l’Unità 23.6.12
Bersani: l’Italia ce la farà Berlusconi il peggio
Il leader del Pd: «Pdl e Lega ci hanno portato al disastro, ora basta con gli eccezionalismi italici»
Dal vertice europeo «qualche passo avanti, ma restano incertezze»
di Simone Collini
Cauto sugli esiti dell’incontro a quattro di Roma e preoccupato dal gioco allo sfascio di Berlusconi. Bersani non si aspettava che dal vertice tra Monti, Hollande, Merkel e Rajoy sarebbero uscite tutte le risposte per mettere in salvo l’Euro e per consentire all’Italia di affrontare adeguatamente la crisi economica. Né sì aspettava che con un governo chiamato ad affrontare l’emergenza l’ex premier sarebbe uscito di scena. Ma la giornata di ieri ha confermato al leader del Pd che c’è di che essere preoccupati, per quel che potrebbe succedere nei prossimi mesi e poi anche in un futuro più lontano se dovessero imporsi «nuovi eccezionalismi italici» dopo il ventennio dominato dal berlusconismo.
L’ITALIA CE LA FARÀ
Il Paese, è il ragionamento di Bersani, rischia un «impoverimento». E, come dice chiudendo un convegno sui partiti organizzato nella sede del Pd dall’associazione “Rifare l’Italia” e dal “Centro per la riforma dello Stato”, c’è chi gioca ad alimentare il vento dell’antipolitica e «i prossimi saranno gli anni più difficili dal dopoguerra ad oggi, dal punto di vista del rapporto tra politica e società». Per questo Bersani invita i dirigenti del suo partito a «trasmettere l’idea che l’Italia ce la farà, ma guardando in faccia la realtà, perché a raccontar balle i nostri avversari sono migliori di noi e non c’è possibilità di riuscita».
Il leader del Pd guarda con attenzione alle mosse di Berlusconi, che sembra sperare in un fallimento del vertice europeo di fine mese come occasione propizia per far saltare il governo. Se nel giorno del quadrilaterale romano l’ex premier definisce Monti una «parentesi», si candida ad essere «leader dei moderati» ed evoca un’uscita dall’Euro, Bersani richiama Berlusconi alle proprie responsabilità e auspica che il confronto tra i principali Paesi comunitari porti a risultati concreti utili all’Italia e all’integrazione dell’Unione europea. Un fallimento sarebbe pagato soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione.
UE, PASSI AVANTI MA INSUFFICIENTI
L’incontro di ieri tra Monti, Hollande, Merkel e Rajoy ha fatto segnare «qualche passo avanti», riconosce Bersani, che però è anche consapevole di quanto sia «ancora incerta» la prospettiva sui punti principali. «Vediamo da qui al vertice del 28 giugno cosa succede dice poco dopo la fine dell’incontro a Palazzo Madama io sono rimasto colpito favorevolmente dal fatto che Monti, davanti alla Merkel che dice che non si può derogare al patto di stabilità, abbia ricordato che la Germania nel 2003 lo ha fatto e anche grazie all’Italia. Cerchiamo di fare una discussione dove non si viene divisi tra innocenti e colpevoli». Il vertice di Roma «qualche premessa» l’ha posta, per Bersani, ma non ha certo portato «una soluzione». Gli occhi sono quindi puntati sul vertice europeo di fine mese, e per il Pd sarebbe drammatico se anche in quella sede non si dovessero presentare fatti concreti.
Berlusconi è invece pronto a giocare le sue carte, di fronte a un governo in difficoltà e rilancia sul ritorno della lira e della sua leadership. «Non c’è limite al peggio», sintetizza Bersani quando gli riferiscono delle parole dell’ex premier. «Fossi in lui eviterei queste uscite perché dieci anni di berlusconismo e di leghismo ci sono d’avanzo, ci hanno portato dove siamo e ora Monti sta cercando di tirarci fuori dai guai e dopo dobbiamo guardare avanti, l’Italia ha bisogno di un’alternativa che non è certo Berlusconi».
BERLUSCONI IRRESPONSABILE
Anche l’ipotesi evocata dall’ex premier di un’uscita dell’Italia dall’Euro viene bollata come «irresponsabile» da Bersani. Altro che “Forza Lira”. «Chi ha portato gli euro all’estero e ha lasciato i debiti in Italia farebbe un affarone ma per la gente normale sarebbe un disastro. Noi stiamo con la gente normale e quindi vogliamo rimanere nell’Euro, non so Berlusconi con chi stia». Questa è stata la prima reazione del leader Pd di fronte all’esternazione di Berlusconi, ripetuta in troppe occasioni per essere una semplice battuta. «Queste cose le sentiamo da Berlusconi, da Grillo, da un sacco di gente. Usciamo dall’Euro? Per andare dove? Perché chi può cavarsela sempre, se la cava, anche se usciamo dall’Euro, ma la gente che è qua in giro che vive in Italia normalmente ci rimarrebbe sotto. Quindi, attenzione alle parole».
l’Unità 23.6.12
Bisogna fermare chi punta sul voto anticipato
Il Cavaliere punta a destabilizzare il Paese
Il centrosinistra deve essere ponto a ogni esito
di Michele Ciliberto
Bisogna saperlo: l'Italia attraversa un momento grave. Bisogna esserne consapevoli. Dopo una fase in cui si cominciava, pur faticosamente, a indirizzarsi in una direzione positiva, la situazione volge di nuovo al peggio.
Sia sul piano interno che su quello internazionale. Il travagliato risultato del vertice odierno di Monti con Hollande, Merkel e Rajoy è una conferma di questo con gli effetti che si possono immaginare sulla condizione generale dell'Italia e dell'Europa e, in primo luogo, sugli strati più' deboli che stanno pagando già da tempo il costo più alto della crisi.
È una situazione difficile e delicata che richiederebbe da parte di tutti forze politiche,sociali, intellettuali un massimo di attenzione e di responsabilità per evitare con tutte le forze di cadere nel burrone che da tempo è spalancato di fronte a tutti noi. Richiederebbe, insomma, che questo Paese si sentisse una comunità, una nazione. Unita, nel momento del pericolo, da vincoli di solidarietà, da un comune sentire capace, almeno in un momento come questo, di superare tradizionali corporativismi e particolarismi e una congenita, strutturale verrebbe da dire vocazione al trasformismo. Richiederebbe infine uno scatto da parte delle classi dirigenti che dovrebbero assumersi la comune responsabilità della situazione di guidare il Paese in una transizione da cui dovrebbe scaturire, con le prossime elezioni, un governo politico legittimato dal consenso elettorale. Del resto, tale è stato e resta il compito affidato dal Parlamento al governo tecnico guidato da Mario Monti.
In effetti, questo è ciò che dovrebbero fare classi dirigenti consapevoli della situazione e degli interessi generali del Paese. Ma in Italia classi dirigenti di questo tipo, con poche eccezioni, oggi non esistono. Sono state bruciate, letteralmente, da venti anni di berlusconismo e dalla fine dello
«spirito pubblico» che esso ha comportato ad ogni livello della società italiana. Né si tratta di una stagione finita, come dimostrano le iniziative di Berlusconi di queste ore: nel momento più difficile si è messo a ciarlare sull'uscita dall'euro per ridare vita, come fosse uno zombie, alla lira con tutte le conseguenze che anche in questo caso si possono immaginare. E ieri si è addirittura presentato come la «guida dei moderati» lanciando pericolosi avvertimenti a Monti e mettendo in forse la stabilità del governo nel momento più delicato per l’Italia e per l’Europa. Un comportamento del tutto irresponsabile, com’è ormai nel suo stile.
Se si pensa che a dichiarazioni di questo genere si aggiunge un attacco tanto forsennato quanto ambiguo e oscuro al Presidente della Repubblica il quale in questo periodo drammatico ha svolto un decisivo ruolo di garanzia nel quale si è riconosciuto larghissima parte degli
Italiani si ha veramente il senso completo del livello di degrado cui è arrivata in questi giorni la situazione. Occorre perciò essere chiari: è stato giusto, e resta giusto, sostenere il governo Monti, ma a condizione che esso porti a compimento la transizione; è stato lungimirante respingere le ipotesi di elezioni anticipate, che oggi invece Berlusconi rilancia, rinunciando anche a legittime ambizioni personali e di partito, mettendo al primo posto l'interesse dell'Italia. Ma occorre capire a che punto di degenerazione è arrivata ormai la situazione. Soprattutto è necessario richiamare ciascuno alle proprie responsabilità di fronte alla nazione. Se Berlusconi e le forze oscure che attaccano in questi giorni il Presidente della Repubblica hanno scelto di portare il Paese allo sfascio, le forze democratiche devono sapere reagire, mettendo in campo tutte le loro energie. Preparandosi anche all’eventualità (non auspicabile, ma ormai da non escludere visto l’atteggiamento della destra) di elezioni anticipate chiarendo con massima precisione agli Italiani quali siano le forze irresponsabili che conducono a un esito così duro e traumatico. Quello che non è' possibile fare è stare a guardare lo scarto, ogni giorno più acuto, fra governanti e governati con lo sviluppo impetuoso di un neo-giacobinismo populista, il radicalizzarsi della crisi sociale con esperienze tragiche come quella degli esodati, l'attacco sfrontato e irresponsabile al «vincolo» essenziale della unità e della coscienza nazionale. A volte, come dice il proverbio, la toppa può diventare peggiore del buco.
l’Unità 23.6.12
«Ora la fase due del Pd». La sfida dei segretari per rilanciare il Paese
Oggi oltre seimila all’assemblea nazionale dei circoli alla Fiera di Roma
L’annuncio di Bersani: «Siamo maturi per apportare modifiche allo Statuto, al fine di evitare eccessi di correntismo»
«Noi duriamo più di Grillo E se qualcuno mi dice che non c’è destra e sinistra gli rispondo: puoi andare»
di Simone Collini
Aprire il Pd in vista della campagna elettorale della prossima primavera e prevedere una «fase due» anche dal punto di vista dell’organizzazione, approvando modifiche statutarie che aiutino ad evitare un eccesso di «correntismo». Pier Luigi Bersani oggi darà la carica a quanti arriveranno a Roma per partecipare all’Assemblea nazionale dei segretari di circolo. Ma ai dirigenti di base del suo partito il leader Pd lancerà anche un messaggio ben preciso: non pensate che l’«apertura» sia un fenomeno da gestire esclusivamente o prevalentemente a livello centrale, mentre sui territori si può andare avanti con meccanismi tipici del sistema correntizio e anche mantenere una certa dose di «anarchismo».
«Sappiamo che il cammino che ci attende dipenderà per larga parte dal vostro impegno perché è a partire dai territori che la politica e la società possono e devono darsi la mano per ottenere l’apertura di una nuova fase e archiviare il populismo», si legge nella lettera di convocazione inviata ad Bersani ai 6.123 segretari di circolo del Pd. «Sarà l’occasione per un confronto aperto dando un contributo per lanciare tutti insieme la nostra sfida per il cambiamento del Paese».
E oggi, di fronte a quanti arriveranno alla Fiera di Roma, il messaggio sarà ribadito con anche maggior enfasi. Bersani è infatti convinto che soltanto il Pd possa sconfiggere il populismo («noi duriamo più di Grillo, tocca a noi durare, a lui tocca accendere il fuoco») tenendo uniti «il tema democratico e il tema sociale» e ricucendo lo strappo che si è venuto a produrre tra politica e società, anche «ridando linfa alla partecipazione». «Non c’è contraddizione tra l’aprirsi e l'idea di partito», dice Bersani chiudendo i lavori di un seminario sulla forma partito organizzato dall’associazione Rifare l’Italia e dal Crs. «Siamo maturi per la fase due per la nostra organizzazione anche in tema statutario, e mettere in sicurezza il nostro partito per evitare l’eccesso del, non lo chiamerò feudalesimo, ma correntismo». La convinzione di Bersani è che il Pd può delimitare un «perimetro più largo» di quello circoscritto fino ad oggi, proprio partendo dal rapporto con la società sul territorio. «Tocca al Pd essere se stesso e anche infrastruttura di un campo più largo. Ma ci sono dei paletti che non possono essere superati: se uno mi dice non c’é né destra né sinistra gli dico puoi anche andare, vai vai. A uno che occhieggia con i populismi ricordo che nella storia italiana i populismi sono iniziati di qua e finiti di là, a destra».
Messaggi lanciati dentro e fuori il Pd, inviati anche a chi un giorno auspica l’unità interna, o dall’esterno un’alleanza col Pd, e un giorno attacca i vertici del partito. Non a caso Bersani precisa che le primarie annunciate per il prossimo autunno «sono laggiù». Cioè al termine di processo che prevede prima l’estremo tentativo di cambiare legge elettorale (presto si capirà se il Pdl intende veramente superare il Porcellum visto che se un accordo non viene trovato entro luglio non ci sarà il tempo materiale per approvare la riforma) e la definizione di una «carta di intenti»: prevede anche un vincolo di maggioranza e dovrà essere siglata da chi intende far parte del fronte progressista che si presenterà unito alle prossime politiche.
l’Unità 23.6.12
Oggi il Big bang di Renzi Fassina attacca: «Ex portaborse»
di Osvaldo Sabato
Non è la vera Leopolda 3, quella ci sarà quindici giorni prima delle primarie. Ma la convention dei sindaci, organizzata da Matteo Renzi, assume sempre di più il significato di un appuntamento propedeutico all’annuncio del sindaco di Firenze di candidarsi alle primarie del centrosinistra «se non sono aperte io non corro» ha ribadito anche ieri. Così in attesa degli ottanta interventi dei sindaci, oggi al Palacongressi, mancano però quelli delle grandi città, e nel clamore suscitato dal dossier segreto di Berlusconi con tanto di candidatura a premier di Renzi, naturalmente poi smentito dai colonnelli del Pdl, a tenere banco è il duro attacco di Stefano Fassina al sindaco rottamatore. «Renzi? Una figura minoritaria nel partito, ripete a pappagallo alcune ricette della destra, è fuori tempo massimo. Ma non credo andrebbe con Berlusconi, è lontano anche dal suo populismo» dice il responsabile economico del Pd, ospite alla “Zanzara” su Radio 24.
«Io a differenza sua aggiunge Fassina ho avuto una lunga esperienza professionale fuori dalla politica. Lui è un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino». È la risposta a distanza a Renzi, che tempo fa aveva indirizzato proprio a Fassina parole al veleno. «Non mi faccio dettare la linea aveva detto il sindaco di Firenze da uno che non prenderebbe voti nemmeno all'assemblea di condominio».
«Secondo le regole che ci sono ora aggiunge Fassina, parlando delle primarie lui non potrebbe nemmeno candidarsi e un partito funziona con delle regole. Ma Bersani vincerà comunque a mani basse, perché fare il premier è qualcosa che non si improvvisa e Renzi non si capisce nemmeno cosa propone, l’unica cosa certa è la sua data di nascita». La replica del sindaco fiorentino? «Ah, Fassina... Bersani è più serio delle persone che lo circondano. Agli insulti, replichiamo con un sorriso». Sorrisi a parte, il segretario del Pd toscano, Andrea Manciulli tenta di raffreddare il botta e risposta: «Con Matteo non sono politicamente d’accordo su molte cose, ma non bisogna mai passare il limite andando sul personale». Ma a proposito del documento di Berlusconi, che tanto ha fatto discutere ieri, sull’argomento è tornato il presidente della Regione, Enrico Rossi: «A me il documento dell'Espresso su Berlusconi che vuole Renzi premier pare costruito ad arte e farebbe bene Matteo a scherzar meno e ad indignarsi di più dice su Facebook però come appello al voto per Renzi all’elettorato di centrodestra, per le primarie del centrosinistra, può funzionare e avere una certa efficacia». Come dire, che forse la reazione di Renzi non è stata poi così forte, come c’era da aspettarsi di fronte a insinuazioni di quel tipo.
È in questo clima, che oggi a Firenze si terrà il Big Bang dei sindaci, ci sarà anche l’ex Mediaset Giorgio Gori (fresco di tessera Pd), che sindaco non è, ma è pur sempre il pilota della macchina elettorale di Renzi, che punta a creare 700 comitati in altrettanti Comuni italiani. È la strategia che, per qualcuno, passa anche attraverso l’appuntamento odierno. Ad aprire i lavori un collegamento con Finale Emilia, uno dei Comuni colpiti dal terremoto, dove ci sarà il sindaco Fernando Ferioli. In platea amministratori locali per lo più di piccoli Comuni della Toscana, del Veneto e dell’Emilia-Romagna e cittadini comuni «semplici rottamatori, come Loredana da Napoli: «Sono venuta a sentire. Certo, la concomitanza con i circoli di Bersani non gioca a nostro favore».
Corriere 23.6.12
Bersani-Renzi, l'anticipo delle primarie
Oggi la sfida a distanza. Fassina duro: il sindaco pappagallo della destra
di Maria Teresa Meli
ROMA — Anna Finocchiaro, ex ministro, capogruppo al Senato, sette legislature; Massimo D'Alema, ex premier, ex ministro, ex segretario del Pds, sette legislature; Walter Veltroni, ex ministro, ex vice presidente del Consiglio, ex segretario dei Ds, ex segretario del Pd, sei legislature; Franco Marini, ex segretario della Cisl, ex segretario del Ppi, ex presidente del Senato, sei legislature; Rosy Bindi, ex ministro, ex Dc, ex Ppi, ex Margherita, cinque legislature. È legata anche a questa lista di nomi la disfida del Partito democratico che vedrà protagonisti Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Il segretario dovrà decidere se inaugurare un nuovo corso, applicando senza più deroghe il limite dei tre mandati parlamentari previsto dallo statuto del Pd, nonostante le pressioni dei pezzi grossi di Largo del Nazareno. Il sindaco di Firenze ha già deciso: se mai dovesse vincere le primarie, procederà senza remore al rinnovamento.
Oggi i due si sfideranno a distanza: Bersani riunisce a Roma i circoli del partito, Renzi ha invitato a Firenze mille amministratori locali a lui vicini. È chiaro che non si attaccheranno direttamente. Il segretario ha già spiegato ai suoi: «Prima di occuparmi delle primarie voglio dedicarmi alla lettera d'intenti del Pd, quella con cui proporremo un patto a tutti i democratici e i progressisti. Anche per questa ragione nei prossimi giorni riunirò attorno a un tavolo diverse personalità del mondo della cultura e dell'economia italiana: voglio ascoltare che hanno da dirci, voglio sapere quali sono le loro proposte e illustrare le nostre». Il sindaco, che peraltro non si è ancora candidato ufficialmente alle primarie (lo farà dopo l'assemblea nazionale, prevista per il 13 e 14 luglio), preferisce al momento concentrarsi su un altro tema: «L'Italia che vorrei». E comunque ha deciso di non replicare agli attacchi dei colonnelli bersaniani. Ieri Stefano Fassina è stato durissimo con lui: «Ripete a pappagallo le ricette della destra. È un ex portaborse diventato sindaco di Firenze per miracolo». Renzi ha fatto spallucce e ha risposto: «Bersani è più serio di chi lo circonda».
In questa fase nè il segretario nè il sindaco intendono personalizzare lo scontro. È sui contenuti che entrambi si sfideranno quando la campagna per le primarie entrerà nel vivo. Ciò non significa però che le macchine organizzative di Renzi e Bersani non siano già partite. Il sindaco si muove secondo il «modello Prodi»: la creazione di circoli sparsi in tutta Italia (alla fine saranno cinquemila), in modo che la «rivoluzione renziana» parta dal basso. E in queste ore il primo cittadino di Firenze sta decidendo anche il nome del coordinatore della sua campagna. Sarà un sindaco o un ex amministratore locale. Per il segretario, naturalmente, tutto è più facile, perché ha a disposizione la macchina organizzativa del partito. Ma, per un verso, è anche tutto più complicato, dal momento che il leader deve tenere insieme le diverse anime del partito, e quindi sarà costretto a mediare su alcuni temi, mentre Renzi, da questo punto di vista, sarà più libero di muoversi. Bersani, comunque, in vista delle primarie, si è già scrollato di dosso l'immagine del candidato dell'apparato, aprendo alla società civile e alle eventuali liste civiche che verranno presentate: «Non si può certo dire che noi siamo l'establishment».
La prima battaglia vera tra i sostenitori dei due sarà a luglio, quando si riunirà l'assemblea nazionale, per modificare le regole dello Statuto: «Bisogna cambiare delle cose — spiega il segretario — perché non ci può essere un correntismo esasperato. Io stesso sono moderatamente bersaniano». Ma Renzi sente puzza di bruciato: «Se si cambieranno le regole delle primarie per farle solo con gli iscritti e non aperte io non partecipo», avverte il sindaco di Firenze.
il Fatto 23.6.12
Renzi, l’eterno sfidante che non si candida mai
Fassina contro il sindaco di Firenze: “Ex portaborse”
di Wanda Marra
Se fossi Renzi mi tremerebbero le vene dei polsi a candidarmi a guidare il paese, in una situazione in cui hanno fallito Mario Monti e Mario Draghi”. Al “giovane” sindaco di Firenze stanno tremando le vene dei polsi, come auspica Beppe Fioroni, e per questo ha deciso che neanche oggi annuncerà ufficialmente la sua candidatura alle primarie?
Ai nastri di partenza da mesi, oggi Renzi convoca a Firenze “Big Bang Italia obiettivo comune”. Un evento stile Leopolda, con un migliaio di amministratori locali e interventi liberi per tutto il giorno. Tutti si aspettavano l’annuncio ufficiale della sua candidatura, e invece no, grande “spettacolo” rimandato di nuovo (a meno di colpi di testa dell’ultima ora). Questione di regole, almeno ufficialmente: come spiega Matteo Richetti, suo braccio destro e presidente dell’Assemblea regionale dell’Emilia Romagna, dipende da quanto saranno consultazioni davvero aperte. Tradotto: Renzi vuole poter contare soprattutto su voti non tradizionalmente del Pd (forse non proprio quelli incoraggiati da Berlusconi in persona, come scriveva l’Espresso ieri, ma degli orfani pidiellini sicuramente sì).
COME TRADIZIONE comanda, allora, nel Pd non si procede per linee rette, ma per cammini tortuosi. E dunque, oggi abbiamo i due sfidanti (o aspiranti tali) del Pd alla premiership, Bersani e Renzi che si confrontano a distanza, riunendo il primo l’assemblea dei circoli, il secondo gli amministratori locali. Dopo la direzione in cui il segretario diceva sì alle primarie, due eventi che assomigliano da vicino ai blocchi di partenza. Peccato che però sarà l’Assemblea democratica del 14 e 15 luglio a modificare lo statuto e a dare davvero il via alla corsa. Sempre se nel frattempo qualche incidente di percorso non anticipi il voto a ottobre.
Intanto, le squadre sono formate. Il segretario può contare praticamente su tutti i big, da Massimo D’Alema a Rosy Bindi, da Dario Franceschini a Enrico Letta, persino a Walter Veltroni (in rotta di collisione con Renzi dopo un’infatuazione neanche troppo breve). E poi sui giovani dirigenti un po’ indisciplinati ma valenti come Stefano Fassina e Matteo Orfini, oltre a molti 40enni in carriera, Andrea Orlando, responsabile Giustizia, in primis. Con Bersani, amministratori locali di peso, (in 100 hanno firmato un appello sabato scorso) come Piero Fassino e Vasco Errani. Oltre a quadri, molto attivi sul territorio, da Stefano Bonaccini, segretario Emilia Romagna, a Manciulli, segretario della Toscana. Bersani, il cui spin doctor sarà il coordinatore della segreteria, Maurizio Migliavacca, dovrebbe trasferire il suo comitato elettorale a via Tomacelli, nella ex sede di Democratica, associazione veltroniana (i corsi e i ricorsi).
INVECE, Matteo Renzi, può contare sulla squadra della Leopolda: oltre a Richetti, Giorgio Gori, che è stato il fondatore di Magnolia, spin doctor di un certo peso, l’economista Luigi Zingales, Davide Faraone, già candidato alle primarie di Palermo, oltre a scrittori come Alessandro Baricco e Edoardo Nesi. Big
del partito, praticamente nessuno (almeno per ora). Amministratori locali di peso, il presidente dell’Anci, Graziano Del-rio. Giovani promettenti Andrea Sarubbi, Sandro Gozi e (forse) Debora Serracchiani, che oggi sarà a Firenze, ma che potrebbe correre in proprio o accettare una candidatura alla presidenza del Friuli Venezia Giulia. Tra i sondaggi interni che danno il segretario vincente e i candidati che spuntano continuamente, forse a Renzi un po’ le vene dei polsi stanno tremando davvero. Abbastanza da spiegare il tira e molla (“Mi si nota di più se mi candido ora o tra un po’”, per parafrasare Nanni Moretti) che va avanti da mesi. Ieri comunque non è mancato neanche lo scontro frontale degno di una campagna elettorale. “Renzi? Ripete a pappagallo quello che dice la destra. E nel partito è una figura minoritaria”, spara Fassina, dicendo ad alta voce quello che in molti piddini pensano e ricordando che Renzi “è un ex portaborse”. “A chi ci insulta rispondiamo con un sorriso”, dice l’altro (su Twitter, ovviamente). Che però perde pezzi. “Io con Renzi? Sto andando a Padova a candidare Concita De Gregorio”, dice con una (mezza) battuta Pippo Civati che chiarisce: “Io sto parlando con persone che mi sembrano adeguate, come il ministro Fabrizio Barca”. A proposito di adeguatezza, pure Beppe Fioroni da oggi è in campo: “No, non mi candido io. Però comincio con un’iniziativa a Pavia e fino a settembre tutti i week end riunirò i cattolici democratici. Poi vediamo con chi ci schieriamo”. E intanto Vendo-la, che in realtà ha la candidatura pronta, mette in discussione la coalizione con il Pd.
A proposito di primarie, un punto rimane oscuro: chi paga? Tutto, ancora una volta, dipende dalle regole. Potrebbe pagare in parte il partito, in parte le donazioni, per Bersani. E per Renzi, che almeno stavolta non può contare di certo sui soldi distribuiti da Lusi? Chiunque vorrà, spiegano nello staff, assicurando trasparenza sui finanziatori.
La Stampa 23.6.12
Il sindaco: non replico agli insulti
Fassina a Renzi: sei come un pappagallo
«Renzi? Una figura minoritaria nel partito, ripete a pappagallo alcune ricette della destra, è fuori tempo massimo. Ma non credo andrebbe con Berlusconi, è lontano anche dal suo populismo». Lo dice Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, alla Zanzara su Radio 24. Un attacco durissimo, che non risparmia nulla al sindaco di Firenze e innesca l’ennesima polemica nel partito. Dice Fassina: «Secondo le regole che ci sono ora non potrebbe nemmeno candidarsi alle primarie, e un partito funziona con delle regole. Bersani vincerà comunque a mani basse, perchè fare il premier è qualcosa che non si improvvisa e Renzi non si capisce nemmeno cosa propone. L’unica cosa certa di Renzi è la sua data di nascita. Io, a differenza sua, ho avuto una lunga esperienza professionale fuori dalla politica. Lui è un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino», conclude Fassina. A stretto giro di posta (elettronica) arriva la replica del sindaco di Firenze, che l’affida appunto a twitter. «Domani mille amministratori saranno in città per proporre un’Italia più libera e più semplice. A chi insulta rispondiamo con un sorriso». Il riferimento è alla convention «Big Bang. Italia obiettivo comune», convocata per oggi nel capoluogo toscano.
l’Unità 23.6.12
Vendola: «L’alleanza con il Pd non è scontata»
«Le primarie non sono un concorso di bellezza, dipenderanno da cosa vogliamo costruire»
di Susanna Turco
Non trova «scontato» che Sel si allei con il Partito democratico, e non sa «ancora» se parteciperà alle primarie.
Alla vigilia della riunione dei circoli del Pd, Nichi Vendola alza il livello delle richieste al Partito democratico, difende Antonio Di Pietro nel suo scontro con Giorgio Napolitano, attacca Monti (anche sul fronte del «cinismo» col quale «in continuità con Tremonti» non ha rispettato il risultato del referendum sulla privatizzazione dell’acqua) e a Pier Luigi Bersani chiede una sterzata a sinistra: il centrosinistra deve «togliersi gli abiti vecchi, rompere con la farmacopea del liberismo», smettere di dare l’impressione di «perseguire politiche di centrodestra», altrimenti «il centrosinistra al quale sono iscritto io non c’è» e dunque «nulla è scontato», nemmeno l’alleanza.
A margine di una conferenza stampa alla Camera con Stefano Rodotà per difendere i risultati del referendum sulla privatizzazione dell’acqua di un anno fa, e annunciare nel giorno in cui «Alemanno avvia la privatizzazione dell’Acea, che è di fatto illegale» le tariffe agevolate che entreranno in vigore in Puglia per le fasce più deboli, il leader di Sel chiede al segretario del Pd un «chiarimento politico» che serva a «sciogliere i troppi nodi che ci sono, terribilmente intricati». E non fa un passo avanti per confermare la sua candidatura alle eventuali primarie di coalizione.
«Le primarie non sono un concorso di bellezza, non ho ancora sciolto la riserva perché non so ancora cosa è il centrosinistra che stiamo costruendo, non ho capito quale è il programma del partito democratico», dice Vendola. E si chiede: «Vogliamo scegliere la leadership per la coalizione che deve aiutare a uscire dalla palude del berlusconismo? Allora sulla definizione dell’offerta politica del centrosinistra bisogna essere chiari».
Quanto ad Antonio Di Pietro – che aveva invitato solo due settimane fa a «non piantare bandierine» che dividano la sinistra Vendola lo definisce un «valore aggiunto per la coalizione», «un importante alleato» con il quale «vale la pena di fare lo sforzo di dialogare» perché contribuisca a portare avanti «l’agenda del cambiamento». E difende il leader dell’Italia dei Valori, respingendo le critiche per le polemiche contro il Quirinale: «Qui il problema non è la buona educazione istituzionale di Di Pietro, ma la cattiva politica. Sono molto più preoccupato per l’attacco del governo ai diritti sociali».
Deprecando la riforma del lavoro che sta per essere licenziata alla Camera, e l’assenso dato dal Pd («non si possono difendere i principi della
dignità del lavoro e nello stesso tempo partecipare all’uccisione dell’articolo 18»), il leader di Sel si proclama «contro l’Europa tecnocratica e liberista», parla di «fallimento» del governo Monti e apre le porte alle elezioni: «È da combattere l’idea che il voto possa rappresentare una minaccia, un danno alla situazione economica del paese. E bisogna cambiare passo e smettere di pensare che il welfare sia uno spreco buonista che ha causato la crisi. La crisi è frutto dell’economia di rapina in un mondo in cui il lavoro ha perso il suo peso sociale. Noi dobbiamo dare uno sbocco politico alla crisi italiana, che è la crisi del paradigma liberista, che è la crisi del berlusconismo, ed oggi è anche il fallimento delle ricette del governo Monti».
l’Unità 23.6.12
Così il nuovismo ci ha riportati all’800
Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico condizionato dai partiti di massa
Un ritorno indietro tra gli applausi degli innovatori
di Mario Tronti
Le forme sono essenziali. In politica sono indispensabili. Forma di partito, forma di governo, forma di Stato. È il livello istituzione.
Qui c’è stata una perdita, un esaurimento, uno svuotamento, un indebolimento, per cause precise, niente affatto oscure. E lasciamo stare la retorica consolatoria, e in questa fase assai ambiguamente interessata, circa il fatto che queste forme siano state sopravanzate dalla crescita di nuove domande, di nuovi bisogni, da parte di una società civile buona oppressa da una cattiva politica. Magari fosse così. E io penso che se fosse così, le forme “altre” si sarebbero già trovate.
Quando c’è una spinta dal basso, reale, sociale, e quindi materiale, essa cerca, e trova, le forme di espressione adeguate. Non si è trovato niente, ormai da un quarto di secolo a questa parte. Proposte improbabili, sperimentazioni effimere, improvvisazioni leggere, liquide, come si dice, personaggi caricaturali, in una produzione allargata di questi fenomeni. (...) C’è stato uno smottamento nella qualità del consenso delle società democratiche. Le spinte sociali sono state sostituite dai flussi di opinione. Nelle attuali democrazie, puramente elettorali, questi flussi esercitano una funzione strutturale. Come l’andamento delle borse determina la decisione economica, così l’andamento dei sondaggi determina la decisione politica. Un altro modo di esercizio del primato da parte dell’economico sul politico. Che è primato del quantitativo sul qualitativo, dei numeri sulle idee. Non è un caso che sia il populismo a presentarsi oggi come la nuova forma dell’obbligazione politica. E il primato della comunicazione salga al ruolo di vero potere sovrano. E allora, ecco, è rappresentazione ideologica l’autonomia dell’opinione pubblica. Di fatto, essa è guidata, orientata, manovrata, come mai accaduto nel passato. Gli interessi chiedevano rappresentanza politica, e alla fine sottostavano alla mediazione.
L’opinione per prima cosa pretende di autorappresentarsi. È qui l’alternativa vera tra due sistemi istituzionali. Tra parlamentarismo e presidenzialismo, non c’è una scelta di tecnica elettorale, c’è la sostanza di una decisione politica. Attraverso la manipolazione dell’opinione, si afferma il potere incontrastato degli interessi più forti.Non l’interesse generale. Al contrario: il rapporto di forza alla stato puro, senza più i famosi lacci e lacciuoli. E accade questa cosa niente affatto strana. La parte acculturata della società, per il fatto che detiene il monopolio della parola, comanda sul resto, maggioritario, del sociale. Il popolo, con dentro, al centro, la persona che lavora, è ridotto all’intendenza che seguirà. La «Repubblica delle idee» detta i compiti a casa alle forze politiche. Primo compito di un partito del rifare Italia, e del fare Europa: dare voce ai senza parola. Perché se non gliela dà il partito questa voce, non gliela dà nessuno.
(...) La destrutturazione delle forme, ripeto, di partito, di governo, di Stato, è venuta avanti come l’obiettivo, riuscito, di un’operazione dall’alto. Ne aveva bisogno il capitalismo liberale, globalizzato, che negli ultimi trent’anni ha imposto il suo potere assoluto. Non una innovazione, una restaurazione. Nella sostanza del rapporto sociale reale, armato di rivoluzioni tecnologiche. Non un salto post-novecentesco, ma un eterno ritorno di Ottocento.
Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico del trentennio precedente, gestito o condizionato dai grandi partiti di massa, a componenti popolari. Questi erano gli ostacoli alla globalizzazione liberista e questi sono stati tolti di mezzo, con applausi dalla platea degli innovatori. La deriva di ceto politico, il discredito dei partiti, l’insignificanza dei governi, la debolezza al posto della forza degli Stati, non sono state cause ma conseguenze. Così, irriconoscibilità, autorefernzialità, corruzione della politica. (...) Sento dire, da varie parti: dobbiamo capire le ragioni dell’antipolitica. Oppure: non chiamiamo antipolitica tutto quello che non ci piace. Due osservazioni di buon senso. Ma il buon senso va sempre letto con un buon intelletto. Il riflesso antipolitico dei cittadini rispecchia, senza saperlo, l’antipolitica dei mercati, che invece la sanno lunga. La ricerca di un’altra politica, senza i partiti, oltre i partiti, delle associazioni, del volontariato, del civismo, si trova accanto, suo malgrado, la setta di quei professionisti dell’anticasta, che dalle pagine dei grandi giornali d’informazione fanno da megafono ai peggiori interessi di classe.
* Relazione pronunciata al convegno «Le forme della politica organizzata»
l’Unità 23.6.12
No al presidenzialismo. Difendiamo la Carta
Berlusconi e la destra già nel 2005 avevano provato a scardinare la nostra Costituzione
di Silvana Amati
TORNA IL PERICOLO DEL PRESIDENZIALISMO. UNA MALATTIA MOLTO GRAVE PER LA DEMOCRAZIA E PURE UNA MALATTIA ASSAI INFETTIVA. COME PER MOLTE MALATTIE INFETTIVE conosciamo però il vaccino. Infatti se ci facciamo la domanda: «Un democratico la Costituzione la difende o la cambia?». In coscienza sappiamo immediatamente quale dovrebbe essere la risposta.
Sarebbe bene ricordare che Berlusconi e la destra ci avevano già provato nel 2005 a scardinare la Costituzione Però il loro scandaloso tentativo di organica riforma costituzionale, passato alle Camere a colpi di maggioranza, era stato respinto a grande maggioranza dal popolo attraverso il referendum costituzionale del 25 giugno 2006.
Oggi, morto Dossetti, che era stato la prima, efficiente sentinella nella notte di smantellamento costituzionale, il tentativo viene rinnovato. Perché? Perché il momento attuale, conoscendo la storia dell’avvento del fascismo e del nazismo, è certo parso favorevole a quanti soffrono la Costituzione come un limite all’esercizio del potere assoluto.
La Repubblica e la democrazia nel nostro Paese, sono minacciate da una gravissima crisi economica. Le difficoltà oggettive sono il terreno di coltura per un bombardamento giornalistico e televisivo, che da tempo opera per indebolire la coscienza democratica attraverso l’uso sistematico degli strumenti di disinformazione classici dell’antipolitica. È facile poi vedere come sia la funzione, sia l’immagine delle stesse istituzioni parlamentari repubblicane, siano risultate progressivamente compresse dall’introduzione di una normativa elettorale funzionale ad un forzato bipolarismo.
I costituzionalisti democratici hanno segnalato più volte, per ora purtroppo inascoltati, come le rinnovate proposte di smantellamento costituzionale siano mirate a rafforzare la posizione di potere del governo e per esso del presidente del consiglio. Infatti configurano un potere esecutivo che, lungi da voler svolgere il potere-dovere di eseguire le leggi emanate dal Parlamento, mira a sostituire le Camere nell’esercizio della funzione legislativa che loro spetta.
Almeno ai democratici dovrebbe quindi essere chiaro, soprattutto a seguito dell’esperienza dei governi guidati da Berlusconi, che il pericolo che si è manifestato negli ultimi anni è quello dell’eccesso di potere del governo nei confronti del Parlamento. Se non ci fossero state le garanzie costituzionali della Carta che si vuole ora mutilare, Berlusconi sarebbe ancora lì a fare i danni che quasi tutti ora riconoscono.
La storia costituzionale italiana mi sembra insegni che democrazia e libertà sono difficili da conquistare. Difficilissime da difendere. Facili da perdere.
La Stampa 23.6.12
Stato e Mafia, tensione a sinistra
Di Pietro e l’ultimo strappo all’alleanza con Bersani
Il Pd fa quadrato sul Colle preso di mira dal leader Idv: foto di Vasto addio
di Federico Geremicca
Rosi Bindi: «Troppe cose sono accadute perché si possa fare finta di niente»
Vendola: «L’ex pm è una risorsa E l’alleanza col Pd non è scontata»
Latorre: nell’Italia dei valori non tutti condividono Tonino
Ora pare impossibile un’alleanza che comprenda anche l’Udc di Casini
A metterli in fila, i capi d’accusa riempirebbero ormai una intera colonna di giornale. L’ultima contestazione rivolta dai vertici del Pd a Tonino Di Pietro, poi, è di quelle politicamente irrecuperabili: attacco al Capo dello Stato, sulla scia - e per certi versi persino oltre la scia - di Beppe Grillo. Le insinuazioni e le battute maliziose rivolte dagli uomini dell’Idv al Presidente della Repubblica per il cosiddetto caso-Mancino, avevano già reso pesantissimo il clima tra i potenziali alleati: poi, l’idea di Di Pietro di chiedere addirittura l’istituzione di una Commissione d’inchiesta “per accertare la verità”, ha colmato la misura. E di quella arcifamosa foto di Vasto (Bersani, Vendola e Di Pietro assieme su un palco) è rimasta poco più che una indecifrabile macchia di colore.
Il Pd ci ha messo forse un paio di giorni di troppo - determinando una palpabile amarezza lassù sul Colle a capire quanto insidioso fosse l’attacco al Capo dello Stato, ed a scendere quindi in campo in sua difesa. Rotti gli indugi, però, la posizione assunta è stata di totale nettezza. Pier Luigi Bersani - che già da mesi invitava Antonio Di Pietro a non tirare la corda fino al punto di spezzarla - ha avuto parole aspre. E ancor più duri sono stati i commenti dell’ala cattolica e moderata del Partito democratico, che negli attacchi dell’Italia dei valori a Napolitano ha colto l’ennesima (e definitiva) ragione per spazzar via dal campo una ipotesi di alleanza elettorale alla quale - per la verità - già guardava da tempo con crescente scetticismo.
Rosy Bindi - presidente dell’Assemblea nazionale Pd, cattolica ma fino a ieri tra le più aperte a un’intesa con Di Pietro - dice che troppe cose sono accadute perchè si possa far finta di niente: «Un’alleanza elettorale con lui la vedo sempre più complicata... L’attacco a Napolitano è davvero difficile da digerire per il Pd. In più, continuando su questa via e con questi toni, Di Pietro rende del tutto impraticabile l’idea di un’alleanza allargata a Casini, che per noi resta invece strategicamente assai importante». Infine, la sintesi: che somiglia all’epitaffio su una storia cominciata male e continuata peggio. «Sono mesi che gli chiedevamo di abbassare i toni della polemica verso il Pd: non c’è stato nulla da fare. E non basta: perchè adesso, sentendosi scavalcato da Grillo, Di Pietro sta dando il peggio di sè in quanto a demagogia e giustizialismo».
Nel Partito democratico, per altro, sono in molti ad esser convinti che la linea ultra barricadera sulla quale l’ex pm si è attestato, starebbe determinando distinguo e malumori all’interno della stessa Italia dei Valori: molti, infatti, non capiscono più quale possa essere l’approdo - in termini di alleanze politiche ed elettorali - di una posizione che va facendosi via via più aspra e intransigente. Dice Nicola Latorre: «Anche nell’Idv, nonostante tutto, convivono culture e sensibilità diverse: e molti non accettano di esser schiacciati su posizioni che spesso, ormai, vanno addirittura oltre Grillo... ».
Di Pietro addio, insomma. O giù di lì. A sancire la rottura potrebbe essere la “dichiarazione d’intenti” alla quale sta lavorando Bersani stesso e che dovrebbe esser resa nota poco prima della riunione dell’Assemblea nazionale pd (metà luglio). Spiega il senatore Latorre: «Lì il Pd dirà quel che pensa dell’Italia e le cose che ritiene necessarie fare per modernizzare e rendere competitivo il Paese. Il testo sarà aperto a contributi, naturalmente: ma mi pare difficile che Di Pietro possa trovarvi una qualche sintonia con le sue posizioni. Del resto, almeno per quel che mi riguarda, è più di un anno che dico che il Pd - dopo la sua fondazione - è adesso atteso da una nuova tappa: la costruzione di un’alleanza strategica - come progetto e come soggetto politico - con Nichi Vendola».
Già, Vendola: il terzo della foto di Vasto. In attesa di capire quando si voterà, con quale legge elettorale e se davvero ci saranno le primarie del centrosinistra per la scelta del candidato-premier, il leader di Sel non chiude ancora nessuna porta: «Qui il problema non è la buona educazione istituzionale di Di Pietro - dice il governatore della Puglia - ma la cattiva politica... Per quanto mi riguarda, credo che lui resti un importante alleato e un valore aggiunto per il centrosinistra». E non è tutto: perchè, dopo aver difeso il possibile ruolo del leader dell’Idv, Vendola manda un avvertimento non da poco proprio al Partito democratico: «Se non si dismettono ildogmatismo liberista e gli abiti indossati negli ultimi 30 anni, l’alleanza è in discussione... ».
Così come nel centrodestra, insomma, anche nel centrosinistra tutto appare incerto, confuso e in movimento. C’è, naturalmente, chi dice che con Di Pietro non poteva che finire così, e che è stata un’illusione pensare di poterlo “moderare”... «Io lo sostengo da almeno un anno e mezzo - ricorda Beppe Fioroni -. Per Di Pietro, è storia nota, è sempre venuto prima il suo orticello e poi il Paese con i suoi interessi. Invece è al Paese che noi dobbiamo pensare, costruendo un centrosinistra del tutto nuovo. Con Vendola, certo: e dico non a caso Vendola - e non Sel - perchè Nichi ha dimostrato sensibilità e cultura di governo, mentre molti suoi compagni ancora no... Lasciamo perdere Di Pietro, insomma, e costruiamo un’alleanza vincente con il centro moderato».
Della foto di Vasto, insomma, resta questo: malumori, qualche delusione e la critica più o meno velata di chi sostiene che non poteva che andare così. A meno di un anno dal voto sembra tutto da costruire. O da ricostruire. E chissà se è un caso - o se non era già tutto scritto - che l’ultimo strappo tra Di Pietro e il Pd ricordi la prima violenta polemica tra l’ex magistrato e i “democrats”. Piazza Navona, i girotondi, le leggi bavaglio e la già allora violenta polemica di Antonio Di Pietro nei confronti dell’inquilino del Quirinale...
l’Unità 23.6.12
Intervista a Veltroni: «C’è una campagna politica per indebolire il Quirinale»
Trattativa Stato-mafia: dobbiamo cercare la verità
Chi chiede la commissione di inchiesta punta a fermare l’Antimafia
di Claudia Fusani
Il presidente Napolitano dice «stop a una campagna di illazioni basata sul nulla». Ma le telefonate tra l’ex ministro Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio ci sono. Onorevole Veltroni, devono essere chiarite? «Certo, ma occorre distinguere. La campagna attivata in questi giorni è di tipo politico e ha come obiettivo il Presidente della Repubblica e l’indebolimento del suo ruolo di garanzia per favorire esiti avventurosi della crisi italiana. Qualcuno sta cercando di accentuare gli elementi di instabilità all’interno di una logica che Gramsci avrebbe chiamato di avvelenamento dei pozzi. Altra cosa è la legittima indagine della magistratura per scoprire tutta la verità su uno dei momenti più drammatici del nostro passato».
È normale che il consigliere giuridico del Quirinale parli con persona informata sui fatti, cioè Mancino, della vicenda di cui è testimone?
«Non ho avuto impressione che D’Ambrosio entrasse nel merito della vicenda di quegli anni. Se non con alcuni riferimenti circa la stranezza del suicidio di Antonino Gioè (uno dei killer delle stragi, ndr) in carcere. Il punto è un altro. Conosco questo Paese. Ogni tanto si alzano polveroni per evitare che si arrivi al nocciolo dei problemi. La richiesta di una commissione d’inchiesta su questa vicenda vuole solo impedire che la commissione Antimafia, da quattro anni al lavoro sugli stessi temi, concluda il suo lavoro. Delegittimarla a un passo dalla relazione finale».
Annullare chi vuole avvelenare i pozzi. Come?
«Stando sul punto. A me interessa tutta la verità sulle stragi ’92-93. E tutta la verità passa anche dalla richiesta in commissione di nuove audizioni di Conso e Mancino. Ma dobbiamo sentire anche Gaspare Spatuzza (il pentito che dopo sedici anni ha messo a nudo le bugie sulla strage di via D’Amelio, ndr) e il generale del Ros Subranni (indagato a Palermo per la trattativa, ndr). La commissione Antimafia non deve fare un’inchiesta giudiziaria ma ricostruire quel momento politico lasciando alla magistratura (indagano sui misteri del biennio tre procure, Palermo, Caltanissetta e Firenze, ndr) il compito di arrivare alla verità giudiziaria. È chiaro che nessun ostacolo va frapposto al lavoro della magistratura e a quello della commissione».
C’è il rischio che quel biennio resti agli atti come l’ultimo mistero d’Italia?
«Il rischio c’è visto che i misteri d’Italia sono il buco nero di questo Paese. È l’unico Paese europeo in cui c’è stato un tale succedersi di eventi non chiariti, zone oscure e depistaggi clamorosi. Dal caso Mattei in avanti. E quando penso alle stragi del biennio ’92-93 non posso non pensare al depistaggio di Scarantino, a quello del questore La Barbera (capo del pool di investigatori che indagava, ndr) che tornerà anni dopo anche dietro il sanguinoso blitz alla scuola Diaz nei giorni del G8 genovese. Andando indietro, al generale Subranni sospettato di aver guidato i depistaggi dopo l’omicidio Impastato. Coincidono, queste azioni, con passaggi cruciali nella vita del Paese. Nel biennio ’92-93 cambia la nostra storia politica. E come in tutte le fasi di transizione nel ’68-69 con piazza fontana, prima ancora col Piano Solo e poi con il governo di unità nazionale e il rapimento Moro succede qualcosa di sanguinoso. Le organizzazioni criminali in questi momenti di passaggio diventano parte della strategia terroristico-mafiosa volta a cambiare gli equilibri del Paese».
Entrati in questa logica, capire la o le trattative è fondamentale per dare un nome a chi ha ucciso Borsellino? Se dietro il tritolo di via D’Amelio ci sono anche i servizi segreti?
«Sì, ma bisogna chiedersi anche perché è stato ucciso Falcone, perché l’attentato all’Addaura. Soprattutto, perché sono cominciate le stragi e perché sono finite. La risposta chiama in causa certamente la trattativa ma anche una ricostruzione un po’ meno schematica di quello che è successo in quegli anni. Falcone, ad esempio, poteva essere ucciso in modi diversi, a Roma, per strada. Invece Riina richiama i suoi e decide per la dimensione terroristica della strage. La mafia, a parte Ciaculli e Portella della Ginestra, aveva fatto tanti assassinii ma mai stragi. Allora, perché Falcone? E perché Falcone, dopo l’Addaura, indica l’azione di “menti raffinatissime”?». Perché un falso colpevole come Scarantino trascina la magistratura fino al giudizio definitivo salvo poi scoprire, grazie a Spatuzza, che era tutto falso?
«Perché un pezzo dello Stato ha lavorato contro lo Stato. C'è stato un “antistato” che ha lavorato fin dall’inizio, probabilmente l’Addaura, per depistare. L’Italia ha sempre dovuto combattere contro un grumo di cose nascoste che di volta in volta ha utilizzato agenzie di varia natura per fare operazioni. Perché la banda della Magliana spara al presidente del banco Ambrosiano? Perché spara a Mino Pecorelli? Vengono chiamati da qualcuno per un altro tipo di lavoro. Questo qualcuno è “l’entità” di cui ha parlato tante volte il procuratore antimafia Piero Grasso. Per me è identificabile con l’antistato. Lo chiamo cosi perché per me lo Stato è Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Rocco Chinnici».
Chi è l’antistato ?
«Negli anni ha assunto la forma della P2, del terrorismo di destra, della deviazioni di Gladio. È un’entità che reagisce cercando di ricostruire equilibri di potere preesistenti quando questi vengono scossi».
Perché nel 1994 finiscono le stragi?
«Finiti Andreotti e la Dc dei Salvo e di Lima, la mafia era alla ricerca di un nuovo referente politico. Le stragi finiscono probabilmente quando quel referente viene trovato».
Oggi siamo in una fase di passaggio simile al biennio ’92-93?
«Assolutamente sì. E l’attacco al Capo dello Stato rientra in questa antica e carsica strategia. Così come ci rientra l’irresponsabile tentativo di trascinare l’Italia in elezioni anticipate cercando di far leva sullo scontento sociale e assumendo posizioni populiste come “usciamo dall’euro” e “torniamo alla lira”». Quello che sta dicendo Berlusconi? «Infatti. Non contento di quello che ha già fatto a questo paese, viste le difficoltà nel suo partito, vuol fare saltare tutto colpendo Monti e portando lo scontro all'esasperazione. Fare questo è da irresponsabili. Tipico di chi, appunto, vuole avvelenare i pozzi».
l’Unità 23.6.12
Casini: «Dietro l’attacco schegge di magistratura»
Il leader centrista «Come cittadino voglio sapere chi ha divulgato le intercettazioni»
Bersani: «Il Colle è uno dei pochi presidi democratici»
di Riccardo Valdesi
Il Quirinale «è uno dei pochi presidi di questa democrazia. Sarà meglio evitare manovre attorno a lui perché poi non ci ritroviamo più niente», avverte Bersani riguardo le polemiche sulla presunta trattativa Stato-mafia. Un caso che continua a tenere banco, con anche un Pier Ferdinando Casini che, in merito al «vergognoso attacco a Napolitano» pensa a qualcuno qualche «scheggia di magistratura» che «si sente minacciato nei privilegi di casta o pensa di avere il monopolio di alcuni poteri dello Stato» e agisce «con intenti intimidatori». E come cittadino, continua Casini, «voglio sapere chi, divulgando intercettazioni in un perverso circuito giudiziario-mediatico, ha determinato questo attacco al Quirinale»
E mentre il capogruppo del Pdl alla Camera, Maurizio Gasparri, sottolinea che «in questa vicenda non c’entra nulla il Quirinale di oggi, ma quello di venti anni fa» e mentre più sobriamente il presidente del Senato Renato Schifani osserva che «attaccare Napolitano significa attaccare il Paese» Angelino Alfano, nel bollare come «indecorose e indegne le intercettazioni che sfiorano il Quirinale», coglie l’occasione per rilanciare la battaglia berlusconiana contro le intercettazioni: «Tutto ciò riguarda una modalità barbara a cui abbiamo provato a porre rimedio».
«Si tratta di polemiche sconcertanti: il Capo dello Stato è anche presidente del Csm ed è naturale che in tale funzione commenta intanto il vicepresidente del Csm Michele Vietti abbia attivato ciò che è previsto dall’ordinamento perché ci fosse un'attività di vigilanza e coordinamento della Procura Generale della Cassazione, a cui questi compiti spettano per legge». Per Vietti, non è accaduto «nulla di strano, si è voluto scatenare una tempesta in un bicchier d’acqua». Quindi, senza nulla concedere alle dietrologie, anche lui mette l’accento sul fatto che il Capo dello Stato «in questo Paese, in questo momento è il riferimento più sicuro per l’esercizio delle funzioni istituzionali».
Su tutt’altro fronte, Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato dalla mafia, in una intervista pubblicata in rete chiede invece l’impeachment per il Presidente della Repubblica. «È sconvolgente dice Salvatore Borsellino che al Quirinale si dia ascolto a chi come Mancino cerca di frenare quei magistrati coraggio che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia». E intervistato dal Gr1, l’ex capo del Dap Nicolò Amato conferma quanto ha scritto nel memoriale che ha inviato recentemente alla Commissione parlamentare Antimafia, ovvero che Cosa Nostra avrebbe chiesto la sua sostituzione e lo Stato gliela concesse. «Da poco ho capito che nel febbraio del ‘93, cioè qualche mese prima della mia sostituzione, la mafia sotto forma anonima ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica di allora, Scalfaro, in cui si chiedeva espressamente la mia testa. Io avevo lasciato 1300 detenuti di mafia sotto 41 bis e in pochissimo tempo sono diventati poco più di 400», dice Amato.
La Stampa 23.6.12
“Vi racconto la trattativa” Così Brusca ha diviso il pool
Il verbale del pentito sui rapporti tra politica e mafia: alla fine, il pm Paolo Guido ha scelto di non firmare
di Riccardo Arena
PALERMO Ci ho pensato tanto, prima di dire questa cosa. Proprio ci ho pensato, ripensato, è giusto, non è giusto, è giusto, non è giusto…». Il 19 aprile scorso Giovanni Brusca è seduto davanti ai pm Antonio Ingroia e Lia Sava. Aveva chiesto di essere interrogato nell’ambito di un’inchiesta su un tentativo di estorsione che avrebbe realizzato mentre era in carcere. Per questa vicenda rischia la revoca definitiva del programma di protezione, ma a sorpresa il pentito dice di non essere preparato ad affrontare l’interrogatorio che lui stesso aveva chiesto. I pm a quel punto lo interrogano solo sulla trattativa. E lui comincia a parlare di Marcello Dell’Utri.
Aggiunge per l’ennesima volta particolari. Accusa il senatore del Pdl, uno dei 12 indagati per gli accordi fra Stato e mafia, di avere avuto un ruolo negli accordi inconfessabili fra pezzi dello Stato e pezzi della mafia, nel periodo delle stragi. Che non avrebbero portato a un «patto, ma a un ricatto, se non faceva così avremmo continuato nelle bombe». Gli chiedono perché non ne avesse parlato prima e lui sostiene di averlo detto, ma a gesti, al cognato, nel corso di una conversazione intercettata dai carabinieri nel 2010. Dalla trascrizione non risulta: e lui insiste, sostenendo che col fratello della moglie, Salvatore Cristiano, «appassionato di criminologia e che legge i giornali, c’è un’intesa tale che lui capiva al volo quello che volevo dire…».
Il verbale è di 29 pagine ed è uno dei motivi della frizione che si è creata all’interno del pool coordinato da Ingroia. Se il pm Paolo Guido non ha voluto firmare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, spaccando il gruppo inquirente e suscitando dubbi anche da parte di molti altri pm, è anche perché non si è convinto di poter affrontare (e vincere) un eventuale processo con questi elementi. Con Brusca, con i ricordi a rate di Claudio Martelli, Massimo Ciancimino, del falso pentito Pino Lipari.
Guido, che ha fama di magistrato scrupoloso e per nulla sensibile alle sirene delle eventuali interferenze esterne, agitate in questi giorni dalle intercettazioni tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio, ha chiesto ai colleghi per oltre un mese di rivedere, rileggere, spiegare, provare. E alla fine non ha firmato. Come lo stesso procuratore, Francesco Messineo.
Brusca parla pure – per la prima volta nei suoi sedici anni di collaborazione – di Pietro Folena, padovano, ex segretario regionale siciliano del Pci-Pds, noto per il suo integralismo antimafia e anche per avere portato il partito al minimo storico a Palermo, alle elezioni comunali del 1990. «Folena era uno di quelli che prendevano soldi da parte di Vito Ciancimino per il partito – dice Brusca – e a me l’hanno riferito Pino Lipari e mio padre», il boss Bernardo Brusca. «E questo perché non l’ha dichiarato, fino ad oggi? », gli chiedono. «No, io l’ho detto sempre, non mi ricordo…». Pm: «L’ha detto sempre? ». Brusca: «Il fatto che Vito Ciancimino pagava tutti i segretari di partito e aveva contatti… Non mi ricordo sinceramente se l’ho fatto o meno, il nome di Folena».
Brusca pare arrampicarsi sugli specchi anche quando parla di Dell’Utri. Il delfino di Berlusconi, spiega, avrebbe sostituito Ciancimino nel rapporto con la mafia e anche nella trattativa. Ne ha parlato in netto ritardo, con i pm. Però sostiene di averne discusso col cognato appassionato di criminologia, e che «in più ha queste amicizie, questo debole per Forza Italia e per Berlusconi in particolare».
Ma nella conversazione intercettata non c’è traccia di questi passaggi, osservano i pm. «Ad un dato punto dovreste trovare una domanda dove lui mi dice: “Ma tu cosa hai detto di Dell’Utri? ”. E io, senza scendere nel dettaglio e guardandoci negli occhi, gli sto dicendo… Non so se dal sonoro si può capire. È nello sguardo, nei toni e nel commento tra me e mio cognato. “Non ho detto tutto” non lo troverete mai…”.
La questione ruota anche attorno al rapporto che l’ex stalliere di Arcore, Vittorio Mangano, all’inizio degli anni ’90 avrebbe dovuto riallacciare con Dell’Utri e Berlusconi. Anche su questo punto, dall’intercettazione non emerge che Brusca avrebbe taciuto qualcosa con i pm. «In questo passaggio – spiega lui – guardando negli occhi mio cognato, gli faccio così, con le dita, per dire che non l’ho detto, l’ho omesso… Cioè io nella sostanza a mio cognato sto dicendo che io so di più di quello che ho detto sia pubblicamente che a voi magistrati».
Corriere 23.6.12
Il procuratore di Palermo: nelle telefonate nessun reato
Messineo: «Nessuna pressione dal Quirinale»
di Felice Cavallaro
Il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, spiega di non aver «ricevuto pressioni di qualsiasi genere né dal Quirinale, né da ambienti vicini al Presidente». E ritiene «prive di rilevanza penale» le telefonate dell'ex ministro Nicola Mancino.
PALERMO — Si continua a discutere di pressioni sulla procura di Palermo che lei guida, dottor Francesco Messineo?
«Ribadisco che né io né l'ufficio abbiamo ricevuto pressioni di qualsiasi genere né dal Quirinale, né da ambienti vicini al presidente, né da altre persone o istituzioni. E quando parlo di pressioni mi riferisco anche a sollecitazioni indirette, a interventi non articolati, anche solo accennati. Insomma, nulla di nulla».
Eppure da giorni si fa un gran parlare di presunte manovre scattate attorno a intercettazioni in cui entrano le voci di persone vicine al presidente Napolitano.
«Si tratta di conversazioni tra il senatore Mancino e il consigliere giuridico del presidente, il dottor D'Ambrosio, nel contesto delle quali lo stesso Mancino esprime argomentazioni e riceve risposte, senza che in nessun punto delle stesse si parli di pressioni».
Ci sono elementi di reato in queste intercettazioni?
«Assolutamente no. Se ci fossero stati li avremmo presi in considerazione. Sono affermazioni indicative da un punto di vista complessivo, ma prive di rilevanza penale».
Se così è, per evitare il clamore massmediatico fine a se stesso, sarebbe meglio che intercettazioni di questo tipo non divenissero pubbliche in corso d'opera?
«Le norme vigenti lo rendono possibile, a determinate condizioni. Sulla modifica di cui si discute non ho un pensiero da esprimere. È attività che tocca il Parlamento nel bilanciamento di interessi generali».
Dopo vent'anni, avete elementi concreti sulla cosiddetta «trattativa», o aspettate come si dice in questi giorni «un pentito interno alle istituzioni»?
«Abbiamo rilevato che alcuni personaggi allora investiti di pubbliche funzioni non hanno parlato prima. C'è da auspicare che si facciano avanti perché ci sono pezzetti di verità forse ancora non detti da collegare».
Mossa l'accusa di falsa testimonianza al senatore Mancino, adesso aspettate che sia lui a parlare o avete elementi per attenervi al principio dell'onere della prova?
«Ovviamente spetta all'accusa l'onere della prova».
Accusa sovradimensionata?
«Va verificata in giudizio».
L'ex presidente della Commissione stragi, Pellegrino, dubita e dice che il pm dovrebbe evitare di avviare processi che capisce di non potere vincere...
«Quando si comincia un processo non si può essere sicuri dell'esito, ma il processo non è una lotta personale e non parlerei né di vittoria né di sconfitta».
Lei non ha firmato questi ultimi provvedimenti.
«Si tratta di un atto interno, solo un avviso, non un atto di esercizio dell'azione penale. E per questo non avevo obbligo di firmare. Si è enfatizzato un semplice avviso».
Non ha firmato nemmeno il pm Paolo Guido.
«In effetti lui era co-assegnatario e il distinguo pesa di più».
Restano nel suo ufficio posizioni diverse, divaricate.
«Normale che in una indagine complessa ci siano valutazioni diverse. Non siamo un organismo monolitico».
Qualcuno richiama il tema del «coordinamento», ma altri hanno tentato davvero di «scippare» l'indagine ai pm di Palermo, come si legge su qualche giornale, perfino rivolgendosi a Piero Grasso?
«Chi avrebbe dovuto scippare cosa? Non è accaduto né all'interno né all'esterno della Procura. Abbiamo letto queste cose sui giornali, ma nessuno ha interferito con le nostre indagini».
La «trattativa» lei la dà per cosa certa?
«Negli anni '92 e '93 determinati esponenti di organi statali si attivarono con comportamenti singolari finalizzati a contattare in qualche modo ambienti della mafia o a soddisfare interessi manifestati da ambienti mafiosi. A cominciare dalla riduzione dei provvedimenti di "carcere duro", dal 41 bis».
L'ex ministro Giovanni Conso ha detto di avere scelto «in assoluta solitudine». Dice il falso?
«Per lui abbiamo ipotizzato le "false informazioni al pm" che è cosa diversa dalla falsa testimonianza. Certo le sue affermazioni sono in contrasto con una serie di evidenze».
Intravede una condivisione con le indicazioni dell'allora presidente della Repubblica, Scalfaro?
«È un filone che seguiamo perché in un certo senso il presidente Scalfaro supportava l'orientamento di attenuazione del 41 bis».
Corriere 23.6.12
Mancino: ho il diritto di essere tutelato
di Giovanni Bianconi
PALERMO — L'ordine di intercettazione partì il 4 novembre dello scorso anno, a firma del giudice per le indagini preliminari Riccardo Ricciardi, e non riguardò solo i telefoni dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Sotto controllo finirono anche le conversazioni di Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel 1993, e Adalberto Capriotti, già direttore dell'amministrazione penitenziaria. Tutti e tre testimoni, allora, nell'indagine sulla ipotizzata trattativa fra Stato e mafia al tempi delle stragi. E oggi tutti e tre indagati per presunte false testimonianze. Tre testimoni da «monitorare», secondo il giudice, in vista delle loro deposizioni sui fatti di cui furono protagonisti vent'anni fa.
«È verosimile ritenere — scrive il giudice nel provvedimento con cui autorizza le intercettazioni — che gli stessi possano entrare in contatto tra loro o con altri soggetti che in quel medesimo arco temporale rivestivano cariche di rilevante importanza, per riferire elementi utili alle indagini sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra di cui non si è ancora a conoscenza, se non addirittura per concordare tra loro "versioni di comodo" in vista degli imminenti interrogatori». Ecco perché l'ascolto dei loro colloqui fu considerato «assolutamente indispensabile».
Non solo. «L'attività di intercettazione potrebbe consentire l'acquisizione di ulteriori elementi di indagini assolutamente indispensabili per un più completo accertamento dei fatti in relazione ai quali si procede, e per l'individuazione di coloro che ne sono coinvolti».
Nella loro richiesta i pubblici ministeri Ingroia, Di Matteo, Sava e Guido avevano evidenziato che dalle testimonianze erano emerse «numerose anomalie e contraddizioni», nonché «versioni tra di loro non del tutto compatibili»; di qui la necessità di «apprendere in tempo reale eventuali versioni concordate che i dichiaranti potrebbero decidere di fornire all'autorità giudiziaria».
Cominciarono così gli ascolti che — di proroga in proroga — si sono protratti fino all'inizio di maggio. Sei mesi di intercettazioni, di cui solo una parte è stata depositata agli atti del procedimento-stralcio che s'è concluso la scorsa settimana.
Tra i tanti colloqui di Mancino sono saltati fuori quelli con il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D'Ambrosio. Uno dei quali — avvenuto il 7 dicembre 2011, all'indomani dell'interrogatorio reso dall'ex ministro ai pm palermitani — è stato utilizzato per chiedere una proroga delle intercettazioni in corso.
«Volevo resocontarle», esordisce l'ex ministro dell'Interno.
D'Ambrosio: «Sì, vabbe', vabbe'».
Mancino: «Ma una cosa... una cosa incredibile. Hanno perduto mezz'ora per dire...», e racconta la vicenda dell'allarme lanciato dal suo predecessore Scotti, per concludere: «Ma questi perdono tempo... (...) Cioè, io debbo sapere perché... che stanno facendo».
Più avanti l'ex ministro riferisce che ha cercato di spiegare la discussione dell'epoca sul «carcere duro».
Mancino: «Io gliel'ho detto... Ma perché non seguite dalla stampa dell'epoca il dibattito culturale tra il 41 bis... delle carceri e il trattamento umanitario per il recupero anche dei mafiosi... io non ci ho mai creduto... però il dibattito era finemente culturale...».
D'Ambrosio: «Ma ogni giorno ci mettono una... un'altra sparata di fango... » (...)
Mancino: «Ma loro parlano della trattativa tra lo Stato e la mafia... e io naturalmente questa cosa l'ho voluta distinguere per quanto mi riguarda...». (...)
D'Ambrosio: «Sì, ma comunque a me sembra tutto un po' folle... (...) Ma comunque va bene, che vuole fare presidente, qui si va verso il nulla, ogni volta... ogni tanto esce qualcuno con un pezzo di memoria». (...)
Mancino: «La tesi prevalente sui giornali è che Scotti sia stato eliminato perché scomodo, e là c'è andato uno che ha fatto la trattativa».
D'Ambrosio: «Sì, ma questo è il ragionamento che loro direttamente seguono...».
Mancino: «E no, ma questo disonora una persona che sarà solo uno su 60 milioni di abitanti, ma questo uno solo ha diritto a una tutela... io non lo so che fare perché... sono molto... diciamo... oggi ho presentato la querela nei confronti del fratello...».
È il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, denunciato da Mancino. E l'ex ministro spiega di aver incontrato, nell'occasione, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi che gli aveva rinnovato la sua stima.
D'Ambrosio: «Non mi starei tanto... guardi... tanto questi se ne andranno sempre per la loro strada... inconcludente lasciando...».
Mancino: «Sì ma uno si può trovare fuori pista... Uno si può trovare anche iscritto (nel registro degli indagati, ndr) e se si trova iscritto!... Io non posso essere iscritto per cose che non ho fatto, questo è il punto... (...) Una valutazione di Messineo (il procuratore di Palermo, ndr)... non è possibile... averla attraverso Grasso... non lo so!».
D'Ambrosio: «Adesso mi sento un po' Grasso... vediamo se c'è qualche cosa di... nuovo che stanno maturando... va la settimana prossima... lo chiamo e vediamo un po' di incontrarci».
Anche sulla base di questa telefonata gli inquirenti chiesero e ottennero la proroga delle intercettazioni, «considerato che i soggetti indagati o informati sui fatti potrebbero assumere un atteggiamento reticente o mendace, e che le audizioni potrebbero essere precedute o seguite da incontri, telefonate o altri contatti che si appalesano estremamente significativi per il prosieguo delle indagini».
Repubblica 23.6.12
Violante: non nascondo e non ho mai nascosto nulla
CARO Direttore, l’articolo di Attilio Bolzoni pubblicato ieri mi appare disinformato e inutilmente
offensivo:
1. Un importante quotidiano pubblicò il 17 luglio 2009 un articolo nel quale si riferiva che il figlio di Vito Ciancimino aveva dichiarato all’Autorità Giudiziaria: «Il signor Franco disse che il ministro sapeva. Mio padre voleva che del «patto» fosse informato Luciano Violante. Il signor Franco tornò assicurando che Violante non ne sapeva niente».
2. In quella data, per la prima volta, venivo a conoscenza del tentativo di un mio coinvolgimento. E ritenni che alcuni inviti ad ascoltare riservatamente Vito Ciancimino che mi aveva rivolto nell’ottobre 1992 l’allora colonnello Mori, nella mia qualità di Presidente della Commissione Antimafia, e da me respinti, potessero essere connessi in qualche modo al «patto».
3. Pertanto informai immediatamente la procura della Repubblica di Palermo e chiesi se la vicenda potesse essere di loro interesse. Mi risposero affermativamente e mi dichiarai disponibile a deporre.
4. Spetterà alla magistratura stabilire se quelle richieste dell’ufficiale del ROS rientravano o no all’interno
della trattativa.
5. Ho offerto una completa e dettagliata ricostruzione di questa vicenda nell’audizione davanti alla Commissione Antimafia, il cui testo integrale, può essere consultato anche dal dottor Bolzoni.
In conclusione: ho preso io l’iniziativa di parlare con la magistratura che era del tutto ignara delle richieste che mi erano state avanzate; ho preso questa iniziativa appena ho avuto il sentore che quelle richieste potessero essere collegate al «patto»; non nascondo e non ho mai nascosto nulla.
Luciano Violante
Di «trattativa» fra pezzi dello Stato e pezzi di mafia se ne parla – anche in atti giudiziari – fin dal 1998. E’ proprio in quell’anno che, per la prima volta, furono trascinati nella vicenda gli ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri: gli stessi che – nell’ottobre del 1992 – andarono a trovare l’allora Presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante per informarlo che l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe voluto un incontro anche con lui. E’ vero che Violante non aderì alla richiesta e invitò i due ufficiali a riferire tutto all’autorità giudiziaria, ma è altrettanto vero che Violante ha «rimosso» quell’episodio per tanto tempo. Se n’è ricordato soltanto diciassette anni dopo. E soltanto quando Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, ha cominciato a fare dichiarazioni ai pm siciliani riferendo molti retroscena sul patto fra lo Stato e Cosa Nostra.
(a. b)
il Fatto 23.6.12
Napolitano risponde “Non rispondo”
Alle domande del Fatto sulle telefonate con Mancino, replica tramite il portavoce: “Non rilascio commenti, conferme o smentite su frammenti di conversazioni private”
di Marco Lillo
Il Presidente ha risposto senza rispondere. Il portavoce del Capo dello Stato Pasquale Cascella ieri ha spedito una lettera protocollata al direttore del Fatto. “Caro direttore”, scrive Cascella, “con riferimento all’articolo ‘Presidente risponda su Mancino’ firmato da Marco Lillo, si osserva che, come è naturale, il Presidente della Repubblica non ha da rilasciare commenti, né tanto meno conferme o smentite, in merito a frammenti di conversazioni private intercettate dalla polizia giudiziaria e pubblicate da alcuni quotidiani. Ogni eventuale approfondimento è riservato all’autorità giudiziaria competente, secondo le modalità e con le garanzie previste dall’ordinamento giuridico”. Ieri, Il Fatto aveva chiesto al Presidente di smentire e censurare le parole del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio su due questioni non secondarie: 1) il suggerimento del presidente Napolitano a Nicola Mancino (girato via telefono dal consigliere Loris D’Ambrosio) di parlare con Claudio Martelli, in vista di un possibile confronto in tribunale tra i due ex ministri che avevano offerto versioni divergenti sui fatti del 1992; 2) i tentativi del consigliere D’Ambrosio di trovare una strada per intervenire sul collegio giudicante e sui pm di Palermo, mediante il procuratore nazionale antimafia. Il Presidente ha scelto di non censurare le affermazioni di D’Ambrosio che da un lato attribuiscono al Capo dello Stato suggerimenti poco commendevoli e dall’altro manifestano propositi di intervento sui pm e giudici in un processo in corso. In tal modo, il presidente continua a legare il suo destino a quello di un consigliere che lo tira in ballo pesantemente nelle sue conversazioni scriteriate con Mancino. Dalla prosa burocratica del portavoce del Presidente emergono tre alibi alla mancata replica: 1) sono conversazioni private; 2) sono solo frammenti di telefonate; 3) solo l’autorità giudiziaria se ne deve occupare.
Per sgombrare il campo dalle prime due obiezioni il Fatto pubblica oggi sul suo sito le conversazioni integrali in modo che il Presidente possa rendersi conto che non si tratta di frammenti e che di privato non hanno proprio nulla. Quanto alla terza obiezione, continuiamo a pensare che anche il Presidente della Repubblica dovrebbe rispondere del suo comportamento, di quello del suo staff, e delle conversazioni telefoniche nelle quali i suoi collaboratori spendono il suo nome, non all’autorità giudiziaria ma all’opinione pubblica, l’unica che può giudicarlo senza lo scudo dell’immunità.
il Fatto 23.6.12
Lui ha sempre ragione
di Marco Travaglio
È con viva soddisfazione che registriamo le prime virili e pugnaci adesioni al Supremo Monito. Corazzieri, palafrenieri, trombettieri, ciambellani, aiutanti di campo, assistenti al Soglio, guardie svizzere, marchesi del Grillo, magistrati democratici, giuristi, costituzionalisti, fuochisti, macchinisti, uomini di fatica, ma soprattutto frenatori e pompieri han raccolto come un sol uomo l’appello alla mobilitazione generale, dando prova di attaccamento al Tricolore e gettando il cuore oltre l’ostacolo, pancia in dentro e petto in fuori, nell’ora della massima prova per il nostro Caro Leader, nonché Conducator e Piccolo Padre, insomma Re Giorgio, minacciato dalle sue stesse intercettazioni e da quelle del suo valoroso consulente giuridico. Un particolare ringraziamento va ai telegiornali e ai giornali per il titolo unico “L’ira di Napolitano” a reti ed edicole quasi unificate (a parte quel Mentana, lo stesso che insiste a trasmettere sondaggi sul boom di quel tal Grillo). È l’aratro che traccia il solco, ma è la penna che lo difende. Macaluso, il ventricolo e il “Me ne frego! ”. Eccellente il compagno Emanuele Macaluso sull’Unità: “Il Fatto quotidiano, che opera come agenzia della Procura di Palermo, o meglio di un pezzo della Procura, ha rivelato che un intelligentissimo generale diceva al collega Mario Mori che io sono il ‘ventricolo del Quirinale’, scoprendo un inedito: che sono ‘grande amico’ di Napolitano. Ergo quel che dico e scrivo rispecchiano (sic, ndr) le opinioni del Presidente della Repubblica... I doveri della propaganda nel corso di una campagna forsennata contro il Quirinale fa premio sulla professionalità. Miserie. Tuttavia una questione va sollevata: la Procura di Palermo, anzi quel pezzo di procura, distribuisce intercettazioni che non hanno attinenza al processo sulla ‘trattativa’. A che gioco gioca? Fornisce foglietti di propaganda alla sua agenzia per scopi estranei al processo? Sempre sulla questione intercettazioni dal Fatto apprendiamo che sono state intercettate telefonate del presidente della Repubblica... Intercettazioni illegali e parte di una manovra che serve a ‘mascariare’ anche il capo dello Stato. Una vergogna... Io me ne frego di quel che dicono il generale e Il Fatto”. Si ringrazia il compagno Macaluso per la generosa difesa d’ufficio, e anche per il secco e atletico “Me ne frego! ”, anche se sarebbe auspicabile una maggior cura per la lingua italiana. Bene l’accenno alle “intercettazioni illegali” (noi sappiamo bene che non lo sono e non le ha distribuite la Procura, visto che l’intercettato era Mancino e si tratta di atti depositati agli avvocati, ma è opportuno farlo credere, così la gente non va a chiedersi perché Napolitano e D’Ambrosio telefonassero a Mancino interferendo nelle indagini sulla trattativa). Un solo dubbio: ma il generale intelligentissimo avrà detto “ventricolo” o “ventriloquo”? No, perché siccome il Presidente si è “preso a cuore” le sorti di Mancino, è importante conoscere le condizioni dei suoi ventricoli, o almeno di uno di essi. Ps. Molto apprezzata, sul Sacro Colle, la satira patriottica del compagno Sergio Staino, che nella ficcante vignetta sull’Unità (su testi di Pasquale Cascella) effigia un Napolitano dolente che dialoga con la Donna Turrita, simbolo dell’Italica Nazione. “Hanno diffuso alcune telefonate del Quirinale”, lamenta il Presidente. L’Italia in persona risponde perentoria: “Oddìo, mica quelle d’amore che fai sempre a me? ”. Alla lettura di una battuta cotanto spiritosa, il Presidente è stato colto da risate compulsive molto simili a convulsioni. Il primo Galli che canta ha fatto l’uovo. Encomio solenne per Carlo Galli, editorialista di Repubblica, corso al salvamento di Re Giorgio: “Da un punto di vista giuridico-penale, con buona pace di Di Pietro, non vi è nulla di rilevante a carico del presidente. Il quale, anzi, ha correttamente esercitato le proprie prerogative”. Noi sappiamo benissimo che tra le prerogative del Capo dello Stato non c’è quella di immischiarsi in indagini in corso, ma è bene scrivere che c’è, così la gente ci crede. Ottimo anche l’accenno del Galli a D’Ambrosio, che forse, magari, chissà, eventualmente, per così dire, “si mostra invero prodigo e di consigli e suggerimenti verso Mancino, con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili ma che, riportate dai quotidiani, non fanno un bel-l’effetto” perché “possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di antipolitica generalizzata”. Ma, si badi bene, “senza che tutto ciò abbia a che fare con Napolitano”. Sappiamo bene che D’Ambrosio faceva tutto d’intesa col Presidente, il quale a sua volta chiamò Mancino, ma è bene instillare il dubbio che D’Ambrosio abbia un filino esagerato: così, alla mala parata, quando le telefonate del Presidente saranno state distrutte, si scaricherà D’Ambrosio e lo si farà passare per pazzo. Eccellente la raffica di insulti ai giornali che informano e fan domande: essi, nell’ordine, hanno “aggredito, sospettato, calunniato, infangato, fatto oggetto di distorsioni interpretative in perfetta malafede e con spaventoso cinismo ” Re Giorgio, sobriamente descritto come “perno e garante degli equilibri politici, sostegno all’attività di governo, baricentro della Repubblica, investito dalla stima di tutti i politici del mondo e di tutti i cittadini italiani”, ragion per cui chi osa criticarlo “gioca allo sfascio”, anzi compie un “attentato alla democrazia”. Ben detto, Galli, gliele hai cantate chiare. Ora però urge legge bavaglio per evitare l’uscita di altre intercettazioni. All’uopo, Repubblica rimuova dagli archivi la campagna del 1991 per l’impeachment a Cossiga, che potrebbe fuorviare i lettori raziocinanti, e soprattutto quella dei post-it gialli contro il bavaglio, onde evitare che uno dei suddetti post-it finisca appiccicato sulla fronte spaziosa del nostro amato Presidente.
Compagno Ferrara fa buon brodo.
Utilissimo, anche se un po’ sopra le righe, anzi proprio per questo, il compagno Giuliano Ferrara, tornato l’amendoliano craxiano che ci piaceva tanto negli anni 80. Sul Foglio denuncia “la viltà pura” di chi non ha “difeso Lusi dal carcere preventivo”, non ha varato “la divisione delle carriere” (dei pm dai giudici, naturalmente, non dei politici dai ladri) e soprattutto “una legge severa sulle intercettazioni selvagge” per abolire “il potere di una coppia di pm di fare inchieste sul nulla (la trattativa Stato-mafia, che sarà mai?, ndr), smerdare carabinieri e classi dirigenti con accuse sanguinose, insinuare stragi (mai avvenute, ndr) e oscuri misteri (mai visti, ndr) ”. Bravo compagno, nell’ora della prova non si butta via niente e tu fai sempre buon brodo. Ottima anche la chiusa dell’articolo: “Se non sono io per me, chi sarà per me? E non ora quando? ”. Ma ora: per me, per voi, per tutti.
Chi ha tempo aspetti Tempo. Non è passato inosservato, presso chi di dovere, l’atteggiamento costruttivo di un altro giornale di centrodestra: Il Tempo dell’amico Mario Sechi, che titola “L’onda del fango non tocca il Colle” e “Il fango non piega Napolitano”. Si apprezza in particolare la temeraria sfida alle leggi della fisica: ora qualche disfattista che gioca allo sfascio potrebbe domandare come può il fango, materia molliccia quant’altre mai, piegare alcunché. Trattasi però di quesiti oziosi, già risolti da una nota canzonetta: “Come può lo scoglio arginare il mare? ”.
Napoletano pro Napolitano, ovvero Il Sòla-24 ore. Encomio solenne, degno del Cavalierato di Grande Croce, al Sole-24 ore di Roberto Napoletano. Il Quasi Omonimo schiera ben due pompieri. Valerio Onida, presidente emerito della Consulta, non solo esclude scorrettezze del Caro Leader, ma addirittura lo ringrazia per aver compiuto un’“azione opportuna” impicciandosi nell’inchiesta sulla trattativa. E questo perché “la legge prevede specifici poteri di coordinamento del Procuratore nazionale antimafia”, a sua volta soggetto alla “sorveglianza del Pg della Cassazione”, per evitare “conflitti di competenza fra Procure” e il “mancato coordinamento” delle indagini. Bene fa l’Onida a sorvolare sul fatto che le indagini erano perfettamente coordinate, come ha detto il Pna Grasso, e nessun conflitto di competenza è mai stato sollevato: altrimenti tutti capirebbero che il Piccolo Padre s’è mosso a gentile richiesta di Mancino. Ancor più prezioso il vice-monito dell’amico Stefano Folli contro “il tentativo piuttosto goffo di delegittimare il Quirinale... costruendo un caso davvero fragile, attraverso l’uso di intercettazioni che non si sono fermate nemmeno davanti al telefono del Presidente della Repubblica... Un gesto che assomiglia molto a un’intimidazione... Come dire: attento, anche tu sei sotto controllo... È un pessimo clima... grave e pericoloso indebolire a colpi d’ariete il punto di equilibrio istituzionale. L’abbiamo già scritto, ma il tema ritorna”. Abbondantis abbondandum! “C’è la volontà politica di tenere sotto pressione il Presidente della Repubblica”. Nel Sacro Palazzo si plaude in particolar modo all’accenno a “intercettazioni che non si sono fermate nemmeno davanti al telefono del Presidente della Repubblica”: giusto e severo monito alle cimici infilate nel telefono di Mancino. Cimici complottiste che avrebbero dovuto avere la sensibilità istituzionale di spegnersi da sole appena captata la voce del Presidentissimo, e possibilmente scattare sull’attenti e intonare l’inno di Mameli. Invece rimasero golpisticamente accese. Tutte le cimici d’Italia sono pregate di prendere buona nota ed eseguire le nuove direttive senza fiatare, ma soprattutto senza registrare.
Sole che Sorgi, libero e giocondo.
Un vivo e scrosciante plauso sale dal Sacro Colle per il ditirambo dell’amico Marcello Sorgi, che sulla Stampa sottolinea “la solitudine del Colle” individuando finalmente i mandanti dell’orrendo complotto, conclusosi al momento con un “impeachment mancato”: “Sul campo, a muovere l’assedio al Quirinale, sono Grillo e Di Pietro”. Non le telefonate di D’Ambrosio e Napolitano con Mancino, ma – lo si ripete – Grillo e Di Pietro. Il vero scandalo però è la tiepidezza degli altri partiti, scolpita dal Sorgi con imperiture parole: “Da Berlusconi, che tra l’altro è coinvolto nell’inchiesta palermitana (non è vero, ma è bene farlo credere per aumentare il casino, ndr)... non c’era da aspettarsi molto. Bersani o Casini non è che non difendano il Presidente: ci mancherebbe. Ma lo fanno con una timidezza che tradisce il timore che le campagne dell’antipolitica abbiano ormai irrimediabilmente fatto breccia in un’opinione pubblica trattata alla stregua di una tifoseria da stadio. A questo siamo”. Punto, punto e virgola, due punti: ma sì, abbondiamo, ché poi dicono che siamo tirati! “Si stenta a crederci, ma è così: poiché schierarsi con le istituzioni si sta rivelando elettoralmente poco conveniente, pur di non correre il rischio dell’impopolarità, Napolitano, in pratica, viene lasciato solo a difendersi”. Solo con Repubblica, Corriere, Unità, Tempo, Messaggero, Mattino, Sole-24 ore, Stampa, Foglio, Tg1, Tg2, Tg3, Tg4, Tg5, Studio Aperto e tutti i leader politici tranne Grillo e Di Pietro. Torna finalmente a splendere il sole dell’Impero sui colli fatali di Roma.
il Fatto 23.6.12
Salvatore Borsellino chiede l’impeachment
di Giampiero Calapà
Vogliono fermare le indagini dei giudici di Palermo, che più di altri sono andati avanti sulla storia della trattativa Stato-mafia; che questo avvenga da parte della più alta carica dello Stato non può portare che a una sola conseguenza: ipotesi di impeachment per il presidente della Repubblica”. Salvatore Borsellino va diretto al punto ieri pomeriggio sul sito di Micro Mega: chiede la cacciata di Giorgio Napolitano dal Quirinale, “in altri Paesi hanno avviato procedure di impeachment per molto meno”.
IL FRATELLO del magistrato ucciso da Cosa nostra il 19 luglio 1992, da vent’anni ormai è al centro della battaglia civile per la verità sulle stragi, “stragi su cui si fonda la seconda Repubblica”, dice. Ha sempre avuto una convinzione: “La bomba di via D’Amelio, quella che ha spazzato via mio fratello, ha come causa scatenante proprio la trattativa che alcuni uomini ai più alti livelli dello Stato hanno imbastito con la mafia”.
Ormai mancano pochi giorni al ventesimo anniversario dell’inferno di via D’Amelio, mentre impazza lo scandalo che investe anche il Quirinale per il ruolo che il capo dello Stato avrebbe potuto avere in tentativi di pressione e addirittura di scippo d’inchiesta ai giudici di Palermo (avocazione rifiutata dal capo della Dna Piero Grasso). E Salvatore Borsellino mena fendenti chiedendo una procedura di impeachment contro Napolitano, “perché mi sconvolge vedere come il presidente della Repubblica abbia cercato di porre ostacoli sulla strada della verità, dando ascolto a chi, come Nicola Mancino, gli chiede di frenare le indagini”. Quel che appare certo è che il parlamento della maggioranza Pdl-Pd-Terzo polo non muoverà un dito per dispiacere a Napolitano.
COSÌ se il Quirinale preoccupato, come scrive ieri un’agenzia diramata dall’Ansa, attiva “i collaboratori del presidente”, che “si interrogano su chi possa esserci dietro, sulla regia dell’operazione”, tutta la politica di questo tramonto di seconda Repubblica è ormai arroccata in grande stile sul Colle. Con la sola eccezione dell’Idv di Antonio Di Pietro, unico in parlamento a chiedere trasparenza e chiarezza. Per il resto, anche ieri, tutti gli altri non si sono risparmiati. Pier Luigi Bersani (segretario Pd): “Il Quirinale è uno dei pochi presidi di democrazia, direi che è meglio evitare manovre attorno a lui”. Pier Ferdinando Casini (Udc): “È un attacco molto grave di schegge della magistratura”. Rena-to Schifani (presidente del Senato): “Attaccare Napolitano significa attaccare il Paese”. Maurizio Gasparri (Pdl): “La trattativa riguarda il Colle di vent’anni fa”. Michele Vietti (vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura): “Sconcertante la polemica su Napolitano”. Francesco Storace (La Destra): “Non ce lo vedo Napolitano al centro della Cupola”. Angelino Alfano (Pdl): “Chi, come Casini, piange lacrime di coccodrillo, si faccia portatore di un serio disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche”. Altero Matteoli (Pdl): “Gravissimo se Napolitano intercettato”. Walter Veltroni (Pd): “Ci sono settori della politica contro il capo dello Stato”. Ma l’elenco di questi settori è molto più corto e meno potente.
l’Unità 23.6.12
Il caso Lusi
L’avvocato: «Scaricato da tutti, oggi parlerà»
Sarà sentito oggi, per l’interrogatorio di garanzia, Luigi Lusi. E il suo avvocato, Luca Petrucci, rilancia quanto già annunciato dall’ex tesoriere della Margherita, appena finito a Rebibbia per l’inchiesta che lo vede indagato per l’uso personale dei fondi del partito. «Scaricato da tutti perché considerato l’unico capro espiatorio, racconterà tutto quello che sa, tanto non ha più accordi da mantenere», ha detto ieri Petrucci, sottolineando però che «Lusi può dire a chi ha dato i soldi, non che uso sia stato fatto di quelle somme. Lui può raccontare quello che sa, ma il resto lo
deve accertare la magistratura se ne ha voglia. Altrimenti, è meglio che Lusi se ne stia zitto». E il senatore ieri, nel suo secondo giorno di detenzione, è rimasto assorto nelle sue carte. Nessuna visita. Una giornata tutto sommato tranquilla. Il leader dell’Api Francesco Rutelli non raccoglie la velata minaccia e dice semplicemente: «Credo che la giustizia debba fare il suo corso». Mentre da piazzale Clodio si fa notare che finora Lusi si è limitato a fare delle illazioni sull’uso di soldi da parte di altri soggetti senza fornire alcun riscontro.
La Stampa 23.6.12
Lusi: “Il patto è saltato Adesso dirò tutto ai pm”
L’ex tesoriere della Margherita: “Non sarò il capro espiatorio”
di Grazia Longo
ROMA Giorno della verità o bluff? L’interrogatorio di garanzia del senatore Luigi Lusi - in carcere da mercoledì sera, dopo il parere favorevole del Senato alla richiesta d’arresto dei magistrati per associazione a delinquere e appropriazione indebita di circa 25 milioni di euro - si preannuncia comunque interessante.
Un banco di prova per capire se Lusi ha rubato per conto suo - come finora dimostrato dall’inchiesta della procura e della guardia di finanza di Roma - o per conto di altri esponenti dell’ex Margherita. «Stavolta dirò tutto, non voglio fare da capro espiatorio» ha detto prima di entrare nel carcere di Rebibbia. E ieri, durante l’incontro con i suoi difensori, gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, ha fatto altri nomi rispetto a quelli di Bianco e di Rutelli.
Fantasie o realtà che possono essere suffragate da prove concrete? Finora nessuna delle accuse di Lusi ai vertici dell’ex Margherita è stata riscontrata da un documento, un’email, un’altra testimonianza che desse corpo e forza alle sue dichiarazioni. Contro gli altri suoi colleghi di partito, insomma, non è stato scoperto alcunché.
Eppure Lusi è pronto a sparare nuove cartucce. Tanto da indurre l’avvocato Petrucci ad annunciare: «Domani (oggi per chi legge, ndr), il senatore racconterà tutto quello che sa, tanto non ha più accordi politici da mantenere. Gli atti processuali a suo carico sono ormai arcinoti, sta a lui decidere quanto intende stare in carcere. Ma molto dipende anche da quanto la procura ha voglia di starlo ad ascoltare. Lusi può dire a chi ha dato i soldi non che uso sia stato fatto di quelle somme». Quanto alle prove, il penalista precisa che «non le ha ovviamente tutte, lui può raccontare quello che sa, ma il resto lo deve accertare la magistratura se ne ha voglia. Altrimenti, è meglio che Lusi se ne stia zitto».
Peccato però che gli accertamenti finora compiuti da inquirenti e investigatori sulla tracciabilità del denaro uscito in maniera illecita dalle casse della Margherita, conducano per il momento solo ed esclusivamente a Lusi. Che tra l’altro non avrebbe ancora raccontato tutta la verità al pm Stefano Pesci e al procuratore aggiunto Alberto Caperna. Dall’appello dei soldi rubati e spesi da Lusi mancherebbero infatti circa 5 milioni di euro. Dove sono finiti? Il leader dell’Api Francesco Rutelli non raccoglie, davanti ai giornalisti, la velata minaccia del senatore Lusi di rivelare ancora molto ai pm. Rispondendo ad una domanda a Napoli Rutelli dichiara semplicemente: «Credo che la giustizia debba fare il suo corso».
Oggi pomeriggio, l’interrogatorio di garanzia, nella casa circondariale di Rebibbia di fronte al gip Simonetta D’Alessandro, potrebbe chiarire una volta per tutte il quadro di ciò che è avvenuto. Ma potrebbe anche rivelarsi un espediente, il fallace tentativo da parte dell’indagato per evitare il prolungamento della detenzione. Durante la quale legge e ripassa con attenzione le sue carte. Con l’ansia per la distanza dai quattro figli e dalla moglie, Giovanna Petricone, che tra l’altro si trova agli arresti domiciliari per ricettazione e concorso in riciclaggio.
Corriere 23.6.12
Lusi tira fuori i faldoni «Scaricato dai politici dirà tutto ai magistrati»
Il legale: accordi saltati. In Rete le foto di famiglia
di Monica Guerzoni
ROMA — Ora che gli amici di un tempo lo hanno lasciato al suo destino, le speranze di libertà di Luigi Lusi sono racchiuse nel faldone di bonifici, fatture e appunti di cui è colma la borsa con cui l'ex cassiere della Margherita ha varcato i cancelli del carcere mercoledì sera, subito dopo il «verdetto» di Palazzo Madama. Alle due del pomeriggio il senatore lascerà i sei metri della cella numero 3 di Rebibbia, reparto G6. Ed entrerà nella stanza dei colloqui, dove lo aspettano il gip Simonetta D'Alessandro e i pm Alberto Caperna e Stefano Pesci. L'interrogatorio di garanzia è un passaggio cruciale e potrebbe durare anche dieci ore, fino alla mezzanotte. «Lo hanno scaricato e usato come capro espiatorio e adesso non può fare altro che raccontare tutto — anticipa l'avvocato Luca Petrucci —. Gli impegni politici sono saltati e non ha più accordi da mantenere o persone da proteggere...». Nelle scorse settimane, nell'attesa della battaglia di Palazzo Madama, Lusi ha ripetuto che se non faceva i nomi era perché non aveva niente di scritto in mano, ma c'è chi teme che le cose non stiano proprio così. «Vuoterà il sacco — spera l'avvocato Renato Archidiacono —, ha bisogno di essere interrogato e dirà tutto quello che sa».
Il punto della vicenda sono le prove. Cos'ha in mano Luigi Lusi? È davvero in grado di dimostrare che altri, tra i dirigenti del vecchio partito, hanno attinto al forziere della Margherita per uso privato? In Parlamento era girata persino la voce che Lusi fosse in grado di mostrare carte firmate da deputati e senatori, ma Petrucci smentisce: «Magari avessimo fogli firmati da Rutelli!». Cosa può dire, allora, Lusi? «Può dire a chi ha dato i soldi, ma non che uso sia stato fatto con quelle somme. Molto dipende anche dalle domande dei magistrati. Se hanno voglia di starlo a sentire e poi di cercare i riscontri bene, altrimenti è meglio che stia zitto». Oggi potrebbe essere il giorno della verità, ma i legali non azzardano previsioni: «Dipende da lui quanto vuole stare in carcere...».
La Procura di Roma evita di polemizzare, ma da piazzale Clodio filtra informalmente che se Lusi avrà spunti nuovi da fornire «che non siano le solite illazioni» il gip e i pm lo «ascolteranno volentieri». Come dire che il rischio è una denuncia per calunnia.
«Mio fratello è andato in carcere anche per colpe non sue» ha detto ieri al Fatto quotidiano Antonino Lusi. Il sindaco di Capistrello ha poi inviato una lettera di rettifica al giornale, ma le sue dichiarazioni delineano scenari nuovi: «Aspettiamo l'interrogatorio e vediamo cosa accadrà, poi parlerò, se necessario. Di cose da dire ne ho molte». Rinchiuso in una cella di 3 metri per 2, ogni mattina Luigi Lusi si fa portare dieci quotidiani e legge con meticolosa attenzione gli articoli che lo riguardano. Ha parlato con lo psicologo e ieri ha saltato il pranzo per preparare l'interrogatorio. L'onorevole Amedeo Laboccetta del Pdl, che era in visita da Totò Cuffaro ed è passato a trovarlo, lo descrive «motivato e determinato, pieno di dignità». Gli ha consigliato di «avere molta fede e dire sempre la verità». E Lusi, apparentemente sfiduciato: «Uno può anche dirla, ma deve trovare chi gli creda». E ai militari di sorveglianza, con un velo di tristezza, il senatore ha detto «vedrete che saranno davvero pochi i parlamentari che mi verranno a trovare».
Da quando è entrato in carcere con l'accusa di associazione a delinquere per aver sottratto oltre 20 milioni di rimborsi pubblici, la famiglia ha deciso di stargli plasticamente vicino. La pagina Facebook del senatore si è riempita di messaggi di solidarietà di amici e parenti, che provano a mettere in minoranza gli insulti dei colpevolisti. Il nipote Mario Lusi ha postato una fotografia del senatore con la moglie Gianna Petricone: «Insieme ce la faranno, con tutto il nostro sostegno». La signora Lusi si trova agli arresti domiciliari e già lunedì i legali, convinti che il pericolo di fuga non sussista, presenteranno istanza di revoca della misura cautelare. Un'altra immagine spuntata nella bacheca web di Lusi mostra un brindisi in famiglia. Decine di persone attorno a un tavolo con i calici alzati, in un giorno di festa.
il Fatto 23.6.12
Lusi vuota il sacco: ora dico tutto
di Davide Vecchi
Non ha più niente da perdere e non ha più intenzione di proteggere nessuno nella speranza di vedersi ricambiato il favore. Luigi Lusi, a Re-bibbia da mercoledì, oggi consegnerà al giudice Simonetta D’Alessandro lettere, mail, ricevute: tutto quanto è in suo possesso per dimostrare di aver agito in base a un “patto fiduciario”. E la Margherita, il soggetto sinora usato dall’ex tesoriere negli interrogatori, avrà nomi e cognomi. Francesco Rutelli in primis. Ma anche Bianco, Franceschini, Parisi. Il boy scout Lusi ha scelto di abbandonare le cortesie per quelli che considerava amici e rendere una testimonianza piena al gip che oggi dalle 14 lo sentirà durante l’interrogatorio di garanzia a Rebibbia.
“Scaricato da tutti perché considerato l’unico capro espiatorio, Lusi racconterà tutto quello che sa, tanto non ha più accordi da mantenere”, ha garantito ieri Luca Petrucci, uno dei suoi legali. “Gli atti processuali a suo carico sono ormai arcinoti, sta a lui decidere quanto intende stare in carcere. Ma molto dipende anche da quanto la procura ha voglia di starlo ad ascoltare. Lusi può dire a chi ha dato i soldi non che uso sia stato fatto di quelle somme”, ha voluto sottolineare Petrucci. E il messaggio suona come un appello ai pm affinché compiano indagini aggiuntive e accertamenti su quanto ricostruito da Lusi. “Non ha ovviamente tutte le prove, lui può raccontare quello che sa, ma il resto lo deve accertare la magistratura se ne ha voglia. Altrimenti, è meglio che Lusi stia zitto”.
È ANCHE VERO che finora Lusi ha fatto i nomi di Rutelli e altri esponenti della Margherita solo durante la prima seduta della Giunta per l’autorizzazione in Senato, mentre negli interrogatori finora resi ai magistrati si è limitato a fare illazioni sull'uso di soldi da parte di altri soggetti senza fornire alcun riscontro. Oggi avrà modo di fornire indicazioni aggiuntive durante l’interrogatorio, cui cui assisteranno il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il pm Stefano Pesci, e che si annuncia molto lungo: la sala colloqui è stata prenotata a oltranza fino a mezzanotte e il gip, se Lusi si dimostrerà effettivamente disponibile, potrebbe non limitarsi a chiedergli di chiarire le circostanze che hanno portato all'emissione dell’ordinanza di custodia cautelare per associazione per delinquere e l'appropriazione indebita di oltre 23 milioni di euro.
La procura ieri ha ribattuto a Petrucci evidenziando che “non è colpa di nessuno se gli accertamenti sui conti della Margherita fin qui eseguiti hanno condotto a Lusi e a lui solo. E non dimentichiamoci che l’ex tesoriere si è limitato ad ammettere la sottrazione dei primi 13 milioni di euro, quando fu sentito la prima volta, senza fornire spiegazioni ulteriori e se poi l'ammanco è lievitato a oltre 23 milioni, questo è dipeso dagli accertamenti che sono stati effettuati, non certo dalle sue dichiarazioni. Se Lusi ha spunti nuovi da darci che non siano le solite illazioni, lo ascolteremo volentieri”. L’inchiesta potrebbe dunque avere presto nuovi sbocchi. “Credo che la giustizia debba fare il suo corso”, ha detto ieri Rutelli, per la prima volta d’accordo con Lusi, ma certo immaginano epiloghi diversi.
il Fatto 23.6.12
Intoccabili. Nuzzi fatto fuori da La7
Nel palinsesto il programma non c’è”. Gianluigi Nuzzi è tranquillo nel confermare l’annuncio dato via Twitter giovedì pomeriggio: “A settembre Gli Intoccabili non torneranno in onda su La7. Mi dispiace”. Di seguito sono arrivati i commenti dei fans. E forse, col montare della notizia, anche segnali di cui tener conto: “Sto giocando a pallone con i miei figli – ha detto ieri Nuzzi -. Comunque è un peccato, facevamo un buon prodotto d’inchiesta, vedremo cosa deciderà l’azienda”.
Le rivelazioni sulle liti vaticane sono state certo clamorose e fastidiose, ma sulle ragioni dello stop si fanno altre analisi. Guardando agli ascolti, innanzitutto: esordio in seconda serata al 9 per cento, chiusura di primavera (in prime time) al 3 per cento instabile. Le voci sull'arrivo di Santoro a saturare il comparto. Di sicuro Mentana e Lerner preferirebbero mantenere Nuzzi in squadra, ma bisogna fare presto perché le trattative per la cessione della rete stanno accelerando.
Ch. Pao.
il Fatto 23.6.12
Vogliono vincere a ogni costo
di Nando dalla Chiesa
Si fa presto a dire società civile. Espressione chiara, espressione ambigua. Eroica e truffaldina a seconda dei casi. Erano società civile sia Ambrosoli che difendeva il rispetto delle leggi sia Sindona che lo fece uccidere. La società politica ascoltò molto più il secondo del primo. Erano società politica sia Piersanti Mattarella che voleva ripulire la Regione Sicilia dalla mafia sia Giulio Andreotti che andò a convegno con i suoi assassini di Cosa Nostra. Quando a Milano nel 1985 in un centinaio di persone fondammo un circolo chiamato “Società Civile”, l’obiettivo era di liberare la città dalle spire della politica, dall’ossessione dei partiti di controllare e taglieggiare ogni spazio: amministrazioni e sanità, scuola e sindacato, giornali e associazioni, circoli culturali e cooperative. Per questo fu deciso di vietarne l’iscrizione a chi avesse cariche politiche o elettive; per avere almeno uno spazio dove nel dibattito intellettuale e nelle scelte civili non comandassero né le contrapposizioni né le convenienze inconfessabili dei partiti. Una decisione che fu vissuta come uno sfregio dalla onnipotente nomenclatura cittadina.
MA IL RISULTATO fu che le uniche e numerose denunce contro il saccheggio della città vennero da quel circolo e dal mensile che ne nacque, anni prima che entrassero in scena i magistrati di Mani Pulite. Il fatto è che quell’esperienza aveva uno slogan: “Dare voce alla società civile per rendere più civile la società”. Appunto: rendere più civile la società. Che significava dare il giusto primato alle istituzioni e alle leggi, seminare culture del rispetto e della tolleranza, della libertà e della solidarietà. Tenere fuori la politica ma senza demonizzarla, dando giudizi differenti sulle singole persone che la facevano, al di là del partito di appartenenza. Tra quei fondatori c’erano David Maria Turoldo, Giorgio Bocca, Camilla Cederna, Paolo Murialdi, Saveria Antiochia, Annalori Ambrosoli e il maresciallo Silvio Novembre. C’erano persone che avrebbero preso strade diverse, come Giampaolo Pansa e Corrado Stajano, Giuliano Urbani e Giorgio Galli. O una pattuglia di magistrati che sarebbero diventati famosi: Gherardo Colombo e Giuliano Turone, Piercamillo Davigo e Livia Pomodoro, Ilda Boccassini e Armando Spataro. Impossibile ricordare tutti. Ma bastano i nomi per capire il progetto. Intanto in Lombardia cresceva la Lega, società civile che si proponeva non di “rendere più civile la società”, ma di rendere dicibile in pubblico ciò che l’incivile diceva al bar e che una persona normale si vergognava di dire. Politicamente ebbe ragione lei. Il futuro fu suo, perché anche questi sono gli effetti della corruzione senza pudore. La Lega portò davvero nelle assemblee elettive gente nuova, che nella sua condanna di Roma ladrona usava un linguaggio sconosciuto. Dopo pochi anni le si affiancò, in veste di padrone, un altro esponente della società civile, Silvio Berlusconi, diventato ricco e potente a colpi di favori fatti alla politica. Neanche lui puntò a “fare più civile la società”. Se Craxi aveva (più o meno) fatto del suo partito un’azienda, lui fece della sua azienda un partito. Fu eletto uomo di Stato per combattere ossessivamente il senso dello Stato. Anche lui facendo entrare in politica, oltre a qualche riciclato, personaggi che mai vi avevano trovato posto, comprese escort e favorite personali. Società civile, non c’è dubbio, se si vuol dire che non erano professioniste della politica o delle istituzioni.
ORA RIPARTE il giro. E il guaio è doppio. Perché da un lato i partiti sono fradici e hanno imbarcato una “società civile” debole e insignificante, una manna per chi pretende un diritto divino a comandare, tanto da non volersi più sottoporre a voto popolare. Dall’altro lato chi inneggia alla “società civile” non ha l’aria di volere lottare per rendere più civile la società. A volte sembra dimentico dei grandi valori che danno senso alla tecnica e alle competenze. Altre sembra non sapere che le parole sono pietre e che certe espressioni e immagini viaggiano come veleno nel corpo sociale, contribuendo a corromperlo ulteriormente nella tenzone liberatrice. Siamo in pieno rischio da tempi supplementari. Quando l’ansia di vincere travolge le regole. E i consensi devono arrivare tanti, maledetti e subito. Con la storia recente che ci ha insegnato che per vincere si fa prima a parlare alla pancia della gente. Ma per quanto tempo ancora potremo permettercelo? Per quanto tempo potremo ancora, senza finire nell’abisso, continuare a parlare il linguaggio dell’anti-Costituzione, ripudiare la sobrietà intrisa di princìpi forti e rispettosi scolpita nella Carta, scritta non per caso da quelli che avevano fatto l’unica vera rivoluzione della nostra storia nazionale? Qui oggi siamo. Tra la rovina di partiti che portano sulla faccia i segni della casta. E i fescennini imbandierati da società civile che affondano senza pietà nel buon senso civico su cui si fonda una democrazia. Di qua Scilla, di là Cariddi. Chi è disposto a provare a passarci dentro?
La Stampa 23.6.12
Intervista
“Nel tritacarne del Vaticano pago io per tutti”
Trapani, il vescovo destituito: “L’ex economo che ho cacciato per furto era di casa allo Ior”
di Giacomo Galeazzi
CITTÀ DEL VATICANO Destituito L’ex vescovo di Trapani Francesco Micciché non ha accettato di dare le dimissioni ed è stato perciò destituito
Vescovo Francesco Micciché, si aspettava di essere destituito dal Vaticano per irregolarità amministrative dopo l’indagine della magistratura sul suo ex economo diocesano don Ninni Treppiedi?
«Le dimissioni mi sono state chieste improvvisamente a maggio, quando tutto sembrava ormai chiarito con la verifica della Santa Sede delle ruberie di don Treppiedi. Non ho accettato di darle non per spirito di rivalsa contro il Santo Padre ma per coerenza. Ho fatto una scelta. Chiusa questa vicenda dolorosa ho deciso di vivere in preghiera. Sentirne sui mass media di tutti i colori sul proprio conto non lascia indifferenti. Ho subito sulla mia pelle notizie pesanti e non verificate. Sono sempre stato per la chiarezza ma vanno rispettate le regole democratiche».
La Santa Sede le rimprovera anche la perquisizione in un monastero di suore con la violazione della clausura. Cosa replica?
«La perquisizione al convento di Alcamo è una decisione presa dalla magistratura. Io non ho mai “autorizzato” niente del genere. La mia presenza lì è stata richiesta dal pm e io in ogni caso non avrei potuto evitarla. Ho cercato di evitare lo scandalo sempre per tutelare la Chiesa e le anziane suore. Il risultato è che sono stato accusato io di indegnità. Sono false le ricostruzioni su perquisizioni nel tabernacolo o monache costrette a spogliarsi. Ma di questo bisogna chiedere alla Santa Sede e alla procura di Trapani. Sono stato chiamato come persona informata sui fatti e ho collaborato come richiesto dalla mia coscienza di cristiano e cittadino, nei termini previsti dal magistero della Chiesa».
Come è cominciato lo scontro con l’economo?
«Mi sono reso conto che alcune cose non quadravano e ho fermato il giovane sacerdote. Capitai all’inaugurazione di una mostra in una ex chiesa. Mi era stato detto che era un magazzino fatiscente, da vendere. Mi ritrovai, invece, davanti una piccola chiesa di antica devozione e rimasi sconvolto. Avviai subito un’indagine interna che mi ha portato a sfiduciare in pochi mesi don Treppiedi».
Ci sono conti della diocesi di Trapani allo Ior?
«Su questo sta indagando la magistratura. So soltanto che quando sono andato allo Ior per verificare se c’erano conti della diocesi, io ho dovuto fare anticamera mentre i funzionari mi dicevano che conoscevano benissimo don Treppiedi. Anche quello è stato un campanello d’allarme».
Cosa consiglia all’arcivescovo Plotti inviato dal Papa a sostituirla?
«Non ho alcun consiglio da dare, figuriamoci. L’amministratore è un vescovo di provata esperienza. Quello che mi auguro e per cui prego ogni giorno è che la mia Chiesa ritrovi serenità. Nessuno mi ha mai messo nero su bianco le accuse, a parte per la perquisizione al convento di Alcamo in cui la Santa Sede avrà avuto notizie parziali o distorte. Certo, dovevo essere più accorto nel dare fiducia a qualche mio collaboratore, ma non è facile. Ovunque tanti miei confratelli si trovano in situazioni molto gravi: preti accusati di molestie sessuali anche con incarichi di rilievo nelle curie o scandali finanziari ma in genere non si colpisce il vescovo in maniera così veemente come è successo a me. Molti fedeli si dicono smarriti per una pena che considerano ingiusta poiché sanno che non ho colpa. Ma io obbedisco. Se la Chiesa ha deciso così, ci sarà un bene superiore che io proprio non comprendo».
Quale?
«Ho la chiara impressione di essere finito in un meccanismo più grande di me. Ma sono un vescovo: credo nella Chiesa e per essa continuo a vivere e pregare. La vita di un vescovo che sempre si assume in prima persona tante responsabilità è piena di errori. Prima di lasciare Trapani ho anche chiesto scusa a qualche sacerdote. Non me ne vergogno. L’importante è arginare gli errori compiuti per tutelare la Chiesa»
La Stampa 23.6.12
Lynn non rimosse un prete che compì abusi
Pedofilia, condannato un sacerdote negli Usa
di A. Sim.
WASHINGTON Monsignor William Lynn, che per anni ha occupato un’alta posizione all’arcivescovado di Filadelfia, è stato giudicato colpevole di aver messo a rischio dei bambini consentendo ad un prete pedofilo di continuare ad insegnare loro religione. Si tratta della prima condanna di un alto sacerdote negli Stati Uniti per aver tentato di coprire abusi sessuali commessi da preti ai danni di bambini. Al termine di un processo andato avanti per tre mesi, i 12 giurati hanno allo stesso tempo prosciolto monsignor Lynn da altri due capi d’accusa, tra cui cospirazione per proteggere un prete accusato di abusi sessuali.
Monsignor Lynn, a cui sarebbe spettato segnalare e indagare sulle accuse di abusi contro sacerdoti incaricati dell’istruzione dei bambini, rischia ora una condanna da tre anni e mezzo a sette di prigione. Il religioso è stato arrestato subito dopo il verdetto. La sentenza sarà emssa il 13 agosto. «È un giorno storico - ha salutato il verdetto Marci Hamilton, avvocato delle vittime - egli è il primo esponente di rango della Chiesa ad essere condannato per abusi sessuali commessi da un prete».
l’Unità 23.6.12
Un giornale inglese: la cancelliera tra Hitler e Terminator
«Angela Merkel è il leader tedesco più pericoloso dopo Adolf Hitler». Il settimanale britannico di sinistra New Statesman usa la mano pesante. Secondo la rivista, che ha dedicato la copertina alla cancelliera ritraendola nei panni di Terminator, «l'ossessione» per l'austerità della Merkel sta sterminando la crescita e sta spingendo l'Europa e il mondo verso una «nuova depressione». «Se si vuole salvare la prosperità dell'Europa, non c’è alternativa alle politiche rivolte alla crescita», analizza il settimanale nell’editoriale non firmato. «L’insistenza di Merkel nell’auto-flagellazione, l’opposizione a ogni forma di stimolo dell’economia o di alleggerimento monetario da parte della Bce ha spinto Paesi depressi come la Grecia ancora più a fondo», scrive Mehdi Hasan, responsabile del desk politico. E conclude: «Il cancelliere nega la realtà, vittima del suo austerity über alles, e così facendo distrugge il progetto europeo, impoverisce i Paesi vicini e rischia una nuova depressione globale. Deve essere fermata».
l’Unità 23.6.12
L’ultima udienza di Breivik: «Assolvetemi»
di Gabriel Bertinetto
«Ha diritto di parlare, ma noi non abbiamo alcun obbligo di starlo a sentire», spiega Christian Bjelland, mentre i familiari dei 77 innocenti massacrati da Anders Behring Breivik lasciano l'aula. Non hanno alcuna intenzione di sentirsi dire ancora una volta che l'assassino non è pentito e che la strage «per quanto atroce, era necessaria». Per impedire l'invasione islamica della Norvegia. La sua ossessione.
Nell'ultima udienza del processo, prima della sentenza prevista per il 24 di agosto, Breivik si è rivolto alla corte, chiedendo l'assoluzione e contestando la tesi dell'accusa sulla sua infermità psichica. Proprio perché non sano di mente, i procuratori Inga Bejer Engh e Svein Holden hanno chiesto che l'imputato non sia rinchiuso in carcere ma in una struttura psichiatrica. Lui vuole invece essere riconosciuto come persona normale, perché altrimenti verrebbe meno il senso dell'impresa di cui ama essere riconosciuto coraggioso esecutore: la lucida, spietata azione di guerra per «fermare l'invasione islamica».
RAGIONEVOLI DUBBI
Secondo i rappresentanti dell'accusa, le perizie non hanno accertato ogni ragionevole dubbio la capacità d'intendere e di volere del 33enne che il 22 luglio scorso seminò il terrore nella capitale norvegese. Prima fece scoppiare un’autobomba davanti a un palazzo del governo in pieno centro. Poi si recò sull'isola di Utoeya dove era in corso un raduno di giovani laburisti, sparando all'impazzata sulla folla. In totale 77 morti, 242 feriti. Un'esplosione di violenza come non si era mai sperimentata nella moderna Norvegia, un Paese che ha nel suo Dna sociale lo spirito di tolleranza e di convivenza pacifica.
La tesi dell'infermità mentale suscita perplessità nell'opinione pubblica locale. La coppia di magistrati incaricati dell'accusa ne è consapevole, come dichiara una dei due, Bejer Engh: «Vi sono state tante polemiche sul fatto che, condannandolo all'internamento psichiatrico, egli potrebbe uscire già domani. È accaduto. Ma altri assassini condannati a permanere in un unità psichiatrica chiusa, probabilmente non ne usciranno più. La nostra richiesta è che sia costretto in una di queste unità».
Proprio quello che esige la mamma di un ragazzo ucciso da Breivik: «Mi importa poco delle sue condizioni mentali. Voglio solo che nessuno di noi debba più rivederlo circolare liberamente per le strade». In aula c'è stata fino a quando ha visto l'omicida alzarsi per prendere la parola. Sapeva che neanche stavolta avrebbe avuto la decenza di chiedere perdono. E se ne è andata, mentre l'imputato ripeteva la litania del suo presunto solitario eroismo. Una strage per aprire gli occhi dei connazionali e spingerli a reagire contro «la cultura marxista e la conquista musulmana». Ha citato esempi dell'«inferno multiculturale» in cui stanno precipitando secondo lui l'Europa e il suo Paese in particolare: la partecipazione di individui originari di altre nazioni a eventi televisivi in rappresentanza della Norvegia, i dati statistici sulla maggiore prolificità dei cittadini di fede musulmana, e via inorridendo.
il Fatto 23.6.12
“Macché matto, ho solo difeso il mio Paese”
Breivik parla e chiede l’assoluzione per il massacro dei giovani di Utoya
di Alessandro Oppes
In cella o in una corsia d'ospedale psichiatrico, l'ultima parola spetta ai giudici del tribunale di Oslo che emetteranno la loro sentenza il prossimo 24 agosto, dopo un processo durato dieci settimane. Fosse lui - il mostro Anders Behring Breivik - a poter scegliere, andrebbe dritto in carcere perché, l'ha ripetuto in aula, essere considerato uno psicopatico sarebbe “peggio della morte”.
Anzi, in realtà l'estremista di destra che, il 22 luglio scorso, massacrò 77 persone nella capitale norvegese e nel vicino isolotto di Utoya, si è spinto anche più in là: pur ammettendo la responsabilità per la strage, ha chiesto l'assoluzione. Non c'erano più, a quel punto, i familiari delle vittime e i superstiti del massacro, che avevano deciso di abbandonare l'aula per risparmiarsi un ultimo supplizio, mentre anche le telecamere venivano spente. Nessuna platea gratuita per il più feroce criminale della storia del paese. Davanti ai giudici, Breivik ha ripetuto le sue solite tesi sonnesse. Dice di averlo fatto per “proteggere” il suo paese dal pericolo del “marxismo culturale” che promuoverebbe “la colonizzazione islamica del-l'Europa”. In sostanza, non fu un atto di terrorismo ma “la difesa della Norvegia dal multiculturalismo e dall'Islam”. Ciò che ha fatto, a suo dire, è stato “evitare una tragedia maggiore”.
DIFFICILE CAPIRE se quest'ultima sparata, carica di un fanatismo esasperato - come sono state sempre, del resto, tutte le sue uscite pubbliche e i suoi scritti farneticanti - contribuirà o meno a evitargli l'internamento in un ospedale psichiatrico.
La stessa procuratrice Inga Bejer Engh, dopo averlo osservato con attenzione nel corso di tutto il processo, ha confessato di ritenere “incomprensibile” come Breivik possa restare gelido e impassibile quando ricorda quelle scene - dall'autobomba di Oslo alla folle sparatoria dell’isola di Utoya - che sconvolsero il mondo intero. “Ha descritto senza nessun rimorso, e senza sentimenti, come quei giovani lo imploravano di risparmiare le loro vite, mentre lui gli sparava alla testa per assicurarsi che fossero morti”.
A propendere per l'internamento è l'accusa, che giovedì, nella requisitoria finale, ha ammesso l'esistenza di dubbi sullo stato mentale di Anders Breivik. Dubbi che derivano dalle conclusioni contrastanti dei due esami ai quali è stato sottoposto l'imputato: solo nel primo studio mentale che gli venne praticato, gli fu diagnosticata una “schizofrenia paranoide”, mentre il secondo rapporto, stilato da un'altra équipe medica, parla solo di “disturbo narcisistico della personalità”. “Non siamo sicuri che Breivik possa essere dichiarato legalmente come un malato”, ha così dovuto riconoscere il pubblico ministero Svein Holden, aggiungendo poi che “è peggio mandare uno psicopatico in carcere piuttosto che mettere una persona non affetta da turbe mentali sotto vigilanza medica obbligatoria”.
DI PARERE opposto, l'avvocato difensore Geir Lippestad, il quale chiede che il terrorista norvegese venga dichiarato “sano agli effetti penali” e che quindi “sia castigato per i suoi atti”. Ovviamente, la speranza della difesa è che gli venga imposta la condanna più tenue possibile ma, considerato l'elevatissimo numero di vittime e lo stato di psicosi collettiva provocato da quel massacro, è più che probabile che la pena sia di 21 anni di reclusione, la massima prevista dalla legislazione norvegese. Nella pratica, potrebbe tradursi nel carcere a vita: una volta compiuta la sentenza, si studierebbe se Breivik costituisce ancora un pericolo per la società. In caso affermativo, dovrebbe restare altri cinque anni in cella. E così via, con un riesame alla scadenza di ogni lustro.
Ma, in fondo, questa sembra essere la prospettiva che meno preoccupa l'estremista di destra, ansioso solo che venga riconosciuta la matrice “politica” del suo crimine. Per il suo avvocato, per quanto possa sembrare paradossale, si tratta di una questione di “diritti umani”. Così si è espresso ieri Geir Lippestad, nelle sue conclusioni davanti alla Corte: “Se teniamo in considerazione che l'accusato aveva un progetto politico, ritenere questi atti come l'espressione di una malattia significa privarlo di un diritto umano di base, che è il diritto ad assumere la responsabilità per ognuna delle sue azioni”.
Repubblica 23.6.12
L’infame sorriso del mostro di Utøya
Il sorriso osceno del killer in aula tra i fantasmi di Utøya l’ultima sfida di Breivik
Oslo, il 24 agosto il verdetto per la strage dei ragazzi
di Adriano Sofri
OSLO L’AULA del processo a Breivik è piccola e raccolta, non c’è barriera a separare l’imputato, i testimoni siedono a due passi da lui. Anche gli scampati. Per alcuni è la seconda volta. Tonje Brenna, 24 anni: «Sentivo l’odore della polvere da sparo. Sparava, rideva e gridava di gioia». Husein Kazemi, afgano di Herat, 20 anni: «I nostri sguardi si incrociarono. Era vicinissimo ». Si buttò in acqua, benché non sapesse nuotare, l’acqua era rossa. Fu colpito tre volte. Anche Mohammed Hadi Hamed, 21 anni, ha sentito l’odore della polvere e della carne bruciata del cadavere che gli è caduto addosso, e ha pensato di essere tornato nel suo Iraq, «perché una cosa così è impossibile in Norvegia». Ora gli è seduto accanto, mutilato di un braccio e una gamba. Storie così, centinaia. Come l’adolescente ceceno che chiama al cellulare il padre, e lui gli dice che devono reagire, e raccolgono delle pietre, lui un compagno ceceno e un altro e vanno contro Breivik. Siedo nell’aula così intima mentre gli psichiatri si danno battaglia, e la signora Wenche Arntzen, 53 anni, che presiede, non ha mai bisogno di alzare la voce.
NEMMENO per ammonire Breivik che spiega alla pubblica accusatrice che lei è bionda e attraente e per proteggere la sua razza lui ha dovuto trucidare quelle 77 persone. Il tribunale ha proibito le trasmissioni dei suoi interventi, ma gli permette di commentare testimoni e periti. Ha smesso l’aria di sfida delle prime comparse, sta lì con una compassata untuosità, quando gli psichiatri citano qualcuna delle sue enormità sorride, come per dire: «Eh, ma questa è davvero grossa», e come se a farla così grossa fosse stato un altro. Da settimane i norvegesi parlano o sentono parlare di schizofrenia paranoide e psicosi. Sul resto non c’è discussione: Breivik rivendica tutto: l’autobomba che ha ucciso 8 persone a Oslo, i 69, per lo più ragazzi e ragazze, trucidati a Utøya. Dicono che un norvegese su quattro conoscesse almeno una delle vittime, e citano i versi di Nordahl Grieg (1902-1943): «Siamo così pochi in questo paese / ogni uomo che cade ci è fratello o amico». Il processo è stato drammatico finché toccava a superstiti e famigliari. Poi sono rimaste le opposte scuole psichiatriche. Nelle 1500 pagine del suo “Manifesto” Breivik millantava il proprio martirio, e l’ha ripetuto ieri. Mentre ancora mitragliava gli inermi a Utøya chiamò la polizia per avvertire che si sarebbe arreso, e quando la polizia — tardi — arrivò, le si consegnò docilmente: un vigliacco. Ora è lì, i periti citano brani dei più deliranti, e lui, il cavaliere templare, sorride divertito come per uno scherzo riuscito. Giornalisti e pubblico sorridono, o ridono apertamente, ma di colpo si accorgono che lui sorride o ride esattamente come loro, esattamente delle stesse baggianate. C’è qualcosa di insopportabile in questo. Ma attenzione: non è andata sempre così. L’11 maggio l’aula ospitava il ventenne Hayder Mustafa Qasim, appena arrivato dall’Iraq. Quel giorno i periti riferivano sull’autopsia di suo fratello, Qarar. Il giovane assistette in silenzio, si guardò attorno, non riuscì a spiegarsi la calma di persone dalla vita spezzata. L’udienza della mattina era avanzata quando Hayder Mustafa Qasim si alzò e lanciò una scarpa verso Breivik, gridando: «Hai ucciso mio fratello! All’inferno! Vai all’inferno! ». La scarpa lo mancò. Ma Hayder incrociò, fra le lacrime, lo sguardo di Breivik: «E ho visto che il mio messaggio gli era arrivato». Mentre Hayder usciva dall’aula, quel pubblico così controllato di parenti e cittadini si mise a battere le mani e gridare «Bravo! » e dare sfogo al pianto. Di tutti i possibili risultati dell’incontro fra la Norvegia “tipica” (“ typisk” — è una tipica espressione norvegese) e lo straniero ultimo arrivato, questo era il più imprevedibile e rivelatore. Gli psicologi finalmente ebbero qualcosa da dire, e dissero, pressappoco, che quando ci vuole ci vuole. Che le rose e le canzoni sono una reazione mirabile, ma non bastano, e che c’è un punto di rottura. Non voglio tradire l’episodio riducendolo a una metafora, ma in quel momento la Norvegia (e l’Iraq) dissero molto di sé a qualunque Cavaliere Templare. Ma la corte ha ragione a volere un rispetto meticoloso dei diritti dell’imputato. È la traduzione giudiziaria della promessa di Jens Stoltenberg, il primo ministro, all’indomani della strage: «Reagiremo al male con più democrazia e più umanità ». L’avvocato difenso- re, Geir Lippestad, 48 anni, è un padre di otto figli, laburista impegnato — del partito cui Breivik imputa l’islamizzazione e della cui gioventù ha fatto strage — e ha esitato prima di accettarne l’incarico. Ha chiesto di ascoltare i capi dell’estrema destra. Così la corte si è sentita spiegare che nel 2200 non ci sarà più una sola donna bionda in Norvegia, e altre profezie. La difesa intendeva dimostrare che Breivik non è solo a pensare i suoi deliri. Ma non sono alla sbarra i deliri. Le opinioni deliranti hanno milioni di titolari. Le azioni sono personali, e, per così dire, le opinioni no. Si fermano sulla soglia — sia pure con qualche eccezione imposta dalla storia. La psichiatria vuol maneggiare il trapasso dalle opinioni alle azioni, e tende a stabilire un legame di causa ed effetto fra le due. Il che può portare sia a concludere per la “sanità” («è l’ideologia a guidarlo, Breivik non è che un ideologizzato più conseguente degli altri») sia all’insanità («simili opinioni sono deliranti, quindi le azioni sono irresponsabili»). Così rischia di dare per scontato che Breivik abbia fatto quello che ha fatto per le motivazioni che ha fornito. Come quando si rifece il naso, e ora dice di essere stato aggredito da un musulmano che gli ruppe il setto — una bugia, dicono gli amici di allora. Il dissidio fra psichiatri ha coinvolto ogni dettaglio biografico e ogni ingrediente delle sue elucubrazioni. Al principio, e alla fine, c’è un dilemma sofistico: è pazzo chi fa una cosa simile; non è pazzo chi fa una cosa simile. Breivik l’ha preparata per anni. Il paradosso rovescia il gioco delle parti: l’imputato chiede di essere riconosciuto sano di mente, per continuare a pretendersi l’eroe di una crociata; l’accusa chiede di dichiararlo pazzo, il pazzo di casa. Lui protesta che non si prendano sul serio i suoi turbamenti. Non è interessante la sua vita, e non può esserlo diventata grazie alla strage. Anche perché la strage serviva a renderla interessante. Fuori dal tribunale, l’opinione dei norvegesi è per la colpevolezza: in galera, non in una casa di cura. Hanno ragione, credo: l’equivoco sta nel far coincidere la pazzia con l’irresponsabilità. Breivik è responsabile. In attesa della sentenza (il verdetto verrà il 24 agosto) si prepara una legge ad personam che prevede una cella di prigione adibita a un uso psichiatrico, soluzione salomonica che si adatterebbe a ogni conclusione. Prima delle arringhe finali, si sono risentite in aula voci di famigliari. Un uomo, che ha perso sua moglie nell’esplosione di Oslo, ha detto che lei aveva le unghie colorate di tutti colori diversi. La sua vita è diventata grigia, ma lui non vuole che la Norvegia diventi una società chiusa. E ieri, quando madri e sorelle hanno parlato di nuovo, la gente nell’aula ha pianto e ripetutamente applaudito. Hanno imparato a farlo. Il campeggio di Utvika — “la baia di fuori” — è la terraferma di fronte a Utøya, “l’isola di fuori”, 600 metri di distanza. Da lì, mentre la polizia non arrivava (un’attenuante: stava avvenendo l’inimmaginabile), molti andarono a soccorrere i ragazzi. Ci sono lapidi e fiori, lettere infantili, giocattoli, un po’ dovunque. Più in là è fermo il ferry per Utøya, quest’estate i giovani laburisti non ci andranno. Bisogna cambiare qualcosa sull’isola, hanno detto. Far passare ancora un po’ di tempo.
La Stampa 23.6.12
Il Pentagono schiera le navi e fa arrabbiare Pechino
di Maurizio Molinari
Dozzine di navi da guerra, centinaia di aerei e migliaia di uomini sono protagonisti di un’imponente esercitazione militare congiunta delle forze americani, giapponesi e sudcoreane percepita come una minaccia dalla Nord Corea e vissuta con allarme a Pechino. I “War Games” coincidono con il 62° anniversario dell’inizio della guerra di Corea, quando il Nord attaccò il Sud con il sostegno della Cina di Mao, e simulano un’identica aggressione contro Seul al fine di preparare una risposta migliore di allora, visto che nel 1950 le forze comuniste riuscirono a sorprendere il Sud impossessandosi anche della capitale Seul.
La prima fase delle manovre si è svolta sulla terraferma, a ridosso della zona smilitarizzata, con l’impiego di duemila soldati americani e sudcoreani, appoggiati da mezzi pesanti e artiglierie che, sparando munizioni vere, «hanno fatto sollevare colonne di fumo davanti alle bandiere nordcoreane sul confine ma per fortuna senza colpirle» come ha scritto il «China Post». Da lunedì scattano le operazioni navali nel Mar Giallo che vedono la Us Navy schierare il gruppo navale della portaerei George Washington, affiancato da numerose unità da guerra sudcoreane e da tre cacciatorpedinieri giapponesi. Sebbene Tokyo affermi che si tratta di «manovre di routine fra alleati» in realtà è la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che la Marina nipponica partecipa da protagonista - e non da osservatrice - a esercitazioni navali congiunte a ridosso delle acque della Corea del Nord. Per Pyongyang si tratta di «una dissennata provocazione militare che può portare ad un conflitto nucleare» come recita un comunicato governativo, ammonendo Washington e Seul a «pensare bene due volte cosa stanno facendo perchè basta la minima provocazione per innescare una guerra». In realtà il vero intento delle manovre sembra rientrare nello scenario anticipato dal capo del Pentagono, Leon Panetta, in occasione di una recente visita a Singapore, quando previde l’intensificazione della «cooperazione strategica» con gli alleati dell’Estremo Oriente per contenere la crescita dell’apparato militare cinese. Anche per questo la stampa governativa di Pechino ha dato notizia delle manovre mostrando allarme e dando voce ai gruppi di opposizione sudcoreani che vi vedono il rischio di «conflitti nell’Asia del Nord-Est».
Ad avvalorare l’impressione che Washington punti sul rafforzamento della Us Navy nei mari a ridosso della Cina ci sono le indiscrezioni trapelate a Washington sull’imminente varo di una nuova generazione di navi «Stealth», capaci di navigare sottocosta sfuggendo alla sorveglianza radar per attivare sofisticate apparecchiature elettroniche capaci si monitorare le attività militari. Le coste cinesi sono l’area dove l’esercito di Pechino schiera la maggioranza delle unità, di artiglieria e missilistiche, capaci di minacciare Taiwan.
La Stampa 23.6.12
Cina, confessa la moglie di Bo Xilai “Ho ucciso io l’imprenditore inglese”
Minacciava rivelazioni sull’esportazione di miliardi di dollari
di Ilaria Maria Sala
Nuovo colpo di scena nella saga cinese che vede come protagonista una famiglia che era, fino a ieri, una delle più potenti del Paese, e ora è caduta del tutto in disgrazia: Gu Kailai, la bella moglie di Bo Xilai, ex-segretario di Partito della municipalità di Chongqing (30 milioni di abitanti) silurato, avrebbe confessato di aver ucciso Neil Heywood, 41 anni, l’uomo d’affari britannico collegato ai servizi di Sua Maestà trovato morto avvelenato a Chongqing.
Questo, almeno, è quanto traspare dopo diverse settimane di silenzio su uno dei casi di lotte interne e scandali politici più eclatanti che abbiano toccato le vicende interne della Cina negli ultimi decenni. La notizia è stata diffusa dai media giapponesi, che citano «fonti del partito comunista», che confermerebbero che Gu decise di avvelenare Heywood dopo essersi sentita «in trappola» quando questi, cui lei aveva chiesto aiuto per trasferire illegalmente dei capitali all’estero e che forse era il suo amante, aveva preteso ingenti somme per mantenere il segreto. Si trattava infatti di trasferimenti per «miliardi di dollari».
Lo scandalo, scoppiato a Chongqing lo scorso febbraio e divenuto di dominio pubblico malgrado la volontà dei censori cinesi di controllare e bloccare molto di quanto avviene sul web, ha coinvolto una vasta rete di persone — a cominciare da Wang Lijun, l’ex-super poliziotto di Chongqing che aveva cercato rifugio al Consolato statunitense quando era venuto a sapere della morte di Heywood.
Fra gli arrestati, detenuti e sotto inchiesta ci sono anche uomini d’affari con cui Bo aveva legami quando era sindaco di Dalian (nord-est della Cina), il personale domestico della coppia, altri politici e alcuni personaggi dello spettacolo.
Proprio in questi giorni, poi, sotto pressione di Pechino, è stato arrestato in Cambogia l’architetto francese Patrick Devillers, anche lui sospettato di complicità con Gu Kailai nel trasferimento di capitali all’estero. Per ora la richiesta di estradizione in Cina è stata bloccata dalla Francia, che ha chiesto la custodia di Devillers.
Gu Kailai, donna d’affari internazionale, aveva a Londra un fondo di investimenti chiamato Horus (la divinità egizia), il nome che la donna utilizzava con gli stranieri. Non si hanno per ora ulteriori dettagli su come stiano procedendo le inchieste giudiziarie, dato che dopo un così inusuale spettacolo pubblico dei panni sporchi del Partito, causato sia dal coinvolgimento di Heywood che dalla decisione di Wang di chiedere asilo all’America, tutto è ritornato nella segretezza usuale con cui si svolgono queste cose in Cina.
Una discrezione avvertita come ancor più preziosa in questo delicato momento: Pechino infatti si appresta a tenere il XVIII Congresso del Partito Comunista, nel corso del quale saranno nominate le nuove massime cariche politiche nazionali, che terranno le redini del Paese per i prossimi dieci anni. È chiaro che in un momento così delicato Pechino non vuole ulteriori scandali.
Corriere 23.6.12
Egitto
«Da laico denuncio il golpe della giunta contro la rivoluzione»
di Lorenzo Cremonesi
IL CAIRO — «Il nostro nemico numero uno sono i vertici militari. Vanno battuti a ogni costo se vogliamo salvare la rivoluzione. E per questo è giusto allearsi con i Fratelli musulmani, che indubbiamente hanno vinto le elezioni, ma ora rischiano di venire derubati del loro successo». Alaa al-Aswani ripete di continuo il suo mantra. È un messaggio semplice, tutto politico, mirato a mobilitare le piazze. Abbiamo incontrato il celebre autore di Palazzo Yacoubian l'altra sera a un'affollata assemblea di intellettuali e militanti, quasi tutti laici convinti come lui, che dibattevano il «che fare?» di fronte al pericolo del golpe militare e la deriva della guerra civile. Poi, per quasi due ore di intervista nella notte, ha spiegato gli obbiettivi e le ragioni della «missione morale» (sono parole sue) di «scrittore e intellettuale organico in senso gramsciano» impegnato nella «costruzione del nuovo Egitto».
Come fa a essere tanto certo della vittoria del candidato dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi?
«Un gruppo di giudici onesti di cui mi fido e che fanno parte delle commissioni elettorali mi hanno ribadito con assoluta certezza che Morsi ha ottenuto 900.000 voti in più di Ahmed Shafiq, il candidato del regime. C'è poi la questione dei brogli. I militari hanno falsificato i risultati e aggiunto arbitrariamente a loro favore sino a 4 milioni di schede di uomini dell'esercito e della polizia».
Lei è sempre stato critico dei Fratelli musulmani e addirittura aveva fatto appello all'astensione in vista delle presidenziali. Perché oggi li difende?
«I militari tentano il golpe, falsificano i risultati. Se vogliamo difendere la rivoluzione, che significa debellare sei decadi di dittatura, dobbiamo stare con i Fratelli musulmani: la forza di opposizione meglio organizzata e più popolare. Abbiamo scalzato Mubarak dalla presidenza, ma non è ancora sufficiente. La nostra rivoluzione mira a cambiare l'intero sistema di potere che è rimasto praticamente intatto grazie alla giunta dei colonnelli, 19 ufficiali che non vogliono andarsene. Quando i Fratelli musulmani saranno finalmente al governo noi laici e democratici torneremo in piazza a difendere i nostri valori».
Nell'Iran della rivoluzione del 1979 liberali e comunisti si allearono con i religiosi contro lo Scià e i militari, più o meno come vorrebbe lei in Egitto. Poi, arrivati al potere, i khomeinisti li perseguitarono, imprigionarono e uccisero uno per uno. Tanti scapparono in esilio. Non teme un'evoluzione simile?
«Gli sciiti iraniani sono molto diversi dai sunniti in Egitto. I loro religiosi sono molto più fanatici, più obbedienti ai dettami degli imam nelle moschee. E io comunque ho aperto un dialogo diretto con molti di loro, c'è rispetto reciproco. Negli anni Novanta avevano tra loro nuclei di terroristi, che però sono stati battuti e adesso comprendono forti correnti moderate. In tanti mi hanno contattato dopo che li ho difesi contro i militari e hanno chiesto scusa per gli attacchi che mi avevano lanciato in passato. E comunque io non sto con loro, non ho cambiato idea rispetto alla necessità di costruire un Egitto laico, dove imperi la separazione netta tra Stato e religione».
Cosa risponde a chi sostiene che la Primavera araba è in crisi qui in Egitto, come anche in Libia, Siria e nel resto del Medio Oriente?
«Che sono generalizzazioni troppo semplicistiche. Ogni Paese ha storie e dinamiche particolari, uniche. La società egiziana ha una tradizione statuale antica oltre 6.000 anni. Nulla a che vedere per esempio con Libia o Yemen dominate dalla composizione tribale e frammentata delle loro popolazioni. E penso anche che presto il nuovo Egitto figlio della rivoluzione possa tornare a essere un Paese di riferimento per tutto il mondo arabo, come fu ai tempi di Muhammad Alì e più di recente nell'era nasseriana».
La comunità internazionale deve intervenire in Siria?
«Assolutamente no. Ritengo che le forze democratiche in Siria possano venire incoraggiate dal sostegno morale che arriva dall'estero. A noi è stato molto utile nei 18 giorni delle sommosse. Ma la cosa deve terminare lì».
Sta scrivendo un nuovo romanzo sulla rivoluzione?
«Ci lavoro da tre anni. L'ho intitolato "Automobil Club" e tocca il tema della storia della motorizzazione in Egitto. C'è anche un lungo capitolo sulla Fiat nel nostro Paese, re Farouk era un grande amico dell'Italia e fece di tutto per facilitare l'arrivo delle vostre auto».
Ma cosa c'entra con la rivoluzione?
«Stando nelle piazze in lotta l'anno scorso ho capito la valenza della volontà al cambiamento. Mi ha aiutato a descrivere la forza e il coraggio di saper stravolgere totalmente le proprie esistenze, i punti di riferimento, i valori dell'infanzia. Ed è uno dei temi centrali del libro».
Repubblica 23.6.12
La Regina e l’ex comandante dell’Ira la pace dell’Ulster in una stretta di mano
Così Elisabetta mercoledì saluterà McGuinness: un evento storico
di Enrico Franceschini
3.248, sono le vittime dei 29 anni di guerra civile iniziata in Irlanda del Nord nel 1969
Il 10 aprile del ’98 a Belfast fu sottoscritto l’accordo di pace, poi approvato da un referendum
LONDRA — È una scena che pochi in Gran Bretagna e in Irlanda si sarebbero mai immaginati. La settimana prossima Martin McGuinness, ex-comandante dell’Ira, stringerà la mano alla regina Elisabetta, capo dello Stato contro cui l’esercito clandestino dei repubblicani irlandesi ha combattuto per trent’anni in nome dell’indipendenza. In quel momento la pace firmata dai leader politici nel Venerdì Santo del 1998, poi sancita da un governo congiunto tra unionisti protestanti e separatisti cattolici, uscirà dai corridoi del potere per diventare finalmente
un fatto reale. «Non credevo che avrei mai assistito a un evento del genere in vita mia», ripetono esterrefatti ai microfoni della Bbc i sudditi di Sua Maestà a Londra e i sostenitori di un’Irlanda unita a Belfast e Dublino.
Arrestato ventenne per possesso di esplosivo, condannato a sei mesi di carcere, capo dell’Irish Revolutionary Armymprima a Derry quindi in tutta l’Irlanda del Nord, McGuinness aveva da tempo abbandonato la lotta armata per scegliere la strada dello scontro politico. È diventato il numero due dello Sinn Feinn, il partito cattolico guidato da Gerry Adams. Dopo gli accordi di pace è stato eletto vicepremier del governo autonomo nord-irlandese. E tuttavia il gruppo di cui ha fatto parte è stato responsabile tra l’altro dell’assassinio di Lord Mountbatten, cugino di primo grado di Elisabetta II e amatissimo dal principe Carlo. A sua volta la regina è il simbolo di una nazione che, agli occhi degli indipendentisti, non solo continua a occupare un pezzo d’Irlanda, ma ha represso, perseguitato e ucciso i loro militanti. Certo, l’Ira ha smantellato gli armamenti, di fatto non esiste più. E lo Sinn Feinn, suo braccio politico, ha accettato la via della trattativa e del processo democratico. Ma anche Elisabetta ha fatto concessioni, quando l’anno scorso, visitando per la prima volta l’Irlanda, ha deposto una corona di fiori al monumento ai ribelli irlandesi morti lottando per l’indipendenza dal suo regno.
«È una buona decisione per l’Irlanda, la decisione giusta al momento giusto», commenta Jerry Adams, pur ammettendo che non è stata unanime e che c’è qualche scontento. Come che sia, mercoledì prossimo, durante una visita della regina a Belfast, McGuinness diventerà il primo rappresentante dell’Ira a incontrarla e le stringerà solennemente la mano. Come ebbe a dire il premier israeliano Rabin prima di stringere con riluttanza quella di Arafat, la pace si fa tra nemici, non tra amici.
l’Unità 23.6.12
Einstein, la pace innanzitutto
La militanza del grande fisico ricostruita in un libro
Il nostro Pietro Greco racconta l’evoluzione del pensiero e dell’impegno dello scienziato che provava una profonda antipatia per odio e crudeltà
di Cristiana Pulcinelli
«CARO SIGNOR FREUD, C’È UN MODO PER LIBERARE GLI UOMINI DALLA FATALITÀ DELLA GUERRA?». LA LUNGA LETTERA CHE CONTIENE LA DOMANDA CRUCIALE È DATATA 30 LUGLIO 1932 ed è firmata da Albert Einstein. Il giorno dopo, 31 luglio, in Germania si svolgono le elezioni politiche che saranno vinte dai nazionalsocialisti di Adolf Hitler. Il clima è quello della crisi europea che porterà alla Seconda guerra mondiale e Einstein cerca una risposta alla questione che già arrovellava la sua mente durante la Prima guerra: che cosa porta le persone a uccidersi e a mutilarsi reciprocamente con tanta ferocia? Scrive così al padre della psicanalisi per trovare una risposta, ma soprattutto per trovare qualcuno che condivida la ricerca di un modo per evitare un secondo conflitto. La risposta di Freud non verrà mai pubblicata a causa del precipitare degli eventi in Germania.
La lettera è solo una delle testimonianze dell’impegno per la pace di Albert Einstein. Il grande fisico tedesco non era un semplice amante della pace, ma un pacifista militante. A raccontare la storia di questo impegno Pietro Greco dedica il suo nuovo libro (Einstein aveva ragione, Scienza Express, pp. 301, euro 19,00), e lo fa individuando un’evoluzione del pensiero del fisico su questi temi. In particolare, dice Greco, si può dividere la vita di Einstein in quattro fasi: del pacifista istintivo (dall’infanzia al 1914); del pacifista radicale (dal 1914 al 1932); del pacifista autosospeso (dal 1933 al 1944); del pacifista per il disarmo nucleare (dal 1945 al 1955). Questo vuol dire che il suo impegno per la pace nasce da «una profonda antipatia per ogni forma di odio e di crudeltà» come dichiarerà lui stesso alla rivista Christian Century nel 1929, ma via via si corrobora con l’analisi razionale e con un’analisi politica per nulla ingenua e anzi, scrive Greco, «così lucida da anticipare quella degli analisti di professione».
Seguendo le fasi della sua vita, scopriamo così il giovane Einstein insofferente per il militarismo prussiano e per qualsiasi forma di autoritarismo.
Lo ritroviamo più grande esprimere pubblicamente i suoi ideali pacifisti attraverso due obiettivi decisamente radicali: il governo democratico del mondo e il disarmo universale da ottenere attraverso l’obiezione di coscienza. Già famoso, eccolo negli Stati Uniti incitare al rifiuto del servizio militare: «Anche se soltanto il 2% di coloro che sono chiamati a prestare il servizio militare dovesse annunciare il proprio rifiuto di combattere (...) i governi sarebbero impotenti, non oserebbero mandare in galera un così grande numero di persone». Dopo queste parole, studenti e pacifisti americani cominciarono a indossare distintivi con scritto semplicemente «2%».
Eppure, l’immagine di Einstein pacifista militante sembra in contraddizione con quella diffusa a livello popolare di padre della bomba atomica. È davvero così? Einstein in realtà non ha mai lavorato alla bomba atomica, ma l’idea che ne sia il padre spirituale scaturisce da un’altra sua missiva. È la lettera, famosissima, che il fisico scrisse il 2 agosto del 1939 al presidente degli Stati Uniti Roosevelt per avvertirlo che dalle ricerche sull’atomo potrebbe scaturire una bomba enormemente potente, metterlo in guardia sul fatto che i tedeschi potrebbero star lavorando a questo progetto e, infine, chiedergli di finanziare le ricerche sull’atomo. Una lettera considerata da molti all’origine del Progetto Manhattan per la costruzione delle bombe atomiche e, quindi, all’origine della distruzione di Hiroshima e Nagasaki. In realtà, scrive Greco è la fase del pacifista autosospeso: «il principio etico del pacifismo il rifiuto di progettare, produrre, imbracciare e usare ogni e qualsiasi arma non è abbandonato. Cede il passo, in questo momento contingente, a un altro principio etico che Einstein considera di ordine superiore: salvare il mondo dalla barbarie nazista». Nessuna contraddizione, dunque, ma la dimostrazione che il pacifismo di Einstein è il pacifismo di un laico, di un uomo che aderito ad un’etica della flessibilità, applicando le sue idee tenendo conto delle condizioni al contorno, del contesto in cui vive. Tant’è che, dopo il 1945 Einstein si batterà strenuamente per il disarmo nucleare, considerando che quella atomica era diventata la nuova e più grave minaccia per l'umanità. Fino a firmare il manifesto con Bertrand Russell che porterà, morto Einstein, alla fondazione della Conferenza Pugwash per la scienza e gli interessi del mondo, un forum di scienziati che opera per l’abolizione delle armi nucleari e la soluzione pacifica dei conflitti internazionali e che nel 1995 è stata insignita del Nobel per la pace.
l’Unità 23.6.12
Chi ha paura di Majakovskij?
Proprio oggi è necessaria la sua poesia visionaria, combattiva e inesauribile
Nessuno ha cantato con maggiore veemenza il sogno del cambiamento e del rinnovamento
Ora il poeta è «tornato» in libreria con «La nuvola in calzoni» tradotto da Remo Faccani
di Giuseppe Montesano
Gli snob dicono che Vladimir è superato... sono solo schiavi
del «nuovo»
Il suo urlo non potrà finire finché l’uomo sarà servo cieco della religione del vendere e del comprare
DA DOVE COMINCIARE? ERA UN GIGANTE SCONSOLATO E TENERO, COMBATTIVO E VISIONARIO, SMEMBRATO E VIVO, UN POETA CHE CANTAVA MENTRE URLAVA, E CHE RIDEVA E PIANGEVA MENTRE CANTAVA, E ALLORA DA DOVE COMINCIARE? Da qui: «E sento che l’io per me è troppo piccolo. Qualcuno erompe da me, cocciuto. Allò! Chi parla? Mamma? Mamma! Vostro figlio è stupendamente malato. Mamma! Ha un incendio nel cuore. Dite alle mie sorelle, a Ljuda e Olja, che non sa più dove trovare scampo. Ogni parola che egli vomita dalla bocca in fiamme si lancia nel vuoto, come una prostituta nuda fuori da un postribolo che arde...»
È lui, è Vladimir Majakovskij, e oggi possiamo riascoltare il poema La nuvola in calzoni nella bella e coraggiosa traduzione di Remo Faccani per Einaudi (pagine 116, euro 12,00). Ma Majakovskij è superato, così dicono gli snob asserviti al new-new che li distrugge. Davvero? Sentiamolo ancora, questo Baudelaire postmoderno: «La via trascinava in silenzio la sua pena. Un grido le svettava dalla strozza. Le s’impennavano, ficcati nella gola, tassì rigonfi e ossute carrozze. Il petto le calpestarono, ma la via s’accosciò e prese a berciare...», e sentiamolo quando, come in un cartoon ma in anticipo sui cartoon, personifica le sue nevrosi: «Mi accorgo che senza far rumore come un infermo giù dal letto è balzato a terra un nervo. Ed ecco, prima si muove appena appena, poi si mette a correre eccitato, ritmico. Ora lui e due nuovi sopraggiunti s’agitano in uno sfrenato tip-tap...»
Come nessun altro poeta moderno, Majakovskij adopera le sequenze per immagini del cinema, le astuzie ottiche e gli illusionismi, le dissolvenze e i primi piani, e soprattutto l’animazione degli oggetti; prende la poesia dei simbolisti, la veste di stracci e la fa cantare come Mahler fa cantare contrabbassi e violini: strozzandoli e spingendoli al limite delle loro possibilità; usa metafore e analogie in modo così crudo da renderle volutamente grottesche, e fa franare i significati consueti. Majakosvskij non si fermò mai. Nel 1908 passa quasi un anno in carcere come sovversivo bolscevico; studia e scrive versi simbolisti che poi butta; diventa futurista e gira la Russia in spettacoli interrotti dalla polizia; è espulso dall’Istituto d’Arte per motivi politici; si innamora di Lilia Brik, e lei ha già un marito, che è amico di Majakovskij; nel 1917 si getta entusiasta nella Rivoluzione. Nel regime che segue Majakovskij continua a scrivere, inesauribile come i suoi amati motori diesel, sceneggiature, opere teatrali, poesie: sull’estrazione del petrolio, sul ponte di Brooklin, sul passaporto sovietico; come in un Signor Bonaventura cubofuturista, disegna fumetti per frustare il già vecchio e orribile filisteismo comunista in nome di un comunismo secondo lui vero; scrive un poema sulla Rivoluzione che disgusta Lenin, e scrive un poema per la morte di Lenin; è accusato di essere «troppo difficile» per gli operai, attacca i burocrati del Pcus ed è censurato, viaggia in America e si innamora di New York; rimprovera a Esenin di essersi suicidato, e tre anni dopo, nel 1930, si uccide per amore, lasciando scritto: «Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è infranta contro gli scogli della vita quotidiana. La vita e io siamo pari. Non serve enumerare offese, dolori, torti reciproci...»
Majakovskij era innamorato della vita al punto da perderla, ma la contraddizione non lo spaventava, e usò le proprie fratture come una nuova metrica. È superato? Oggi tutta la poesia è superata e sfregiata, incarcerata dalla nostra vita smarrita nel regno osceno dell’Economico impazzito. L’idea che Majakovskij aveva della poesia, un’espressione che ingoia tutto, è sempre più necessaria: non un arreso neo o post realismo, ma uno scontro perpetuo con la cosiddetta realtà. Majakovskij non può essere un Maestro perché lodò il comunismo? Può essere: ma allora cosa fare di Benn, Pound, Céline, Heidegger? Tappezzare con le pagine di Essere e tempo o con quelle dell’antisemita cattolico Eliot i prossimi treni blindati? Meglio leggerle, quelle pagine, e attentamente. E se Majakovskij parlò troppo su tutto, cosa dire di chi tace su tutto e loda sempre il mondo come è, e chiama «efficienti» e «riformisti» i nuovi hitlerini che distruggono le vite degli uomini? In un poema in cui frullava insieme Cristo e Scienza, Majakovskij immaginò che nel futuro utopico ci sarebbe stato «il laboratorio delle resurrezioni umane», e che lui, a un chimico titubante su chi far risorgere per primo, avrebbe urlato: «Fammi resuscitare! Iniettami sangue nel cuore! Ficcami nel cranio idee! Non ho vissuto fino in fondo la mia vita terrena, sulla terra non ho avuto tutto il mio amore...»
L’urlo di Majakovskij non potrà finire finché l’uomo sarà un servo cieco della religione del vendere e comprare. Quell’urlo richiama alla vita non solo tutti i morti, ma tutti quelli che non vogliono essere morti in vita. Il canto di Majakovskij disturba chi si è arreso, ma fa respirare chi resiste. E oggi quale poesia ci serve, se non questa?
Un divo letterario e politico
Vladimir Majakovskji nasce a Bagagadi, in Georgia, nel 1893. Giovanissimo si appassiona alla poesia. La sua voracità intellettuale è leggendaria, la sua presenza fisica imponente ne fa una sorta di divo spettacolare. Il successo del poema «Tu!», steso durante gli anni della Prima Guerra mondiale, è debordante e del tutto imprevisto. L’adesione di Majakovskij alla Rivoluzione d'Ottobre lo rende ancor più popolare e amato. Con l’avvento di Stali critica violentemente il regime del tiranno. La sua situazione sentimentale (un devastante triangolo amoroso con Lili Brik e suo marito Josip) e le contingenze politiche gettano tuttavia il poeta in uno stato di estrema prostrazione psicologica. Si suicida il 14 aprile 1930.
Repubblica 23.6.12
La sinistra dell’innovazione per Rosanvallon e Touraine
di Gloria Origgi
Anticipiamo un brano dal nuovo “Micromega” del dialogo tra i due intellettuali
Come rilanciare l’idea di reciprocità e ridistribuzione?
Rosanvallon «Il grande cambiamento degli anni Novanta è che siamo passati da una società di ridistribuzione a una società di distribuzione. Nei trent’anni gloriosi di sviluppo economico sociale (1945-75), la giustizia sociale era vista come un meccanismo di compensazione del mercato. A partire dagli anni Novanta, questa concezione si modifica: la giustizia sociale non è più la correzione del mercato, ma il funzionamento equo del mercato: la giustizia in questo contesto diventa l’equità e non l’uguaglianza. Un mondo giusto è un mondo in cui il mercato funziona con regole giuste e in cui ciascuno è remunerato in funzione del proprio merito. È l’uguaglianza della posizione di partenza che dev’essere garantita e non della posizione di arrivo, il che toglie molto dello scandalo sociale legato alle immense diseguaglianze economiche che le società che si definiscono democratiche sono in grado di accettare.
L’idea è che esista una giustizia del mercato – l’equità – e che bisogna istituire semplicemente una
rete di sicurezza per coloro che dal mercato sono esclusi. E, dato che è difficile rilegittimare il discorso sulla ridistribuzione, sul condividere risorse in modo reciproco in una società di eguali, non di chi è dentro e chi è fuori, allora ecco riemergere le patologie dell’uguaglianza che abbiamo già visto alla fine del XX secolo, ossia le patologie identitarie, in cui a un concetto di uguaglianza si sostituisce quello di omogeneità, e si pensa di dover condividere soltanto con chi è “dei nostri”. Il successo del populismo ovunque in Europa è proprio questo. Per il populista, il contratto sociale non è più quello della giustizia, ma quello dell’omogeneità contro lo straniero, l’immigrato,
l’altro.
La sinistra oggi deve trovare un’altra via tra il social-liberalismo degli anni Novanta e il socialprotezionismo dei partiti populisti e nazionalisti. Già negli anni Ottanta io difendevo l’idea di una “seconda sinistra”: una sinistra della società civile, della sperimentazione sociale, dell’innovazione contro la “prima sinistra” statalista e giacobina. Oggi, abbiamo bisogno di una sinistra che non si definisca soltanto come la versione radicalizzata della meritocrazia né come la versione umanizzata del nazional-protezionismo».
Touraine
«Il motore del cambiamento non possono più essere i movimenti sociali legati alla società industriale, ma i movimenti culturali. Le forze che cambiano il mondo non sono più le forze sociali, ma le forze che impongono una nuova visione del mondo. L’ecologia, per esempio, ma non i movimenti verdi degli anni passati, che stanno già tramontando: l’ecologia intesa come un nuovo patto di solidarietà comune, come l’assunzione di responsabilità collettiva nei confronti di un bene comune, la Natura, che dobbiamo condividere. E le donne. Ma anche qui: non il femminismo tradizionale, che, soprattutto in Francia, è vittimista e concentrato sulla violenza sulle donne. Le donne come motore di una visione radicalmente nuova della società, come portatrici di una visione di una società post-patriarcale, post-gerarchica, che sarà il futuro delle società post-nazionali. La società di oggi, competitiva e meritocratica, è una lotta all’ultimo sangue per garantire privilegi a un’élite microscopica che sta alla cupola della gerarchia sociale e che è esclusivamente maschile. Ma oggi queste forze non bastano più. Ci vuole la forza dei movimenti globali, come i movimenti alter-mondialisti, o come la recente primavera araba. Sono esempi di movimenti che sono insieme sociali, politici e culturali».
Nella prospettiva europea che difendete entrambi, che cosa significa la cittadinanza? Non si corre il rischio di una disaffezione per le istituzioni democratiche? In Italia, per esempio, l’astensionismo nelle ultime elezioni è preoccupante.
Rosanvallon «In Francia le presidenziali non corrono il rischio di disaffezione. La teatralizzazione e la drammatizzazione della vita politica rendono l’attenzione estremamente vivida durante il periodo elettorale. C’è disaffezione per molte elezioni locali, ma non per le presidenziali. Però è vero che la politica non può essere vissuta solo come una sovrastruttura. Il voto è un momento di decisione, di legittimazione. Ma il voto non costruisce la vita civica. Ciò che costituisce la vita civica è l’esistenza di una qualche forma di comunità sociale. E come fa a esistere una comunità sociale? Oggi la si vuole fare esistere semplicemente attraverso un’identità storica, come un’eredità del passato. La vita politica non si nutre solo di istituzioni democratiche ma del sentimento che esiste una vita comune. E la vita comune è prodotta dagli spazi comuni, dal fatto che la società non sia separata. Se ci troviamo in una società in cui non ci sono che comunità ghettizzate, in una società dove i ricchi vivono in un mondo a parte, dove i mezzi di trasporto, l’educazione, gli ospedali dipendono dalla classe sociale, allora non c’è più sentimento di comunità perché si vive in universi differenti».
Touraine
«Sull’analisi di Rosanvallon delle derive identitarie e populiste in Europa, vorrei però dire qualcosa che può essere presa come una provocazione. Forse gli estremismi europei sono un buon segno di reazione a qualcosa: se esiste una reazione, anche se odiosa e sbagliata, significa che un’azione c’è, che qualcosa si sta muovendo e la gente lo sente. E come si sono formati questi movimenti odiosi e nazionalisti, possono forse attecchire movimenti globali, anch’essi frutto di un cambiamento organico profondo che la società civile comincia a percepire, invece di fare lo struzzo e pensare di poter ritornare al passato».
il Fatto 23.6.12
Se fingere l’orgasmo è l’ultimo dei problemi
In vetta alle classifiche “50 sfumature di grigio”, il libro che fa sognare il sesso alle donne
di Caterina Soffici
Secondo voi perché una apparente boiata come “Cinquanta sfumature di grigio” è il best-seller del momento? Perché è un libro che parla di sesso per casalinghe. Vero, ma non basta. Ce n’è pieno le librerie, ma nessuno è stato in testa alla classifica del New York Times per 10 settimane. Perché sdogana il genere erotico per signora. Vero anche questo, ma ancora non è sufficiente a spiegare il successo di questo mummy-porn planetario. Perché libera i sogni sessuali inconfessabili di ogni donna. Sì, tutto vero. Lo avevano già fatto altre. C’erano già stati Emanuelle, la Paura di volare di Erica Jong, Le età di Lulù di Almudena Grandes. Ma qui c’è altro. E volete sapere cosa? Lui le lava i capelli. Le lava i capelli? “Sì, te lo ricordi Robert Redford con Meryl Streep in La mia Africa? Molto di più. Da pagina 150 in poi torna la voglia di fare sesso. Da quando ho letto il libro la mia vita sessuale ha preso il volo”.
Questo è il resoconto di una serata tra donne, iniziata come cena di fine anno scolastico tra madri e finita con confessioni hot, al limite della censura. Mettete sette donne intorno a un tavolo. Età media 42,5 anni (la più giovane 35, la più vecchia 50). Nazionalità: tre italiane, due inglesi, 1 canadese e 1 danese. Estrazione sociale: mista. Stato civile: sposate o conviventi, comunque tutte accoppiate da tempo e con famiglia al seguito. Cinquanta sfumature alza il lenzuolo delle vita sessuale di coppia e svela cosa “non” succede sotto. Troppo poco, ecco il punto. Io ero l’unica tapina della tavolata a non averlo ancora letto. C’era chi ha già attaccato il secondo volume e garantisce che non lo molli più. Ovviamente ieri mattina la prima cosa che ho fatto è stata comprarne una copia e iniziare a sfogliare avidamente l’oggetto che aveva scatenato la discussione e il desiderio delle convitate. Ho saltato subito le prime 150 pagine, come da indicazione. E dalla 151esima inizia una scena di sesso via l’altra, come ci si può immaginare e anche oltre, perché si arriva al bondage, ai frustini, al dolore fisico sconfinante nel piacere. Tutto già visto, direte voi. E che c’entra questo con lui che le lava i capelli? Allora è il solito polpettone rosa, il principe azzurro e la storia dell’amore romantico. Per niente. “Lui la desidera, la fa sentire una principessa. Le legge nel pensiero. Fa quello che ogni donna vorrebbe ma non osa chiedere e se lo chiedesse non sarebbe più la stessa cosa. Perché i capelli te li deve lavare non perché glielo chiedi tu”. La più scatenata delle convitate è assolutamente fuori controllo. Dice chiaramente quello che tutte le altre pensano, ma non si azzardano a confessare. Cioè che la propria vita sessuale matrimoniale è uno schifo. Lo fanno svogliatamente. Lo fanno per dovere coniugale. “Lo capisci da lontano quando c’è da timbrare il cartellino. Che palle”. “Ma all’inizio era diverso, no? Anche tre o quattro volte al giorno”. “Eh sì. Bei tempi. Chi se li ricorda più! ”. “Non ho voglia. Non è come accendere un interruttore. Tac tac e poi è finita”. Brava, grande verità. Metà delle donne non lo confesserebbe mai. Il gran merito del libro, a prescindere dalla banale storia, tra l’altro scritta male, del giovane miliardario, pericoloso e affascinante che inizia al sesso una studentessa vergine e apparentemente ingenua, è che spinge un tavolo di 42enni e mezzo a dichiararsi e a dichiarare le proprie insoddisfazioni. Una delle convitate ammette che finge di dormire quando lui si avvicina dentro il letto. Niente a che vedere con le casalinghe disperate del telefilm. Qui si parla di donne vere. Di gente che lavora, che si smazza una famiglia, che trova la mezz’ora per andare dal parrucchiere e poi lui manco la guarda di striscio. Poi lo amano ancora, la maggior parte non lo tradirebbe mai, sono anche contente della vita di famiglia. Si parla di donne mediamente soddisfatte. Ma sul lato sesso, proprio non ci siamo.
Gli uomini credono che le donne fingano l’orgasmo. Illusi. Le donne hanno varie sfumature di finzione. Probabilmente più di 50. L’altra sera è venuta fuori quella che finge di dormire. Quella che si lava i denti a lungo, si strucca per un tempo infinito sperando che lui nel frattempo si addormenti. L’altra che ha provato a trovare un divertimento fuori dalla routine matrimoniale. Una storia di sesso pura. Si vedevano la mattina, quando il marito è a lavorare. “Ma il sesso stufa, ragazze. Con il sesso da solo non si va da nessuna parte. Ci vuole la passione. Ci vuole lui che ti lava i capelli”. Al dolce la situazione è chiara. Siamo un esercito di donne insoddisfatte dal partner. Milioni, a giudicare dai dati di vendita. Mister Grey regala un’illusione. Che la passione e il piacere non siano ancora persi del tutto. Io il libro per ora l’ho solo saltabeccato. Ma giuro che appena finisco di scrivere questo resoconto vado subito a cercare la scena dove lui le lava i capelli.
Repubblica 23.6.12
Donne che salvano donne
Lavoro e cultura, il modello inglese contro la violenza
di Simonetta Agnello Hornby e Marina Calloni
Parla Patricia Scotland che in Gran Bretagna ha ottenuto risultati straordinari nella lotta agli abusi domestici e che propone di esportare il suo metodo
Sulla terrazza affacciata sul Tamigi, la Baroness Scotland – ex Guardasigilli del governo laburista, fondatrice e presidente della Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence (Edv), creata meno di un anno fa – parla con noi a ruota libera. «L’89% delle donne nelle carceri britanniche ha subìto violenza. Il 25% dei reati contro le persone è costituito da casi di violenza domestica e ha prodotto 120 vittime l’anno. Due terzi dei minori negli istituti penali ha avuto esperienza di violenza domestica. 750.000 minori sono stati coinvolti come testimoni o vittime. 9.500 di loro sono stati dati in affido: un costo enorme per lo Stato, e fonte di immensa infelicità». Uno studio sul Regno Unito, commissionato da Scotland nel 2003 all’Università di Lancaster, ha rivelato che il costo economico “minimo” della violenza domestica per la società ammontava a 23 miliardi di sterline all’anno. «Bisognava fare qualcosa, e io ci ho provato», dice adesso Scotland con semplicità. Nei suoi nove mesi di vita, Edv è stata accreditata presso le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Consiglio d’Europa; ha inoltre fondato organizzazioni in quattro nazioni – India, Turchia, Spagna e Nigeria –, dove sono attualmente in corso degli studi. In Italia, Edv sta definendo accordi con l’Università di Milano-Bicocca. Patricia Scotland, afro-caraibica, è stata la prima donna nera, e la più giovane, nominata Queen’s Counsel (i cassazionisti, i principi del foro tra i quali la Corona inglese sceglie i propri legali) e giudice part-time dell’Alta Corte; la prima donna, e il primo nero, a rivestire la carica di Guardasigilli; la prima donna nera nominata alla Camera dei Lord, e poi nel Consiglio dei ministri. Una carriera folgorante per lei, nata nella Repubblica Dominicana cinquant’anni fa ed emigrata all’età di tre anni a Londra con la famiglia, terzultima di dodici figli. Profondamente cattolica, Scotland riunisce in sé lungimiranza e larghezza di vedute. È stata inoltre il miglior avvocato cassazionista dei clienti dello studio Hornby & Levy all’Alta Corte: ai grossi guadagni preferiva quanto pagato dallo Stato per tutelare i diritti dei minori maltrattati e delle loro famiglie. Per ridurre gli omicidi, la sofferenza delle famiglie e il costo per lo Stato, tutte le istituzioni coinvolte devono condividere i compiti seguendo procedure efficaci per attuare un piano ad hoc, approvato da un tribunale specializzato: è questo il sistema olistico di cui Scotland parla da anni con passione. A Trinidad e in Spagna le hanno creduto. Dal 1990, il governo di Trinidad e Tobago – il primo ad adottare le misure da lei proposte – ha registrato una diminuzione dei casi di violenza domestica del 64%. Nel 2006, i risultati ottenuti in ottanta tribunali spagnoli indicano che i casi di violenza domestica sono diminuiti del 25%. Il sistema creato da Scotland è imperniato su due elementi. Il primo, chiamato multi-agency risk assessment approach, consiste in una valutazione multidisciplinare della potenzialità di rischio, operata da un nucleo ristretto di attori sociali e istituzioni. È un approccio flessibile, di effetto immediato. Il secondo è l’introduzione di un operatore indipendente, l’Independent domestic violence advisor (Idva), che per tre mesi ha il ruolo di coordinatore tra gli enti e di supporto della vittima. Inoltre, il procedimento legale è stato snellito e reso trasparente; alcuni tribunali hanno creato apposite sezioni specializzate. «Bisogna cooperare con i datori di lavoro, sensibilizzarli, educarli: per la donna vittima di violenza, mantenere il lavoro è fondamentale», dice Scotland. In Inghilterra le donne costituiscono poco meno della metà dei lavoratori: il costo sociale della violenza domestica è notevole. Nel 2005 Scotland ha costituito la Corporate Alliance Against Domestic Violence, ovvero l’unione dei datori di lavoro contro la violenza domestica. Ne fanno parte le maggiori società britanniche, alcune multinazionali e anche piccole aziende: il suo scopo è sostenere la vittima insieme ad altri enti e ha avuto un ruolo fondamentale nella protezione della lavoratrice e nella diminuzione degli omicidi. «Penso anche agli altri Paesi», spiega Scotland. I suoi funzionari ed esperti hanno creato un paradigma flessibile all’interno del procedimento legale, che si può applicare ad altri ambiti socioculturali. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci conferma che la violenza domestica è una realtà diffusa in ogni paese; ognuno di loro può adattare il nostro sistema alla propria realtà. In questo modo potremo salvare vite e famiglie, e rimancato durre enormemente la spesa pubblica. Non dimentichiamo che da noi una donna su quattro e un uomo su sei sono stati vittime di violenza domestica da adulti». Il successo delle innovazioni introdotte da Scotland è straordinario: nel 2003 a Londra sono stati registrati 49 omicidi di donne vittime di violenza domestica. Nel 2010 se ne sono registrati 5; nel 2003 il costo nazionale del lavoro delle donne era di 2 miliardi e settecentomila sterline. Nel 2010 è sceso a 1 miliardo e novecentomila sterline. «Se avvenisse lo stesso nel resto d’Europa, il Pil potrebbe aumentare del 21%. Vedo l’eliminazione della violenza domestica in termini non soltanto di difesa della dignità umana, ma anche di rilancio economico », osserva Scotland. Vorremmo concludere con un’esortazione rivolta al governo italiano. È necessario produrre conoscenza e produrre fatti. L’azione è legata alle esperienze che sono già diventate esemplari, e dunque imitabili, sia pure attraverso le ovvie “traduzioni”, all’interno di contesti diversi. Siamo convinte che il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, la Confindustria e i singoli datori di lavoro, i servizi sociali, le scuole stesse, debbano prendere atto delle iniziative adottate in Inghilterra; che debbano studiarne premesse, effetti e modalità per adattarli alla realtà italiana. Per quanto possa suonare allarmante, dovrà essere impegno di tutti quello di riconoscere il problema dove è meno evidente perché più vicino: la violenza all’interno delle famiglie è un problema, ed è un problema grave perché spesso ci riguarda da vicino e non lo chiamiamo con quel nome. Il luogo in cui dove bisogna cominciare a debellarlo sono le nostre famiglie. Quelle che conosciamo. Basta guardarsi attorno. (Simonetta Agnello Hornby è scrittrice e avvocato dei minori; Marina Calloni insegna filosofia politica e sociale all’università Milano-Bicocca, può essere contattata a questa mail: EDVItaly@gmail.com)
Corriere 23.6.12
Rai Cinema punta sull'Italia con Bellocchio e Garrone
«Non so quante volte l'ho detto, ma nessuno mi ascolta — dice Marco Bellocchio (foto, 72 anni) —, Bella Addormentata non è un film su Eluana Englaro ma su alcune persone che spiritualmente e psichicamente hanno avuto a che fare con lei nei sei giorni dopo il suo trasferimento a Udine. C'è, Eluana Englaro, ma non si vede, non è la sua storia». Rai Cinema presenta il suo nuovo listino, 16 film di cui il 70 per cento italiani. «Siamo l'unica società della Rai che non ha avuto tagli», dice l'ad Paolo Del Brocco. Oltre a quello di Bellocchio, che potrebbe andare alla Mostra di Venezia, ci sono altri film di punta. Reality di Matteo Garrone, fresco del Grand Prix a Cannes: «Non ho mai pensato di vincere la Palma d'Oro, speravo in un premio, piccolo. Ho fatto riferimento al cinema di Eduardo e De Sica». In Tutti i santi giorni Paolo Virzì racconta «una storia d'amore di due persone qualunque e le loro peripezie per avere un bambino». Massimiliano Bruno in Viva l'Italia si affida a Michele Placido, un politico all'apice della carriera che dopo una notte brava con una signorina ha un ictus e perde i freni inibitori: «Da quel giorno dice la verità».
R.S.