l’Unità 3.7.12
I sindacati preparano lo sciopero generale
Manifestazione ieri a Napoli per il lavoro
Muro sui tagli alla spesa: quinta manovra contro i pubblici
di Massimo Franchi
Dal sole e dalla folla di Napoli al freddo e al rigore di Palazzo Chigi. I sindacati ieri hanno fatto il pieno nella manifestazione per denunciare la crisi in Campania con 30mila persone in corteo da piazza Mancini a piazza Matteotti, con striscioni e bandiere di tutte le sigle sindacali. Un manifesto listato a lutto con la scritta «Qui si è spenta la cara esistenza del Lavoratore», insieme alla bara con un lavoratore dentro l'emblema della manifestazione, dallo slogan “Lavoro, equità, legalità”. Dal palco, a parte qualche isolata contestazione, con una voce sola è arrivato un ultimatum compatto al governo. Come ha esplicitato in mattinata il leader Cisl Raffaele Bonanni, il messaggio è: «Se si faranno tagli tanto per farli, si faranno solo più guai. A quel punto, faremo iniziative in tutta Italia: faremo quello che serve, se occorrerà uno sciopero generale lo faremo, ma ci sono mille modi per protestare». Per la Cgil a sostituire Susanna Camusso, ancora convalescente ma oggi presente a palazzo Chigi, c’era il segretario confederale Vincenzo Scudiere: «Basta con una politica fatta di soli tagli e di cieco rigorismo, il governo deve invertire la rotta e puntare sullo sviluppo e sulla crescita altrimenti si troverà sempre i sindacati contro», puntando il dito contro «tutti coloro che pensano di isolare il Mezzogiorno per far ripartire il Paese». Con la disoccupazione al 28 per cento, la Regione si trova in una situazione molto peggiore rispetto al resto d’Italia, per il leader Luigi Angeletti «o questa politica cambia nella direzione che diciamo noi o continueremo a manifestare fino a cambiare questo governo», mentre per il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella «il governo non può fare finta di niente e dare risposte ai lavoratori di Irisbus, Fincantieri, Firema».
OGGI UNITI SU SPENDING REVIEW
Questa mattina alle 9 invece Cgil, Cisl, Uil e Ugl varcheranno il portone di Palazzo Chigi per incontrare il governo. Visti i precedenti, le aspettative dei sindacati sono molto basse. Come per la manovra SalvaItalia, come per la riforma delle pensioni, come per gli “esodati” e in gran parte per la riforma del lavoro, il governo si limiterà ad anticipare a Bonanni, Camusso, Angeletti e Centrella le decisioni già prese, senza alcuna trattativa. Proprio per questo ai sindacati Monti e gli altri ministri dedicheranno due sole ore, avendo già previsto per le 11 il seguente incontro con i rappresentanti di Comuni e Regioni. Ma la risposta dei convocati sarà la stessa. Gli scorsi 3 e 10 maggio infatti i sindacati degli statali e gli enti locali sottoscrissero con il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi un accordo proprio sugli statali. E su quello faranno leva sindacati ed enti locali, chiedendo al governo di rispettarlo e aspettandosi dallo stesso ministro una sponda importante. Quell’accordo infatti non arrivò mai in Consiglio dei ministri proprio perché andava a cozzare con la scure che Monti, Bondi e Giavazzi stavano preparando alla categoria. Il fatto che Patroni Griffi (come i suoi colleghi Balduzzi e Cancellieri) stia subendo la “spending review” porta i sindacati a chiamarlo in causa con qualche concreta speranza di trovare in lui una sponda importante.
L’altro punto fermo per tutti i sindacati è la contestazione totale dello stesso termine “spending review”. Per Cgil-Cisl-Uil e Ugl infatti quella che il governo propone per il settore statate e per la sanità non è una revisione di spesa, nemmeno una qualificazione della spesa. Si tratta, spiegano all’unisono, di «tagli lineari, di riduzioni di spesa belle e buone, tanto che sono espresse con percentuali, allo stesso modo dei tagli di Tremonti».
Tra i più criticati nella compagine ministeriale c’è certamente il viceministro Vittorio Grilli. Il suo affondo sul fatto che ogni amministrazione debba prendere a modello quanto fatto al ministrero dell’Economia viene rispedita al mittente, facendo notare come i tagli attuati in via XX settembre sulle dotazioni organiche dei dirigenti di ruolo, paradossalmente però rendono possibili le assunzioni (in via di definizione) di altri dirigenti per chiamata nominale. In questo modo, secondo i sindacati, si mettono in mobilità lavoratori e si assume altro personale.
Il taglio lineare del 5 per cento sui lavoratori, dato da tutti abbastanza per scontato, poi avrebbe effetti nefasti soprattutto negli enti pubblici non economici: Inail e (super) Inps soprattutto. Se la norma Brunetta che prevede la messa in mobilità di dipendenti statali per «motivi finanziari» non era ancora stata utilizzata, la stessa norma prevede il taglio sulle dotazioni di organico, senza tener conto del blocco del turn over già effettuato da anni nel settore. Ma la stessa norma non vale per gli enti pubblici non economici, cosa che mette a rischio un numero altissimo di lavoratori, a partire dai 700 già considerati esuberi all’Inps.
Sugli statali, specie la Cgil, fa poi notare come la spending review sarà la «quinta manovra contro il pubblico impiego», considerando le tante fatte dal governo Berlusconi. Un modo per sottolineare come a pagare saranno, ancora una volta, i soliti noti.
La Stampa 3.7.12
Intervista
“Il rigore non basta, sì alla patrimoniale”
Susanna Camusso (Cgil): “I lavoratori hanno già dato, adesso paghino altri Serve un piano nazionale di rilancio, altrimenti non si va da nessuna parte”
di Roberto Giovannini
ROMA I lavoratori hanno già pagato abbastanza. Al governo, nell’incontro sulla spending review, diremo che bisogna cercare risorse altrove. I lavoratori pubblici hanno dato, e molto, molto di più dei dirigenti. Il conto va fatto pagare a qualcun altro. Adesso la vera priorità è creare lavoro». Parla Susanna Camusso, leader della Cgil. Segretario, partiamo dal dato Istat sulla disoccupazione giovanile: il 36,2%, mentre quella complessiva sembra aver frenato.
«Il tasso di disoccupazione questo mese si è stabilizzato, ma poco cambia: è un dato drammatico. E soprattutto emerge che per i giovani non ci sono opportunità di impiego, con situazioni ancora più difficili nel Mezzogiorno. Per questo diciamo che si deve ripartire da un piano del lavoro mirato sui giovani, senza il quale il paese non uscirà da questa crisi».
Un piano del lavoro va finanziato, però.
«Noi stiamo lavorando a una proposta organica di sviluppo e di crescita. Certo servono risorse, ma non si può insistere sulla impossibile logica del rigore e del solo controllo del debito. Così si amplifica la recessione ed evidentemente bisogna cambiare politica. Come? Con una vera redistribuzione fiscale attraverso una patrimoniale, che non è una bestemmia; non riducendo il perimetro dello Stato, ma valorizzando beni (non le aziende pubbliche e le municipalizzate) alienabili; mettendo in moto investimenti in grandi imprese; guardando verso il futuro con le reti digitali, l’innovazione, la chimica verde».
Le recenti decisioni del vertice Ue di Bruxelles aiutano ?
«Sono il segno di un cambiamento, la presa d’atto che ci vuole un’Europa politica in grado di contrastare la speculazione. Ovviamente bisogna vedere cosa succederà all’Ecofin del 9 luglio. Queste decisioni sono merito della riacquisita credibilità dell’Italia, ma soprattutto della vittoria di Hollande in Francia. Sono strumenti utili, anche se incompleti, visto che ancora non si è aperto agli eurobond. E c’è un problema tutto italiano: le politiche di rigore non bastano. Bisogna far emergere risorse sommerse, c’è una distribuzione del reddito iniqua che deprime i consumi e riduce la produzione. Se una parte fondamentale del paese, quella che vive di lavoro e pensioni, non ce la fa, il paese non ha speranza di crescita».
E ora arriva la spending review. Avete già lanciato l’altolà.
«La spending review in sé è utile; l’altolà è per le ricette che abbiamo sentito annunciare, che ci sembrano solo una somma di tagli lineari. Bisogna riformare la pubblica amministrazione, eliminare i doppioni? Siamo d’accordo. Bisogna intervenire sugli organici? Cominciamo a tagliare le consulenze, che valgono 1,5 miliardi, e non i ticket restaurant, che ne valgono 10 milioni. Ci sono grandi divari nelle retribuzioni? Paghiamo gli stipendi oltre una certa soglia in titoli pubblici. Eliminiamo le 3000 società che servono solo alla politica. Invece, si vuol ripetere l’errore della riforma delle pensioni: si taglia sui lavoratori pubblici per fare immediatamente cassa, generando altra iniquità e recessione».
Siete contrari alla mobilità in pensione dei pubblici dipendenti?
«Se serve solo per ottenere un certo risparmio - magari per poi sostituire i lavoratori con consulenti - se si vuole eliminare il personale degli appalti creando altra disoccupazione e incertezza, sarebbe incomprensibile. Avevamo fatto un accordo con il ministro Patroni Griffi, che apriva la strada a un confronto vero anche sulle piante organiche: che fine ha fatto? »
Si parla di deroghe alla riforma previdenziale, dunque.
«Vogliono creare altre divisioni tra pubblico e privato, e all’interno dei dipendenti pubblici, favorendo i dirigenti? La riforma previdenziale così com’è non regge, pian piano se ne accorge anche il governo. Non facciamo nuovi errori e nuove ingiustizie, non creiamo privilegiati e penalizzati con deroghe grandi e piccole. Qualcuno ha detto: “torniamo alle quote previdenziali”. Potrebbe essere un’idea interessante».
Ma i risparmi della spending review servono per evitare gli aumenti dell’Iva…
«Si dà per scontato che l’unico modo per fare cassa in Italia è prendersela con la massa del lavoro dipendente. E ogni volta, guardando alla distribuzione del reddito, si vede che c’è qualcun’altro che si arricchisce. Venti anni fa l’Irpef aveva aliquote dal 10 al 72%, adesso dal 23 al 43%».
E dal confronto con il governo cosa vi aspettate?
«Che si apra una discussione. Che si possano fare proposte di riforma della pubblica amministrazione. Che si lasci fuori istruzione e sanità. Che si mettano da parte i tagli lineari, sia pure con altro nome. Non nascondo il timore che il governo voglia ancora comunicarci decisioni già prese, e decisioni sbagliate. Se così fosse non potremmo che decidere come reagire».
Corriere 3.7.12
Disoccupazione giovanile, mai così alta
I senza lavoro nella fascia 15-24 anni salgono al 36,2%In leggero calo il dato generale: 10,1%
di Melania Di Giacomo
ROMA — Il numero degli occupati rimane stabile, il tasso di disoccupazione segna una lievissima flessione statistica pure restando sopra il 10%, ma tra i dati che l'Istat ha diffuso ieri il fenomeno che più allarma è il lavoro dei giovani sempre più in caduta libera. La soglia di uno su tre in cerca di occupazione è da tempo superata e a maggio — rileva l'Istituto — il tasso di disoccupazione tra quelli che hanno tra i 15 e i 24 anni e sono usciti dal circuito scolastico galoppa al 36,2% (dato provvisorio), in aumento di quasi un punto percentuale rispetto ad aprile: il tasso più alto mai rilevato.
Nel resto della popolazione l'occupazione, si diceva, è sostanzialmente stabile: rispetto a maggio dello scorso anno gli occupati sono cresciuti dello 0,4%, e anche il tasso di disoccupazione che in un anno è aumentato di quasi due punti, sfondando ad aprile la soglia record dal 2004 (da quando cioè l'Istat lo misura su base mensile), si tiene stabile al 10,1% (con una flessione di 0,1 punti). Il che vuol dire quasi 2,6 milioni di disoccupati. Con queste cifre è una magra consolazione che secondo i dati stiamo un po' meglio che altrove. Nell'area euro la disoccupazione continua ad aumentare. Sono 17 milioni 561 mila i senza lavoro, e il tasso di disoccupazione a maggio ha raggiunto l'11,1%, un nuovo massimo storico. Le differenze dell'area valutaria, dove la Germania pesa con un 5,6%, la Spagna con il 24,6%, e la Grecia con 21,9%, manco a dirlo sono enormi e in espansione. Mentre in media per i giovani va un po' meglio nel resto d'Europa: il tasso di disoccupazione under 25 è del 22,7%. Con una classifica negativa ancora capeggiata da Spagna e Grecia (oltre il 50%).
Oltre il 36% di disoccupazione giovanile «non è accettabile», per il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, secondo la quale questo tema è fra quelli affrontati con la riforma appena diventata legge, che «si propone di rendere il mercato del lavoro inclusivo e dinamico». «Bisogna mettere in campo — ha aggiunto il ministro — tutte le energie disponibili». Di diverso parere il Pd, con Massimo D'Alema che dice: «Il dato giovanile è veramente allarmante. Un'intera generazione rischia di essere spinta ai margini del lavoro», e sollecita quindi il governo Monti «a fare anche più di quello che sta facendo». Stesso allarme dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che chiede crescita e sviluppo perché solo così «ritroveremo occupazione». La Cgil insiste su «un cambio urgente della rotta per quanto riguarda le scelte di politica economica». L'occupazione è un problema di «stringente attualità» anche per la Chiesa, per questo Benedetto XVI invita a pregare affinché «tutti possano avere un lavoro e svolgerlo in condizioni di stabilità e di sicurezza».
l’Unità 3.7.12
Bersani: non voglio rifare il vecchio centrosinistra
Il leader Pd: «Non ripetiamo gli errori del passato, l’alleanza deve essere di governo»
Sul premier: «È una risorsa, non va arruolato nella coalizione»
di Simone Collini
Bersani dice che vuole un centrosinistra diverso da «quello di una volta» e che non vuole «arruolare» Monti. Due precisazioni, una per rispondere a chi (Di Pietro in primis) grida all’«inciucio» con Casini e una per porre un freno a chi (dentro e fuori il suo partito) parla di un presidente del Consiglio connotato politicamente.
La discussione sulle alleanze non è argomento che il leader Pd vuole tenere in primo piano, almeno quanto non voglia parlare adesso di primarie: «Abbiamo detto che le faremo, non che si aprono adesso, perché altrimenti saremmo da ricovero, chiamerebbero il 118». Adesso per Bersani si deve discutere dei «problemi dell’Italia» ed è partendo da qui che deve aprirsi anche il confronto sull’alleanza che si candida a governare nella prossima legislatura. Per questo liquida con poche battute chi lo avvicina al teatro Goldoni di Livorno, dove si svolge una conferenza programmatica del partito, mostrandogli le ultime dichiarazioni di Di Pietro sulle «alleanze innaturali» a cui starebbe lavorando il Pd: «Io non sto facendo inciuci con nessuno, io voglio partire da un centrosinistra, ma non da un centrosinistra di una volta, voglio partire da un centrosinistra di governo, dove non esistono teorie a scavalco, o di proprietà transitive per cui se ci sta uno deve starci anche l’altro finché si arriva a Grillo. No, perché c’è da governarlo questo Paese».
NO A OGNI TENDENZA POPULISTA
Bersani sta lavorando a una prima bozza della «carta di intenti» che dovrà servire da base programmatica e valoriale del nuovo centrosinistra. Si tratta di un testo breve, nella forma di decalogo, che poi verrà integrato dopo una serie di incontri con personalità del mondo della cultura, del lavoro, dell’associazionismo, e che dopo l’estate verrà ulteriormente elaborato insieme alle altre forze che intendono far parte dell’alleanza progressista. Ci sarà il no a ogni «tendenza populista», oltre al rispetto di un vincolo di maggioranza in Parlamento, e se un dialogo con Vendola è ritenuto possibile, con Di Pietro il rapporto è sempre più complicato.
Non ci sono solo gli attacchi al Quirinale e allo stesso Pd a non andar giù ai Democratici («noi mai abbiamo avuto una parola men che rispettosa e abbiamo preso insulti tutti i giorni si è sfogato Bersani pensiamo di metterci insieme a gente che ci insulta? Non esiste»), o il continuo flirtare con Grillo. C’è anche il veto messo dal leader Idv nei confronti di Casini «carnefice del centrosinistra» (come ha detto nell’intervista a Left), in questo differenziandosi anche da Vendola, che pur chiedendo un confronto programmatico proprio come Di Pietro dice di non avere «pregiudiziali verso un allargamento».
Per Bersani la prossima legislatura dovrà ancora fare i conti con i tanti problemi dell’Italia ed avviare una fase costituente, e questo potrà essere possibile soltanto se a guidare i processi sarà un’alleanza «di tutte quelle forze democratiche, moderate, costituzionali ed europeiste che possono dare una mano a sconfiggere il populismo e le derive di destra che si stanno muovendo in Europa». L’appello è a Vendola, a Di Pietro («dicano se anche per loro questo è il punto o no perché da qui non si prescinde», manda a dire il segretario Pd) e a Casini.
Con il leader dell’Udc il dialogo continua. E il fatto che dopo il successo del vertice di Bruxelles Casini si sia detto pronto a lavorare insieme a un governo guidato tanto da Monti quanto da Bersani («è il segretario del più grande partito italiano», ha sottolineato facendo anche capire che il «patto» progressisti-moderati è legato a una vittoria del leader Pd alle primarie di centrosinistra), è una importante novità di cui tener conto.
Il Pdl, ormai rassegnato all’impossibilità di un’alleanza con i centristi, ha reagito soprattutto all’ipotesi di una candidatura di Monti, nel 2013, alla guida dell’asse progressisti-moderati. Anche l’intervista a l’Unità di Enrico Letta, che ha parlato della necessità di una «forte continuità di programma e di uomini» tra questo e il prossimo governo, ha fatto scattare l’altolà nel Pdl, con Crosetto che accusa Pd e Udc di provocare elezioni anticipate e Gasparri che evoca i rischi insisti nel dare «connotazioni politiche» a questo esecutivo.
Bersani, oltre a far capire che la continuità con questo governo non sarà totale dal punto di vista programmatico («Vogliamo un’Imu più bassa e affiancata da un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari, se non si farà ora si farà quando saremo al governo», e poi checché ne dica il governo «gli esodati per noi sono 270-280 mila e su questo non molliamo») mette anche un freno al tentativo di tirare per la giacca Monti. Un po’ per non rischiare di indebolirlo, un po’ perché il successo del premier a Bruxelles dipende da più fattori, non ultimo perché adesso a guidare la Francia c’è Hollande. «Che sia una risorsa lo vedrebbe anche un bambino, ma Monti non voglio arruolarlo», risponde a chi lo avvicina a Livorno. E poi: «Come mai si è riusciti a fare un patto al vertice Ue? Perché Monti ha giocato bene le sue carte, ma anche perché non c’era Sarkozy».
La Stampa 3.7.12
Pensando al voto, le strategie dei partiti
Bersani: “È superato il vecchio centrosinistra”
Il segretario Pd: non possono entrarci tutti, serve una coalizione di governo
di amedeo La Mattina
ROMA Bersani non vuole impiccarsi sulla questione della alleanze e nemmeno stabilire quanto del governo Monti, in termini di uomini e programma, ci sarà in un futuro esecutivo di centrosinistra. Per il segretario del Pd sono problemi posti in maniera sbagliata. La discriminante sarà la «lettera di intenti» che i Democratici scriveranno nei prossimi mesi per stabilire i punti programmatici e il metodo per stare insieme nella futura coalizione che si presenterà alle elezioni del 2013. Sarà chiaro chi sta e chi si mette fuori da solo. «Dirò cosa faremmo e cosa faremo. Non sto facendo inciuci con nessuno. Io - spiega Bersani voglio partire da un centrosinistra ma non quello di una volta: voglio partire da un centrosinistra di governo, dove non esistono teorie a scavalco o di proprietà transitiva per cui se ci sta uno deve starci anche l’altro, finché si arriva a Grillo. No, perché c’è da governarlo questo Paese». Detto questo, ha aggiunto, «c’è una grandissima disponibilità nostra a discutere, sapendo che partendo da lì noi dobbiamo rivolgerci a tutte quelle forze democratiche, costituzionali, europeiste, che possono dare una mano a sconfiggere il populismo e la deriva di destra che si sta muovendo in Europa».
Per certi versi è uno stop alle affermazioni del suo stesso vicesegretario, Enrico Letta, che in un’intervista all’Unità ha detto che il prossimo governo dovrà essere «in forte continuità programmatica e anche di uomini» con quello attuale. Affermazioni che hanno fatto dire al Pdl che il Pd sta creando di tirare Monti dalla sua parte. Non è così, ha precisato Bersani. «Monti non voglio arruolarlo, ma che è una risorsa lo vedrebbe anche un bambino. Semmai chiediamoci come mai sia riuscito a fare un passo al vertice di Bruxelles. Monti ha giocato bene le sue carte anche perché non c’era Sarkozy ma il socialista Holland».
Vendola non vuole spezzare il rapporto con Di Pietro, chiede una forte discontinuità con le misure del governo e non intende fare la ruota di scorta in un’alleanza con Casini. Ma presto dovrà misurarsi con la «lettera di intenti» che Bersani metterà sul tavolo: non sarà di pura continuità con l’azione dell’attuale esecutivo visto che già in diverse occasioni è stato detto cosa Bersani avrebbe fatto di diverso. «E se c’è un partito che tiene in piedi questo esecutivo - dicono gli uomini del segretario - è proprio il nostro mentre il Pdl un giorno lo sostiene un altro vorrebbe buttarlo a terra». Il Popolo della libertà invece accusa i Democratici di voler dare una connotazione politica al governo, commettendo un grave errore perché così lo indebolisce. Gasparri: «A Monti serve l’appoggio di tutti. Affrontiamo il calendario dell’emergenza senza connotazioni politiche». Crosetto non ha capito quale sia la strategia di Casini e Letta. «Tutti e due dicono: bene Monti, continuiamo così. Poi, il prossimo anno, con te, i tuoi ministri ed il tuo programma ci candideremo a governare il futuro contro quei beceri personaggi del centrodestra. Mi pare un serio programma. Meno serio è richiamare ogni giorno il Pdl alle sue responsabilità di sostegno acritico. Avrebbero dovuto avere almeno il buon gusto di attendere gennaio o febbraio». Osvaldo Napoli nota una contraddizione tra Bersani che una volta al governo metterebbe un’imposta sui patrimoni, e Monti che si è rifiutato di metterla perché avrebbe provocato una fuga di capitali all’estero: «Eppure Bersani non vede nessuna incompatibilità di Monti ».
I Democratici si rifiutano di entrare in questo vortice di critiche. «È meglio pensare alle cose da fare adesso, alla spending riview, alla soluzione da dare agli esodati e anche alla legge elettorale e alla Rai. Berlusconi e Alfano si decidano cosa vogliono fare, altrimenti si assumeranno la responsabilità di andare ad elezioni con l’attuale sistema di voto, cioè il Porcellum». E poi, se oggi in commissione Vigilanza Rai non si presenteranno, ancora una volta, non consentendo di rinnovare il Cda, Bersani ne chiederà il commissariamento.
Repubblica 3.7.12
Alle primarie la sorpresa
Boeri “Voglio essere la terza via tra conservatori e liberisti”
Stefano Boeri, assessore alla Cultura e candidato sindaco sconfitto da Pisapia alle primarie di Milano, giovedì lancia una serata per «capire come si possa fare di più con di meno». E annuncia la sua disponibilità a candidarsi alle primarie del Pd: «Il mio partito non può restare schiacciato tra il conservatorismo di Bersani e il liberismo di Renzi»
Lei ha già chiesto un congresso straordinario del Pd a Milano, e per giovedì ha promosso un’iniziativa pubblica all’Umanitaria. Perché?
«Ci sarà la parte più dinamica di Milano, professionisti, ricercatori, cittadini consapevoli che questa crisi non è un tunnel da cui prima o poi, come sostiene Monti, si uscirà per tornare a com’eravamo prima. Non è vero: con questa crisi abbiamo cambiato sostanzialmente il paesaggio e le condizioni della nostra vita. Il compito della settima potenza economica mondiale è utilizzare risorse più scarse, ma in modo migliore».
«Non è certo questo il senso della serata, ma credo sia importante
rappresentare una terza via nel nome dell’innovazione e dei vecchi schemi. E mi auguro che
«Com’è dimostrato, io le primarie le so perdere, altrimenti non avrei accettato di fare l’assessore. Un vantaggio competitivo a cui tengo moltissimo. E poi basta con le culture del Novecento».
«Nessuno dei due rappresenta il mondo dinamico e produttivo che si muove non solo nelle grandi città, ma nei distretti industriali, insomma quelli che sostengono l’export e producono pil. Sarebbe un peccato che le primarie si riducessero a un duello tra Bersani e Renzi. Bisogna trovare un’altra strada. Anche per valorizzare la partecipazione con strumenti nuovi».
«A Milano i circoli del Pd discutono di cose che sono già state decise dalla giunta, pre-masticate da altri. Bisogna rompere questo meccanismo. E poi dobbiamo intenderci sul significato delle primarie ».
«Vanno benissimo, ma non se si esauriscono nella scelta delle alleanze. Il retropensiero è: le or-
ganizziamo per fare un favore a Vendola, ma in questo modo escludiamo l’intesa con Casini. Così non funziona, ci sono frotte di elettori sconcertati».
Il retropensiero vale anche per la Lombardia? Sabato scorso a Milano Bersani ha detto che per le regionali bisogna vedere se ci sono le condizioni di fare le primarie...
«Il segretario lombardo Martina le ha confermate. Il rischio è che in nome dell’urgenza, se Formigoni cadesse in tempi rapidi, si sostenga che è meglio affidarsi a meccanismi di selezione tutti interni al vecchio sistema. Magari per compiacere un alleato».
Lei si candiderà a quelle nazionali, lascerà la poltrona di assessore?
«Alla Cultura sto lavorando benissimo, e mi piace. Ma non voglio restare indifferente all’enorme disagio che si sente in giro. Ci vuole un cambio di marcia, bisogna utilizzare tutte le energie vere del Pd. Energie che al momento si trovano al di fuori dei meccanismi decisionali del partito».
Nel centrosinistra c’è un vuoto da colmare, bisogna rappresentare il mondo dinamico e produttivo
l’Unità 3.7.12
Le alleanze si fanno sulle scelte che ci attendono oggi
di Francesco Cundari
Dopo avere dichiarato a mezzo stampa che nessuna alleanza era possibile con Casini, «carnefice del centrosinistra», Di Pietro ha invitato ieri Bersani a discutere di programmi, per evitare esclusioni pregiudiziali a mezzo stampa.
In attesa che tra i principi fondamentali della nuova coalizione di centrosinistra sia dato il posto che merita al principio di non-contraddizione, è inutile illudersi che la polemica contro eventuali esclusioni pregiudiziali nei propri confronti, da parte dell’Italia dei valori, comporti l’abbandono delle sue pregiudiziali nei confronti degli altri.
D’altra parte, lo stesso Antonio Di Pietro che esorta il Pd a confrontarsi con lui sul programma, fino a ieri diceva di volersi alleare con Beppe Grillo, uno che nel suo programma propone di risolvere il problema del debito pubblico semplicemente non ripagandolo e di affrontare la crisi dell’eurozona tornando alla lira. Per non parlare della sua posizione sull’evasione fiscale, assai comprensiva verso gli evasori, o sulla cittadinanza ai figli degli immigrati, fermamente contraria. Posizioni che potrebbero giustificare semmai un’alleanza con la Lega, non certo con il centrosinistra. Eppure, all’indomani delle elezioni amministrative, a chi gli domandava se volesse allearsi con Grillo, Di Pietro rispondeva: «È come se mi chiedessero se voglio sposare Claudia Schiffer. Chi non vorrebbe? Ma bisogna sentire la controparte».
C’è da augurarsi che si sentano presto, e decidano una buona volta se sono fatti l’uno per l’altro. Nel frattempo, il Partito democratico e tutte le forze responsabili di centrosinistra hanno altro a cui pensare: dalla tutela di quelle centinaia di migliaia di lavoratori che la riforma Fornero ha lasciato inopinatamente senza lavoro e senza pensione al merito della cosiddetta «spending review». Ma soprattutto hanno da pensare all’esito ultimo della partita cominciata al vertice di Bruxelles sulle misure da adottare per evitare non solo la crisi dell’euro, ma anche, tra le altre cosucce, la bancarotta del nostro Paese.
Immaginare che il Pd possa disinteressarsi di tutto questo per chiudersi in una stanza a discettare di programmi e riforme future con chi dichiara di non condividere nessuna
delle sue scelte di oggi è semplicemente fuori dalla realtà. Il problema non è con chi il Pd vuole o non vuole allearsi alle prossime elezioni, per la semplice ragione che il Pd, in questi giorni drammatici e decisivi per l’Italia e per l’Europa, non si trova relegato all’opposizione, impossibilitato a esercitare alcuna influenza sull’azione del governo. E pertanto non può limitarsi a raccontare agli elettori che cosa vorrebbe fare domani, se ne ottenesse il voto. Il Pd, come parte di questa difficile maggioranza, deve assumersi oggi, su ciascuna delle questioni sul tappeto, la responsabilità di un compromesso o di una rottura.
La stessa discussione sul dopo-Monti e sull’eredità del suo governo, da questo punto di vista, è astratta, incomprensibile e preconcetta. Tanto i suoi sostenitori più entusiasti quanto i suoi critici più accaniti dovrebbero riconoscere che il giudizio sull’operato dell’esecutivo non può prescindere dall’esito delle difficili partite in corso, a cominciare dalla delicatissima vicenda degli esodati.
Questo è il motivo, etico prima ancora che politico, per cui chi oggi ha la responsabilità di tenere in piedi questo governo non può limitarsi a dire cosa vorrebbe fare domani. Non può dire ai lavoratori in ansia per la pensione, o ai risparmiatori angosciati dalla tempesta sui mercati, che di questi problemi si occuperà dopo. Deve dire ogni giorno cosa intende fare, e comportarsi di conseguenza in Parlamento, approvando o bocciando i provvedimenti del governo, e in ultima istanza confermando o ritirando la fiducia all’esecutivo. Una responsabilità cui non può più sottrarsi nessuna delle forze che vogliano far parte della futura alleanza di governo, siano oggi o meno presenti in Parlamento.
l’Unità 3.7.12
Il mondo e una domanda di sinistra
di Alfredo Reichlin
SUI RISULTATI DEL VERTICE DI BRUXELLES È STATO DETTO TUTTO. LE MISURE PRESE SONO IMPORTANTI MA NON VANNO SOPRAVVALUTATE. Eppure è forte la sensazione che siamo arrivati a un punto di svolta. Emerge una consapevolezza nuova che l’insieme della costruzione europea è in gioco e che bisogna affrontare la sfida che sta dietro l’inaudita potenza delle forze che manovrano i cosiddetti mercati finanziari. Non c’è nessun complotto di un “grande vecchio”. Ed è vero che la speculazione c’è sempre stata.
Ma non si era mai visto che un fondo di investimento americano potesse mettere in gioco risorse paragonabili al Pil di una media potenza come l’Italia. Si ammetterà che questo apre una qualche riflessione non solo sull’economia ma sulla politica e direi anche sulla storia delle nazioni. Ecco perché la zona euro non regge se l’Europa non si dà un nuovo potere politico unitario. Qui sta il merito di Monti. Ha puntato i piedi sul fatto che non siamo di fronte a normali fenomeni speculativi per controllare i quali basta mettere in ordine la finanza pubblica. Non ha elemosinato aiuti. Ha detto la verità. L’aggressione all’Italia fa saltare l’euro. Quindi è l’Europa che è in gioco.
Ma cos’è l’Europa? L’Europa non è solo una regione del mondo come altre. È potenzialmente la più grande concentrazione, non solo di ricchezza, ma di sapere e di creatività umana. Se la sorte dell’Europa cambia (nel bene come nel male) cambia la direzione in cui va il mondo. Forse è tempo che la sinistra si renda conto un po’ meglio di quale sia la novità della vicenda politica e sociale in cui siamo immersi. E cominci a capire perché si è aperto un problema nuovo di alleanze: l’esigenza di organizzare un centro sinistra anche a livello europeo.
La crisi non è congiunturale. Si è rotto l’ordine mondiale ed è per questa ragione che siamo nel pieno di una guerra di dimensione mondiale, sia pure monetaria. Il che significa che si sta decidendo come redistribuire la ricchezza e quindi chi deve impoverirsi e a vantaggio di chi. La questione sociale ha ormai questa dimensione, e c’è poco da scherzare. Se continua a governare questa meschina destra europea è chiaro che le classi dirigenti italiane sono disposte a tutto: non potendo svalutare la moneta svalutano il lavoro: bassi salari, precarietà, disoccupazione, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Dunque, è questo il terreno sul quale il Pd cerca di ridefinire il proprio profilo politico e ideale, come partito della nazione italiana ma parte integrante di una nuova costellazione di centro-sinistra europea. Si tratta vorrei farlo notare a Vendola del terreno decisivo anche dello scontro sociale. È qui che si gioca il posto del lavoro nel mondo. E voglio aggiungere che ciò che ci spinge lungo questa strada è l’acuta consapevolezza che il cammino che sta di fronte a noi è lungo, ed è molto arduo.
La domanda quindi da porsi è come sia possibile avviare un processo di costruzione politica dell’Europa senza mettere in campo un movimento di forze reali. Le quali siano l’espressione di quel mondo del lavoro, del pensiero intellettuale e dell’impegno civile, della sete di nuove scoperte, insomma della libertà e dei diritti uguali che ha una storia di secoli e che sta sotto la pelle dell’Europa. La politica è questo, non è solo manovra dall’alto e conquista di cariche pubbliche. Certo, il compito che sta di fronte al Pd è molto difficile. Stare in mezzo alla gente che soffre, che è offesa da un mondo di ingiustizie vergognose, che ha paura del futuro, che sente che la miseria si può affacciare alle loro porte. E spiegare a questa gente che bisogna lottare in forme tali che i loro sacrifici servano agli interessi dell’Italia. Il tutto mentre da destra e da sinistra, e da quasi tutti i video televisivi si gioca allo sfascio e al populismo.
Mi rendo conto che questo articolo non ha la concretezza degli economisti. Ma io continuo a pensare che quando si chiedono così pesanti sacrifici bisogna spiegare anche altre cose: che non stiamo pestando l’acqua nel mortaio ma stiamo cercando di occupare un terreno più avanzato di lotta, che stiamo dicendo qual è la posta in gioco e quindi il perché del contro chi, del con chi, e del come. Stiamo attenti a non sbagliare. Il cuore del conflitto non è più solo l’antagonismo tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Pesa sui produttori delle merci e sui beni pubblici l’onere di stringere la cinta per garantire i guadagni astronomici, gli sprechi e i lussi della rendita finanziaria, per di più esentata dal pagare le tasse.
Sta, quindi, avvenendo qualcosa che colpisce le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile. Il fatto enorme è questo. Stiamo assistendo non solo ai fallimenti dell’economia finanziaria ma a un problema di “legittimità” di certi grandi poteri. Dove va il mondo se l’individuo lasciato solo non può fare appello a quelle straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall’intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane?
Ecco perché si rinnova anche in un vecchio come me una domanda di “sinistra”. Nel senso che fermare il predominio globale del capitale finanziario è possibile solo alla condizione che l’individuo rompa il suo isolamento e si muova in modo creativo insieme agli altri individui. Questa è l’arma. L’enorme domanda di senso e dello stare insieme che esiste nella nuova umanità che si sta formando. In Italia come in Egitto e in Brasile. Non a caso è riemerso il tema dei “beni comuni”. Del resto, come diceva un vecchio intellettuale europeo tedesco ed ebreo, Carlo Marx: «Che cos’è la ricchezza se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato?».
l’Unità 3.7.12
Il Papa ridisegna la sua squadra
Sulla dottrina veglierà Mueller
di Roberto Monteforte
Torna un teologo tedesco alla guida del dicastero più importante della curia romana, la Congregazione per la Dottrina della Fede. Ieri, dopo circa un anno dalla loro presentazione, papa Benedetto XVI ha accettato le dimissioni del suo diretto successore alla guida dell’ex Sant’Ufficio, il cardinale statunitense William Levada. Al suo posto il Papa ha nominato monsignor Gerhard Ludwig Mueller, il vescovo di Ratisbona, la città dove lo stesso Ratzinger ha insegnato sino al 1977 teologia dogmatica.
Mueller è nato a Mainz-Finthen nel 1947 ed ha studiato filosofia e teologia a Mainz, Monaco e Friburgo. Ha ottenuto il dottorato nel 1977 con Karl Lehman, poi presidente della conferenza episcopale tedesca e capofila dei progressisti cattolici tedeschi. La tesi dottorale era dedicata al teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Mueller è stato ordinato sacerdote nel 1978 ed ha poi conquistato la libera docenza a Friburgo nel 1985 sempre sotto la supervisione di Lehmanm, iniziando a insegnare a soli 38 anni l'anno successivo all'università di Monaco e in altri atenei di tutti i continenti. Ha anche cofirmato con uno dei «padri» della teologia della liberazione, Gustavo Gutierrez, il saggio Dal lato dei poveri. La teologia della liberazione. Ma non lo si può considerare un progressista, anche se ha fatto esperienza diretta sul campo della vita della Chiesa con i poveri dell’America Latina, abitando per qualche tempo con i contadini di una parrocchia nelle vicinanze del lago Titicaca, al confine con la Bolivia. È stato membro della commissione per la Dottrina della fede dei vescovi tedeschi e della Commissione teologia internazionale. Si è occupato in particolare di nuova evangelizzazione ed ecumenismo, promuovendo l'apostolato dei laici e progetti umanitari per i Paesi in via di sviluppo. Il motto episcopale scelto quando nominato da Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di ratisbona nel 2002, è stato«Dominus Jesus», lo stesso titolo della discussa «istruzione» sul primato del cristianesimo a firma dell’allora prefetto dell’ex sant’Uffizio, cardinale Ratzinger.
Monsignor Mueller può essere considerato un ratzingeriano di ferro. Ha curato l’«opera omnia» di Ratzinger. Ma può vantare anche una robusta formazione teologica e una significativa esperienza pastorale. Pare avere le carte in regola per affrontare i difficili dossier che sono sul tavolo di questo pontificato e del suo dicastero: nuova evangelizzazione, ecumenismo, la difficile ricucitura con i tradizionalisti lefebvriani, la pedofilia nella Chiesa. È al prefetto della Congregazione della Fede, infatti, che fa riferimento la commissione «Ecclesia Dei» che ha proprio il compito di trattare con i seguaci della Fraternità san Pio X. Un nodo delicato che il Papa vorrebbe scogliere alla vigilia della celebrazione del 50 ̊ del Concilio Vaticano II e dell’Anno della fede.
Quella di Mueller è indubiamente una nomina importante, che delinea la nuova squadra di Ratzinger. La scorsa settimane il Papa ha chiamato in curia monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e guida spirituale della Comunità di sant’Egidio affidandogli il pontificio Consiglio per la Famiglia. Ieri è stato confermato per altri cinque anni l'arcivescovo Claudio Maria Celli alla guida del Pontifico Consiglio per le comunicazioni sociali. Che Benedetto XVI sia saldamente alla guida della Chiesa lo conferma anche l’altra decisione assunta ieri dal pontefice. Ha rimosso dal suo incarico l'arcivescovo di Trnava, in Slovacchia, il redentorista monsignor Ròbert Bezàk, pare per illeciti finanziari. La pulizia nella Chiesa resta la parola d’ordine di papa Ratzinger. Come pure l’esigenza di assicurare una efficace governance alla Curia romana. La sala stampa vaticana ha dato notizia degli incontri avuti nei giorni scorsi dal Papa con porporati autorevoli. Se sotto accusa è l’azione del segretario di Stato, cardinale Bertone recentemente riconfermato da Benedetto XVI, pare improbabile una sua sostituzione a breve, sulla scia delle polemiche.
l’Unità 3.7.12
La rivoluzione democratica delle donne tunisine
di Emilia De Biasi
LA NOTIZIA L’HA DATA IL MINISTRO DEGLI ESTERI: c’è l’impegno dell’Italia a seguire con attenzione la vicenda di Narges Mohammadi, assegnataria del premio internazionale Alexander Langer 2009, portavoce del Centro dei difensori dei diritti umani in Iran, collaboratrice del premio Nobel Shirin Ebadi. La signora Mohammadi sta scontando una condanna a sei anni di carcere. Fino a poco fa era custodita in una cella della sua città, ora è stata trasferita lontana da casa e dai figli piccoli. La sua unica colpa è aver militato a favore dei diritti umani nel suo Paese.
La scena di questa buona comunicazione è stata la consegna del Premio Langer 2012 all’Associazione delle donne democratiche tunisine, avvenuta l’altro giorno alla Camera dei deputati. Dunque qualcosa si muove. Ed è straordinario che tutto ciò passi anche dal lavoro incessante della società civile, in una collaborazione rara e virtuosa con la politica.
Un metodo che sarebbe piaciuto ad Alexander Langer, secondo il quale «In politica raramente si parla di qualcosa di vero, cioè di vissuto e realmente fatto proprio. Il reale incrocio tra esperienze, più che tra posizioni è un momento creativo». E ancora «... le scorciatoie sloganiste aiutano a contarsi, non a cambiare persone e circostanze. I patti reciproci aiutano a fare i conti gli uni con gli altri, visto che alla fine nessun altruismo regge alla prova del tempo e dell’usura. Non gridare non vuol dire rinunciare a spiegare e diffondere scelte solidali, serve per convincere, invece che mettere solo a verbale».
Non so se le donne tunisine abbiano urlato, ma certamente il loro lavoro non è servito solo per un verbale. La loro incessante lotta negli anni, dalla rivendicazione dei diritti delle donne come diritti umani fino alla consapevolezza, agita e non solo enunciata, per cui l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne è il fondamento di una società democratica, ci parla della rivoluzione dei gelsomini, in un misto di storia e modernità, ci dice dell’importanza della diffusione del messaggio di democratizzazione attraverso gli strumenti più moderni, la rete.
Ciò che è accaduto è nelle coscienze degli uomini e delle donne tunisine, di quella primavera araba, carica di contraddizioni e di incertezze sul futuro dell’area, ma che trova in Tunisia un ancoraggio sicuro, grazie all’azione delle donne e tra loro, in prima fila, dell’Associazione delle donne democratiche. A queste sorelle va la nostra gratitudine perché ci hanno scosso dal torpore dell’inevitabile, hanno superato ostacoli indicibili, non si sono mai rassegnate all’indifferenza della dimensione privata.
Protagoniste di una rivoluzione voluta, non importata, hanno scelto negli anni il processo di democratizzazione come filo conduttore. Una rivoluzione nella rivoluzione, partita dalla lotta contro la violenza alle donne e contro gli abusi sessuali, concretizzata da un centro di ascolto e di sostegno, dalla battaglia contro le discriminazioni nel diritto di successione, che penalizzava il mondo femminile, dalla specifica dimensione della povertà, penso alla rivolta del pane. È una grande vittoria, quella della penalizzazione delle molestie sessuali nelle scuole e nei luoghi di lavoro, che oggi è reato nel codice penale tunisino. Insomma poche chiacchiere e molti fatti, fino all’affermazione della questione della cittadinanza femminile e della separazione tra vita civile e religiosa, l’ultimo approdo teorico oltre che pratico, la sfida tutta aperta della convivenza tra islam e modernità, per dirla con il cardinale Scola.
Democrazia, pluralismo, libertà di associazione e di espressione, autonomia delle donne, cultura e dimensione civile: sono tratti dell’universalità dei diritti umani in ogni area del mondo. E sono esempi che valgono per tutti. Langer, in uno dei suoi ultimi scritti, afferma: «In passato ho forse imparato più dai libri. Nei tempi più recenti mi sembra di imparare più dagli incontri che mi capita di fare». Il futuro passa dalla libertà e dalla dignità femminile, dal destino comune visto in diretta e dalla speranza di realizzazione di un Mediterraneo che si riconosce nei valori della democrazia e dell’autodeterminazione, delle culture che affratellano e non dividono
Repubblica 3.7.12
Messico
Le illusioni perdute della sinistra
di Paco Ignacio Taibo II
«IO VOTO per il PRI» mi ha detto il tassista. Mi sono chiesto se buttarmi dalla macchina in corsa senza pagarlo, con il rischio di rompermi il collo, per cominciare a educarlo su cosa sarebbe una città governata da quelli del Pri o sfoderare le mie migliori prove contro il ritorno dei compagni di Ali Babà. I suoi argomenti avevano una deprimente solidità. Ma dopo un tragitto di 38 minuti, grazie al traffico infernale di Città del Messico, sono riuscito a ottenere un pareggio. Non è ancora nato il tassista che mi batta in testardaggine o nel gusto di discutere. Ho usato tutte le storie che conosco sullo stato priista, sul suo modo di fare, sul suo stile, sulle sue mani lunghe che arrivano in tutti i cassetti e in tutti gli affari torbidi contro la Nazione.
Anni fa cercai di raccontare come la nostra generazione, la generazione del ’68 e i suoi eredi (la ribellione operaia, la resistenza dei cittadini, il movimento popolare, la riorganizzazione sociale di fronte al terremoto), fece un patto con il diavolo. Non fu un cattivo patto. Per tirar fuori il Pri da Los Pinos [la residenza ufficiale del presidente del Messico] mettemmo nell’armadio Ho Chi Minh, la rivoluzione socialista, Flores Magón, Durruti e i Consigli Operai, il programma di transizione e il plusvalore. Non era un cattivo patto per una nazione stremata da 40 anni di aggressioni contro i cittadini da parte del potere: saccheggi, doppia morale, repressioni e abusi, uccisioni di contadini ed errori economici che distruggevano in una settimana un terzo della classe media, e fabbricavano milionari e poveri alla stessa velocità.
Tuttavia, non leggemmo mai le clausole scritte in piccolo di quel contratto. Non avevamo molta esperienza nel fare patti con il diavolo e non ci venne in mente di leggere quello che in fondo al documento era scritto nascostamente con un carattere minuscolo: si manderà via il Pri, ma verrà il Pan, e poi: nel cacciare i ladri dal Palazzo, molti di voi diventeranno come loro.
Adesso ci si propone di rifare quel patto e il diavolo dice: Purché il Pri non torni al potere nel Distretto Federale di Città del Messico, qualsiasi candidato è buono. Pensare alla competizione elettorale senza tener conto delle grida nazionali di non ne possiamo più, mai più sangue, no alla gestione neoliberista dell’economia, no alla repressione delle attività nella rete, no alla repressione contro maestri ed elettricisti, no ai torbidi maneggi che denazionalizzano Pemex, no alla criminalizzazione della protesta sociale, no ai mille modi della corruzione che sono il cancro nazionale che colpisce il Messico, è un tradimento del passato e del senso della sinistra.
Rigirare la frittata significa dare un contenuto allo scontro elettorale, riempire la campagna elettorale di informazioni, di educazione, non mettere semplicemente dei volti sui manifesti affissi nelle strade. Com’è possibile che nelle migliaia di spettacolari manifesti, nei cartelli elettorali del Prd, non ci sia una sola allusione alla necessità che finisca la guerra calderonista? Solo faccine sorridenti con la cravatta gialla.
La giustificatissima delusione rispetto ai partiti elettorali della sinistra moderata ha fatto presa su molti, molti più di quanto non si pensi, non solo tra giovani radicali, ma anche nell’alto e ampio strato della classe media colta che alla fine degli anni ’80 fu una parte fondamentale della periferia del Prd e gli diede la vittoria nelle due elezioni dei brogli. Ma il voto nullo, la scheda bianca, l’astensione, è una rivolta? No, è piuttosto un gesto morale, e con tutto il rispetto che ho per i gesti morali, si diluirà in termini significativi nell’abituale e crescente astensione.
La scheda bianca non castiga il PRI e quel fantoccio di Peña Nieto, bensì lo favorisce. La scheda bianca è stata espressa nell’ambiente della sinistra, in settori critici del sistema, pensanti. Non avrebbe avuto più senso il voto critico? Qualcosa come: Non voto per nessun candidato di sinistra che non faccia sua la proposta di una legge di amnistia per le centinaia di contadini ecologisti in prigione. Non voto per nessun candidato di sinistra che non firmi un progetto per fermare la guerra. Non voto per nessun candidato di sinistra che non riconosca l’urgenza di democratizzare l’istruzione e non promuova un’educazione gratuita, laica e popolare.
Che contributo dare? Un’idea chiara che la città deve virare verso sinistra aggiungendo nuove proposte ai progressi ottenuti nel Distretto Federale, soprattutto nella politica sociale e nei diritti delle minoranze che devono essere mantenuti (trasporto economico, sostegno alle madri nubili, matrimoni gay e adozione, borse di studio per studenti delle scuole medie superiori, sostegni economici alla terza età, mense popolari, nuove scuole per l’accesso all’università).
Ci sono solo un paio di modi in cui questa città, che nella base maggioritaria è chiaramente di sinistra, pronta a protestare, liberale, progressista e fantastica si perda, ed è che la sinistra non faccia la sinistra.
(traduzione di Luis E. Moriones)
Repubblica 3.7.12
Israele
Hebron, due soldati prendono a calci un bimbo palestinese
TEL AVIV — Polemiche in Israele per un video che mostra due agenti della Guardia di frontiera a Hebron (Cisgiordania) strattonare un bimbo palestinese di 9 anni. Un soldato lo trascina, il secondo gli dà un calcio sulla schiena.
Corriere 3.7.12
Un fantasma si aggira per l'Europa: la nuova primavera di Karl Marx
Oltre la tragedia del comunismo reale, la riscoperta del grande filosofo
di Umberto Curi
Qualche tempo fa, la rete radiofonica della Bbc, Radio 4, nella rubrica «In our time» aveva promosso un'iniziativa davvero singolare. Si chiedeva agli ascoltatori di indicare «il più grande filosofo della storia», fra una lista di 20 autori. L'esito finale del sondaggio, proseguito per alcune settimane con una risonanza crescente e con alcuni significativi riflessi nei grandi media, appare per molti aspetti sorprendente. In questa insolita classifica, infatti, è risultato largamente vincitore Karl Marx (con quasi il 30% dei voti), seguito a notevole distanza da Hume (12,67%), Wittgenstein (6,80%), Nietzsche (6,49%), Platone (5,65%) e Kant (5,61%). Nelle ultime posizioni, Epicuro, Hobbes e Heidegger, votati con percentuali pressoché irrilevanti. A ridosso dei primi, anche se irrimediabilmente tagliati fuori dalla «zona podio», san Tommaso e Socrate, seguiti da Aristotele e da Popper, i quali raggranellano rispettivamente il 4,52% e il 4,20%. Ma prima di esprimere qualche valutazione in margine a una iniziativa per molti versi stravagante, può essere istruttivo, oltre che talora anche divertente, andare a spulciare nel repertorio delle risposte fornite, oltre che delle motivazioni che accompagnano le diverse nomination.
Trascurando le indicazioni più scontate, riguardanti pensatori comunque noti e più volte votati, colpisce anzitutto l'insistenza con la quale emergono i nomi di filosofi orientali — gli indiani Ghandi, Patanjali e Nagarjuna, i cinesi Lao-Tzu e Confucio, il persiano El Ghazali, proposti in esplicita polemica con l'impostazione «eurocentrica» dominante nella lista dei 20 nomi proposti. Merita di essere sottolineata, in questo contesto, la motivazione addotta per la scelta di Averroè, grande esponente dell'aristotelismo arabo, fautore del dialogo interculturale e della tolleranza contro ogni forma di fanatismo, a proposito del quale si dice che «abbiamo bisogno di ricordare quest'uomo oggi più che mai». Una seconda annotazione riguarda la filosofia italiana, che risulterebbe del tutto assente, se non fossero avanzate le candidature di due grandi autori, i quali non rientrano tuttavia fra i filosofi in senso stretto, quali sono Dante e Machiavelli.
Tipicamente britannico il senso dell'umorismo che ha ispirato, fra le altre, le nomination di Guglielmo di Occam («Per il suo celebre rasoio. Ah, se solo la gente si ricordasse di usarlo di più!») e di Montaigne («Perché mi fa ridere e perché non è nella lista dei 20 che lo farebbe ridere!»). Più corrosive, al limite della provocazione, altre proposte: quella relativa a Kermit the Frog («almeno i suoi epigrammi ci fanno ridere»), o quella che vorrebbe incoronare come maggiore filosofo della storia il calciatore Éric Cantona, noto per le sue intemperanze violente dentro e fuori i campi da football, e più recentemente per la sua performance come attore cinematografico. Infine, non prive di arguzia, e perfino di una sottile verità, alcune proposte «estremistiche», per certi versi coincidenti, quali quella che indica «nessuno» quale maggior filosofo della storia («Perché ha ragione il poeta giapponese Basho quando ammonisce a non cercare i saggi del passato, ma a cercare piuttosto ciò che essi hanno cercato»), o quella che nomina se stesso, perché «non si deve credere ai filosofi più di quanto si debba credere ai politici o a qualunque altro, in quanto ciascuno dovrebbe essere per se stesso il proprio filosofo favorito».
Nel complesso, il sondaggio promosso dalla Bbc può essere giudicato semplicemente come un giochino bizzarro ma innocuo, derivato principalmente dalla tendenza a inventare nuove forme di intrattenimento. D'altra parte, da questa competizione emergono anche alcuni elementi un po' più seri, che meritano qualche riflessione. Anzitutto stupisce, e per certi versi perfino allarma, il fatto che un quotidiano austero e prestigioso, quale l'«Economist», nelle ultime settimane del sondaggio abbia svolto una campagna fra i suoi lettori, affinché fosse votato Hume, al solo scopo — esplicitamente dichiarato — di evitare l'incoronazione di Marx quale maggior filosofo. Segno evidente della persistenza di paure e pregiudizi tutt'altro che superati, in un Paese, e in un giornale, che pure dovrebbero essere perfettamente in grado di distinguere fra l'opera di un filosofo (certamente fra i più grandi, comunque la si pensi) e la tragedia del comunismo realizzato. Senza altresì avvedersi che, in una società dello spettacolo e della comunicazione quale è la nostra, un intervento a gamba tesa di questo genere non poteva che generare un effetto controproducente. In secondo luogo, i risultati del sondaggio dimostrano che, almeno in un pubblico eterogeneo e indifferenziato quale è quello presumibilmente coinvolto nella consultazione, la figura del filosofo è ancora largamente associata a quella di alcuni grandi autori del passato, mentre stentano a emergere i protagonisti del pensiero del Novecento. A ciò si aggiunga che, a eccezione di Wittgenstein, non vi è traccia fra i più votati di una particolare inclinazione per i filosofi di orientamento analitico. A dispetto di ciò che, viceversa, si è soliti ripetere, quando si indicano nei Paesi di lingua inglese le roccaforti della tendenza abitualmente contrapposta alla filosofia continentale.
Insomma, per quanto possa apparire sorprendente: uno spettro ancora si aggira per l'Europa, nelle sembianze di un uomo con una folta capigliatura e una barba scurissima.
Corriere 3.7.12
Studi, festival e perfino un romanzo giallo
Così Hobsbawm ha lanciato la tendenza
Le idee di Karl Marx per interpretare la crisi contemporanea: Gian Paolo Patta, sindacalista e politico, ha appena pubblicato il saggio Plusvalore d'Italia. Il buon uso di Marx per capire la crisi mondiale e del nostro Paese (edizioni Punto Rosso, pp. 236, 15). La riscoperta di Marx ha già un suo «classico» nel saggio di Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici contemporanei, intitolato Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo (Rizzoli, 2011). Tra i libri dedicati alla modernità del pensiero del filosofo tedesco usciti quest'anno: A lezione da Marx (Manifestolibri) di Stefano Petrucciani, Marx oltre il marxismo (Franco Angeli) di Stefano Ricciuti e perfino un giallo, Marx & Engels, investigatori. Il filo rosso del delitto (Nuovi Equilibri). Dagli scaffali alla piazza: dal 5 al 9 luglio a Londra si tiene il festival «Marxism 2012». Sottotitolo: «Idee per cambiare il mondo» (www.marxismfestival.org.uk).
Corriere 3.7.12
L'amore di Kierkegaard svanito in un giorno
Il difficile rapporto con Regina Olsen E il pentimento dopo averla conquistata
di Armando Torno
Le storie d'amore più interessanti (per i posteri) sono quelle che finiscono male. Non si riescono a chiudere o si consumano con attese e rinvii; tra le prime scintille e le iniziali dichiarazioni si vivono momenti luminosi, ma poi gli slanci si trasformano in distacco, noia, tormento. Bene: ne evochiamo qualcuna, cominciando da quella che vide protagonisti Regina Olsen (1822-1904) e uno dei più grandi filosofi moderni, il danese Søren Kierkegaard (1813-1855).
Il pensatore che oggi ammiriamo come uno dei padri dell'esistenzialismo non era un animo semplice. Pubblicò quasi tutte le sue opere con pseudonimo, nascondendosi. Per esempio, utilizzò Johannes de Silentio per Timore e tremore, Hilarius il Legatore per gli Stadi sul cammino della vita, Costantin Costantius per La ripresa e via di questo tono. Il suo nome appare sui Discorsi edificanti e su altri scritti religiosi, dove si sentiva un pastore privato. Non si curava dell'aspetto. La rivista pettegola Corsaren a partire dal 1846 lo prese di mira. Una caricatura ne mostra i tratti ridicoli e goffi: schiena curva (c'è quasi la gobba), arti inferiori gracili, andatura sgraziata, pantaloni troppo corti, cappello a cilindro ampio. Eccetera.
Regina è una bella ragazza, figlia minore del consigliere di Stato Terkel Olsen. Il filosofo la conosce nel 1837, in casa di amici. Ha quattordici anni. I due, come si suol dire, si fiutano, sino a quando giungono a stabilire un rapporto. La proposta è fatta cadere nel settembre del 1840, probabilmente il giorno 8, mentre si stava eseguendo un brano al pianoforte. Il tutto avviene in casa Olsen. Ha raccontato Kierkegaard anni dopo nei Diari (opera fondamentale, che la Morcelliana sta ritraducendo): «Che me ne importa della musica? Sei tu che voglio, ti ho voluto per due anni». Lei incassa in silenzio. Il padre della fanciulla benedice la proposta. I due sono ufficialmente fidanzati.
Il giorno seguente Søren è già pentito. Non ha mai pensato di sposarsi e ora ha fatto un passo in quella pericolosa direzione. Comincia a porsi domande quali: «È possibile innamorarsi umanamente?». Basterebbe dare un'occhiata alle lettere che i due si sono scambiati tra il settembre 1840 e l'11 ottobre 1841 per accorgersi che c'è un sentimento vero ma il filosofo non si dà pace. Scrive: «L'amore — usiamo la traduzione contenuta nel volume: Søren Kierkegaard, Lettere sul fidanzamento, Morcelliana — è più veloce di tutto, più veloce di se stesso». Talmente veloce che, mese dopo mese, diventa anche malinconico. Egli riflette sulla sproporzione tra anima e corpo, si interroga sulle impossibilità. E poi Regina — siamo nel gennaio 1841 — le sembra appartenente a una specie non spirituale, anzi forse non è nemmeno una fidanzata cristiana, giacché ha un'idea puramente umana dell'amore. L'11 agosto le restituisce l'anello. Inizia, come ognuno immagina, un periodo denso di scenate, cadenzato da crisi, con epistole piene di parole pesate. E poco dopo, nel ricordato 11 ottobre, Kierkegaard rompe il rapporto. Si considera legato a Dio, anzi ritiene di essere stato amato come donna quando era preesistente presso il Padre. Poteva invocare il versetto della Prima lettera di Giovanni: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (4,10); ma tali parole non riuscivano certo a chetare Regina. Lei è disperata, minaccia il suicidio; interviene il padre, a Copenhagen i commenti si sprecano.
Nel 1847 la ragazza, venticinquenne, sposerà il suo vecchio precettore, Frederik Schlegel. Sarà un matrimonio tranquillo, felice. Regina il 17 marzo 1855 partirà per le Indie occidentali danesi, delle quali il marito era stato nominato governatore. L'11 novembre di quell'anno Kierkegaard moriva. Ma prima trovò il tempo di farsi vivo. Nel settembre 1849 scrisse a Schlegel supplicandolo di poter parlare con la moglie. Il marito non rispose. A richieste ulteriori seguirà nuovamente il silenzio. Chissà cosa voleva. Non immaginiamoci nulla di particolare. Del resto, allorché il 15 maggio 1849 la giornalista svedese Frederika Bremer chiese di incontrarlo per un'intervista, le rispose: «No, grazie; non so ballare!».
l’Unità 3.7.12
Parla il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran
In un libro spiega come può accadere che una persona perda il senso della realtà
In viaggio nel cervello
La storia di Alì, l’uomo che credeva di essere morto
di Cristiana Pulcinelli
IL PREMIO
Il saggio e il romanzo
I due vincitori della decima edizione del premio Merck Serono sono Vilayanur S. Ramachandran, con il saggio «L'uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana» (Mondadori), e Jean Echenoz con il romanzo «Lampi» (Adelphi). A Telmo Pievani menzione speciale per «La vita inaspettata. Il fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto» (Raffaello Cortina). La cerimonia di premiazione si terrà oggi a Roma, alle ore 19 a Villa Miani.
CHI È
Sa cosa abbiamo in testa
Vilayanur S. Ramachandran (1951) è un neuroscienziato, professore di neuroscienze e psicologia all'Università della California di San Diego, direttore del Center for Brain and Cognition ed è professore aggiunto di Biologia al Salk Institute. «L'uomo che credeva di essere morto...» parla del nostro cervello, di cosa, lì dentro e non altrove ci renda umani e diversi da ogni altro essere mai comparso sulla Terra. Un libro stimato e apprezzato da Oliver Sacks, che ha definito questo lavoro di Ramachandran «la sua opera migliore».
ROMA L’UOMO CHE CREDEVA DI ESSERE MORTO SI CHIAMAVA YUSUF ALÌ. ERA UN TRENTENNE SCARMIGLIATO E SOFFRIVA DI EPILESSIA DALL’ETÀ DI 17 O 18 ANNI. Vilayanur Ramachandran lo conobbe anni fa a Chennai (la città dell’India un tempo nota come Madras). Gli attacchi di Alì colpivano soprattutto i lobi temporali del suo cervello e producevano cambiamenti emotivi, tuttavia, tra un episodio e l’altro, Alì sembrava perfettamente lucido e intelligente. Di fronte alla semplice domanda «che cosa la porta nel nostro ospedale?» che gli rivolse Ramachandran, Alì rispose in modo decisamente strano: «Non si può fare molto per aiutarmi: sono un cadavere». E aggiunse: «Non esisto. Mi si potrebbe definire un guscio vuoto. A volte mi sento un fantasma che esiste in un altro mondo». Come può una persona perdere il senso della realtà di se stesso fino a sentirsi morto? E perché questo avviene? Ramachandran, neuroscienziato, direttore del Center for Brain and Cognition dell’università della California, è partito da queste domande per studiare questo difficile caso. La storia di Alì viene raccontata assieme a quella di molti altri pazienti nel nuovo libro di Ramachandran (L’uomo che credeva di essere morto, Mondadori) che ha vinto il premio Merck Serono 2012.
Ramachandran si addentra in temi complessi come l’origine del linguaggio, la differenza tra vedere e sapere, l’emergere di un senso estetico, la natura della coscienza. Ma lo fa sempre partendo dalle persone, ovvero da pazienti che, a causa di difetti genetici o di lesioni cerebrali, presentano sintomi stravaganti e per certi versi inspiegabili. Studiare casi complessi come quello dell’uomo a cui era stato tagliato un braccio ma che continuava a sentirne la presenza, o quello della signora che vedeva i numeri dotati di colore, o ancora quello del ragazzo che riconosceva la madre solo per telefono, ma non quando la vedeva di persona, vuol dire scoprire qualcosa di nuovo sul cervello umano.
Cosa sia il sé è una questione che per secoli è stata lasciata alla filosofia, oggi può essere affrontata scientificamente?
«Quando si studia la neurologia, non si può evitare il problema del sé, ovvero il fatto che il nostro cervello non genera solo un resoconto obiettivo del mondo esterno, ma sperimenta un mondo interno, una ricca vita fatta di sensazioni, significati, sentimenti. I neuroscienziati cercano di risolvere questo problema filosofico in modo empirico. La prima cosa da notare è che quando parliamo di “concetto di sé” e di “introspezione” stiamo parlando di molte componenti diverse. Quello che possiamo fare, quindi, è separare queste componenti, seguendo il noto slogan: divide et impera».
Quali sono, allora, questi diversi aspetti del sé?
«Il primo è il senso di unità. Noi esseri umani siamo fatti di tanti ricordi, di passioni, idee, pensieri diversi, eppure ci sentiamo una persona singola. Da dove viene questo senso di unità? E quali strutture cerebrali ne sono alla base? Poi c’è la continuità temporale: noi siamo in grado di fare un viaggio mentale nel tempo, speculare sul passato e immaginare il futuro. È vero che questa capacità esiste anche nelle grandi scimmie, ma senza la complessità che caratterizza l’essere umano. E ancora: l’identità corporea. Noi ci sentiamo ancorati al nostro corpo, non ci viene mai in mente che la mano con cui abbiamo preso le chiavi della macchina non ci appartenga o che la mano che sente dolore non sia la nostra. Anche se grazie a particolari neuroni chiamati “neuroni specchio”, siamo in grado di sentire empatia per il dolore di qualcun altro. Questi neuroni, infatti, che vengono attivati durante l’azione dall’esecutore dell’azione stessa, si attivano anche in chi osserva solamente la medesima azione. Tutte queste capacità si possono perdere. Se ne manca qualcuna, il sé continuerà a stare in pedi, seppure con strani sintomi come accade ad alcuni dei miei pazienti. Ma se ne vengono a mancare troppe, cadrà».
E la capacità di scegliere come agire?
«È un’altra caratteristica del sé. Normalmente si chiama “libero arbitrio” e consiste nella sensazione di poter scegliere coscientemente tra azioni alternative. Si è visto però che quando c’è un danno al cingolo anteriore, una struttura che si trova nel lobo frontale, la persona perde questa capacità: non è in coma, è vigile, percepisce ad esempio gli stimoli dolorosi, ma non agisce e si trova in una forma estrema di apatia. Quando questi pazienti guariscono, raccontano che erano consapevoli del loro stato, ma non avevano voglia di agire».
Quindi per compiere una determinata azione, ad esempio prendere il bicchiere che sta qui davanti a me, avrò bisogno del contributo di più strutture cerebrali?
«Certamente. Mettiamo che io voglia prendere tra tutti i bicchieri presenti su questo tavolo quello che contiene la coca cola senza zucchero perché sono a dieta. Avrò bisogno del giro sopramarginale dell’emisfero sinistro che elabora diverse linee d’azione e, in collaborazione con input che vengono dalla mano, immagina diverse possibilità di prendere il bicchiere. Del sistema limbico che mi dà l’impulso emotivo, in questo caso la sete. Del lobo frontale che stabilisce i valori, in questo caso non ingrassare. Tutti queste strutture interagiscono poi con il cingolo anteriore che determina la volontà di agire e, finalmente, acchiappare il bicchiere e bere. Se l’ipotalamo è danneggiato, non percepirò la sete, se ad essere danneggiata è la parte del lobo frontale responsabile dei valori, non potrò mettermi a dieta, e così via».
I nuovi studi cambiano il modello di cervello che avevamo?
«Radicalmente. Ci troviamo di fronte a una rivoluzione copernicana e lo dimostro con una storia. Esiste un disturbo chiamato Crps, sindrome di dolore regionale complesso, che provoca un dolore cronico. Normalmente il dolore ha inizio in seguito a un trauma, poniamo la frattura di un dito. Di solito, la risposta a questo trauma è di tipo infiammatorio: il dito diventa gonfio, rosso, fa male a tal punto che diventa quasi paralizzato. Quando guarisce, il dito può riprendere il suo movimento. Ma in alcune persone, l’1-2% dei casi, il dito continua a provocare dolore e si paralizza per sempre. A volte il problema si estende addirittura a tutto l’arto. Cosa succede in questi casi? Si è capito che quando il paziente tenta di muovere il dito, arriva un segnale al cervello che indica “dolore”, quindi il cervello blocca il movimento per evitare il dolore. Da questa sindrome si può guarire grazie a un semplice specchio: la mano dolente si nasconde dietro lo specchio mentre il paziente guarda l’altra mano riflessa nello specchio. Quando quest’ultima si muove sembra che a muoversi sia la mano malata senza però scatenare alcun dolore. In questo modo spezziamo il legame dolore-movimento nel cervello. Oggi questa terapia viene utilizzata negli ospedali italiani e americani. Questa scoperta dimostra che una lesione in una zona periferica del corpo può causare un problema permanente al cervello, contrariamente a quanto si pensava solo qualche anno fa. Nel nuovo modello, il cervello risulta composto da moduli che interagiscono, sono in equilibrio dinamico tra di loro e si modificano attraverso gli input sensoriali che arrivano dalla periferia del corpo, ma anche dagli altri organismi attraverso i neuroni specchio».
La Stampa 3.7.12
“Sempre più vicini alla scoperta della particella di Dio”
Eccitazione tra i fisici, domani annuncio al Cern Ma la verità potrebbe essere diversa dalle attese
di Barbara Gallavotti
GINEVRA Difficile contenere l’entusiasmo qui al Cern, perché nella rete ci deve essere qualcosa di grosso, qualcosa che sarà annunciato domani in una conferenza per la quale ci si sta preparando in tutto il pianeta a dispetto dei fusi orari più ostili.
Tutti gli indizi farebbero pensare che finalmente verrà annunciata la scoperta del bosone di Higgs. A quanto trapela però le cose potrebbero essere più complicate del previsto, e forse persino più interessanti.
Andiamo con ordine. Il bosone di Higgs, l’imprendibile particella di Dio è il Santo Graal per la cui ricerca è stato costruito il grande acceleratore LHC in funzione al Cern di Ginevra. La particella dovrebbe essere prodotta come conseguenza di scontri tra protoni che viaggiano quasi alla velocità della luce in direzioni opposte. Per i fisici è molto importante riuscire a individuare il bosone, perché è la chiave di volta senza la quale tutto ciò che è stato teorizzato riguardo al funzionamento dell’Universo non regge più.
Già a dicembre, i ricercatori avevano annunciato di aver visto qualcosa di interessante, senza però avere la certezza che fosse l’agognata particella. Ora però ci sono molti nuovi dati a disposizione, e sarebbe logico aspettarsi una conferma. Lo farebbero pensare anche episodi mondani, ad esempio per la conferenza di mercoledì sono attesi quattro signori che non passano inosservati e che di certo non pianificano un viaggio a Ginevra senza un buon motivo. Uno è Peter Higgs, il fisico inglese da cui ha preso il nome la particella. In realtà però la teoria che ha portato a ipotizzare il bosone ha molti padri, cioè oltre ad Higgs, guarda caso, gli altri tre ospiti: François Englert, Gerald Stanford Guralnik e Carl Richard Hagen (l’ultimo genitore, Robert Brout, è deceduto nel maggio 2011).
Eppure, dicevamo, l’annuncio della scoperta del bosone potrebbe non arrivare, per due motivi. In primo luogo, i fisici basano le loro scoperte sulla probabilità e giudicano affidabile un risultato quando la probabilità che sia dovuto al caso è inferiore a una su un milione. Il bosone di Higgs lascia una firma caratteristica negli apparati costruiti per captarne le tracce, ma occorre essere assolutamente certi di avere visto proprio lei, e non lo scarabocchio dovuto a un rumore di fondo. E questa certezza si può avere solo analizzando un enorme numero di dati. Non basta. La firma non deve solo essere chiara al di là di ogni minimo dubbio: deve essere anche esattamente come ci si aspetta. In caso contrario, bisognerà capire perché è diversa.
Insomma, è possibile che domani i ricercatori annuncino che è stata fatta una scoperta, ma che è ancora presto per affermare che si tratta proprio del bosone. Ciò vorrebbe dire che c’è sicuramente bisogno di nuovi dati, ma forse anche che l’Universo ha qualche grossa sorpresa da riservarci. Probabilmente al Cern avrebbero preferito avere ancora tempo a disposizione, ma ci sono degli appuntamenti che gli scienziati non possono mancare e a mettere fretta in questo caso è una grande conferenza che inizia in Australia domani stesso e da dove buona parte della comunità seguirà l’incontro di Ginevra in collegamento via web.
La Stampa 3.7.12
Intervista
“È l’anello che unifica le forze della natura”
di Valentina Arcovio
ROMA Il bosone di Higgs è una particella speciale, l’unica in grado di dare sostanza alla masse delle altre particelle». A parlare è Antonio Masiero, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che ci spiega quanto sarebbe importante la scoperta dell’esistenza, o della non esistenza, della cosiddetta particella di Dio.
Professore, perché tutti danno la caccia a questa particella?
«Perché non è come le altre che abbiamo già scoperto, tant’è che è stata soprannominata particella di Dio. Riteniamo infatti che il bosone di Higgs sia stato cruciale nella storia dell’Universo. Crediamo sia apparsa un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang e che ci sia dietro questo bosone alla massa delle particelle fondamentali».
Cosa significherebbe riuscire finalmente a provare la sua esistenza?
«Sarebbe un passo decisivo. E’ la scoperta dell’anello mancante della teoria del Modello Standard che unifica le forze fondamentali presenti in natura».
Sarebbe la scoperta del secolo?
«Possiamo paragonarla alle equazioni di Maxwell che hanno unificato le forze elettriche con quelle magnetiche».
E la scoperta della non esistenza del bosone di Higgs?
«La scoperta della sua non esistenza sarebbe ancora più sconvolgente. Sappiamo infatti che in natura opera il cosiddetto meccanismo di Higgs, responsabile della realizzazione delle simmetrie che regolano le interazioni fondamentali. Riteniamo che lo strumento attraverso cui opera questo meccanismo è il bosone di Higgs, ma se così non fosse dobbiamo allora cercare un’altra particella speciale».
Significherebbe ricominciare tutto da capo?
«No. Sarebbe l’inizio di una nuova fisica. Una vera e propria rivoluzione. I fisici sarebbero chiamati a fare nuove e interessanti ricerche e a creare nuovi modelli e nuove teorie».
Con la scoperta del bosone di Higgs, si chiuderebbe un capitolo della fisica?
«No. Piuttosto se ne aprirebbero di nuovi. La ricerca continuerebbe. Ci sono tantissimi altri interrogativi su cui indagare e studiare».
Peter Higgs è l’unica mente dietro alla teoria dell’esistenza del bosone di Higgs?
No. I suoi lavori sono stati sicuramente fondamentali, tant’è che questa particella ha preso il suo nome. Ma ci sono tanti fisici che hanno dato un contributo importante alla teoria. E molti di questi sono italiani».
Non ci resta che aspettare il seminario di domani?
«Sì. In quell’occasione verranno dette molte cose importanti».
Corriere 3.7.12
«Trovata la particella di Dio» Una caccia lunga mezzo secolo
Al Cern sono sicuri, domani l'annuncio
Nel team ci sono 600 fisici italiani che dirigono tre esperimenti su quattro
di Giovanni Caprara
Anche gli ultimi dubbi sembrano caduti e il bosone di Higgs si ritiene ormai catturato, anche grazie a una nutrita squadra di scienziati italiani. Al Cern di Ginevra domani i responsabili degli esperimenti Fabiola Gianotti di Atlas e Joe Incandela di CMS lo annunceranno ufficialmente, ma nei corridoi del centro di ricerche più importante al mondo per la fisica subnucleare è difficile trovare chi smentisce. Semmai ci sono dei distinguo, ma «la particella c'è».
Diventata più popolare come «particella di Dio» (dizione che gli scienziati non amano), per la sua caccia venne costruito il Large Hadron Collider, cioè il superacceleratore capace di far scontrare fra loro nuvole di miliardi di protoni con un'energia di 14 TeV. Mai si era arrivati a tanto, ma questo era l'obiettivo necessario per riuscire a riprodurre, nella lunga caverna sotterranea del laboratorio ginevrino sotto i monti Jura, le condizioni dell'universo una frazione di secondo dopo la sua nascita.
Una sfida notevole che impaurì, e qualcuno gridò al pericolo di creare un buco nero capace di distruggere la Terra quando la macchina veniva accesa nel settembre 2008. L'unico guaio lo subì lo stesso acceleratore nove giorni dopo per il difetto a una saldatura che fece letteralmente scoppiare un elemento superconduttore della macchina rimanendo bloccata un anno per essere riparata.
La riaccensione a passi graduali permetteva finalmente l'avvio delle ricerche a lungo sognate; da quando Peter Higgs immaginò l'esistenza del fatidico bosone per far quadrare i conti della teoria, il cosiddetto «Modello Standard», che spiegava l'architettura di base della natura.
Era il 1964 e la leggenda vuole che l'idea sia zampillata dalla mente dello scienziato mentre passeggiava tra le montagne scozzesi del Cairngorms. Era sempre stato un tipo riservato, ma già da studente al Kings College di Londra rivelava le sue capacità in fisica teorica.
«Mi impressionò un suo compito sulla meccanica quantistica svolto con una velocità incredibile» ricordava il suo compagno di banco Michael Fisher ora professore all'Università del Maryland (Usa). Tuttavia quando propose la sua teoria del bosone non era facilmente creduto. Dopo un primo lavoro introduttivo, il secondo gli veniva rifiutato dal giornale Physics Letters e solo qualche tempo accettato dalla Physical Review Letters.
Restava comunque lo spicchio conclusivo di una teoria e bisognava in qualche modo provarlo. Negli anni Ottanta si impegnavano sia gli scienziati americani che quelli europei immaginando ognuno una supermacchina. Gli Stati Uniti il «Super Superconducting Collider» (SSC) per il quale costruivano una grande galleria in Texas. Ma il costo salì troppo e quando arrivò Bill Clinton alla Casa Bianca cancellò il progetto. A Ginevra, invece, si proseguì mobilitando l'Europa e investendo 6 miliardi di euro. E adesso si è giunti alla meta provocando, in questo campo, un'inversione nella fuga dei cervelli perché dei seimila che lavorano con il superacceleratore mille sono americani.
L'Italia condivise subito l'impresa e ora seicento fisici dell'Istituto nazionale di fisica nucleare sono tra i protagonisti delle ricerche. Non solo. Tre dei quattro responsabili degli esperimenti sono fisici italiani; anzi, sino a qualche mese fa erano tutti e quattro. L'esperto che aveva guidato la costruzione dei magneti superconduttori di cui è formato l'anello di 27 chilometri era Lucio Rossi dell'Università di Milano. E sopra tutti c'è il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci; a dimostrazione del ruolo che la nostra scienza fisica mantiene a livello internazionale.
Prima di utilizzare l'Lhc al Cern si fecero delle indagini sul bosone anche con l'acceleratore LEP attraverso il quale Carlo Rubbia compì le sue scoperte che lo portarono al Nobel. Ma per arrivare all'obiettivo era lo stesso Rubbia a ipotizzare l'Lhc. Negli Stati Uniti si impegnavano con l'acceleratore Tevatron al Fermilab di Batavia (Chicago) entrato in funzione negli anni Ottanta, però la sua potenza era notevolmente inferiore alle necessità. Lo miglioravano per renderlo più competitivo e proprio ieri mattina diffondevano un comunicato per sottolineare che le loro indagini avevano portato «vicino alla scoperta». La gara rimase accesa negli ultimi anni finché nell'autunno scorso Tevatron veniva spento per limiti d'età e nella consapevolezza dell'impossibilità ad andare oltre.
Nel dicembre scorso Fabiola Gianotti di Atlas e Guido Tonelli, allora responsabile del CMS, annunciavano i primi risultati. Erano indizi, la prima impronta dell'esistenza del bosone. Ma i margini di errore erano ancora notevoli, occorrevano altri scontri fra le nuvole di protoni per costruire una maggiore certezza. Ora il momento fatidico sembra arrivato.
«I dati confermano la soglia dei 5 sigma, vale a dire una probabilità di scoperta pari al 99,99994 per cento» spiega Gian Francesco Giudice, teorico del Cern e autore di «Odissea nello zeptospazio, un viaggio nella fisica dell'Lhc» (Springer). «Anzi — continua Giudice — si sono intravisti effetti che farebbero pensare all'esistenza di altre particelle, dunque un ampliamento del disegno teorico fin qui immaginato. Per questo bisognerà indagare ulteriormente». Ciò si è ottenuto con il superacceleratore che funziona con un'energia di 7,2 TeV, quindi la metà delle sue possibilità. Quando sarà a pieno regime altri panorami della scienza si apriranno e non a torto molti sostengono di essere soltanto sulla soglia di una nuova Fisica. Come la storia della scienza insegna, per arrivare ai risultati occorrono idee, ma anche strumenti adeguati.
Domani ascolteremo l'identikit della scoperta dalle parole dei protagonisti, Fabiola Gianotti e Joe Incandela, che confronteranno i rispettivi dati ottenuti con i loro esperimenti. E questi forse non rallegreranno il grande cosmologo Stephen Hawking che aveva scommesso cento dollari sostenendo che la «particella di Dio» non esisteva. «C'è qualcosa di sbagliato» aveva detto dei calcoli di Higgs. Ma il tranquillo ottuagenario, schivo e sorpreso delle attenzioni dei colleghi, non replicò mai aspettando con pazienza le prove di Ginevra. Ora sono arrivate.
il Fatto 3.7.12
Punizione esemplare: chiuso l’ente che ha contribuito al film su Eluana
di Anna Maria Pasetti
L’accanimento continua post mortem. E la memoria di Eluana Englaro non trova pace nel circo decadente della politica dei partiti che perpetua a strumentalizzarne la vicenda altalenando attacchi a mea culpa sul film di Marco Bellocchio, che dai quei fatti ha solo tratto ispirazione. Stavolta il capro espiatorio è la Film Commission del Friuli Venezia Giulia, brutalmente smantellata dal Consiglio Regionale di presidenza Pdl per litanici “motivi di crisi e risparmio”. Certo, perché 270mila euro annui spesi per mantenere l’Ente operativa dal 2003 – che solo nel 2011 ha generato oltre 13milioni di euro d’indotto sul territorio dando lavoro a 241 figure professionali, senza parlare dell’eccellenza aggiunta all’immagine della Regione – sono parsi davvero insostenibili agli occhi di una Giunta in preda al delirio da rappresaglia. Il dichiarato risparmio traveste nella realtà un diktat “morale” contro il probabile “emendamento paracadute” oggi in delibera, che dovrebbe ripristinare i 330mi-la euro tagliati a inizio anno (e retroattivamente) dalla cattolicissima Lega con il sostegno di altre forze devote e “trasversali” ad alcune produzioni fra le quali tre film: The Best Offer di Giuseppe Tornatore (Paco Cinematografica), la fiction Rai Un caso di coscienza e Bella addormentata di Bellocchio (Cattleya), il vero bersaglio dell’azione. Vale la pena ricordare che quei fondi – afferenti al Film Fund di gestione della Film Commission oggi coi lucchetti – sono finora stati elargiti con un virtuoso meccanismo di attribuzione che esclude manipolazioni politiche. La vendetta è arrivata: rivolete i soldi per placare i produttori e (soprattutto) evitare di esasperare le già avvenute figuracce con l’opinione pubblica? Perfetto. Ma in cambio chiudiamo la FVG Film Commission trasferendo la gestione del Film Fund all’Ente Turismo FVG, cioè direttamente alla Regione.
IL GIOCO della casta è stato condotto da destra-centro-sinistra a mo’ di staffetta priva di innocenti ed anzi, satura di miopie rispetto al suo naturale effetto boomerang. “Il mantenimento della nostra Film Commission è il secondo meno caro tra quelle a base regionale”, spiega Federico Poilucci, presidente della FVG Film Commission. “Siamo stati i primi in Italia a dotarci di un vero e proprio fondo per il cinema sul territorio, facendo scuola alle altre Film Commission, che oggi in Italia sono 23, e mettendo in campo una pratica che si basava esclusivamente sulla contabilità estranea agli inciuci della politica”. Grazie a quel Film Fund sono stati chiusi i budget di film di ogni genere, d’autore o da botteghino: Come dio comanda di Salvatores , La ragazza del lago di Molaioli, La sconosciuta di Tornatore ma anche Amore, bugie e calcetto di Lucini. La punizione di chi ha voluto contribuire alla produzione di Bella addormentata di Marco Bellocchio si estenderà nel tempo all’intero sistema-cinema già zoppicante, a sintomo dell’ennesimo degrado di un Paese intrappolato e censorio.
il Fatto 3.7.12
Intervista a Marco Bellocchio
“Prigionieri dell’ideologia”
di AM Pasetti
Come ha preso questo nuovo capitolo d’accanimento che coinvolge Bella addormentata?
Non mi ha sconvolto, ma riguardando un film che ovviamente nessuno ha ancora visto, mi appare il gesto d’insipienza da parte di una classe politica giunta alla disperazione finale. Perché non dimentichiamoci che buona parte di essa tra non molto scomparirà o verrà fortemente ridimensionata. Punire una Film Commission solo per compiacere il consenso di un certo fronte cattolico mi sembra totalmente assurdo, perché alla fine questi politici dimostrano di disprezzare la gente e l’opinione pubblica. Spero soltanto che una nuova maggioranza si costituisca presto e si metta al lavoro.
Perché l’Italia sembra provare gusto a farsi del male con decisioni a evidente effetto boomerang?
Con il passare degli anni ho imparato a dare più peso al valore del “buon senso”. E il “buon senso” direbbe che questa cosa non ha senso.
Era consapevole delle polemiche che il tema del suo film conteneva in sé, ma immaginava si sarebbe arrivati a tanto?
I professionisti locali con cui ho lavorato sono stati molto tolleranti, non si sono mai verificati “incidenti” di percorso, neppure col sindaco che si è mostrato disponibile seppur prudente. Certo, i politici ci hanno negato i fondi e già quello non era un buon segno. Ma il vero problema è un altro, ovvero il tipo di approccio ideologico e non laico al film, qualcosa che ho già sperimentato con Buongiorno, notte, ad esempio.
In arrivo altri guai, dunque?
Ora non so cosa potrà ancora succedere, l’auspicio è che la gente andrà a vedere il film per quello che è, anche se conosco bene il meccanismo messo in campo davanti al cinema dal tema cosiddetto “delicato”. Come dicevo, con Buongiorno, notte certi “ideologhi” se ne sono infischiati dei pregi o limiti del film a vantaggio di una propria verità. Temo, anzi, sono certo, che questo accadrà anche con Bella addormentata. Fortunatamente, negli anni, alcuni hanno fatto retromarcia chiedendomi scusa “di aver preso un abbaglio”.
Il punto è che gli “abbagli” rischiano di perpetrare le ferite alla famiglia Englaro.
Peppino Englaro gode della mia massima stima, e so per certo che ormai non ha più bisogno di quel tipo di “sostegno”. Gli Englaro sanno perfettamente che il mio film sfiora solamente il dramma di Eluana, andando a generare storie inventate. Il rapporto con loro è sempre stato nutrito di estremo rispetto e profonda delicatezza.