata all'autore de «Il capitale»
Quali sono i nodi più rilevanti di questo poderoso libro di Pierre
Dardot e Christian Laval (Marx, Prénom: Karl, Gallimard, pp. 832, euro
34,90)? È necessario chiederselo perché (essendo appunto troppo
voluminoso - 800 pagine - da poter esser letto...segue nell'edizione cartacea nelle edicole