l’Unità 22.6.12
C’è un giudice a Pomigliano
«Vanno assunti gli operai Fiom»
Il tribunale condanna Marchionne per aver discriminato i metalmeccanici Cgil ● 145 iscritti Fiom devono rientrare nello stabilimento campano
di Massimo Franchi
«La sentenza ci ripaga di tutto quello che abbiamo subito in questi anni. Oggi non vogliamo prendercela con chi ha fatto la scelta più semplice, quella di abbassare la testa e dire “Sì” a Marchionne. Anche molti di quelle persone non ci hanno mai abbandonato, spronandoci ad andare avanti anche quando a casa arrivavano le telefonate con i “consigli spassionati, tipo “Ma chi te lo fa fare? Lascia la Fiom e pigliati il lavoro che tieni famiglia”. Oggi vogliamo festeggiare, ma da domani riprendiamo la battaglia per tutti». Ciro D’Alessio, testa rasata, orecchino e faccia da scugnizzo nonostante i 31 anni, e Francesco Percuoco, barba e capelli bianchi “dovuti a Marchionne”, portano sulla pelle e nell’anima i segni della battaglia che portano avanti da due anni. Le loro facce raccontano meglio di qualsiasi altra cosa il significato della sentenza che impone alla Fiat di riassumere a Pomigliano ben 145 lavoratori iscritti alla Fiom. I 3mila euro a testa che riceveranno assieme ad altri 17 attivisti Fiom hanno deciso di riunirli in una “Cassa di resistenza” a disposizione di tutti i cassintegrati dello stabilimento.
Ironia della sorte, è stato un decreto legislativo firmato da Maurizio Sacconi a rendere possibile la sentenza che impone alla Fiat di riassumere 145 lavoratori iscritti alla Fiom a Pomigliano. Niente di voluto, però. L’allora ministro del Lavoro ha semplicemente dovuto recepire una Direttiva europea sulle discriminazioni del lavoro. Il decreto legislativo 150 del 2011 prevede che i lavoratori non possano essere discriminati a causa delle loro convinzioni personali». È citato nella sentenza del giudice Anna Baroncini assieme agli articoli 3 (uguglianza sostanziale) e 4 (diritto al lavoro) della Costituzione. Oltre alle leggi, nella sentenza viene citata anche la matematica. La Fiom ha infatti commissionato al professor Andrew Olson, University of Birmingham, una consulenza che ha stabilito come le possibilità che nessuno dei 382 lavoratori iscritti alla Fiom al gennaio 2011 potessero risultare tra i 1.893 assunti a quel momento (ora sono 2.091) era pari a «una su dieci milioni». In quei numeri c’è proprio la prova delle discriminazioni. Al momento del referendum del giugno 2010 gli iscritti Fiom erano 638. Il calo è dovuto alle pressioni a lasciare quel sindacato tanto che il procedimento ha potuto comprovare che 20 degli operai che non hanno rinnovato la tessera sono poi stati realmente riassunti. I restanti 236 sono ancora a casa in cassa integrazione come gli altri 2mila e più che pur avendo votato “Sì” al referendum e creduto alle promesse di Marchionne sono rimasti “fregati” dal calo della domanda in Europa. La Fiat poi ha avuto buon gioco a non assumere alcun iscritto Fiom anche alla luce della sentenza di Torino del giugno scorso la condannava per attività antisindacale: appena un iscritto Fiom sarebbe stato assunto, il sindacato avrebbe avuto diritto a nominare suoi rappresentanti.
FIAT: RICORSO E RICERCA CAVILLO
Da Torino arrivano poche e concise parole: «Faremo ricorso contro la sentenza». Per il resto bocche cucite e nessuna reazione a caldo. Marchionne è negli Stati Uniti e non tornerà Italia sicuramente prima della prossima settimana. Possibile però che già nella giornata di oggi arrivino sue dichiarazioni. E molti sono pronti a scommettere sull’addio all’Italia tirando in ballo l’impossibilità a «dare continuità al piano di investimenti e alla gestione degli impianti» che Pomigliano simboleggiava. Voci su un canale aperto fra il Lingotto e il governo, vengono smentite dalle parole di Corrado Passera: «La sentenza è qualcosa di cui tener conto».
Chiusi in riunione dalle prime ore dopo la sentenza ci sono invece gli avvocati del Lingotto. Il problema a cui dare risposta non è semplice. Come spiega l’avvocato Fiom di Napoli Lello Ferrara che ha “vinto” la causa, «la Fiat rischia molto perché se nei casi precedenti si faceva riferimento allo Statuto dei lavoratori, qua si cita una specifica causa e non ottemperare all’indicazione del giudice potrebbe avere conseguenze penali». La Fiat, dal canto suo, riconosce la «immediata esecutività della sentenza», ma fa notare come ci siano difficoltà interpretative: le assunzioni dovrebbero essere in più e quindi quando i livelli produttivi richiederanno nuova forza lavoro? In più i 145 lavoratori sono oggi in cassa integrazione per un’altra società (la Fiat Group Automobiles) e le procedure per assumerli in Fip sarebbero lunghe. Il Lingotto è dunque alla ricerca di un cavillo per attuare il metodo Melfi: rispettare la sentenza, assumere i dipendenti, ma lasciarli fuori dalla fabbrica, fino all’appello. Un’altra lezione di dignità.
l’Unità 22.6.12
Maurizio Landini: «Il governo non può ignorare che il più grande gruppo del Paese discrimina i dipendenti:
ci convochi subito insieme all’azienda»
«Una battaglia giusta, una vittoria di tutti i lavoratori»
di Massimo Franchi
ROMA Commozione e lacrime non erano parole associate a Maurizio Landini. Ieri hanno preso il posto della sua proverbiale foga mentre ringraziava i “suoi” lavoratori. Lacrime che confermano come Pomigliano sia la madre di tutte le battaglie della Fiom. Landini, cosa significa la sentenza di ieri per lei e per la Fiom?
«Significa che, come noi abbiamo sempre sostenuto, a Pomigliano era in atto una violazione delle leggi e della Costituzione. Si badi bene, non contro la Fiom, ma contro la libertà per i lavoratori di scegliersi liberamente il sindacato. La mia commozione è dovuta al fatto che quella causa l’hanno intentata 19 nostri iscritti che hanno vissuto sulla loro pelle le discriminazioni della Fiat. E nonostante tutto hanno continuato a battersi per la Fiom e la dignità del lavoro».
Ora che avrete rappresentanza a Pomigliano come vi comportete?
«Il giudice impone alla Fiat di assumere 145 nostri iscritti solo per sanare la discriminazione. Noi non vogliamo creare quote sindacali tra gli assunti e infatti questa battaglia l’abbiamo fatta pensando a tutti i 5mila lavoratori che lavoravano lì, non solo a quelli iscritti alla Fiom. Per questo chiediamo che vengano riassunti tutti e se il carico di lavoro non è in grado di assorbirli tutti e 5mila la soluzione c’è lo stesso: un contratto di solidarietà che faccia lavorare tutti, ma meno. Non è una nostra invenzione, l’ha utilizzato la Volkswagen nel 2009 riducendo a 27 ore settimanali l’orario nei suoi stabilimenti. Un bell’esempio del modello tedesco di cui tutti parlano». Ma ora cosa si aspetta dalla Fiat?
«La Fiat è stata condannata già da 9-10 tribunali in giro per l’Italia. C’è addirittura un giudice, quello di Modena, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi, inviando la sua sentenza anche a governo e Parlamento. Con questa sentenza si sana una ferita, la prima e la più grande, ma non si risolve il problema della discriminazione. Per questo noi ci rivolgiamo a Monti, al governo per che sia ristabilita la libertà sindacale in ogni stabilimento della Fiat in Italia, ripristinando l’applicazione della Costituzione. Oltre alle discriminazioni infatti c’è il rischio reale che il nostro Paese perda un intero settore industriale.
E se Marchionne cogliesse la palla al balzo e decidesse di andarsene accusando voi e la magistratura?
«Io mi aspetto che la Fiat rispetti la sentenza. Troverei singolare che il dottor Marchionne vada via perché bisogna rispettare la Costituzione. Anzi, dovrebbe riflettere ed essere contento perché quando alle persone si riconosce la dignità, lavorano più volentieri e le fabbriche funzionano». A darvi man forte arrivano però le dichiarazioni del ministro Passera secondo cui «la sentenza è qualcosa di cui tenere conto». Può essere lui il vostro l’interlocutore nel governo?
«Mi pare importante che il governo prenda atto dell’importanza della sentenza. Quando il più grande gruppo industriale del Paese viene condannato per discriminazione il governo non può non intervenire. Sulle sensibilità più o meno forti all’interno del governo non mi pronuncio. Mi basta portare a casa una convocazione nostra e della Fiat il prima possibile».
Gli altri sindacati invece attaccano la sentenza arrivando, come fa la Uilm, a ipotizzare di fare ricorso...
«Credo che la Uilm e le altre organizzazioni dovrebbero riflettere con attenzione. Perché se salta il sindacato confederale siamo di fronte ad un rischio di scomparsa anche per loro. Sarebbe ora che iniziassero a guardare la luna e non il dito».
Proprio ieri è arrivata l’ufficialità dell’addio di Dr a Termini Imerese. E il governo ora cerca un partner industriale anche fuori dal settore dell’auto...
«A Termini Imerese da 40 anni si costruiscono auto, esiste un indotto di grande qualità. Al governo chiediamo di trovare altri costruttori di auto e non avventurarsi in altri campi».
il Fatto 22.6.12
Intervista. Il segretario dei metalmeccanici
Landini si commuove: “Ci prendevano per matti”
Maurizio Landini in conferenza stampa si commuove mentre cede la parola ai suoi compagni di Pomigliano. L’emozione si trasmette anche a loro che, infatti, faranno fatica a parlare. É l'anniversario di quel referendum di Pomigliano del 2010 dove è cominciata la sfida di Marchionne e la difesa della Fiom. Nel suo studio, molto spartano, Landini ha la faccia rilassata. Forse per la prima volta in due anni anche soddisfatta.
“Eravamo soli, ci hanno presi per matti. Avevano detto che quell'accordo era un’eccezione e che era decisivo per il destino di Pomigliano, della Fiat. Dell'Italia. Oggi una sentenza di un Tribunale della Repubblica sancisce che la Fiat discrimina gli operai e la condanna. È la conferma che l'operazione Fiat è stata quella di costruire un altro sistema di relazioni sindacali”.
Quell'emozione in conferenza stampa cosa significa?
Che io voglio davvero ringraziare gli iscritti alla Fiom perché le pressioni e le discriminazioni che hanno subìto sono state molto pesanti. Senza di loro non avremmo potuto essere qui. Dovrebbe riflettere bene Marchionne, ed essere contento della sentenza: avere dipendenti che vogliono lavorare con dignità fa funzionare meglio anche le fabbriche.
È una sfida infinita quella con Marchionne?
Il problema è solo quello che fa la Fiat e come intenderà rispettare le sentenze, perché la Fiom ne ha vinte 9 o 10. Se non le rispetta dovrebbero preoccuparsi un po' tutti. E preoccuparsi del fatto che la Fiat, oltre a discriminare gli operai e i sindacati, non sta investendo nei suoi stabilimenti. Che infatti lavorano due o tre giorni alla settimana. Questo è un problema di cui deve farsi carico il governo, il premier, le forze politiche, il Parlamento. Marchionne dovrebbe essere convocato per rispondere della sua politica industriale.
Utilizzerete la sentenza per rientrare finalmente in fabbrica a Pomigliano?
Non ci interessa la vittoria di organizzazione, di bandiera. Io avanzo direttamente un'altra proposta: che grazie a questa sentenza, nella fabbrica ci possano rientrare tutti i 5000 operai che ci lavoravano prima. Non basta la produzione? Allora si faccia, come alla Volkswagen, il contratto di solidarietà: invece di lavorare 40 ore a settimana si lavora per 25 e così la Fiat dimostra che ci tiene davvero alle prospettive future.
È una proposta a Cisl e Uil?
L'unità sindacale è un diritto dei lavoratori ma si costruisce con la democrazia, quindi con una legge sulla rappresentanza. A Fim e Uilm dico che non dobbiamo fare come i polli di Renzo, beccarci tra noi e essere poi mangiati dal padrone. Quello è un suicidio. È chiaro a tutti che la Fiat vuole solo sindacali funzionali alle sue politiche, sindacati aziendali. Per questo propongo a loro, ma anche a Federmeccanica, di costruire un accordo sulle regole e la rappresentanza. Siamo disponibili ad applicare l'accordo del 28 giugno basandoci sulle Rsu e sulla verifica democratica degli accordi che si siglano. Solo così si possono gestire i dissensi.
A pochi giorni dal voto di fiducia sulla riforma dell'articolo 18 cosa vi potete aspettare dal Parlamento?
Che tornino alla realtà. Siamo nel 2012, in Italia, a Pomigliano. Un Tribunale della Repubblica condanna il più grande gruppo del Paese. Se non vogliono perdere il contatto con le persone, che votano, devono accorgersi di questo.
La Cgil intanto ha revocato lo sciopero nazionale contro la riforma dell'articolo 18.
Lo considero un errore grave. Per fortuna mi giunge la notizia che nei giorni della votazione della fiducia sul Ddl lavoro si organizzeranno presidi e proteste, ma non aver proclamato lo sciopero è un errore di fondo. Resta il fatto che, anche una volta approvato il provvedimento, noi non lo accetteremo.
Significa che farete un referendum abrogativo?
Non escludiamo nulla. Ma sull'articolo 8 voluto da Berlusconi-Sacconi, sulle modifiche dell'articolo 18 e sul pareggio di bilancio inserito nell'articolo 81 della Costituzione servono iniziative non solo sindacali. Così come abbiamo invitato i partiti a confrontarsi sul nostro programma credo che si possa chiedere a tutti gli italiani di applicare la Costituzione.
Sal. Can.
l’Unità 22.6.12
La prova matematica
di Claudio Sardo
LA DISCRIMINAZIONE AI DANNI DEGLI OPERAI ISCRITTI ALLA FIOM A CUI LA FIAT HA NEGATO L’ASSUNZIONE NELLA NEWCO DI POMIGLIANO PROPRIO PERCHÉ ISCRITTI ALLA FIOM era la più odiosa, tanto odiosa da essere intollerabile. Un vulnus ai principi della convivenza, oltre che a quelli della Costituzione. Che il giudice del lavoro (di Roma, anche se per rafforzare il nostro titolo lo abbiamo per un giorno «trasferito» a Pomigliano) ha finalmente sanato con una sentenza che, speriamo, una grande azienda come la Fiat non tenti ora di aggirare.
Di tante cose è giusto discutere. Su tante questioni ci si può dividere e scontrare. Ma in questo caso la violenza della strategia Fiat era in così palese contrasto con l’etica più elementare da pretendere un atto riparatore, preliminare ad ogni confronto sui piani industriali futuri, sulla strategia degli accordi separati, sui contenuti delle relazioni sindacali. E bene ha fatto la Fiom ad assumersi, in prima persona, la responsabilità di promuovere questa azione civile. Ha regalato a se stessa una vittoria importante: ma soprattutto ha consentito una vittoria dello Stato democratico e della libertà sindacale (che, come la libertà politica e religiosa, è parte inscindibile della libertà di un’intera comunità).
Stiamo parlando di fatti gravissimi, accaduti in questi mesi, non ai primi del Novecento. Nel vecchio stabilimento Fiat di Pomigliano lavoravano oltre cinquemila persone.
Poi la vecchia azienda ha cessato di vivere e la NewCo ha cominciato ad assumere dalla precedente platea per produrre la Nuova Panda: ad oggi sono state rientegrati 2093 operai. Con una caratteristica unificante: nessuno di questi è iscritto alla Fiom. Sì, l’iscrizione alla Fiom è stata il criterio saliente della selezione. L’ostracismo aziendale, ovviamente, ha via via ridotto il numero degli iscritti Fiom: erano 382 all’avvio della NewCo, in 175 hanno revocato l’iscrizione negli ultimi mesi sperando così di ottenere il lavoro. Con rigore assoluto gli iscritti al sindacato metalmeccanici della Cgil sono stati costantemente discriminati, mentre 20 dei 175 dimissionari sono stati poi ammessi alla firma del contratto di lavoro.
E, barbarie nella barbarie, la Fiat ha persino negato l’evidenza sostenendo che le esclusioni erano del tutto fortuite. L’Unità per prima, con un banale calcolo probabilistico affidato a un matematico, ha dimostrato che il caso era impossibile. O meglio, che era più probabile (di migliaia di volte) la vittoria al Superenalotto giocando solo sei numeri, oppure la fine della Terra per colpa di un meteorite nei prossimi vent’anni, piuttosto che la versione di Marchionne. E proprio della perizia di un illustre matematico il giudice si è avvalso per dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la tesi della Fiat sull’involontarietà dell’esclusione degli operai Fiom era un oltraggio al buon senso, una vergognosa menzogna.
Noi vogliamo che la Fiat si rafforzi. Nel mondo e in Italia. Noi speriamo che Marchionne mantenga la parola data a suo tempo. Anzi, vorremmo che il suo impegno aumentasse nell’ambito di un rafforzamento delle politiche industriali del Paese. Purtroppo i segnali sono negativi. In ogni caso, c’è una questione di dignità a cui non si può rinunciare: il rispetto dei principi costituzionali, la libertà dei singoli, il diritto di avere proprie opinioni e di esprimerle nelle formazioni sociali che compongono il tessuto vitale di una democrazia.
Anche della Fiom si può discutere tutto. Le scelte sindacali, le strategie politiche. Continua a sembrarci un errore la mancata firma degli accordi Fiat, dopo i referendum di Pomigliano e di Mirafiori. Il confronto tra i lavoratori deve continuare, rafforzando il più possibile i fattori di unità. Su un punto, tuttavia, non si può esitare: nella difesa della libertà e della dignità del singolo lavoratore. Non è pensabile che un Paese civile possa accettare un’esclusione come quella avvenuta a Pomigliano, e che purtroppo si sta replicando in altri stabilimenti del gruppo. Dopo i silenzi del governo Berlusconi, sarebbe il caso che il governo Monti prendesse la difesa della Costituzione. L’umiliazione di una famiglia ridotta sul lastrico per le idee del padre o della madre: ecco, questo non può avvenire in un Paese civile.
Repubblica 22.6.12
Le ragioni dei deboli
di Luciano Gallino
QUESTA volta la Fiat ha perso seccamente. Aveva quattro fattori contro: troppi anche per la sua potenza legale ed economica.
C’erano le ragioni della Fiom: come si fa a escludere da una fabbrica meccanica il sindacato più rappresentativo del settore, come si può pensare di impedirgli di nominare i propri rappresentanti? C'era una direttiva della Commissione europea, che non ammette discriminazioni di sorta nell'assunzione di lavoratori. Si è aggiunto un professore di statistica inglese, che ha ridicolizzato le affermazioni dei capi di Pomigliano secondo le quali non c'era stata nessuna discriminazione: era un puro caso se su oltre duemila assunti nella nuova società nata nella vecchia sede nemmeno uno risultava iscritto alla Fiom. Infine c'è stato un Tribunale che sembra non abbia guardato in faccia nessuno: ha trovato una direttiva europea favorevole ai lavoratori Fiom e su di essa ha fatto leva per emettere la sua sentenza. Non era scontato: da tempo infatti la giurisprudenza del lavoro ha dato sovente il maggior peso alle ragioni delle imprese, proprio in tema di licenziamenti, che non a quelle dei lavoratori.
A lume di buon senso, sarebbe dovuto bastare il primo fattore, le ragioni della Fiom, per indurre la Fiat ad astenersi dalle assunzioni selettive. Ma queste ragioni in precedenza erano state indebolite dal fatto che la Fiom ha avuto negli ultimi anni quasi tutti contro: gran parte dei media, la quasi totalità dei maggiori partiti, molti accademici, gli altri sindacati e perfino parti della Cgil. Ci volevano gli altri tre fattori, per ridare loro il peso che dette ragioni meritano.
La sentenza di Roma fissa, nella tormentata evoluzione delle relazioni industriali in Italia, due punti essenziali. Il primo è che, tutto sommato, se uno fruga nella ormai sterminata legislazione dell'Unione europea - e le direttive della Commissione europea rientrano appunto in essa non tutte le sue espressioni vanno contro gli interessi dei lavoratori. Vi sono state, è vero, direttive sugli orari di lavoro, sulla necessità di eliminare ostacoli alla concorrenza, sulla necessità di rimuovere le rigidità del mercato del lavoro, che parevano chiaramente ispirate all'intento di ridurre i diritti del lavoro. La direttiva cui ha fatto riferimento il Tribunale di Roma per pronunciarsi contro le azioni discriminatorie della Fiat va palesemente nel senso di tutelare tali diritti, o quantomeno può venire utilizzata a tale fine.
Un secondo punto fissato dalla sentenza di Roma è che non è ammissibile la costituzione di una società che si vuole del tutto nuova, che però utilizza gli stessi impianti, fabbrica lo stesso prodotto e assume in parte gli stessi operai, escludendo però quelli che hanno una tessera sindacale non gradita. Il tutto potrebbe avere evidentemente serie ricadute su iniziative analoghe che sia la Fiat che altre imprese potrebbero avere in mente.
Pomigliano è ormai un investimento avviato. È quindi difficile che la Fiat possa pensare di azzerarlo perché dovrebbe riassumere un buon numero di lavoratori della Fiom. Bisogna sperare che non ne faccia un pretesto per bloccare gli altri investimenti, a partire da quelli di Mirafiori, da cui dovrebbe provenire un rilancio delle sue produzioni in Italia, delle quali il Paese ha più che mai bisogno.
il Fatto 22.6.12
Oggi sciopero generale delle sigle di base, Usb, Cub e Snater
È uno sciopero “vero” quello che l'Usb, Cub, Snater e altre sigle del sindacalismo di base hanno indetto per oggi. Sciopero generale di otto ore, 24 nel settore trasporti, contro “le politiche economiche e sociali del governo Monti” dall'articolo 18 alle tasse. I sindacati promotori non si nascondono la dimensione parziale rispetto al sindacalismo maggioritario, eppure si dicono sicuro di una forte risposta dei lavoratori. “I segnali che arrivano in queste ore da tutto il paese – scrivono – confermano che lo sciopero è fatto proprio da ampi settori che vanno oltre la rappresentanza del sindacalismo di base che lo ha indetto”. L'Usb, riferimento della giornata di oggi, lavora da tempo alla costruzione di un'alternativa di sinistra alla Cgil e in questo senso ha stretto sempre più rapporti con quella sinistra sindacale rappresentata da Giorgio Cremaschi che oggi sarà in piazza. Gli appuntamenti sono due, alle 9,30: a Roma in piazza della Repubblica e a Milano in Largo Cairoli.
Sette del Corsera 22.6.12
Troppo comunista per essere leader
L’uomo giusto per il centrosinistra potrebbe essere Fabrizio Barca?
È personaggio di valore, ma la sua professione di fede non lo aiuta
di Aldo Cazzullo
qui
l’Unità 22.6.12
Contro la strage delle donne oggi notte bianca in 30 città
di Vittoria Franco
I DATI RESI NOTI DALL'OSSERVATORIO NAZIONALE STALKING SONO IMPRESSIONANTI. SONO GIÀ 66 LE DONNE UCCISE DALL'INIZIO dell'anno, nella stragrande maggioranza dei casi per mano del partner o di persona di famiglia. Nel 2010 sono state 127, l'anno scorso 137, una ogni tre giorni. È una vera strage di donne, che non conosce differenze di ceto sociale o di livello culturale. Le violenze sono invece accomunate da un atteggiamento maschile che concepisce la relazione come possesso, le donne come oggetto di proprietà di cui si può disporre a piacimento con il massimo dell'arbitrio, perfino col diritto di vita e di morte. Quante volte abbiamo dovuto sentire da parte di assassini confessi parole di autoassoluzione come: voleva lasciarmi, non era piú mia, per questo doveva morire! O invece, uomini immigrati che pensano di avere sulle giovani figlie o mogli un diritto proprietario e di sottrarle alla vita semplicemente perché non hanno comportamenti fedeli alle tradizioni dei Paesi di origine e si sono eccessivamente occidentalizzate. Sicuramente c'è un problema culturale che attiene a una mentalità patriarcale, che persiste e risulta difficile da smantellare; c'è un problema di incapacità di molti, troppi, uomini nel riuscire a elaborare il lutto dell'abbandono, ma ci sono anche emergenze che occorre affrontare.
Non si può pensare che le urgenze che stiamo affrontando, legate alla grave crisi economica, ne cancellino altre ugualmente gravi e che richiedono interventi efficaci, adeguati alla natura della violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani fondamentali. Anche per questa occorrono risorse: per varare un efficace piano di contrasto della violenza, per istituire l'Osservatorio, per adottare efficaci e diffusi programmi culturali facendone partecipi innanzitutto le scuole, che devono educare al rispetto della persona femminile e della sua libertà, ma anche le associazioni, le famiglie, le istituzioni. Occorrono risorse per sostenere i centri antiviolenza e magari istituirne degli altri. Essi sono in grandissima sofferenza, molti rischiano di chiudere perché hanno perso anche le risorse degli Enti locali. È da salutare con speranza e con spirito di solidarietà e riconoscenza la notte bianca in trenta città organizzata da «DiRe» (donne in rete contro la violenza) proprio per reagire e per urlare che la violenza si sta ampliando a macchia d'olio diventando una vera emergenza sociale. La sensazione altrimenti è che tutto accada senza provocare una reazione istituzionale adeguata, che l'argine al crimine si stia sgretolando. Il Pd ha già presentato in Parlamento mozioni di indirizzo al governo. A quest'ultimo chiediamo innanzitutto di sottoscrivere la «Convenzione europea per la prevenzione e la lotta alla violenza sulle donne», trattato che rappresenterebbe il primo strumento giuridicamente vincolante in Europa per la creazione di un quadro giuridico completo per combattere la violenza tramite la prevenzione, l'azione giudiziaria, il supporto alle vittime.
l’Unità 22.6.12
Napolitano: «Sono io che voglio tutta la verità»
Il Capo dello Stato accusa: «Contro di me una campagna
di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla»
«Gli italiani possono stare tranquilli, terrò fede ai miei doveri»
di Marcella Ciarnelli
ROMA A fermare «insinuazioni e sospetti», interpretazioni di comodo e manipolazioni, da parte di politici e giornali sul presunto ruolo avuto dal Quirinale a proposito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia nei primi anni novanta che vede coinvolto Nicola Mancino, non erano bastati l’aver reso noto il testo di una lettera riservata sull’argomento, non certamente interpretabile come un’ingerenza o una pressione, e le puntualizzazioni successivamente fatte dai collaboratori del Capo dello Stato. E così, dopo una settimana di offensiva, per far comprendere a tutti che la misura è colma, è stato lo stesso presidente della Repubblica a intervenire in prima persona per fermare «una campagna di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla» nei suoi confronti ed in quelli dei suoi più stretti collaboratori.
In modo netto Napolitano ha liquidato la campagna portata avanti, con particolare veemenza in questi giorni, sul fronte politico in particolare da Antonio di Pietro e, quindi dall’Idv, e su quello giornalistico dal Fatto quotidiano, capofila di altri organi di stampa. «Si sono riempite le pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate in ordine alle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose stragi di mafia del ‘92 e del 93, e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose, talvolta persino versioni manipolate» ha affermato il presidente ricordando, a chi non avesse prestato attenzione che «tutti coloro che sono intervenuti e stanno intervenendo avendo una seria conoscenza del diritto e delle leggi e dando una lettura obbiettiva dei fatti, hanno ribadito l’assoluta correttezza del comportamento della presidenza della Repubblica ispirata soltanto a favorire la causa dell’accertamento della verità anche su quegli anni».
INSINUAZIONI E SOSPETTI
Non hanno avuto nè il tono, nè la sostanza della peraltro non necessaria autodifesa, le parole del presidente della Repubblica. Ma piuttosto sono risuonate come un messaggio chiaro: misura è ormai colma. Con la consapevolezza di aver «reagito con serenità e con massima trasparenza» a quella che lui non ha avuto dubbi nel definire «una campagna di insinuazioni e sospetti». Ed agli italiani ha voluto ribadire il suo costante impegno «ad operare, perché è mio dovere e mia prerogativa, affinché vada avanti nel modo più corretto e più efficace, anche attraverso i necessari coordinamenti, l’azione della magistratura. I cittadini possono essere tranquilli che io terrò fede ai miei doveri costituzionali». E tra questi c’è sicuramente, fa capire il Capo dello Stato, c’è quello della ricerca della verità che è lui per primo a chiedere, sugli eventi di quegli anni ma anche sulle manipolazioni e sulle provocazioni di questi giorni.
«Sono io che voglio la verità». È questo il messaggio del presidente che ha vissuto «sereno» questi giorni di tensione perché convinto di avere sempre rispettato l’ambito delle sue prerogative e di non aver svolto alcuna pressione per favorire qualunque interprete di una storia complessa e piena ancora di ombre. E sono proprio queste, e il rischio di destabilizzazione che da esse può venire se svelate a tempo, che hanno preoccupato il presidente che nella sua lunga vita politica e nelle istituzioni ha vissuto tante stagioni difficili di un Paese che lui ha voluto rassicurare, al di là delle cosiddette rivelazioni, con i connotati delle insinuazioni e dei sospetti.
Sono stati giorni difficili. A fermare la campagna politica e mediatica nei confronti del Colle non sono bastati tutti gli elementi messi a disposizione. Non è bastata la lettera riservata resa nota «per stroncare ogni irresponsabile illazione» sul seguito dato dal Capo dello Stato a delle telefonate e ad una lettera del senatore Mancino. A firmarla il segretario generale della Presidenza, Donato Marra. Destinatario il Procuratore generale della Corte di Cassazione. In essa l’auspicio del Capo dello Stato, già ribadito davanti al Csm in più occasioni, che «possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità d’indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede e, quindi ai sensi delle attribuzioni del Procuratore generale della Cassazione fissate dagli articoli 6 del decreto legislativo 106/2006 e 104 del 159/2011» al fine di «dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali». Non è bastato il rinnovato richiamo dagli elementi esplicativi delle norme a cui faceva riferimento la lettera. Non è bastato il puntuale intervento del ministro Severino alla Camera. Non sono bastate le prese di posizione di gran parte dei soggetti coinvolti, compreso magistrati che conducono le indagini e che hanno espresso più che perplessità in ordine ad una campagna politico-mediatica fatta di cosiddette rivelazioni su ipotetici suggerimenti che dal Quirinale sarebbero stati dati a Mancino su come agire ed anche a proposito di possibili intercettazioni dello stesso presidente della Repubblica di cui si afferma l’esistenza senza porsi neanche per un istante la liceità di una operazione di questo genere.
A proposito di intercettazioni e della necessità di una legge che le regoli il presidente ha detto: «Questa è una scelta che spetta al Parlamento ed è per la verità una scelta da molto tempo all'attenzione del Parlamento. Se da tanto tempo è all'attenzione del Parlamento vuol dire che si tratta di una questione che meritava già da tempo di essere affrontata e risolta sulla base di una intesa la più larga possibile».
l’Unità 22.6.12
La macchina del fango oltre la “trattativa”
di Emanuele Macaluso
“IL FATTO QUOTIDIANO”, CHE OPERA COME AGENZIA DELLA PROCURA DI PALERMO, O MEGLIO DI UN PEZZO DELLA PROCURA, IERI HA RIVELATO CHE UN INTELLIGENTISSIMO GENERALEdiceva al collega Mario Mori che io sono il «ventricolo del Quirinale», scoprendo un inedito: che sono «grande amico»di Giorgio Napolitano. Ergo quel che dico e scrivo rispecchiano le opinioni del presidente della Repubblica. Che tra i militari ci sia qualche cretino disinformato sulle persone che hanno avuto una comune storia nel Pci, e nel dopo Pci, è comprensibile, ma giornalisti di lungo corso come il direttore del Fatto dovrebbero sapere qualcosa di più e di meglio su queste persone.
Lo sanno, ma i doveri della propaganda nel corso di una campagna forsennata contro il Quirinale fa premio sulla professionalità. Miserie. Tuttavia una questione va sollevata: la procura di Palermo, anzi quel pezzo di procura, distribuisce intercettazioni che non hanno attinenza al processo sulla «trattativa». A che gioco gioca? Fornisce foglietti di propaganda alla sua agenzia per scopi estranei al processo?
Sempre sulla questione intercettazioni dal Fatto apprendiamo che sono state intercettate telefonate del presidente della Repubblica. E si dice che sono state inserite nel brogliaccio e non trascritte perché irrilevanti. Ma intanto si fa circolare la notizia. Tuttavia, quelle intercettazioni non erano solo irrilevanti, ma illegali e parte di una manovra che serve a «mascariare» anche il Capo dello Stato.
Una vergogna. Attenzione, questi giochi danno argomenti a chi vuole quella che viene definita «legge bavaglio» e i giornalisti di tutte le testate non possono far finta di non accorgersi di quel che avviene in questo campo. Sia chiaro, io me ne frego di quel che dicono il generale e il Fatto, la mia storia non ha bisogno di avalli anche perché non temo rivelazioni: non ho scheletri nell’armadio ma solo qualche vestito.
Chiudo qui questa questione, anche perché mi preme dire qualcosa sul tema della trattativa «Stato-mafia». Poche cose perché condivido tutto quel che ha scritto su questo giornale Giovanni Pellegrino. La replica del dottor Ingroa è impacciata e imbarazzante. Pellegrino ha scritto quel che ha scritto perché, come dice il pm di Palermo, «permangono equivoci comunicativi»? Gli stessi «equivoci» hanno mal consigliato il professor Giovanni Fianduca (suo maestro di diritto, lo definisce Ingroia) a dare i giudizi che ha dato? L’equivoco, illustre dottor Ingroia, non è nella comunicazione, ma negli atti giudiziari e nella sfrenata campagna che su di essi conducono alcuni giornali e l’on. Di Pietro.
Ingroia, nel suo articolo, dice che «la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo». Giusto. Ma il suo processo si fa sulla «trattativa tra Stato e mafia». E se si chiama in causa lo «Stato» come parte della trattativa con la mafia, l’inchiesta giudiziaria non ha una valenza politica? E chi è lo Stato? Certo la chiamata in causa, come indagati o come testi, di alcuni ex ministri con clamorosi confronti, ex presidenti del Consiglio (Amato), un guardasigilli come Conso, generali e graduati, fa pensare ad organi dello Stato.
Viene evocato anche il nome di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica, tv e giornali amplificano e si dà un quadro confuso in cui l’unico dato che appare certo è lo «Stato» che tratta. Se invece si esaminano con attenzione i «casi» delle persone chiamate in causa, alle quali occorre contestare un reato preciso, il quadro cambia e non si capisce più dov’è e cos’è la «trattativa tra Stato e mafia».
Facendo questo discorso non ci sfugge il contesto politico degli anni che segnano la fine della prima Repubblica. Sul logoramento e l’indebolimento del quadro politico, dei partiti si è scritto tanto. In questo quadro va collocato lo stragismo mafioso che si apre nel 1979 (Boris Giuliano e Cesare Terranova con Lenin Mancuso vengono uccisi in quell'anno) e si chiude con l’uccisione di Falcone, Borsellino, le loro scorte e i cittadini massacrati a Firenze, Milano e Roma.
Ma nel 1992 durante la campagna elettorale venne ucciso Salvo Lima, uomo politico di riferimento della mafia di Bontade ed esponente della corrente andreottiana. Non ho dubbi quindi che Cosa Nostra intervenne con violenza inaudita per condizionare un quadro politico traballante e un personale politico indebolito. Tuttavia, ecco il punto politico, la reazione popolare fu tale da condizionare a sua volta quel mondo e in maniera tale da produrre un’azione che, con limiti e contraddizioni, diede un colpo durissimo alla mafia, costringendola a cambiare strada. È chiaro che questo fu possibile anche grazie all’opera di tanti magistrati e uomini dello Stato (ricordo per tutti il generale Dalla Chiesa) che pagarono con la vita la reazione statale all’aggressione mafiosa. E con loro uomini della politica, Mattarella e La Torre, ma anche il dc Michele Reina, che con coraggio si staccò dal sistema.
C’è un’ultima questione che pongo ai lettori. Alcuni anni fa la casa editrice Laterza pubblicò un libro scritto dal giornalista della Stampa Maurizio Molinari, «L' Italia vista dalla Cia», in cui si racconta (leggendo documenti Usa) che dopo l'uccisione di Falcone l’Fbi chiese ai ministri Scotti e Martelli di partecipare attivamente alle indagini, ottenendo un pieno consenso. Dopo l'uccisione di Borsellino fu fatta la stessa richiesta, sempre attraverso l’ambasciatore Secchia, ottenendo consenso. E furono fatte riunioni organizzative. Nel dicembre del 1993, il direttore dell’Fbi, Luis Freeh, si incontrò a Roma con Conso e Mancino per coordinare la lotta contro la mafia. Documenti Usa non smentiti. Chiedo: la trattativa fu condotta anche alle spalle dell’Fbi?
La Stampa 22.6.12
La solitudine del Colle
di Marcello Sorgi
Con un’improvvisa drammatizzazione del caso che da giorni ha lambito il Quirinale, ieri è stato il Presidente Napolitano in persona a prendere la parola sulla «trattativa» tra Stato e mafia, per spiegare che non ha nulla da nascondere né da temere. Trovandosi alla festa della Guardia di Finanza, i giornalisti che avevano circondato il Capo dello Stato si aspettavano che volesse parlare di evasione fiscale, che era un po’ il tema del giorno. Il Presidente invece ha reagito duramente a quella che ha definito «una campagna di insinuazioni e sospetti di alcuni giornali» e alle paginate di verbali di intercettazioni telefoniche tra il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Mancino è sotto inchiesta da parte della procura di Palermo con l’accusa di aver mentito sulla trattativa che nel 1993, all’ombra del Viminale, il generale dei Carabinieri Mario Mori, cioè l’uomo che pochi mesi prima aveva arrestato il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina, avrebbe intessuto con Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo mafioso e in affari con la grande mafia siciliana. Lo scambio tra un ammorbidimento del regime di carcere duro per i boss - che fu deciso dall’ex ministro di Giustizia Conso - e uno stop alla strategia stragista che aveva insanguinato l’Italia per due anni, da Capaci a Roma, Firenze e Milano, sarebbe stato, secondo l’inchiesta, il primo passo di un inconfessabile negoziato.
L’ex ministro dell’Interno si è sempre protestato innocente, e Napolitano entra nella vicenda perché è intervenuto, per tramite dei suoi collaboratori, a favore di un chiarimento tra le diverse procure siciliane, che hanno punti di vista differenti sull’inchiesta e sui suoi possibili imputati. Dopo un fallito approccio di D’Ambrosio con il capo della Superprocura Antimafia Piero Grasso, il 4 aprile il segretario generale della Presidenza Donato Marra ha scritto all’allora procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Per aver preso questa iniziativa - e per averlo fatto in piena trasparenza, tanto che ha reso noto il testo della lettera inviata ad Esposito -, Napolitano è da giorni sulla graticola. E pertanto ieri s’è deciso a reagire personalmente, ribadendo con orgoglio di essersi mosso nell’ambito delle proprie prerogative e nel pieno rispetto delle leggi.
Ma al di là del caso e dei molti conti aperti - non tutti chiari, e neppure tutti recenti, dato che la storia comincia quasi vent’anni fa c’è un aspetto del caso ancora del tutto inesplorato. E cioè che questa specie di impeachment mancato, con le reazioni o le mancate reazioni che ha provocato, è un esempio illuminante di cosa sta per diventare, o è già diventata, la politica in tempi di antipolitica. Sul campo, infatti, a muovere l’assedio al Quirinale, sono Grillo e Di Pietro, indipendentemente e per ragioni diverse. Per Grillo, uscito vincitore dalle ultime elezioni amministrative e accreditato di una crescita spropositata nei sondaggi, è la prima occasione per vendicarsi, dopo una campagna elettorale in cui, tra gli altri, aveva preso di mira anche il Colle, ricevendo in cambio dal Presidente il monito a non comportarsi da «demagogo». E quanto a Di Pietro, che con Napolitano ha sempre avuto pubblici cattivi rapporti, è una sorta di avvertimento inviato, via Colle, a Bersani e al Pd, che platealmente lo hanno appena scaricato, e si preparano, nelle prossime elezioni, a tenerlo fuori dalla coalizione, dopo quattro anni di turbolenta alleanza politica e un’amicizia che durava dai tempi di Mani pulite. Va da sé che se il centrosinistra facesse marcia indietro e riaccogliesse tra le sue file Italia dei Valori, anche Di Pietro potrebbe mutare atteggiamento. Ma se Bersani continua a fare l’offeso, il leader di Idv insisterà a tenere la mira puntata sul Quirinale.
E qui, prima di concludere, occorre guardare al comportamento degli altri partiti. Da Berlusconi, che tra l’altro è coinvolto nell’inchiesta palermitana ed è fin troppo impegnato a cercare di salvare se stesso dai suoi guai giudiziari, non c’era molto da aspettarsi. E quanto a Bersani o Casini, non è che non difendano il Presidente: ci mancherebbe. Ma lo fanno con una timidezza che tradisce il timore che le campagne dell’antipolitica abbiano ormai irrimediabilmente fatto breccia in un’opinione pubblica trattata alla stregua di una tifoseria da stadio. A questo siamo. Si vorrebbe non crederci, ma è così: poiché schierarsi con le istituzioni si sta rivelando elettoralmente e propagandisticamente poco conveniente, pur di non correre il rischio dell’impopolarità, Napolitano, in pratica, viene lasciato solo a difendersi.
Repubblica 22.6.12
Chi gioca allo sfascio
di Carlo Galli
SONO molti i piani su cui deve essere valutata tutta la vicenda che ruota intorno al caso Mancino-Procure-Quirinale; una vicenda che ha prodotto un irritatissimo comunicato della Presidenza della Repubblica. Da un punto di vista giuridico-penale, con buona pace di Antonio Di Pietro, non vi è nulla di rilevante a carico del presidente Napolitano. Il quale, anzi, ha correttamente esercitato le proprie prerogative.
QUANDO con lettera ufficiale e pubblica ha invitato il pg della Cassazione a far sì che le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze si coordinino tra di loro, per il miglior funzionamento della Giustizia – che è tutt’altro che un’interferenza nelle indagini, ma anzi è quanto il presidente del Csm (appunto, Napolitano) deve fare in virtù del proprio ufficio –.
Vi è poi un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo. Il senatore Mancino si è mosso come se fosse ancora in grado di esercitare un qualche controllo sulle toghe, o come se fosse molto preoccupato di quanto può uscire da indagini e testimonianze; e cita nomi illustri di politici del passato, come a coprirsi o a coprirli. E chiede aiuto a un illustre interlocutore, D’Ambrosio – magistrato in pensione, consigliere giuridico del Quirinale (dove è giunto dai tempi di Ciampi), a suo tempo estensore dell’articolo 41 bis (sul carcere duro ai mafiosi) –, il quale si mostra invero prodigo di consigli e di suggerimenti verso Mancino. Con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili, ma che, riportate dai quotidiani, non fanno, nel complesso, un bell’effetto. Poiché si prestano a letture in chiave di privilegio, di casta, e insomma contengono spunti – senza che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con Napolitano – che possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di antipolitica generalizzata.
Infine, c’è un livello etico-politico di lettura dell’intera materia. La fine della Seconda repubblica, che stiamo vivendo, si specchia nella fine della Prima; con troppe continuità di uomini e di problemi, ma anche con qualche differenza. Se sono state intavolate trattative fra Stato e mafia dopo le stragi dell’estate 1992, per ordine di chi, attraverso quali canali, su quali temi, con quali poste in palio; perché ci sia stata in seguito la revoca, per un certo numero di delinquenti, del regime del 41 bis: tutto ciò è appunto l’oggetto delle indagini. Che stabiliranno, si spera, responsabilità individuali, e consentiranno anche di valutare se quell’esercizio della ragion di Stato – opaco, remoto, sottratto finora al giudizio dei tribunali, degli
storici, dei cittadini – abbia davvero salvato qualche bene supremo, o se invece abbia soltanto affondato, com’è più probabile, l’etica pubblica.
Oggi, nel tramonto della Seconda repubblica, caratterizzata da forte ambivalenza rispetto alla mafia (cioè da rapporti di dura repressione, ma anche da sospetti di contiguità sistemica – difficile da provare giudizialmente, come si sa – di una parte del ceto politico con la criminalità organizzata), si coglie l’occasione di attaccare il Quirinale cercando di associarlo, in qualche modo e in qualche misura, a questioni che hanno a che fare con rapporti fra politica e mafia. E ciò denota un altro e diverso abisso etico-politico.
Allora, nel 1992 e nel 1993, si diede il colpo di grazia a una legalità già calpestata da un ceto politico in via di estinzione, mentre ai nostri giorni si cerca di abbattere, delegittimandola, un’istituzione, la presidenza della Repubblica, che ha dimostrato di avere capacità di tenuta e di visione strategica nel momento forse più critico della nostra storia repubblicana. Perno e garante degli equilibri politici, sostegno all’attività del governo, baricentro della repubblica, investito dalla stima di tutti i politici del mondo, e di tutti i cittadini italiani, Napolitano può essere aggredito, o sospettato, o calunniato, o infangato, o fatto oggetto di distorsioni interpretative, solo da chi – garantista o giustizialista, poco importa – in perfetta malafede e con spaventoso cinismo sta cercando il pretesto per far saltare l’intero quadro politico e gioca allo sfascio, al «tanto peggio tanto meglio», forse per ritagliarsi uno spazio – lucrando voti sul disgusto dei cittadini verso la politica, i partiti, le istituzioni – nel prossimo Parlamento (nato, semmai, da elezioni anticipate, celebrate in chissà quale clima di sfiducia e di esasperazione), o forse per sottoporre il Quirinale a pressioni dalle finalità non chiare (la successione al Colle?).
Tutto è torbido in questa torbida vicenda, che paradossalmente nasce dal tentativo di far luce sull’oscurità di vent’anni fa. Una cosa sola è lampante: che una crisi, aperta o sotterranea, che mini l’autorità e il prestigio del Capo dello Stato è, in queste condizioni, qualcosa di più che un atto di irresponsabilità: è un attentato alla democrazia.
La Stampa 22.6.12
Intervista a Casini
“Chi cerca di far cadere Monti pagherà un caro prezzo”
Casini: “Troppi mal di pancia nel Pdl”. E apre a un’alleanza con la sinistra riformista
di Carlo Bertini
Vedo troppe fibrillazioni in giro e voglio dirlo chiaro in un momento cruciale come questo: non bisogna essere sleali, caricare Monti di responsabilità eccessive rispetto all’esito del vertice europeo, vuol dire solo precostituirsi un alibi per attaccarlo il giorno dopo. E - come recita il proverbio qua nessuno è fesso... ». Pier Ferdinando Casini non ci gira troppo intorno e il senso del suo avvertimento è chiaro: se qualcuno vuole addossare tutte le colpe delle difficoltà che stiamo vivendo solo sulle spalle di Monti, coltivando la tentazione di staccargli la spina, sappia che se ne assumerà la responsabilità e che alla fine pagherà un conto molto salato perché gli elettori non hanno l’anello al naso. Il leader Udc non ci sta a far passare sotto silenzio quello che nei corridoi dei Palazzi è un refrain molto in voga e avverte che in caso di voto lui è pronto a unire tutti i moderati in un’alleanza con i riformisti più avveduti e responsabili. Chi deve intendere, intenda.
Quindi lei crede al tam tam persistente di un voto anticipato a ottobre?
«Io penso che la strada maestra sia quella di continuare sulla via del risanamento del paese usando gli ultimi mesi fino alla fine della legislatura. Però sono molto preoccupato, perché vedo che c’è chi gioca a fare come Penelope, disfacendo di notte la tela faticosamente costruita di giorno da Monti. E la grande fibrillazione nel Pdl e nel Pd certamente non aiuta un governo nato non per tirare a campare, ma per fare».
Con chi ce l’ha?
«Quale può essere l’interesse dei partiti a fiaccare il governo con continue polemiche? È vero che non possono essere solo chiamati a ratificare, ma poiché tutti siamo consci delle ragioni per cui c’è questo esecutivo, bisognerebbe essere conseguenti. Allora, che all’indomani del decreto sviluppo, Alfano si precipiti a spiegare che solo 1 miliardo è destinato a questa finalità, vorrà dire pur qualcosa. Così come le cose dette da Berlusconi sull’euro. Può darsi che sia solo un caso, ma chiaramente oggi c’è una deriva preoccupante nel Pdl. Chi è stato cinque volte premier non può non sapere che aprire un dibattito sulla possibilità che l’Italia esca dall’euro nel momento in cui Monti si appresta a ricevere Hollande, la Merkel e Rajoy, non può essere sottovalutato. E devo dedurre che sia intenzionale».
Dunque è il Pdl che non tiene più?
«Non c’è dubbio che i maldipancia siano più dalle parti del Pdl, mi sembra che nel Pd siano contenuti nella fisiologia. Non so se vi sia un disegno, ma dico: i partiti hanno fallito, il centrodestra ha clamorosamente fallito. E se qualcuno oggi si compiace del fallimento di questo governo dà solo prova di autolesionismo. Se noi valorizziamo il lavoro di Monti, indirettamente premiamo anche la capacità di sacrificio che i partiti hanno dimostrato. Se a questi sforzi non si è conseguenti, lo sforzo è vanificato».
Non è che molti vogliono andare al voto anche per non fare le riforme, come il taglio dei parlamentari e la legge elettorale? È un sospetto legittimo?
«Il sospetto è legittimo, ma pensare di andare alle elezioni senza una nuova legge elettorale è una follia allo stato puro, come l’ipotesi di uscire dall’euro. La possibilità di recuperare un rapporto tra la gente e la politica esiste solo se i cittadini potranno scegliersi i parlamentari. Se vogliamo dare il colpo definitivo ai partiti e consentire a Grillo di avere il 40%, noi abbiamo solo una strada: non cambiare la legge elettorale. Che dovrebbe realisticamente contenere un premio di governabilità, finalizzato ai partiti, per non incentivare coalizioni colabrodo, ma la governabilità. Secondo, la possibilità di far scegliere gli eletti, con le preferenze o i collegi provinciali, prevedendo un tetto alle spese per le campagne elettorali».
E crede che alla fine ci sarà davvero una nuova legge elettorale?
«Sono convinto di sì, nei miei colloqui con gli altri leader ho visto che tutti sono consapevoli che va fatta, ma basta perder tempo. Enrico Letta e Alfano dissero che entro tre settimane andava fatto un accordo: ne son passate due, entro una settimana chiudiamo un’intesa e basta. E noi gli accordi li abbiamo sempre rispettati, agli altri si vede che ha dato alla testa l’effetto delle amministrative... ».
Se si votasse a breve con chi vi alleereste?
«Noi stiamo lavorando per creare un’area moderata più ampia dell’Udc, con personalità ed esperienze diverse che si mettano assieme, anche con esponenti del Terzo Polo. Dopodiché, questa formazione moderata deve essere elemento fondamentale per garantire la governabilità del paese e salvarlo dal baratro. E credo difficile governare emarginando una componente fondamentale come la sinistra riformista e allo stesso modo anche altre forze imperniate sul Ppe».
Repubblica 22.6.12
Quando il Palazzo tremava per le bombe di Cosa Nostra così partì la trattativa segreta
Dai contatti del Ros alla revoca del 41 bis ai capimafia
di Attilio Bolzoni
ROMA — Che cos’è l’inchiesta sulla trattativa dei magistrati di Palermo? È lo Stato che processa se stesso. È lo Stato che si guarda dentro, che si autoaccusa di colpe gravi, che si riconosce traditore per avere patteggiato con il nemico. È tutto così semplice e tutto così complicato che vent’anni dopo c’è ancora un’Italia che ha paura.
Non è solo un affare di mafia. È soprattutto un affare di Stato. Dove i protagonisti non sono quei boss delle borgate ma ministri dell’Interno e ministri della Giustizia, capi di governo, funzionari di alto rango, forse anche ex Presidenti della Repubblica che hanno subito ricatti per proteggere la Nazione.
L’alta tensione di questi giorni – con il Quirinale trascinato nel gorgo di polemiche incandescenti – è la dimostrazione che non siamo ancora in grado di sopportare certe verità.
Ricominciamo daccapo. Ricordiamo i fatti. Raccontiamo i personaggi. Spieghiamo cosa è avvenuto fra il 1992 e il 1993.
I DELITTI, LE STRAGI E LE PAURE DEI POLITICI
Il 12 marzo del ’92 uccidono Salvo Lima, il potentissimo proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. Muore perché non «ha garantito il buon esito del maxi processo», l’ammazzano perché in Cassazione tutti i mafiosi incastrati dal giudice Giovanni Falcone vengono condannati all’ergastolo. È la rottura di un patto che resiste da almeno quattro decenni. Cosa Nostra si ritrova improvvisamente senza «coperture» politiche. «D’ora in poi può accadere di tutto», dice Falcone davanti al cadavere di Lima. E di tutto, in effetti accade. Il rapporto mafia-politica si spezza con quell’omicidio. Salvo Lima è il punto di equilibrio fra lo Stato e la mafia, morto lui tutti gli altri ras della politica si spaventano. Il più preoccupato – e questa è la tesi dei procuratori di Palermo – è il ministro siciliano per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno Calogero Mannino. Si sente in pericolo, c’è una lista di uomini che i boss intendono colpire. Il primo è Mannino. Poi c’è Carlo Vizzini, ministro delle Poste. C’è il ministro della Giustizia Claudio Martelli. C’è anche il ministro della Difesa Salvo Andò. E Giulio Andreotti. Secondo la ricostruzione dei pm, per salvarsi la pelle Mannino incontra il capo dei reparti speciali dei carabinieri Antonino Subranni e il capo della polizia Vincenzo Parisi per «aprire» un contatto con i boss e arrivare a un patto. Ma la mafia siciliana ha già deciso – con qualcun altro – di non fare patti. Il 23 maggio del 1992 fa saltare in aria Falcone a Capaci. Giulio Andreotti, il candidato più accreditato nella corsa al Quirinale, è fuori dai giochi per sempre.
COMINCIA LA PRIMA TRATTATIVA
Falcone è morto da 15 giorni e i carabinieri del Ros – il colonnello Mario Mori e il capitano
Giuseppe De Donno – contattano l’ex sindaco Vito Ciancimino per cercare di arrivare a Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. E fermare le stragi. Trattano con lui. Per conto di chi? Dicono loro: «Di nostra iniziativa ». Nessuno ci crede. Ne sono al corrente almeno tre persone: il ministro della Giustizia Claudio Martelli, il direttore degli Affari Penali di via Arenula Liliana Ferraro (quella
che ha sostituito Falcone) e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante. Tutti e tre – Martelli, la Ferraro e Violante – per 17 anni non dicono nulla di tutto ciò. Stanno zitti. Quando il figlio di Vito Ciacimino, Massimo, racconta nel 2010 ai magistrati di Palermo di quegli incontri fra suo padre e i carabinieri, Martelli, la Ferraro e Violante ritrovano i ricordi e ammettono tutto. Smemorati di Stato. Hanno parlato solo perché costretti. Cosa sapevano? Perché non hanno detto prima di quei contatti fra Stato e mafia? Quali segreti custodivano o ancora custodiscono?
Mentre loro nel 1992 nascondono verità, muore anche Paolo Borsellino. Il 19 luglio del 1992, cinquantasette giorni dopo Capaci, l’autobomba di via Mariano D’Amelio. Totò Riina scrive il suo «papello», le richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia stragista in cambio di benefici di legge, nuove norme sul pentitismo, la revisione del maxi processo.
C’è un nuovo governo, il premier è Giuliano Amato. Il vecchio ministro degli Interni Vincenzo Scotti, considerato un «duro», salta. E al suo posto viene improvvisamente nominato Nicola Mancino.
LA MISTERIOSA CATTURA DI RIINA E LA SECONDA TRATTATIVA
Il 15 gennaio del ’93 i carabinieri – quegli stessi che stavano trattando con Ciancimino – arrestano dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza Totò Riina. E’ una cattura «strana». Non perquisiscono il suo covo, non inseguono i suoi complici. Il ministro Mancino annuncia – a sorpresa - l’arresto di Riina qualche giorno prima. Il sospetto è che Riina sia stato «venduto» da Bernardo Provenzano, l’altro capo mafia di Corleone già in contatto con il senatore Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi che con l’aristocrazia mafiosa di Palermo ha rapporti da più di un quarto di secolo. Si tratta ancora fra
Stato e mafia. Provenzano è libero e – secondo le indagini dei pm di Palermo – protetto dai carabinieri che avevano incontrato Vito Ciancimino. Si tratta ma la mafia alza ancora il tiro. Chiede tanto. Dopo il ministro dell’Interno salta anche il ministro della Giustizia. Al posto di Martelli arriva Giovanni Conso. E’ il febbraio del 1993. Dopo l’attentato al giornalista Maurizio Costanzo in via Fauro, c’è la bomba di via dei Georgofili a Firenze: 5 morti e 48 feriti. È la mafia che diventa terrorismo. Poi gli attentati di Milano e Roma. Cosa sta accadendo in Italia nella primavera-estate del 1993? Chi mette bombe e semina terrore? Il Presidente della Repubblica è Oscar Luigi Scalfaro, che è stato ministro dell’Interno e che ha come capo della polizia Vincenzo Parisi. In quel momento comincia probabilmente la terza trattativa.
REVOCATO IL CARCERE DURO AI MAFIOSI
Sotto la regia di Scalfaro vengono improvvisamente sostituiti tutti i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Presidente della Repubblica in quelle settimane riceve una lettera di minacce dai familiari dei boss in carcere. Lo Stato in pubblico mostra i muscoli, in realtà cala le braghe. Nel 1993, dopo le bombe, 441 mafiosi rinchiusi al 41 bis vengono trasferiti in regime di «normalità» carceraria. Il ministro della Giustizia Giovanni Conso dice che ha deciso tutto «in solitudine», il sospetto è che abbia ubbidito a una «ragion di Stato». E’ in quei mesi del 1993 che gli apparati di sicurezza non riescono a trattare con la mafia in una posizione di forza. Dopo le stragi siciliane e quelle in Continente, i Corleonesi progettano di abbattere la Torre di Pisa e disseminare le spiagge di Rimini con siringhe infettate dal virus dell’Hiv. Poi preparano l’attentato allo stadio Olimpico nel gennaio del 1994 per uccidere «almeno 100 carabinieri». Il massacro è evitato perché – altro mistero mai chiarito – il congegno non funziona.
E’ la svolta. La pace fra Stato e mafia è raggiunta. La mafia si placa. Ha trovato nuovi «referenti». Sarà una coincidenza – sicuramente una coincidenza – ma per vent’anni la mafia non spara più un colpo. E’ l’Italia di Berlusconi. Governo dopo governo, è sempre trattativa.
Repubblica 22.6.12
“Contraddizioni dagli uomini di Stato non è un’indagine campata in aria”
di alessandra Ziniti
PALERMO — Nessun commento alle parole del capo dello Stato ma il pm Nino Di Matteo, uno dei titolari del fascicolo, una cosa vuole precisarla: «L’indagine è in gran parte pubblica e non ci sono solo le intercettazioni. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono agli atti, i ritardi e i contrasti tra le versioni che hanno contraddistinto le testimonianze di esponenti delle istituzioni sono evidenti. Questa non è un’indagine basata sul nulla. Saranno poi i giudici a valutare se gli elementi sono sufficienti per un processo».
Al di là del rilievo penale, vi siete sentiti condizionati da ingerenze di qualsiasi genere?
«Noi siamo assolutamente tranquilli e determinati ad andare avanti. Eravamo consapevoli che la ricerca della verità non sarebbe stata indolore e che dovevamo fare i conti con chi, anche nelle istituzioni, oppone reticenze, silenzi o incomprensibili ritardi nel rendere dichiarazioni su fatti che, se rivelati prima, avrebbero potuto contribuire alla ricerca della verità».
Da più parti, anche all’interno della magistratura, sono state sollevate critiche sulla vostra inchiesta.
«La legge è uguale per tutti. Abbiamo agito nel rispetto delle prerogative di indagati, testimoni, abbiamo chiesto di fare intercettazioni consentite dal codice, autorizzate dal giudice, prorogate quando ce n’era motivo, fermate se non produttive. Abbiamo depositato solo quello che è stato ritenuto rilevante».
E le conversazioni che riguardano direttamente Napolitano?
«Negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti».
Quindi verranno distrutte?
«Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti ».
Vi sentite soli?
«No, perché l’opinione pubblica vuole ogni possibile approfondimento su questa vicenda. C’è chi vuole far passare l’idea che questa indagine sia il frutto dell’accanimento di pochi pm con un intento politico. Ma faziosità e politica sono estranei alla nostra attività».
il Fatto 22.6.12
Il Totem sul Colle
Napolitano invoca il bavaglio e attacca “alcuni giornali”
Dopo le rivelazioni del Fatto sulle telefonate a Mancino, il Capo dello Stato tuona:
“Campagna di insinuazioni e sospetti fondati sul nulla”
E sulle intercettazioni dice: si è perso troppo tempo
di Antonio Padellaro
Nella storia repubblicana essere bersagliati da critiche e campagne di stampa è capitato a molti inquilini del Quirinale. A Gronchi, per esempio, i comunisti rinfacciarono di aver agevolato la nascita del famigerato governo Tambroni. Così come a Saragat fu rimproverato, da sinistra, di aver ridotto la contestazione studentesca a un problema di ordine pubblico. Segni fu accusato di golpismo, per non parlare di Leone costretto a dimettersi per un uso, si disse, troppo spregiudicato del potere. Sul carattere insofferente di Pertini sono state scritte biblioteche. Di Cossiga si disse e si scrisse che non ci stava tanto con la testa. Scalfaro finì sulla graticola per i fondi riservati del Sisde. E perfino la popolarità di Ciampi fu scalfita dall’accusa di non aver sempre fatto da argine alle leggi vergogna berlusconiane. Mai, però, in sessant’anni di democrazia un capo dello Stato aveva goduto di una così totale, assoluta, cieca, muta e sorda immunità come Giorgio Napolitano. Da sei anni sul Colle siede una sorta di totem intoccabile, inviolabile e irascibile a cui rivolgere non diciamo un appunto, ma perfino la più blanda osservazione equivale a un delitto di lesa maestà. Non ripeteremo quanto già scritto su queste pagine da Paolo Flores d’Arcais a proposito di questa bizzarra “sacralità” tutta italiana: e se da noi funziona così, a poco serve ricordare che nella Germania della Merkel due capi di Stato (l’uno per una gaffe diplomatica, l’altro per un prestito agevolato) sono andati a casa anzitempo. Ma, appunto, perché da noi funziona così? Chi mai potrebbe impedire, oggi, all’ambaradam quirinalesco l’indecente negazione dell’evidenza telefonica e l’interferenza continuata nell’indagine dei pm di Palermo sulla oscena trattativa Stato-mafia? Il governo Monti che a Napolitano deve la propria esistenza in vita? Il tremebondo Pd? Il disastrato Pdl che subito si è accodato al monito sul bavaglio lanciato dal capo dello Stato per fatto personale? Via, non scherziamo. Il totem sul Colle fa comodo a tutti (loro). Lasciatelo lavorare.
il Fatto 22.6.12
Presidente, risponda su Mancino
Alla Cortese Attenzione del consigliere del Quirinale Pasquale Cascella
di Marco Lillo
Gentile consigliere Pasquale Cascella ho provato a contattarLa telefonicamente ma non riesco a ottenere risposta a voce o via sms al cellulare. Il Fatto chiede al Presidente della Repubblica una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione inter-venuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino.
D’Ambrosio: Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli... e non so se mi sono spiegato, per cui diventa tutto... cioè... la posizione di Martelli... tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli... eh... indipendentemente dal processo diciamo, così...
Mancino: Ma io non è che posso parlare io con Martelli... che fa.
D: no no... dico no... io ho detto guardi non credo... ho detto signor Presidente, comunque non lo so. A me aveva detto che aveva parlato con Amato giusto... e anche con Scalfaro...
1. Il Presidente conferma o smentisce di avere chiesto a D’Ambrosio di chiedere a Mancino se questi aveva parlato con Martelli?
2. Il Presidente si dissocia dalle affermazioni di D’Ambrosio che connette la richiesta suddetta (colloquio Mancino-Martelli extra processo) con il contrasto di posizione tra i due ex ministri in vista di un confronto nel processo?
3. Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Presidente?
4. E qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa seconda affermazione contenuta nella conversazione intercettata il 5 marzo sempre tra D’Ambrosio e Mancino? M: Eh... però il collegio a mio avviso li, un collegio equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto Tavormina.... dirigente prima della Dia e poi dirigente del Cesis, come ha ritenuto inutile ha respinto la domanda di confronto così potrebbe anche rigettare, per analogia..., eh... si ma davvero questa è la fonte della verità Martelli ed io sono la fonte delle bugie?
D: Sì, ho capito però il problema è intervenire sul collegio e una cosa molto delicata questo è quello che voglio dire.
M: Questo io l’ho capito.
D: Una cosa è più facile parlare con il pm, perché... chiedere... io quello che si può parlare è con Grasso, per vedere se Grasso dice... eh... di evitare... cioè questa è l'unica cosa che vedo perché Messineo, credo che non dirò mai... deciderà Di Matteo... dirà così no.
5. Il consigliere giuridico del Presidente, per evitare il confronto a Mancino, considera l’ipotesi di intervenire prima sul collegio del Tribunale, poi ripiega in via ipotetica sul pm e infine sul procuratore nazionale antimafia. Il Presidente si dissocia o ritiene lecito intervenire su un collegio del tribunale o su un pm per evitare un confronto tra un testimone qualsiasi e un altro testimone più amico (Mancino) che rischia un’incriminazione?
6. Perché il Quirinale dovrebbe occuparsi e preoccuparsi del contrasto di posizione tra due testimonianze di due ex ministri in un procedimento penale?
7. Più volte D’Ambrosio afferma di avere chiesto al Procuratore nazionale Piero Grasso di intervenire per un coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta più conforme alle aspirazioni di Mancino e di avere ricevuto in risposta un diniego.
D’Ambrosio afferma in un’altra conversazione con Mancino: “Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’... lo vedrò nei prossimi giorni, vediamo un po’. Però, lui... lui proprio oggi dopo parlandogli, mi ha detto: ma sai lo so non posso intervenire... capito, quindi mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di... come la procura nazionale sta dentro la procura generale, di vedere un secondo con Esposito”.
8. Ritiene il Presidente di essere stato indotto in errore dal suo consigliere o ritiene giusto intervenire sul procuratore generale per chiedere al procuratore nazionale (che recalcitra) di rafforzare il coordinamento tra procure al fine reale però – da quello che dice il suo consigliere giuridico al telefono – di evitare un confronto scomodo a un testimone?
il Fatto 22.6.12
Su “Repubblica” Scalfari bacchetta noi ...e i suoi cronisti
I fatti devono esser separati dalle opinioni, come insegnano le migliori scuole di giornalismo, ma Repubblica di ieri a pagina 14 entrava in un cortocircuito pirotecnico: il pezzo dei cronisti Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo che “sbatte” sul mini editoriale del padre nobile Eugenio Scalfari. Così il fondatore di Repubblica: “Sul caso Mancino, Napolitano ha fatto nient’altro che esercitare i suoi poteri e doveri. (...) Il segretario generale di Napolitano ha scritto una lettera al procuratore della Cassazione e gli ha detto che è opportuno che lui eserciti i suoi poteri per coordinare, per far sì che ci sia un’inchiesta e non inchieste parallele o dissensi all’interno degli uffici giudiziari. (...) Qui si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti. (...) Questo è il chiodo fisso di questa gente, che è legittimo quando non attaccano indebitamente le magistrature, è legittimo ma è politicamente inaccettabile per altre forze politiche responsabili. Questi sono degli irresponsabili”. Così la narrazione dei fatti dei cronisti (irresponsabili anche loro?), appena una colonna più a sinistra: “Più che un consigliere giuridico si è rivelato un suggeritore. Astioso con i magistrati di Palermo. Diffidente nei confronti del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Negazionista sul patto fra Stato e mafia. Dal Quirinale, Loris D’Ambrosio seguiva ogni sviluppo dell’inchiesta sulla trattativa, sperava in un ‘coordinamento’ che di fatto sfilasse ogni potere d’indagine ai pm siciliani e ragionava sul da farsi con Nicola Mancino, che giorno dopo giorno sembrava scivolare sempre di più in un vortice di sospetti. Le telefonate intercettate fra l’ex ministro dell’Interno e uno dei collaboratori più vicini al presidente della Repubblica stanno scoprendo un eccessivo attivismo al Quirinale intorno alla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il nome di Giorgio Napolitano (...)”.
il Fatto 22.6.12
Le tre versioni di D’Ambrosio: “Se dico Dpr, non dico Dpr...”
I verbali dell’uomo del Quirinale, “ascoltato” con Mancino e interrogatro dai Pm di Palermo
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Palermo Il primo interrogatorio è del 20 marzo 2012. Il secondo è del 16 maggio 2012. Alla Procura di Palermo si presenta il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, convocato come persona informata sui fatti. A interrogarlo sono il pm Nino Di Matteo (pm2) e il procuratore Francesco Messineo (pm). I pm, dopo aver ascoltato le numerose conversazioni telefoniche con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, gli contestano una serie di contraddizioni tra le dichiarazioni rese nel primo interrogatorio e il contenuto delle intercettazioni. D’Ambrosio (D), in palese difficoltà, annaspa. Ecco alcuni stralci dei due interrogatori.
D: Non so dire quali siano state le considerazioni che avevano indotto Di Maggio a chiedere, nel 1992, di essere destinato al ministero abbandonando l’incarico prestigioso, e verosimilmente meglio remunerato, di Vienna. Posso solo ipotizzare che fosse attratto dalla possibilità di esecitare compiti “più operativi”. Non ho più avuto occasione di incontrare il dottor Di Maggio successivamente alla mia uscita dall’Alto Commissariato. L’ho incontrato, del tutto occasionalmente, verso la fine del ’92 perché si era recato presso il ministero. (...) Ho incontrato di nuovo Di Maggio nel mese di giugno del ’93 non so precisare il giorno, ed in quella circostanza Di Maggio mi disse che era sua intenzione trasferirsi al ministero in qualità di vice-direttore del Dap.
Interrogatorio del 16 maggio 2012.
Pm: Dottor D’Ambrosio, il 20 marzo 2012 lei ha reso delle dichiarazioni sulla nomina al Dap, del dottor Di Maggio. Ritiene di dovere rettificare in qualche punto?
D: No, per quanto riguarda le modalità di nomina (…) cioè francamente io non ho mai visti questi decreti (…).
Pm: Volevo richiamare l’attenzione su un punto della dichiarazione: “Non ho alcuna notizia specifica sulle modalità di formazione e sull’iter seguito per la nomina di Di Maggio. Di tale circostanza non ho mai parlato né con la dottoressa Ferraro, né con la dottoressa Pomodoro”. D: Le modalità io non le ho mai sapute. La Pomodoro e la Ferraro non mi hanno mai specificato come scrissero, dove fu scritto il provvedimento, io non lo so. Pm2: Quindi lei non ha ricordo di avere visto il decreto?
D: Non l’ho visto, non l’ho visto, questo proprio ne sono sicuro.
Pm2: Guardi, la nostra esigenza di approfondimento deriva anche dalle intercettazioni telefoniche sulle utenze del senatore Mancino. Nella conversazione del 25 novembre 2011, a proposito di Di Maggio, lei ad un certo punto dice: Ecco, e diventa attraverso un Dpr dirigente generale, no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda (…). E poi lei ha dichiarato (…): “Io ricordo (…) chiaramente il decreto scritto, il Dpr scritto nella stanza della Ferraro, il Dpr che lo faceva vice capo del Dap”.
D: Io questa questa cosa l’ho detta a Mancino ma io questo Dpr non l’ho (…). Come fa ad essere scritto un Dpr dalla Ferraro, dentro la… Ferraro? Cioé io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (…) questo può anche essere, cioè se io l’ho detto, è così! Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto dove è stato composto.
Pm2: Eh, perché lei al Senatore Mancino parla di un decreto scritto nella stanza della Ferraro!
D: Io ricordo che Di Maggio frequentava la Ferraro, frequentava la Pomodoro in quel periodo, ma non ho mai visto materialmente il decreto, cioè questo è quello che… voglio dire, l’ho detto nel senso che l’ho detto… a chi l’avrei detto?
Pm: Vorremmo capire qual è il significato di queste espressioni.
D: Cioè il ragionamento è questo: (Di Maggio, ndr) doveva andare alla Direzione degli Affari penali, va al Dap, a questo punto io ho fatto cenno anche nel-l’altro interrogatorio che la Ferraro e la Pomodoro probabilmente saranno state loro che hanno organizzato qualche cosa, data la loro vicinanza con Di Maggio. La materiale scrittura del decreto io non l’ho… dico, l’ho visto nel senso che probabilmente ne avrò sentito parlare, l’avranno detto loro… (…) questo voglio dire, non è il Dpr, l’idea del Dpr, quello volevo dire, forse l’ho detto male, qualcosa.. Ma io non ho mai visto dove è nato questo Dpr (...).
Pm: Sembrerebbe però che lei abbia visto nell’ufficio della Ferraro qualche cosa...
D: Guardi, onestamente, io posso aver visto una… non so neanche una bozza, non so dire, una bozza no, cioé una proposta, una idea di proposta...
Pm: Sì, però lei aveva detto di non avere mai parlato con la Ferraro né con la Pomodoro di questo argomento. D: Ma io non l’ho visionata la bozza, io non ho visionato la bozza, io ho assistito alla parte in cui loro potevano aver ideato il provvedimento, cioè l’ideazione. Pm2: Però adesso ricorda di avere visto... D: Io un qualcosa che... cioé che stavano preparando la nomina, sì, ma io un foglio di carta decreto, per dire, che si chiama decreto, no. Pm: Le chiederei uno sforzo di memoria. D: Io ricordo (…), parlato con Franco Di Maggio, ho detto: ma che cosa vai facendo (…), e lui disse: no, no, ho deciso di fare in questo modo. Mi pare, cioé ricordo proprio davanti a me, che cominciarono a scrivere qualche cosa nella stanza accanto, che era poi la stanza di Falcone, la segreteria di Falcone, e ritengo che abbiano fatto questa parte del Dpr, però non ho mai letto nulla. Pm2: Lei lo ha detto tre volte: il decreto scritto, il Dpr scritto, il Dpr che lo faceva vice capo del Dap.
D: Ma l’idea… cioè io voglio dire... la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioé non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (…) Cioé io credo che tutto questo sia nato tra Pomodoro-Ferraro-Di Maggio.
Pm: Mi stranizza la possibilità che un magistrato vada al Ministero e dica: perché non mi nominate vice capo del Dap? Ma lei non chiese alla Ferraro spiegazioni?
D: E no perché la Ferraro era il mio direttore generale...
Pm2: Ma perché, perché la Ferraro? (…) Cosa c’entrava?
D: Ma probabilmente c’era un discorso di come redigerlo, adesso io non lo so... questo decreto non l’hanno fatto evidentemente alla Presidenza del Consiglio, l’avranno fatto probabilmente anche al Ministero della Giustizia (…) o almeno avranno scritto il pezzo del collocamento fuori ruolo, questo non lo so.
Pm: Sì, ci saremmo aspettati, la volta scorsa, che a questo punto si dicesse: non ne ho mai parlato, tuttavia ricordo che sono avvenute queste cose.
D: Ma io... cioé non lo ritenni significativo.
Pm2: Nella conversazione con Mancino lei lo cita come molto significativo! Lei dice: …questo è il problema, ricordo chiaramente il Dpr scritto nella stanza della Ferraro.
D: No, cioé io quando parlo di Dpr non parlo di Dpr che lei ha davanti, perché quello non l’ho mai visto (…), va bene questo pezzettino qui io non l’ho detto, ma (…) mi sembrava non particolarmente significativo.
Pm2: E allora perché lei ha parlato di decreto?
D: Ma perché, perché il decreto era l’effetto, non so se mi sono spiegato, era l’effetto. (…) Io vorrei dire che il presidente Mancino telefona tutti i santi giorni su questa... perché lui si sente costantemente sotto pressione...
Pm: Parliamo per ora di ciò che...
Pm2: Lei dice che “Di Maggio fosse favorevole all’alleggerimento del 41 bis lo escluderei”, nei confronti di soggetti che in qualche modo collaboravano ma non formalmente ma come confidenti, invece sembrerebbe dire di sì. E poi lei dice: “Questo era un discorso che riguardava nella parte 41 bis Mori, Parisi, Scalfaro e compagnia; per la parte di colloqui investigativi... un po’ sconsiderati oppure almeno un po’ facili, Di Maggio, Mori e compagnia.
D: Di Maggio per me è sempre stato contrario all’alleggerimento del 41 bis. Poteva essere, viceversa, nell’ottica della trattativa, che lui volesse agevolare i colloqui investigativi dei carabinieri, per avere confidenze dall’interno del carcere.
Pm2: Perché solo ai carabinieri?
D: Ma perché, nell’ottica di Di Maggio c’era una vicinanza maggiore ai carabinieri. La mia idea (…) è che Di Maggio aveva piacere ad utilizzare il colloquio investigativo.
il Fatto 22.6.12
E adesso il “bavaglio” è di nuovo in agguato
La Severino studia le modifiche per farla approvare
Il Pdl plaude al Capo dello Stato. Il Pd (per ora) è prudente
di Wanda Marra
Mi fa piacere notare che sulle intercettazioni noi del Pdl non siamo più da soli”. Il capogruppo in commissione Giustizia alla Camera, Enrico Costa ha un sussulto di entusiasmo, quando sente il capo dello Stato dire che c'è la necessità di una “larga” intesa politica sulla legge sugli ascolti. Un sussulto di sollievo rispetto a una riforma che gli sembra “indifferibile” e sulla quale l'accordo non c'è e che fino ad oggi non sembrava nemmeno troppo vicino. A renderlo possibile, però, potrebbe essere proprio la presa di posizione di Giorgio Napolitano.
Sono due anni che il bavaglio giace in Commissione Giustizia a Montecitorio, nella versione Alfano-Bongiorno. Ed è da quando è diventata ministro della Giustizia che Paola Severino cerca di resuscitarlo all’interno di un pacchetto complessivo sulla giustizia che finora è stato foriero di scivoloni sia per l’esecutivo, che per i partiti della maggioranza. “Noi non possiamo votare in nessun modo il testo nella versione Alfano-Bongiorno – dice Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd – ci sono troppe cose che non vanno. E siccome c’è un problema di doppie conformi (ovvero, alcune parti di testo che hanno avuto l’ok sia dalla Camera che dal Senato ndr), il provvedimento non è modificabile.
NON CI si può chiedere di cedere anche su questo testo”. Uno stop inaspettatamente netto da parte di Orlando che esprime l’estrema “prudenza” del Pd sulla materia (parola usata anche nello staff del segretario, Pier Luigi Bersani) al momento in cui il Colle chiede un intervento in materia e lo chiede evidentemente non solo al partito a lui più vicino (il Pd, appunto) ma anche a quello che ha finora mostrato più resistenze sulla questione. “Non si tratta di una posizione pregiudiziale sulla legge in generale, ma su questa legge in particolare”, spiega poi Orlando, ammorbidendo. Vicinanza elettiva al Quirinale o no, infatti, “de-v’essere il Ministro a proporci un altro testo”. Cosa che la Severino sta effettivamente cercando di fare. Tra i punti cardine del ddl in Commissione l’udienza filtro, un incontro tra il giudice e gli avvocati nel quale si decide quali “ascolti” possono essere inseriti nel fascicolo processuale. Fino a quel momento nulla può essere reso noto.
In realtà, la Severino ha in mente delle modifiche, in senso restrittivo, proprio su questo punto: starebbe al Gup e al Pm decidere quali intercettazioni trascrivere nell’ordinanza e quali sono pubblicabili. Modifiche sulle quali il Pd non chiude. “È un meccanismo che non ci convince del tutto”. E dunque, “andrebbe raffinato”. Ma intanto ad evitare ad ABC sia di misurare distanze eccessive (che sottolinea pure Roberto Rao dell’ Udc), sia di incorrere in trattative imbarazzanti, c’è una questione di tempi: il testo non è calendarizzato, e per ora non sono prevedibili i tempi.
INFATTI, il ministro sta cercando di capire con i tecnici di Montecitorio se c’è un modo per ovviare alla questione delle doppie conformi e dunque portarlo in aula - come vuole il Pdl - entro la fine di luglio. “A quel punto sarebbe un nuovo testo”, spiega Orlando, con una nuova apertura. Intanto, però, il “monito” di Napolitano non ha (ancora) sortito particolari effetti: il Guardasigilli parte domenica per Washington, da dove tornerà alla fine della prossima settimana. Per di più, nell’incontro che ha avuto ieri con i 'tecnici” della Giustizia della maggioranza, Donatella Ferranti e Orlando per il Pd, Costa per il Pdl e Rao per l’Udc, si sarebbe raggiunta un’intesa di massima sui criteri da adottare per ridisegnare gli uffici giudiziari, senza parlare di ascolti.
A cercare di bloccare preventivamente blitz improvvisi, ci pensa la Fnsi: “Non si capisce come si possa immaginare un intervento d'emergenza col metodo dello spread, in su questa materia. Questioni così delicate non si possono chiudere bruscamente con colpi di mano”
il Fatto 22.6.12
Niente leggi salvacasta
di Bruno Tinti, magistrato
Se il ministro Severino propone un testo sulle intercettazioni telefoniche che ne ammette la pubblicazione solo per quelle dichiarate penalmente rilevanti dal Gip mi rimangio tutto quello che ho scritto di buono sul governo Monti. Una legge del genere sarebbe una vera schifezza, un salva-casta indegno di un governo non condizionato dal veleno della politica clientelare. 1 . Se non si può pubblicare nulla prima dell’udienza del Gip in cui si decide quali intercettazioni saranno usate nel dibattimento e quali no, significa che comunque le intercettazioni pubblicabili arriveranno ai cittadini alla chiusura delle indagini. Solo allora accusa, difesa e Gip si riuniranno, esamineranno le intercettazioni e il giudice deciderà. Sicché i cittadini potranno votare un parlamentare riciclatore e corrotto senza sapere che ci sono intercettazioni da cui emergono questi reati. E siccome le indagini durano anche anni, i diritti dei cittadini a votare consapevolmente finiranno nel cestino. 2. Se si possono pubblicare solo le intercettazioni che saranno utilizzate nel dibattimento, i cittadini non saranno informati di tantissime circostanze rilevanti socialmente e politicamente. Lasciamo da parte il classico caso del parlamentare puttaniere e drogato che si fa eleggere con una campagna a difesa dei valori della famiglia, truffando chi in questi valori ci crede davvero. Pensiamo a una faccenda un po’ più concreta. Al magistrato che, per essere eletto procuratore della Repubblica chiede aiuto a un imputato in processo di mafia e a un politico. Per non restare nel vago è quello che è successo con il procuratore aggiunto di Napoli, Mancuso, che voleva diventare procuratore capo e ha chiesto aiuto al colonnello De Donno, imputato nel processo patto mafia-Stato, e a M.G (Maurizio Gasparri?). Secondo me è un reato, ma alcuni dicono di no. Se non lo è niente pubblicazione delle intercettazioni. Poi, un giorno, quel magistrato fa da giudice in un processo di mafia oppure in altro in cui è coinvolto il politico che lo doveva raccomandare. E nessuno lo sa: e nessuno lo può ricusare. 3. Chi lo decide quali sono le intercettazioni che si utilizzeranno nel processo? Il giudice. Che quindi decide implicitamente di quelle che si possono pubblicare. Così alla fine fare il giornalista significherà chiedere in cancelleria l’elenco delle intercettazioni “di rilevanza penale”; e pubblicarle tutte in contemporanea. Chissà che ne avrebbero pensato Montanelli e Biagi di questo modo di fare giornalismo. E comunque qualcuno si rende conto che così si attribuisce alla magistratura il potere di condizionare la politica? Sia chiaro che il confine tra rilevanza penale e no è sottile. Pensate all’esempio sub 2: se il Gip dice che l’intercettazione è penalmente rilevante è un comunista che complotta contro MG perché tutti sanno benissimo che “solo” di raccomandazioni si tratta; e se dice che non è penalmente rilevante è un fascista perché tutti sanno benissimo etc. Un balsamo per i rapporti tra poteri dello Stato. Per il 4 (no all’intercettazione inequivoca ma sì alla denuncia calunniosa e diffamatoria), il 5 (l’archivio segreto e i ricatti) e il 6 (ma davvero vi volete intruppare con B&C?), non ho più spazio. Però io le intercettazioni “non penalmente rilevanti” le pubblicherò lo stesso, se si tratterà di informazioni doverose. E ho già una strategia processuale mica male per farla franca...
l’Unità 22.6.12
«Renzi premier io al Colle»: bufera sul piano del Cav
di Federica Fantozzi
Un dossier (anonimo) rivela i progetti di Berlusconi per il 2013. Pdl azzerato, listone civico e nework in salsa grillina. Dei suoi salva solo Verdini
Alla vigilia della tre giorni toscana di Matteoli, lanciata al grido struggente di «io resto nel partito», e in pieno svolgimento della prima assemblea dei Giovani a Fiuggi, nel Pdl scoppia la bomba. L’Espresso ghermisce e pubblica un dattiloscritto riservato (destinato, scrivono Marco Damilano e Tommaso Cerno, a un cerchio ristrettissimo di notabili del partito) con il «piano B» di Berlusconi per vincere le elezioni 2013. Candidato choc, l’unica carta ritenuta un jolly: Matteo Renzi.
Insomma, sembra che avesse ragione La Russa: Berlusconi si mette a fare l’allenatore delle altre squadre. Ma chi ha scritto le otto tragicomiche paginette al veleno? Trattasi di strategie belliche messe nero su bianco o di patacca diffusa con intenti satirici? Di certo, per chi conosce il Cavaliere, il contenuto è in linea con la sua filosofia. Fa pensare a un “volonteroso” collaboratore che ne abbia strutturato (molti) brandelli di pensiero.
L’esito non piace al sindaco di Firenze che a caldo sbotta «è un dossier ridicolo, che schifo», e poi si allinea ai toni goliardici: «Per la mia lista hanno firmato anche Capitan Uncino e Jack lo Squartatore. Ma accetto solo se me lo chiede il mostro di Lochness». Per lui è un colpo basso: il rilancio della «grande stima» del Cavaliere nei suoi confronti giunge a ridosso della sua convention a Firenze.
In realtà, il dossier è devastante soprattutto per la già vacillante autostima del Pdl. Titolo: «La Rosa tricolore» con il logo stilizzato del fiore che era il nome dell’amata mamma di Silvio. E che dovrebbe diventare il network della variopinta armata berlusconiana. Segue una summa delle indiscrezioni che circolano (svuotamento del Pdl, azzeramento vertici, listone civico nazionale, liste varie ed eventuali dagli animalisti alla Destra, il tutto in salsa grillino-tecnologica) con finale a sorpresa. Candidato premier (al netto di Berlusconi «se si sente il grande fuoco dentro», annotano sobri gli estensori) da pescare fuori dal partito. Non certo Alfano «che non va oltre il suo mondo (quale? ndr) e non crea trascinamento ed emozioni». Né Montezemolo «troppo elitario e tentennante». Manco Passera «privo di carisma e capacità decisionali forti». L’idea «folle o geniale» per vincere è appunto Renzi. Non chiedendoglielo direttamente («rifiuterebbe») bensì con un percorso in più tappe. Bisogna che il sindaco faccia la sua lista, «apra a tutti coloro che condividono il suo programma, ovviamente preventivamente concordato... a quel punto la coalizione di centrodestra decide di sostenerlo». Lista Renzi e Forza Silvio (o Forza Italiani) insieme al traguardo. Che, per Berlusconi, sarebbe il Quirinale. E le primarie Pd di ottobre? Secondo quel testo sono una chimera.
PDL GRADIMENTO ZERO
La considerazione del Pdl che traspare dal testo è illuminante: al momento «l’elettorato italiano è scosso dal disgusto verso la classe dirigente politica in carica». Nelle urne il partito subirà «un forte calo ulteriore» perché «non rinnovabile»: i big sono «attaccati al privilegio e considerano fondamentale solo la sopravvivenza di se stessi. Miracolati irriconoscenti appiccicati sulle spalle di Berlusconi». Allora tutti a casa, «i professionisti della politica». Drasticamente: «La vera svolta sarebbero le loro dimissioni, la scomparsa da video e giornali e la non ricandidatura». Uniche eccezioni: Verdini (per l’«eccezionale capacità di lavoro»), il lombardo Mantovani (sponsor della Minetti) e i parlamentari di primo mandato.
Così, liberi della zavorra, via con il movimento leggero, high tech, senza finanziamento pubblico nè pretese esose verso Silvio (ci pensano gli sponsor). Poi un patchwork di liste di genere: Forza Imprenditori, Forza Pensionati, ci sono pure Forza Pubblici Dipendenti e sic Forza Lavoratori. Potenziali alleati: Sgarbi, Storace, «SiAmo l’Italia« di Bertolaso, Santanchè, animalisti, neo-Dc, sindaci e Autonomisti, Lista Sud e Lista Nord. Tutti insieme appassionatamente verso il 37-42%. Magari sostenendo come quinta colonna «il gruppo di Marco Rizzo affinché si presenti alle elezioni». Solo il programma (a parte il presidenzialismo) è d’antan: via l’Imu, addio intercettazioni, torna il contante, abolita Equitalia, no carcere preventivo, e statuto speciale per ogni regione.
Sembra tutto troppo divertente per essere vero. Ma l’Espresso ha fatto una verifica: il dominio web di Rosa Tricolore è stato registrato il 23 aprile da Diego Volpe Pasini, imprenditore amico di Dell’Utri e Verdini approdato nel «cerchio magico» di Palazzo Grazioli. Che in serata confessa. «Idea mia, Renzi non sapeva nulla, Silvio ci sta pensando».
il Fatto 22.6.12
Il Pdl - Bagaglino: il piano rinascita con Renzi premier
L’ha scritto Volpe Pasini, amico di Sgarbi: vuole B. al Quirinale
di Carlo Tecce
Nove pagine dattiloscritte, un frontespizio con il simbolo di una rosa tricolore che ricorda il garofano socialista. Un titolo ambizioso: “Un progetto per vincere le elezioni politiche”. Liste civiche: Forza Lavoro, Forza Giovani, Forza Donne. É un intervento di chirurgia plastica per il centrodestra, il necrologio del Pdl, l’eterno riscatto di Berlusconi (al Quirinale) e la sorpresona Matteo Renzi a Palazzo Chigi.
L’ha diffuso l’Espresso. L’ha scritto Diego Volpe Pasini, romano di nascita e friulano di residenza, matrice Forza Italia, amico di Sgarbi. Dicono che l’abbiano concepito Denis Verdini e Marcello Dell’Utri. Poi la situazione è sfuggita di mano.
Diego Volpe Pasini, è stato lei?
Sì, lo ammetto.
Solo lei.
Stimo Verdini e Dell'Utri, ma è opera mia.
Il piano di rinascita per il centrodestra.
Di salvezza, resistenza e vittoria.
Senza Berlusconi.
Deve aiutarci a recuperare lo spirito liberale. Vuole il bene degli italiani, si sacrifica.
C'è Renzi.
Un'ipotesi di scuola, un suggerimento dei sondaggi.
Bocciato Angelino Alfano.
Un fallimento. Ha annunciato la sconfitta elettorale, invece, semplicemente non avevamo vinto.
Che fa, caccia il segretario?
No, lui non si dimette, ma se ne vadano i suoi. Io non sono nessuno, non ho chiesto soldi o favori al nostro presidente.
Scusi, lei chi è?
Un imprenditore agroalimentare, politico per passione. Vorrei risvegliare il popolo italiano non di sinistra.
Quando ci ha pensato?
A una cena di famiglia con i miei suoceri, elettori di destra, classe media. Mi hanno illuminato: siamo disponibili a votare Renzi, anche se vogliamo ancora Berlusconi.
Che avete mangiato?
Salami, formaggi, verdure. E da bere un leggero rosso friulano.
Che dice il Cavaliere?
A volte condivide, a volte non condivide. Un po’ gli piace questo documento. Soffre, però.
Lo vuole statista?
Ispiratore o garante. Semmai al Quirinale. Non dica menzogne, non alluda ai festini: stupidaggini. A me piacciono le donne, anche a lui e credo pure a lei. La villa di Arcore è un posto meraviglioso.
SOLTANTO un simpatico umorista poteva tradurre in prosa quei pensieri che Berlusconi ingurgita con disgusto sputando raramente: un partito in liquidazione; un esercito di colonnelli in pensione; un alleato straniero; l’analisi di Beppe Grillo; la grazia divina a Verdini e Dell'Utri; la condanna per Alfano che “non va oltre il suo mondo”.
Un repulisti totale: fuori La Russa, Gasparri, Frattini, Quagliariello, Cicchitto, Matteoli, Brunetta, Sacconi, racconta l’Espresso.
E poi la pagella per un gruppo di invasori: Luca Cordero Monzemolo “troppo elitario”, Corrado Passera “privo di carisma”.
L'ideona: Renzi, il giovane 37enne, già adorato ospite ad Arcore. Ah, senza dimenticare le tasse che evaporano e il mantello giudiziario a B. che torna armato. Il sindaco di Firenze ha levato le gambe ai primi fuocherelli: “Cose ridicole, non è la prima e non sarà l'ultima. Che schifo”. Il trattato di Volpe Pasini va ribaltato. E diventa un petardo fra le macerie dei berlusconiani, che maledicono l'amico di Sgarbi appena ricostruiscono la sua identità. Paolino Bonaiuti è in panico: “Forse lo conosco, forse no. Faremo un comunicato, credo”.
Ecco il comunicato, tre ore più tardi, un cesario dopo lunghi travagli: “Non esiste nessun piano segreto che riguardi il presidente Berlusconi. Nessuna operazione rosa tricolore né rossa né gialla. Nessun progetto in due, tre, quattro, cinque mosse per andare al Quirinale”. Quel che è certo per il Pdl è che qualsiasi cosa è incerta: fanno le civiche con Guido Bertolaso e Vittorio Sgarbi, no fanno le primarie e poi le civiche. In sintesi: le primarie civiche o le civiche primarie, visto che l'ex ministro Brambilla vuole difendere gli animali compresi i primati.
L’aveva previsto Alberto Sordi (il Tassinaro): “Il mio motto è partecipare. Per cotica che è il più piccolo e porta le pulci a casa... ”. E via con la morra per decidere. Così funziona a palazzo Grazioli. Dove vallette, cantanti, attori, politici, maghi, chiromanti arrivano e depositano la soluzione finale. Quando c'è un rigagnolo di verità, disperso fra tanti deliri, c'è sempre Sgarbi. Che rivela con tono sommesso: “Questo è un colpo di genio di Volpe. Viene sempre con me, lui parla di politica, io di arte, politica, spettacoli. Si è fissato per questa cosa di Renzi, per colpa mia”.
Com 'è successo? “Eravamo io e Renzi a Otto e mezzo. Ho detto: Matteo, fra quelli di sinistra sei il più amato a destra. Lo spiegano i sondaggi. Ma lui mi rispose con i suoi valori di sinistra. Tutto qua. Ne abbiamo discusso con Berlusconi, soltanto che non sono riuscito a interpretare i suoi movimenti facciali. Renzi è un ragazzo garbato e gentile, ma noi qui dobbiamo scegliere come arginare Grillo e come perdere con onore. Sai, che B. si fida tanto di me? ”.
l’Unità 22.6.12
Lusi, prima notte a Rebibbia «Ora dirò tutto»
L’ex tesoriere della Margherita non ha dormito: studia le carte per l’interrogatorio
di domani
di Susanna Turco
ROMA Fuori dalla bolla, nel mondo per così dire normale che frequentava fino a ieri, una accozzaglia di politici davvero curiosa nel suo insieme – da Marcello Dell’Utri ad Alfonso Papa, passando per Storace e Micciché– fa il girotondo intorno ai perché e i per come della decisione presa dal Senato che mercoledì ha votato per autorizzare il suo arresto. Dentro la bolla, vale a dire in regime di isolamento nel carcere romano di Rebibbia, Luigi Lusi svolge le normali funzioni di un essere umano che stia in galera e riesca a controllare le sue emozioni (ha dormito poco, incontrato il cappellano, si è commosso parlando dei suoi quattro figli e soprattutto della più piccola che ha due anni, è preoccupato per la moglie che sta ai domiciliari) e in più studia le carte che lo riguardano e che fanno di lui tutt’altro che un normale detenuto.
Migliaia di pagine che ieri il senatore non aveva con sé («non posso girare con una valigia») ma che adesso ha tutto l’agio di rivedere, in vista dell’interrogatorio previsto per sabato alle due del pomeriggio, sempre a Rebibbia. Che abbia l’intenzione di parlare l’aveva già anticipato alla fine della Seduta del senato: «Ai pm non ho ancora detto tutto. Ci sono una marea di approfondimenti da fare, e io sono pienamente disponibile», aveva spiegato ai giornalisti. «Farà un interrogatorio completo e risponderà a tutte le domande dei giudici e dei pubblici ministeri», ha confermato ieri il suo avvocato Luca Petrucci: «È sereno e fiducioso, sta per aprirsi una nuova fase che affronteremo con determinazione».
VERSIONE DEFINITIVA
Niente memoriali, a quanto si apprende da una fonte qualificata: piuttosto, l’intenzione è quella di fornire «un’accurata e dettagliata, nonché definitiva, versione della vicenda finanziaria del partito dicendo tutto ciò che sa e suffragando i fatti che riferirà con prove e carte».
È la conseguenza naturale degli eventi, del resto, e anche ciò che l’ex tesoriere della Margherita aveva già detto da tempo di voler fare, parlando in confidenza con alcuni suoi colleghi senatori. È ma l’indicazione appare superflua anche ciò che gli consiglia via blog Beppe Grillo in toni lugubri: «Parli, lo faccia al più presto senza tralasciare alcun dettaglio. Pisciotta e Sindona, e forse anche Don Verzé, insegnano che un caffè corretto in carcere non manca mai». Più realisticamente, il fondatore del Movimento 5 Stelle prevede, al netto dei caffé, che “Angry Lusi”, vale a dire Lusi arrabbiato, «in carcere parlerà, coinvolgerà, accuserà. Il suo processo diventerà un tormentone, che durerà fino alle prossime politiche, alla dirigenza della ex Margherita», che col voto di mercoledì al Senato «si è suicidata».
LE CONTRADDIZIONI DEL PDL
Fuori dalla bolla, si diceva, il mondo politico fa i conti con una decisione che il presidente della Giunta per le immunità del Senato Marco Follini definisce l’assunzione di una «responsabilità imbarazzante, dolorosa ma inevitabile». Le contraddizioni sono venute a galla soprattutto nel Pdl, che non partecipando al voto si è risolto in una scelta davvero inedita per la sua storia di iper garantismo (a volte ai confini con l’impunità). «Questo non è il partito che conoscevo e la cultura in cui mi sono riconosciuto per anni», ha detto ieri Marcello Pera: «Molti senatori del Pdl volevano assecondare l'opinione pubblica. Ho sentito la fifa blu di alcuni colleghi, e ho visto poca di quella civiltà che ci vorrebbe per sconfiggere l’antipolitica», ha detto il senatore, dando voce al disagio che non pochi hanno sentito, anche magari esprimendolo soltanto con uno sfoglio di giornali apparentemente distratto, come quello implacabile del pur silente Beppe Pisanu.
il Fatto 22.6.12
“Parleremo, abbiamo tante cose da dire”
Le minacce di Antonino Lusi, fratello dell’ex tesoriere della Margherita
di Davide Vecchi
In Senato mercoledì è andato in scena uno spettacolo di uno squallore senza limiti”. Antonino Lusi è il fratello maggiore di Luigi, l’ex tesoriere della Margherita, l’ultimo senatore della Repubblica ad aver varcato l’ingresso di Re-bibbia. Sindaco di Capistrello, piccolo paese in provincia de L’Aquila, feudo della famiglia Lusi, Antonino ha assistito alla seduta di Palazzo Madama. “Uno squallore, li ho visti uno a uno in volto: mentre mio fratello Luigi parlava annuivano ma poi l’hanno mandato in carcere, come per pulirsi la coscienza: sono comunque responsabilmente coinvolti anche loro”.
Chi?
Cominciamo dal Pd. A febbraio hanno espulso Luigi dal partito con una procedura al limite del legittimo, senza neanche sentirlo. Capisco la scelta sul piano politico, ma non c’è stato alcun tentativo di dividere la vicenda tra giudiziaria e politica. Mercoledì in aula hanno fatto intervenire per il gruppo Zanda, uno che deve tutto a Rutelli, allucinante. Quasi una provocazione. Politicamente i lavori di mercoledì sono di una gravità infinita.
Lei i meccanismi parlamentari li conosce bene: è entrato in Senato vincendo un concorso nel 1982 da consigliere parlamentare, poi è stato segretario di commissione e capo legislativo di vari ministeri tra cui quello di Pier Luigi Bersani, l’Industria, all’epoca del primo governo Prodi.
Esatto, per questo posso dire che ho assistito a una seduta vergognosa, imbarazzante. Per quanti errori possa fare la magistratura io la preferisco comunque alla giustizia politica.
Lei è ovviamente coinvolto, mercoledì sera si è commosso.
Mio fratello è andato in carcere anche per colpe non sue. Io confido nel lavoro dei pm, aspettiamo l’interrogatorio di sabato prossimo e vediamo cosa accadrà poi parlerò se sarà necessario e di cose da dire mi creda ne ho molte.
Sui conti della Margherita che gestiva suo fratello?
Su molto, a partire dai vertici di partito: li conosco bene da ben prima di Luigi, ma non voglio irritare nessuno, non è questo il momento di polemizzare. Ripeto: confido nel lavoro dei pm e aspetto.
Mercoledì cosa l’ha maggiormente colpita?
Tutto. Il Pdl ha fatto finta di non votare ma ha garantito il numero legale. È chiaro che c’era un accordo sottobanco. Si sono assicurati Di Gregorio e hanno dato in pasto al Pd il lupo cattivo Lusi. L’intervento di Li Gotti è stato interessante: ha messo in linea tutta la debolezza sia del parere espresso dalla giunta sia di quello che sappiamo dell’indagine. Un intervento che ha costretto il suo capogruppo, Belisario, ha prendere la parola per dire “l’Idv vota per l’arresto”.
Poi?
Non insista la prego, guardi. Mi ha scioccato Emma Bonino. In Aula ha risposto a mio fratello dicendo: “Io ho pagato per le mie scelte”. Ha pagato? Cosa? Rappresenta un partito che a male pena arriva al due per cento, è vicepresidente del Senato, prima era a Bruxelles, poi a Roma, è stata ministro nel governo Prodi dopo esser stata nominata commissario europeo durante un governo Berlusconi; ma le pare? Che faccia tosta, neanche in Vaticano. Assurdo, uno spettacolo assurdo, indecente. non mi faccia parlare.
Allora non insisto.
Lei lo ha sentito Follini? Ho sempre avuto una grandissima stima di lui ma ieri è stato penoso, penoso. Follini ha letto un ordine di scuderia: ha sparato in un modo non degno di lui.
Dalla giunta era arrivata un’indicazione chiara.
Ecco sì, parliamo della giunta bene. Una giunta che dovrebbe esprimersi nel giuridico e finge di non sapere che l’accusa di associazione a delinquere è stata aggiunta in un secondo momento. Via, siamo seri. Fanno le personcine per bene a parole si danno un tono e poi esprimono giudizi da lavandaia, con tutto il rispetto per le lavandaie.
Capisco la sua rabbia
Nessuna rabbia, semmai delusione. Luigi ha fatto un discorso altissimo, ha recuperato una grande dignità, ha chiesto scusa per gli errori commessi e dei suoi gesti. Un discorso alto. Questo senatore pagherà un prezzo altissimo, già i miei figli e mia nuora sono stati coinvolti pesantemente in tutta la vicenda.
I suoi figli sono i nipoti a cui Lusi avrebbe dato soldi della Margherita per fargli acquistare casa, mentre sua nuora è Giovanna Petricone moglie dell’ex tesoriere oggi agli arresti domiciliari.
Ecco, la situazione è pesantissima, i miei figli sono distrutti. loro con mia nuora sono delle vittime. Io, per ora, non sono ancora indagato.
Ma hanno comprato la casa con i soldi della Margherita?
Ma neanche per scherzo. Sono distrutti da questa vicenda, non c’entrano niente. Sono vittime: hanno colpito indiscriminatamente tutti quelli che potevano ma nessuno ha fatto controlli veri, nessuno a parte la magistratura spero.
Come spera?
Io ho 67 anni, sono sindaco a titolo gratuito, ho visto molto e molto ho fatto: non mi stupisco facilmente. Mi stupirei se l’indagine sia tutta qui e spero che non sia così. Aspettiamo la prossima settimana, vediamo.
Suo fratello Luigi ha sempre detto “valgo meno della scarpa bucata di Antonino”.
È un brav’uomo, ha fatto il suo lavoro bene e sta pagando per questo.
Paga anche per altri quindi?
Non insista, la prego.
Corriere 22.6.12
Nel dossier di Gotti Tedeschi le mail con i prelati sul San Raffaele
È un fascicolo corposo e che potrebbe consentire passi avanti nell'inchiesta per bancarotta sulla gestione del San Raffaele da parte di don Verzé e del suo braccio destro — morto suicida — Mario Cal, quello che l'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi aveva raccolto e che, dopo essere stato sequestrato nel corso di una perquisizione disposta dalla Procura di Napoli, sarà acquisito da quella di Milano. Gotti Tedeschi aveva archiviato non soltanto la sua fitta corrispondenza con alti prelati in merito all'ipotesi (caldeggiata dal segretario di Stato vaticano cardinale Tarcisio Bertone ma respinta dal banchiere) di intervento dello Ior per salvare l'ospedale. Tra le carte che saranno consegnate al pubblico ministero milanese Laura Pedio ci sarebbero numerosissimi documenti di analisi contabile e di valutazioni dei bilanci del polo ospedaliero che partirebbero all'incirca dal luglio scorso. L'indagine della Procura milanese punta a stabilire se dai bilanci del San Raffaele siano state distratte ingenti somme — si ipotizza cinquanta milioni di euro — per il pagamento di tangenti, e i documenti sequestrati a Gotti Tedeschi entreranno ora a far parte formalmente degli atti investigativi. Il banchiere — che non è indagato ma testimone — ha già da giorni espresso la volontà di fornire ai magistrati tutte le spiegazioni che gli verranno richieste, e non è da escludere, quindi, che sia presto ascoltato anche dai pm milanesi, così come già è avvenuto, e molto probabilmente avverrà ancora, con quelli di Napoli e di Roma. Le divergenze con Bertone relative all'intervento dello Ior sul San Raffaele, inoltre, sarebbero, secondo Gotti Tedeschi, uno dei motivi del suo siluramento dal vertice della banca vaticana. Intanto entro la fine di giugno, i magistrati romani e napoletani interessati per le proprie inchieste al materiale sequestrato a Gotti Tedeschi si recheranno a Milano per proseguire l'esame dei 47 faldoni sequestrati nell'abitazione e negli uffici del banchiere.
Repubblica 22.6.12
Diaz, l’ira dei poliziotti: “Non ci fanno parlare”
Una circolare vieta ogni commento, gli agenti incontrano il regista del film sul G8
di Michele Smargiassi
BOLOGNA — «Articolo 3, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale... »: Santino Triolo, agente antidroga della Mobile, prende per primo il microfono e inizia a leggere la Costituzione, con enfasi ed emozione, si capisce che pensa «questo almeno me lo lasceranno dire». Fremono dietro al bavaglio i poliziotti, è un dibattito soffocato questo sulla «Democrazia nella Polizia», nel quale i poliziotti non possono parlare, anche se l’hanno organizzato alcuni di loro, con un’associazione di solidarietà alle «vittime dell’illegalità», a Bologna, la città della Uno bianca.
Non possono parlare perché una tortuosa circolare del ministero degli Interni del 15 marzo scorso, «in relazione a pellicole cinematografiche che affrontano la ricostruzione di eventi relativi ad attività di polizia», glielo vieta, una circolare uscita nell’imminenza della sentenza di Cassazione (via via slittata fino al 5 luglio) sul destino dei 25 poliziotti e dirigenti già condannati in secondo grado per il massacro della scuola Diaz al G8 di Genova. E qui, sotto il tendone afoso di un centro ricreativo all’estrema periferia di Bologna, si parla proprio della Diaz, c’è il regista del film presentato alla Berlinale, Daniele Vicari, che solidarizza coi tacitati: «Un divieto puerile, un misto di debolezza e convenienza », ci sono magistrati che indagarono sulle stragi come Claudio Nunziata e Libero Mancuso, ci sono politici come Salvatore Vassallo deputato Pd, ma i protagonisti dovevano essere loro, i poliziotti, nonostante il bavaglio ne sono venuti alcune decine, alcuni da lontano, li ringrazia al microfono Luigi Notari del Siulp bolognese, sfidando il suo stesso segretario nazionale Romano che ha dissociato il sindacato da «questa iniziativa francamente discutibile per la tempistica». Ma sul palco i poliziotti non saliranno, resteranno invece, amareggiati, in platea, come Massimo Cirino, ad esempio, che a parte si sfoga, «Perché questa circolare? Lo sappiamo già che serve l’autorizzazione per partecipare a un dibattito, perché ricordarlo proprio adesso? A me quelle quattro righe inutili sono sembrate un avvertimento », e si trattiene da andare oltre. Parlano però con gli applausi scroscianti quando L’ex magistrato Mancuso ricorda che gli imputati eccellenti per i fatti di Genova «sono stati promossi, premiati per il massacro» (voce dal fondo «che fine ha fatto De Gennaro?»), o quando Vicari ricorda che «l’uso legittimo della forza non legittima la violenza». Ci sono diversi giovani militanti di estrema sinistra in platea, loro sono liberi di parlare e lo fanno con crudezza. «Io chiedo conto a voi poliziotti della vostra ideologia fascista, sentiamo quello che ci dite quando ci avete davanti», grida nel microfono Riccardo, «io non ci credo più agli anticorpi democratici nella Polizia, io vi chiedo semplicemente di disertare». È un’occasione di dialogo perduta, i poliziotti vorrebbero rispondere, dire la loro, spiegare che «quando ti convocano per un’adunata alle quattro del mattino e ti ordinano di fare irruzione, non ti dicono se ti troverai di fronte dei pericolosi terroristi o dei ragazzini », vorrebbero dire come un altro agente della Mobile che «la gestione della sicurezza quella notte a Genova è stata un grande errore di valutazione», vorrebbero dire, come un poliziotto in congedo sconfortato mormora nelle ultime file, che «un poliziotto è un uomo come tutti e può sbagliare, magari gli cedono i nervi dopo giorni di tensione, ma la vera colpa è di chi lo sa, e sfrutta apposta la sua situazione psicologica». Ma possono farlo solo alla fine, nei capannelli del
dopo-dibattito.
Parla pubblicamente per tutti allora, emozionato, teso («Sto rischiando molto») Santino, quello che ha letto la Costituzione: «Noi prima che poliziotti siamo cittadini di questo paese, abbiamo opinioni, vorremmo dirle. Non poterlo fare è assurdo e amaro». Maurizio Matrone non è più poliziotto, oggi scrive romanzi gialli, e non è zittito dalle circolari: «È incredibile che in Italia chi deve far rispettare la Costituzione non possa parlare in nome della Costituzione. Se abbiamo paura delle parole di un poliziotto non siamo davvero un paese democratico».
La Stampa 22.6.12
L’Europa porta in Italia il patto sul divorzio che verrà
di Carlo Rimini, Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano
Il 21 giugno 2012 è una data importante per l’Europa delle persone. Mentre l’Europa dei denari arranca fra angosce e speranze, l’Europa dei cittadini avanza lentamente. A partire da oggi, è efficace in quattordici Stati dell’Unione il Regolamento europeo n. 1259/2010 sulla legge applicabile al divorzio. Le norme comunitarie contengono novità importanti: avranno un effetto immediato nei nostri tribunali, ma sono anche l’occasione per una riflessione più ampia. Di che cosa si tratta? A partire da oggi, i coniugi – già al momento del matrimonio – possono fare un patto con cui scelgono la legge che sarà applicabile al loro eventuale futuro divorzio. Gli effetti pratici saranno immediati. Si assisterà sicuramente ad una fuga dalla legge italiana, poiché, come è noto, l’Italia è uno degli Stati in cui i coniugi che non vanno d’accordo sono costretti ad aspettare più tempo prima di ottenere il divorzio (tre anni dal momento in cui il giudice ha autorizzato gli sposi a vivere separati). La possibilità di scegliere che il giudice italiano applichi una legge straniera per pronunciare il divorzio è però da oggi possibile solo quando uno dei coniugi ha una cittadinanza straniera oppure quando i coniugi, entrambi italiani, sono o sono stati, anche per un periodo molto breve, residenti all’estero.
Non è difficile immaginare che questa possibilità sarà sfruttata anche da coloro che, pur essendo entrambi italiani e da sempre residenti in Italia, vorranno divorziare subito: basterà accordarsi per prendere per un breve periodo una residenza in uno Stato che ammette il divorzio immediato. Ciò dovrebbe far riflettere il nostro legislatore che, proprio in questi giorni, sta discutendo sull’opportunità di abbreviare i tempi per ottenere il divorzio in base alla legge italiana. In Italia (ormai quasi solo in Italia!) una parte significativa del Parlamento è ancora convinta che sia una politica efficace a favore della famiglia obbligare le persone a rimanere separate per tre anni prima di divorziare. Che senso ha questo dibattito quando due coniugi italiani possono ottenere da un giudice italiano la pronuncia del divorzio immediato, semplicemente fissando per qualche mese la loro residenza all’estero?
Vi è poi un secondo aspetto per cui il Regolamento europeo n. 1259 è importante. Le nuove norme costituiscono una vera e propria rivoluzione culturale. Il nostro diritto di famiglia si è sempre basato su un principio che appariva indiscutibile: qualunque patto in vista di un futuro divorzio è nullo. L’accordo con cui due sposi si occupano di disciplinare in anticipo che cosa accadrebbe nell’eventualità di un futuro divorzio veniva considerato dalla legge italiana e dalla nostra giurisprudenza come una sorta di patto con il demonio o, più semplicemente, come un’americanata, una cosa da film hollywoodiano. Le nuove norme europee, invece, considerano naturale che i coniugi stipulino un patto in vista del loro futuro divorzio. Il Regolamento comunitario obbliga i nostri giudici a considerare valido solo il patto con cui viene scelta la legge destinata a regolare il divorzio e non si occupa dei patti con un contenuto economico, ma un primo passo è stato fatto: gli accordi in vista del divorzio non possono più essere considerati come intese immorali.
Insomma, il nostro diritto di famiglia appare arretrato al confronto con l’aria fresca che viene dall’Europa. Il nuovo Regolamento europeo ci permette di capire quanto siamo rimasti indietro, vittime di alcuni pregiudizi ideologici.
Corriere 22.6.12
L’eterno gioco dell’oca con i rifiuti. Roma alza bandiera bianca
Ormai è un gigantesco gioco dell'oca. A turno, il commissario per i rifiuti, la presidente della Regione, il sindaco di Roma, il presidente della Provincia, il ministro dell'Ambiente tirano il dado. E spunta una nuova proposta di discarica. Può succedere che si torni alla casella iniziale (è già capitato con Pian dell'Olmo), che si resti fermi un giro (bocciatura di Corcolle) e anche l'ultima casella è segnata: 29 giugno, tra una settimana, data entro la quale il neocommissario all'emergenza Goffredo Sottile si è impegnato — complici i vincoli europei — a consegnare una soluzione (si spera e si suppone definitiva).
L'unico effetto positivo di questa vicenda è che non si mai parlato così tanto dei rifiuti e di riciclo nella città di Roma, allergica per struttura urbanistica, per riserva mentale di una parte degli abitanti e per scarsa dedizione degli amministrazioni a qualsiasi forma di differenziata.
L'Unione europea ha sospeso nei giorni scorsi la procedura di infrazione, raccomandando che si faccia come è scritto nel Piano rifiuti presentato di recente dalla Regione. Ma lo spettacolo delle ripicche, dei sospetti e dei cambi inaspettati di linea non lascia ben sperare. L'amministrazione e la politica hanno alzato bandiera bianca, anzi si sono ritagliate il ruolo di censori delle decisioni del commissario, invece di guidare le scelte per la città. E del resto nessuno negli anni passati si è mai seriamente posto il problema di programmare la fine delle discariche, l'avvio di una differenziata degna di questo nome. Oggi, a una settimana dalla scadenza dei termini per trovare una soluzione, qualsiasi proposta è tardiva e inadeguata. Manca il tempo per programmare e per sistemare i siti. E allora diventa facile smontare qualsiasi ipotesi, il no è semplice e deresponsabilizzato. È più appagante sfilare con chi protesta che sostenere la necessità di una capitale di occuparsi dei suoi scarti.
Resta da chiedersi se questi non finiranno per travolgere la città. E anche la sua campagna elettorale.
Gianna Fregonara
Sette del Corsera 22.6.12
La crisi dell’euro può aprire le porte al federalismo
di Sergio Romano
qui
Sette del Corsera 22.6.12
...così l’Europa ora sogna i suoi Stati Uniti
di Danilo Taino
qui
Corriere 22.6.12
«Breivik è malato» Invece del carcere chiesto il manicomio
Le conclusioni dell'accusa al processo
di Maria Serena Natale
Cure psichiatriche a vita invece del carcere. La pubblica accusa ha chiesto che Anders Behring Breivik, l'autore della strage di Utoya, in Norvegia, dello scorso luglio, sia dichiarato incapace di intendere e di volere e finisca i suoi giorni in un manicomio. Breivik aveva dichiarato che una condanna di questo tipo «sarebbe stata peggio della morte».
«Sarebbe peggio della morte» aveva detto l'imputato all'apertura del processo che si chiude oggi dopo dieci dolorose settimane. Ieri la pubblica accusa ha chiesto che il suo incubo diventi realtà: Anders Behring Breivik dev'essere dichiarato incapace d'intendere e volere e finire i suoi giorni in un centro psichiatrico. La parola passa ai giudici che entro l'estate dovranno emettere il verdetto sulle stragi del 22 luglio 2011, il peggior massacro compiuto in Norvegia dal Dopoguerra. Prima di lasciare l'aula, Breivik ha ripetuto il saluto da «combattente» con il pugno sul cuore e il braccio destro teso al quale aveva rinunciato dopo le prime udienze su richiesta degli avvocati. Un richiamo estremo al suo «credo» anti-multiculturale, che la difesa dovrà ripercorrere oggi nell'arringa finale.
Troppi dubbi. «Non siamo convinti né sicuri che Breivik non sia penalmente responsabile», così i procuratori Svein Holden e Inga Bejer Engh hanno motivato la loro conclusione. Resta sfuggente la verità più intima di questo 33enne che rivendica le piene facoltà mentali, riconosce di aver ucciso a sangue freddo 77 persone e chiede l'assoluzione perché «ha agito per salvare la Norvegia e l'Europa» abbandonate dalla politica all'onda dell'islamizzazione.
Indefinibile l'origine della furia che lo ha portato a piazzare un furgone imbottito di 950 chili di esplosivo nel centro della capitale e far rotta subito dopo, travestito da poliziotto, sull'isola di Utoya dov'era in corso il campo estivo dei giovani del Labour norvegese (il partito del premier Jens Stoltenberg): ne ha uccisi 69 con una pistola e un fucile d'assalto, 34 avevano tra i 14 e i 17 anni. Uno dopo l'altro, in un inseguimento tra i boschi durato 75 minuti e scandito dalle grida di guerra che i sopravvissuti hanno descritto al tribunale di Oslo.
Gli psichiatri hanno rinunciato a una diagnosi definitiva, nel primo dei due rapporti preliminari l'attentatore risultava affetto da schizofrenia paranoide; il secondo invece, pur riconoscendo gravi disturbi della personalità, non riscontrava psicosi.
Meglio rischiare di sottoporre a trattamento medico obbligatorio un soggetto sano che mandare in prigione un individuo malato, è il ragionamento dell'accusa, che ha puntato soprattutto a dimostrare l'inesistenza della rete di Cavalieri templari costantemente evocata da Breivik per dare forza alla sua «ideologia».
«È piuttosto triste che lo stato psichiatrico del mostro di Oslo sia diventato l'argomento centrale di questo caso — ha dichiarato l'imputato in una delle ultime deposizioni — le udienze si sarebbero dovute concentrare sulle basi politiche e le cause».
Se i giudici confermeranno la linea dell'accusa, Breivik potrebbe restare in cura tutta la vita. In caso di comprovata responsabilità penale, i procuratori chiedono la pena massima di 21 anni in un carcere di massima sicurezza, periodo prolungabile in base alla pericolosità sociale del detenuto.
Sopravvissuti e familiari delle vittime avrebbero preferito che il processo non isolasse il massacro dal contesto di estremismo teorico-politico nel quale è maturato. Secondo un sondaggio diffuso ieri, tre quarti degli intervistati ritengono che Breivik debba scontare la pena in carcere. Com'è possibile, si domandano i norvegesi, che una persona capace di pianificare per anni nei minimi dettagli un attacco così atroce non porti la responsabilità penale di ciò che ha fatto? «Dobbiamo accettare — ha concluso la procuratrice Bejer Engh — che la Corte non troverà mai tutte le risposte».
il Fatto 22.6.12
Breivik “O carcere o manicomio”
Anders Behring Breivik è “schizofrenico paranoico” e deve essere internato. Al processo contro l’autore delle stragi di Oslo e Utoya, che il 22 luglio scorso uccise 77 persone, la procura della capitale norvegese ha chiesto ieri l’internamento psichiatrico dell’accusato, ritenendo che ci siano “dubbi sufficienti” sulla sua salute mentale per non ritenerlo penalmente responsabile. Ma se i giudici dovessero invece considerarlo sano di mente - e dunque responsabile delle sue azioni - i procuratori hanno chiesto una pena sussidiaria di 21 anni di detenzione in regime di sicurezza, prorogabile finchè Breivik verrà ritenuto pericoloso.
Al termine dell’udienza, prima di essere ammanettato e riportato in carcere, Breivik ha salutato la richiesta dei pro-curatori con il consueto saluto d’estrema destra, portandosi il pungo al petto e poi tendendo il braccio destro. L'uomo, 33 anni, tiene a farsi riconoscere come “sano di mente”, “una persona gradevole” ma “vittima di soprusi” da parte di islamici da quando era bambino. Nelle sue deliranti intenzioni, voleva difendere i valori della Norvegia, “il popolo e la cultura” del suo Paese.
La Stampa 22.6.12
Oslo, la richiesta dei Pm
“Per Breivik non carcere ma cure”
di M. Ver.
OSLO La procura norvegese ha chiesto l’internamento psichiatrico di Anders Behring Breivik, ritenendo che sia psicopatico e dunque penalmente non responsabile delle stragi di Oslo e Utoya, in cui un anno fa uccise 77 persone. L’imputato dovrebbe essere inviato in «trattamento psichiatrico obbligatorio». Se i giudici non accogliessero questa tesi, Breivik dovrebbe essere condannato a 21 anni, con eventuale prolungamento della pena, se fosse ancora ritenuto pericoloso.
l’Unità 22.6.12
I bambini-schiavi col cartellino del prezzo
20 mila euro per comprarsi un bimbo. 20,9 milioni di vittime del lavoro forzato, di cui 1,5 milioni nei Paesi più sviluppati. Le ultime cifre sulla tratta degli umani
di Umberto De Giovannangeli
Un fenomeno agghiacciante. Un commercio ripugnante. Un giro d’affari miliardario. Gli ultimi trend sulla tratta di essere umani in Europa e altrove dimostrano che il fenomeno non accenna a diminuire. Tutt’altro. I dati dimostrano che è in aumento. Secondo Europol, bambini vengono addirittura rivenduti come merce con etichette con il prezzo riportato sopra.
LE CIFRE
Secondo stime recenti dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), in tutto il mondo sono 20,9 milioni le vittime di lavoro forzato, compreso lo sfruttamento sessuale, tra cui 5,5 milioni di minori. Secondo Europol, i minori costretti a compiere attività criminali, come l’accattonaggio organizzato, sono acquistati come merci al prezzo di 20 mila euro. Si calcola che nelle economie sviluppate (Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Norvegia e paesi dell’Ue) i lavoratori forzati siano circa 1,5 milioni, il 7% del totale mondiale. La tratta di esseri umani frutta ogni anno alle organizzazioni criminali internazionali di tutto il mondo profitti superiori a 25 miliardi di euro. Molte delle vittime provengono da Paesi terzi, ma la tratta interna all’Ue (cioè i cittadini dell’Unione vittime di tratta nell’Unione stessa) sembra in crescita.
I dati preliminari raccolti dagli Stati membri a livello dell’Ue sono coerenti con quelli forniti da organizzazioni internazionali quali l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) e indicano che tre quarti delle vittime individuate negli Stati membri dell’Unione sono oggetto di tratta a scopo di sfruttamento sessuale (il 76% nel 2010), mentre altre sono costrette allo sfruttamento del lavoro (il 14%), all’accattonaggio (il 3%) e alla servitù domestica (l’1%). In una prospettiva di genere, i dati preliminari a disposizione mostrano che le donne e le ragazze sono le vittime principali della tratta di esseri umani: tra il 2008 e il 2010 le vittime erano per il 79% di sesso femminile (e il 12% di queste erano ragazze) e per il 21% di sesso maschile (di cui il 3% ragazzi). La criminalità organizzata ha investito parte dei suoi capitali, dei suoi mezzi e delle sue risorse umane nel traffico degli esseri umani. Essa ha agito come un’impresa, ha diversificato i propri investimenti, cosciente del fatto che il traffico degli esseri umani e il loro sfruttamento consente rapidi e ingenti guadagni ed è sanzionato in modo meno pesante rispetto al compimento di altre fattispecie di reato (per esempio il traffico di droga). Ad una grande domanda di emigrazione la criminalità ha saputo offrire tutti i servizi necessari per immigrare illecitamente.
CRIMINE IMPUNITO
Eppure sono troppo pochi i colpevoli che finiscono dietro le sbarre, mentre le vittime lottano per recuperare e reintegrarsi nella società: i risultati preliminari di raccolte di dati recenti mostrano che il numero di condanne in casi di tratta è diminuito da circa 1500 nel 2008 a circa 1 250 nel 2010. Gli europei sono convinti che si debba fare qualcosa: secondo l’ultima indagine, il 93% dei cittadini conviene che gli Stati membri dell’Ue debbano cooperare per combattere la tratta di esseri umani.
In questo quadro, la Commissione europea ha elaborato una strategia per meglio combattere questa piaga. Tra gli elementi principali di questa strategia: 1) sostenere l’istituzione di unità nazionali specificamente dedicate al contrasto della tratta di esseri umani; 2) creare squadre investigative comuni e coinvolgere Europol ed Eurojust in tutti i casi di tratta transfrontaliera; 3) fornire alle vittime informazioni chiare sui diritti di cui godono in virtù della legislazione dell’Ue e della normativa nazionale, in particolare il diritto all’assistenza e alle prestazioni sanitarie, il diritto di ottenere un permesso di soggiorno e i diritti nel campo del lavoro; 4) creare un meccanismo dell’Ue per individuare, indirizzare, proteggere e assistere meglio le vittime della tratta; 5) istituire una Coalizione europea delle imprese contro la tratta di esseri umani per migliorare la cooperazione tra imprese e portatori d’interesse; 6) istituire una piattaforma a livello dell’Ue di organizzazioni e di prestatori di servizi della società civile che operano nel campo dell’assistenza alle vittime e della loro protezione negli Stati membri e nei Paesi terzi; 7) sostenere progetti di ricerca che studino Internet e le reti sociali in quanto strumenti di reclutamento sempre più attivi a disposizione dei trafficanti. Le misure previste dalla strategia sono il risultato di ampie consultazioni di esperti, governi, società civile e organizzazioni internazionali, parti sociali e mondo accademico, e riflettono le loro principali preoccupazioni così come quelle delle vittime, allo scopo di completare le iniziative già in corso. La strategia sarà ora discussa in sede di Parlamento europeo e di Consiglio.La Commissione continuerà a valutare i progressi compiuti nella lotta contro la tratta e ne riferirà ogni due anni al Parlamento europeo e al Consiglio. La prima relazione, che sarà pubblicata nel 2014, comprenderà una valutazione intermedia della strategia.
«Disgraziatamente la schiavitù non è stata ancora confinata ai libri di storia. È spaventoso vedere come ancor oggi gli esseri umani siano messi in vendita e costretti al lavoro forzato o alla prostituzione. Scopo centrale della nostra iniziativa è fare in modo che le vittime ottengano sostegno e che i trafficanti siano consegnati alla giustizia. Siamo ancora lontani dall’ottenerlo, ma il nostro fine non può che essere questo: eliminare la tratta di esseri umani», rimarca Cecilia Malmström, Commissaria per gli Affari interni.
l’Unità 22.6.12
Oggi a Pisa la giornata di studi su Gramsci
Il Centro di Filosofia della Scuola Normale di Pisa e la Fondazione Gramsci organizzano una giornata di studi dedicata alle ricerche sulla vita e il pensiero di Antonio Gramsci e ai problemi dell’edizione nazionale degli scritti. «L’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci: risultati, problemi, obiettivi» il tema dell’evento, che si terrà il venerdì 22 giugno a Pisa dalle ore 9.15 nella Sala
Azzurra. Introdurranno i lavori i professori Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca. Nella mattinata poi si svolgeranno le relazioni di Leonardo Rapone, dedicate alle ricerche biografiche, e di Gianni Francioni, che illustrerà gli studi teoretici; nel pomeriggio la discussione sarà incentrata sui problemi dell’Edizione proposti dai curatori dei volumi.
La Stampa 22.6.12
Michael Krüger: “È solo colpa dell’euro se non ci piacciono più”
Il poeta-editore: “La Grecia era il nostro Paese preferito, adesso prevale il risentimento”
di Alessandro Alviani
Michael Krüger, scrittore e poeta, ha 69 anni e dirige la Hanser Verlag, una delle più importanti case editrici tedesche. È stato decine di volte in Grecia e intrattiene rapporti di amicizia con molti scrittori greci.
HerrKrüger, l’esito della partita di questa sera è già scritto?
«Le partite giocate finora dalla Germania sono state terribilmente noiose. I greci, invece, tendono per natura all’anarchia, se iniziano subito ad attaccare e scompigliano il modello tedesco dell’ordine hanno una chance di vincere. Io sono per chi gioca meglio, non ho alcun sentimento patriottico».
Per i greci questo incontro ha un enorme significato simbolico. E per i tedeschi?
«Questo è uno Schicksalsspiel (una partita del destino, ndr). Sono un europeista convinto e credo che usciremo da questa crisi solo insieme. Ma penso che del processo di superamento della crisi faccia parte anche un pareggio tra Germania e Grecia. Io dico che finirà 1 a 1».
Risultato purtroppo impossibile.
«Sarebbe quanto meno un compromesso. Dopo le critiche di avarizia e scarsa solidarietà che il governo federale ha incassato a livello europeo, una vittoria finale della Germania agli Europei avrebbe nella società tedesca un sapore del tipo “Adesso ve l’abbiamo fatta vedere noi”, “non siamo solo campioni nelle esportazioni, ma giochiamo anche il miglior calcio”».
Le accuse di arroganza rivolte a Berlino sono giustificate?
«Siamo nel mezzo di una discussione politica cruciale, il fatto che si ricorra a dei cliché è normale: le società funzionano per l’80% sui cliché e per il 20% sulla razionalità. In parte posso capirlo dal punto di vista psicologico - si cerca un nemico nel pieno della crisi e lo si individua nella Germania - anche se ritengo gli argomenti ingiustificati».
Come reagisce nel vedere su alcuni giornali greci e non solo i tedeschi di oggi paragonati ai nazisti?
«Mi fa male, perché dopo oltre 60 anni dalla fine della guerra evidentemente nella psicologia dei popoli si continua a lavorare con certi simboli. Bisogna trovare un piano di discussione razionale, ma evidentemente c’è bisogno di più tempo per riuscirci».
Dove sono gli intellettuali tedeschi in questo dibattito sull’immagine della Germania?
«C’è un discorso di lungo periodo alla Habermas, che si svolge però in ambienti intellettuali e non ha grandi effetti pubblici. L’effetto pubblico si basa piuttosto sulla paura che gli altri vogliano privarci di qualcosa che ci siamo guadagnati col lavoro».
La famosa «German Angst». Come è cambiata l’immagine dei greci agli occhi dei tedeschi?
«Fino alla sua adesione all’Unione monetaria la Grecia è stata uno dei Paesi preferiti dai tedeschi: la Grecia del turismo, beninteso, mentre della Grecia antica e della democrazia non parlava nessuno. Con l’ingresso nell’euro quest’immagine è cambiata completamente: i greci sono diventati quelli che non pagano le tasse, hanno un immenso apparato burocratico, sono pigri e si disinteressano se sono poi gli altri a pagare per loro. Non credo però che la loro immagine sia irreparabilmente danneggiata».
Nei secoli scorsi i tedeschi ammiravano anche la cultura greca, pensiamo solo a Hölderlin. Eoggi?
«La lingua greca, che è molto complicata, gioca nell’Europa occidentale uno scarso ruolo, purtroppo. Ci sono i grandi poeti, come Kavafis, Elitis, Ritsos, ma basta guardare anche nei cataloghi italiani per rendersi conto che la letteratura greca contemporanea non svolge alcun ruolo in Europa. Siamo talmente eurocentrici che percepiamo la cultura italiana, spagnola, francese e inglese, ma non quella greca, o bulgara, o romena. È qualcosa che riguarda tutta l’Europa occidentale, non solo la Germania: abbiamo fatto molto poco per capire questi popoli attraverso la loro letteratura, la loro musica, le loro arti. Ogni anno milioni di tedeschi vanno in vacanza in Grecia, ma c’è solo una manciata di scrittori greci che qui in Germania sono conosciuti. Petros Markaris è uno di loro, ma è un’assoluta eccezione».
Cosa risponde ai suoi amici greci quando accusano il suo Paese di egoismo?
«Purtroppo non ho una risposta. Ho molti amici in Grecia, tra cui parecchi scrittori. L’unica cosa che posso fare – ed è quello che faccio – è cercare di procurar loro una borsa di studio in Germania, affinché possano venire qui, lavorare e tenere letture pubbliche. È chiaro a tutti noi che nei prossimi cinque, sei anni gli uomini di cultura in Grecia avranno grosse difficoltà. Posso immaginare che molte delle enormi intelligenze di cui la Grecia dispone se ne andranno in America, in Germania, Italia, Francia. Il deserto che i greci devono attraversare è abbastanza lungo. C’è il rischio di un grosso impoverimento culturale del Paese».
Quanti scrittori greci è riuscito a portare in Germania?
«Finora ne sono stati invitati tre-quattro. Sarebbe ridicolo, con tutte le istituzioni culturali che abbiamo in Germania, se non aiutassimo i nostri colleghi greci».
La GERMANIA: Popolazione (2011): 81.751.602 Età media: 44,6 anni Quota di laureati tra 30-34 anni: 30,7% Quota destinata alla cultura sul totale delle spese famigliari: 4,7% Percentuale delle famiglie con più di 100 libri: 39% Percentuale delle persone che hanno letto almeno un libro negli ultimi 12 mesi: 73% Percentuale delle persone che sono andate al cinema almeno un volta negli ultimi 12 mesi: 54%
La Stampa 22.6.12
Petros Markaris: “Offesi dai tedeschi come amanti traditi”
Il giallista: “Nonostante le efferatezze dei nazisti li amavamo più dei liberatori americani. Ma ora...”
di Tonia Mastrobuoni
Petros Markaris, 75 anni, ha tradotto in greco il Faust di Goethe. Il suo nuovo romanzo, L’esattore , uscirà da Bompiani il 27 giugno. Lo scrittore sarà a Viterno l’8 luglio, ore 21,30, ospite del festival «Caffeina». Il 10 luglio, alle ore 21, sarà alla Milanesiana. A lato turisti a Atene davanti al Partenone
Gian, uno stupendo certosino, si aggira sospettoso attorno al tavolo dove il suo padrone ha accumulato riviste tedesche e fotografie. Abortito il tentativo di una strusciata sulle gambe – con 40 gradi all’ombra una minaccia che Petros Markaris stronca al primo accenno – il gattone ci abbandona sdegnato. A pochi giorni dall’uscita in Italia del secondo romanzo della «trilogia della crisi», L’esattore (in libreria per Bompiani il 27 giugno, pp. 340, € 18,50), incontriamo lo scrittore greco nella sua casa. Nel libro Atene non è ancora truce come la Marsiglia di un altro grandissimo giallista mediterraneo, Jean-Claude Izzo, ma poco ci manca. Il commissario Charitos è alle prese con un assassino fissato con gli evasori fiscali ma il suo caratteristico cattivo umore è come se avesse ormai contagiato la Grecia intera. Che però ha molte colpe, come ci racconta Markaris. E alla vigilia di una partita che sembra stregare i greci molto più del nuovo governo, l’ex traduttore di Goethe ci spiega la delusione nei confronti della Germania: «Ci sentiamo come un’amante tradita».
Alla vigilia di una partita che sembra l’argomento principale di conversazione di tutta la Grecia, qual è il rapporto tra il suo Paese e la Germania?
«La cosa che mi ha sempre affascinato è l’amore dei greci per la Germania. I nazisti hanno commesso in Grecia delle efferatezze enormi, eppure fino a oggi i tedeschi sono sempre stati amati molto più dei “liberatori”, degli americani. In nessun posto i soldati nazisti sono stati crudeli come a Creta, ma non c’è posto dove siano più amati».
È cambiato qualcosa con la crisi dell’euro, l’intransigenza di Angela Merkel e le frequenti campagne denigratorie della stampa tedesca?
«Moltissimo. I greci sono molto amareggiati, delusi e offesi, proprio per l’amore incondizionato mostrato nei loro confronti. Pensi che negli archivi storici ho trovato un rapporto di un ex ambasciatore tedesco che scrisse che l’amore dei greci nei confronti della Germania era talmente forte che non c’era bisogno di scusarsi… E pensavamo che anche in questa crisi fossero i nostri alleati migliori. Ci sentiamo come un’amante tradita».
Anche lei non è tenero con il suo Paese, però. Una delle principali piaghe della Grecia è l’evasione fiscale. Ed è il tema centrale del suo ultimo romanzo, L’esattore, dove emerge anche un Paese enormemente incupito dagli effetti della recessione ma anche da una forte crisi morale e politica.
«Quello che mi fa impazzire dei greci sa cos’è? Si lamentano sempre dei politici. Ma poi come si chiamano le due grandi famiglie che reggono questo paese da mezzo secolo? Karamanlis e Papandreou. Oppure: da dove vengono la maggior parte dei politici che hanno governato questo Paese, compreso Papandreou e Samaras? Dal Peloponneso. Ma in tutti questi anni, chi li ha votati? La verità è che il referendum del 1974, alla fine della dittatura, ha abolito la monarchia e ha stabilito un sistema di clan. E il sistema politico che ne è scaturito ha alimentato non solo la corruzione ma ha costruito un Paese in cui la vita, per gli onesti, è diventata insopportabile. Il padre putativo dei greci è Jean-Paul Sartre, è il suo “l’inferno sono gli altri”».
Cosa pensa delle elezioni?
«Le elezioni hanno significato una buona e una cattiva notizia. La buona è che avremo un governo. La cattiva è che in Parlamento siederanno i neonazisti ma soprattutto che siamo un paese diviso. Per una nazione che ha attraversato una sanguinosa guerra civile, non è un dettaglio».
Hanno perso i partiti che si sono opposti al memorandum.
«Questo è un bene. Tsipras è stato ambiguo. Non ha offerto alternative ma ha detto che la Ue non ci può cacciare dall’euro. Questo non è vero: può spingerci a uscire. Adesso che hanno vinto i partiti che si sono impegnati a mantenere gli impegni con l’Europa, mi aspetto che anche l’Europa si ammorbidisca. Ma è evidente che non poteva accettare il ricatto di Tsipras. Lui è la dimostrazione della famosa frase di Marx per cui la storia si ripete in farsa. Syriza è il Pasok degli Anni 80 e lui è la copia di Andreas Papandreou. Parla addirittura nello stesso modo, è irritante. E non si rende conto che rispetto a quegli anni il Paese è spezzato, è finito».
Ma non c’è anche una responsabilità del Pasok? Molti dicono che Papandreou è stato debole, che avrebbe dovuto negoziare di più.
«Il peccato maggiore del Pasok è che ha mentito sulla crisi, ha detto che ne saremmo usciti in uno o due anni. Pensi che all’inizio del 2010 una giornalista venne da me e mi chiese perché avessi annunciato una trilogia sulla crisi. “Non farà in tempo a scriverla la crisi finirà prima”, mi disse, Ora sto pensando se fare una tetralogia o addirittura una seconda trilogia... ».
Cosa deve fare la Grecia?
«Le riforme che Papandreou non ha fatto. Lui si è limitato ai tagli orizzontali della spesa invece di incidere con riforme strutturali sulla pubblica amministrazione per renderla più snella, efficiente. E non ha fatto nulla di serio per combattere l’evasione fiscale».
La GRECIA: Popolazione (2011): 11.309.885 Età media: 42,1 Quota di laureati tra 30-34 anni: 28,9% Quota destinata alla cultura sul totale delle spese famigliari: 2,4% Percentuale delle famiglie con più di 100 libri: 22% Percentuale delle persone che hanno letto almeno un libro negli ultimi 12 mesi: 50% Percentuale delle persone che sono andate al cinema almeno un volta negli ultimi 12 mesi: 41%
Corriere 22.6.12
Classici ateniesi contro Goethe e Hegel Un duello di civiltà in novanta minuti
La sfida Germania-Grecia come metafora di un dialogo culturale interrotto
di Pierluigi Battista
Sbagliò sul punto più importante, il grande Johann Joachim Winckelmann, arrivando all'erronea convinzione, nel cuore del Settecento, che la statuaria e i palazzi dell'antica Grecia fossero bianchi come il marmo. E invece erano colorati. Coloratissimi.
Con questo errore Winckelmann avrebbe perpetuato uno stereotipo duro a morire, ma con le sue instancabili ricerche avrebbe inaugurato un plurisecolare rapporto di venerazione estetica della Germania e dell'Europa nei confronti della classicità greca. Avrebbe costruito il paradigma del moderno classicismo. Germania e Grecia: il classicismo e la classicità. Altro che conflitti sull'euro. Altro che quarti di finale negli Europei di calcio.
Stasera si confronteranno in campo due modelli, due tradizioni, due destini. Il destino della Grecia classica, che nella storia perderà, rispetto alle sfavillanti glorie del passato, sempre più rilevanza. Che vedrà assottigliarsi il suo peso politico. Che conoscerà il declino economico, si avvicinerà al crac finanziario e cercherà in una partita di calcio di riconquistare fierezza e orgoglio di sé rispetto alla strapotenza che oggi sembra schiacciarla. E dall'altra parte il destino della cultura tedesca, che ha messo la classicità greca su un piedistallo. Che ha sconvolto, ispirato, ipnotizzato legioni di scrittori, filosofi, musicisti, artisti tedeschi, tutti inclini a fare della Grecia il loro archetipo culturale, il bersaglio del loro amore sconfinato e della loro maledizione spirituale. Nietzsche folgorato dal sempiterno contrasto tra l'apollineo e il dionisiaco. Schiller che aveva la Grecia conficcata nella mente quando elaborò la contrapposizione tra la poesia degli antichi («ingenua») e quella dei moderni («sentimentale»). Heidegger che scrutava l'Essere, il Divenire, il predominio della Tecnica colloquiando incessantemente con Parmenide ed Eraclito. Un intreccio inestricabile che condiziona tre secoli almeno di cultura europea.
La scoperta di un legame spirituale ed estetico che, certo, ha anche a che fare con una partita di calcio. Con le vicissitudini dell'euro. Con la debolezza della Grecia. L'agonismo olimpico moderno viene riesumato con esplicito richiamo di quello greco. E la riflessione politica moderna ha sempre avuto come interlocutore ideale il modello dell'estetica greca. «La bellezza classica con la sua infinita estensione di contenuto, materia e forma è stato il dono conferito al popolo greco e noi dobbiamo onorare questo popolo per aver creato l'arte nella sua più alta vitalità»: così scriveva Hegel, per il quale lo Spirito del Mondo stava oramai transitando e compiutamente realizzandosi, dalla Grecia mediterranea del mondo antico, nello Stato forte della Prussia dell'Ottocento. E aggiungeva, Hegel: «I Greci vivevano nel giusto mezzo fra la libertà soggettiva autocosciente e la sostanza etica. Essi non persistevano nell'unità orientale priva di libertà, che ha come conseguenza un dispotismo religioso e politico, in quanto il soggetto sparisce, non avendo egli come persona alcun diritto». Tradotto: l'eredità della Grecia è l'eredità della libertà occidentale ed europea e dei diritti individuali («soggettivi») contrapposta all'asfissiante e autoritaria «unità orientale». E che oggi quell'eredità sia messa in discussione dal collasso finanziario, dall'ascesa dei nazisti nel Parlamento di Atene (un tempo palcoscenico ideale della satire di Aristofane), vorrà pur conoscere un'eco in una gara sportiva di interesse mondiale che fatalmente vede contrapposti la schiacciante supremazia politica ed economica della Germania, e la paura della voragine di marca greca.
La Grecia, dal punto di vista storico e politico, non contava più nulla sugli scenari del mondo già da secoli. Quando il romantico Byron, spirito poetico indomito e ribelle, andò a morire per l'indipendenza della Grecia, portava nel suo cuore un mito, non un territorio e un arcipelago di isole la cui irrilevanza appariva, già allora, sempre più evidente. La Roma antica, la prima, quella dei Cesari, si salverà da questa crescente marginalità trasformandosi nella Seconda Roma, quella dei Papi. Atene, invece, sarà soltanto un porto importante come il Pireo. Sarà trasfigurata però con l'imponenza dell'Acropoli. Con la filosofia greca. Con la classicità resa un modello irraggiungibile di purezza e di equilibrio dal classicismo, germanico e non solo germanico.
L'impero britannico si porterà via i fregi del Partenone, da allora oggetto di controversia infinita, ma la cui traslazione indica simbolicamente la marginalizzazione dello scenario ateniese in cui erano nati e di cui si erano spiritualmente alimentati. E un po' di classicità greca venne idealmente trasposta anche a Weimar, relativamente piccola ma centrale località che Goethe, nutrito di cultura classica, porterà a un livello mondiale di fama e di prestigio. Lo stesso Goethe che trasferirà nella storia delle idee elaborate in Germania il conflitto tra spirito romantico, incarnato nella figura del Werther, e sobrietà classica.
Lo stesso conflitto che un secolo dopo, archiviata l'ubriacatura wagneriana in cui la mitologia del Nord aveva tentato di rimpiazzare quella della Grecia mediterranea, verrà ripreso e incorporato nell'opera letteraria di Thomas Mann in cui l'attesa della catastrofe viene drappeggiata con le vesti eleganti di una Kultur. È il classicismo che non viene scosso da una liberatoria estasi dionisiaca, ma da una cupa e apocalittica discesa nel demoniaco. Quando Weimar non sarà più una citazione goethiana della classicità, ma il luogo di una Repubblica che conoscerà la sconfitta e la disgregazione.
Pochi anni dopo, dopo che Heidegger, discettando dell'Essere, conferiva al Führer la missione di riportare la Germania alla grandezza millenaria del passato, Leni Riefenstahl consegnerà con la sua monumentalizzazione epica dell' Olimpiade del '36 a Berlino il tentativo di legare il presente del Reich con la classicità dei corpi degli atleti. Anche in questo caso lo sport dispiega tutto il suo valore simbolico per farsi manifestazione del Potere. E stasera, la classicità oramai passata della Grecia si scontrerà in un'arena sportiva con il classicismo dei nuovi potenti tedeschi che trattano oramai Atene come un debitore refrattario e insolvibile, un minorenne discolo e scialacquatore incapace di sintonizzarsi con i ritmi e le ferree necessità della moderna economia finanziaria. Platone e Aristotele non gareggeranno con Kant e Hegel. E la tragedia greca non verrà declamata in uno stadio molto diverso dagli anfiteatri dove si narravano le gesta degli dei e degli antichi eroi. Ma l'eco di un rapporto di odio-amore tra l'antica Grecia e la moderna Germania, che ne ha voluto prima riesumare lo spirito classico per poi mettere Atene con le spalle al muro nel nome della stabilità economica, risuonerà in uno stadio capace di calamitare l'interesse mediatico globale.
Nella Grecia antica classica si combatteva contro i «barbari» e contro il dispotismo dell'«unità orientale» evocata da Hegel. Oggi i barbari non si sa dove siano finiti. Una gara sportiva, una banale partita di calcio giocata in un clima incandescente, forse ne scoverà una traccia.
l’Unità 22.6.12
In cerca dell’Altro: le radici dell’amore
Julia Kristeva ripropone ora ai lettori italiani un saggio uscito negli anni Ottanta: riflessioni, ricerca e storie di innamoramenti
di Maria Serena Palieri
Storie d’amore, Julia Kristeva, Traduzione di Mario Spinella pagine 350 euro 32,00 Donzelli
CHI HA INVENTATO L’AMORE? O, SE LA DOMANDA COSÌ SEMBRA TROPPO ASSOLUTA, CHI HA INVENTATO L’AMORE ROMANTICO?
NEL NOVECENTO C’È UNA GENEALOGIA DI STUDIOSI, DAL FILOSOFO SVIZZERO DENIS DE ROUGEMONT ALLO STORICO FRANCESE GEORGES DUBY GIÙ FINO AL SOCIOLOGO INGLESE ANTHONY GIDDENS, CHE NE ATTRIBUISCONO ALL’OCCIDENTE LA PATERNITÀ, TROVANDONE LE RADICI NELLA CULTURA TROBADORICA DEL XII SECOLO. MENTRE NELLO STESSO OCCIDENTE SI LEVA IL PLOTONE DI QUANTI LI ACCUSANO DI EUROCENTRISMO, RICORDANDO SHEHERAZADE E IL «KAMA SUTRA», OMAR KHAYYAM E KALIDASA: ultimo, in ordine di tempo, Jack Goody, autore di un critico saggio del 1998 da poco da noi tradotto per Raffaello Cortina (Cibo e amore. Storia culturale dell’Oriente e dell’Occidente).
Julia Kristeva sembra non avere dubbi, per lei l’amore «si confonde con la storia della libertà, il cui ombelico è qui, in Europa». È un amore le cui tracce vanno seguite, risalendo con un doppio salto all’indietro, anzitutto «nella storia dell’Occidente greco ebraico e cristiano che, in cerca dell’Altro, ha costruito quel culto dell’“Io sono” che sa superarsi e che si chiama propriamente capacità di amare, quel favoloso mal d’amore», scrive. Ed è un amore che «si declina in poemi, suoni e immagini, racconti e avventure», un Amore che esiste insomma in quanto viene narrato.
Kristeva ripropone ora al pubblico italiano (nella collaudata e magnifica traduzione di Mario Spinella) Storie d’amore, saggio uscito negli anni Ottanta per gli Editori Riuniti e ora rieditato da Donzelli, il marchio che, negli ultimi anni, ha proposto altre opere della psicoanalista bulgaro-francese, tra cui la cosiddetta trilogia del «Genio femminile» su Colette, Hannah Arendt e Melanie Klein. A un trentennio dalla prima edizione, ecco un’introduzione ad hoc.
Dunque, Kristeva fa coincidere l’Amore col suo racconto. E questa è un’idea di lungo corso: dal libro «galeotto» del V Canto dantesco alla Emma flaubertiana che s’innamora «perché» legge d’amore. E dunque sono storie letterarie prototipi o archetipi culturali le «storie» che qui analizza: da Romeo e Giulietta a Don Giovanni, da Stendhal a Bataille. Però, formatasi alla scuola di Lacan, Kristeva fa coincidere l’amore col suo dirsi nella parola in analisi, tanto più al presente perché «le delizie e i tormenti di questa libertà oggi sono più gravi per il fatto che non abbiamo più codici amorosi, nessuno specchio stabile per gli amori di un’epoca, di un gruppo, di una classe. Il divano dell’analista è il solo luogo nel quale il contratto sociale autorizzi esplicitamente una ricerca ma privata dell’amore». E dunque è lì che si riverberano quei fantasmi letterari. Non fosse, coglie Kristeva nella sua introduzione a questa nuova edizione, che la Storia che oggi sembra dominare su tutte le altre sembra quella di Narciso. E, se è Narciso il mito predominante, come ci si innamora dell’Altro? Kristeva, in questa densissima cavalcata, ci insegna, per ricominciare, in quanti miti e storie diversi da Narciso l’amore nei millenni fino a ieri abbia saputo declinarsi.
Corriere 22.6.12
La Casa Bianca alleata di Amazon: gli ebook invaderanno il mondo
La campagna del governo Usa e il rischio di un'egemonia culturale
di Evgeny Morozov
Tre anni fa — quando ero ancora un cyberutopista spensierato — scrissi un breve saggio per «Newsweek» sulla diplomazia high-tech. In quel saggio rimproveravo ai diplomatici americani di non saper sfruttare l'immenso potenziale digitale che una società come Amazon poteva offrire. Il Kindle, scrivevo, è «un dispositivo da sogno per i dissidenti» e «potrebbe porre fine per sempre ai tempi in cui ci si affidava ai viaggiatori stranieri per far entrare e uscire clandestinamente i libri vietati nei Paesi autoritari». Washington dovrebbe adottare la diplomazia di Kindle, dicevo, e «finanziare senza clamore l'acquisto dei testi che ritiene più importanti e in grado di stimolare il pensiero critico!».
Bene, i dissidenti possono iniziare a festeggiare: tre anni dopo quell'articolo, il Dipartimento di Stato americano ha finalmente annunciato un'ambiziosa partnership con Amazon. Il progetto — che si svolgerà nel corso dei prossimi cinque anni — prevede che il Dipartimento di Stato spenda fino a 16 milioni e mezzo di dollari per l'acquisto di circa 35.000 Kindle, più i contenuti (ossia i libri) e le spese di spedizione. Il Kindle costa sui 200 dollari, quindi rimangono quasi 10 milioni di dollari da spendere in libri — che, con i prezzi economici di Amazon, possono voler dire un milione di testi. Dove andranno questi Kindle? L'idea è di spedirli alle 800 e più biblioteche, sale di lettura pubbliche e centri culturali — frequentati da più di sei milioni di giovani — che il Dipartimento di Stato americano finanzia in tutto il mondo. I presupposti su cui si basa questa iniziativa sembrano solidi — almeno in teoria. Il governo degli Stati Uniti fornisce in ogni caso ai suoi centri culturali libri, pubblicazioni culturali e giornali: se lo farà in formato digitale, risparmierà tempo e denaro. È facile immaginare un sistema in cui gli utenti di un centro culturale in Argentina potranno prendere in prestito un ebook da un analogo centro spagnolo. Inoltre, libri controversi e censurati potranno essere letti senza occupare gli scaffali e attirare l'attenzione dei censori dei governi locali. Ridar vita a una diplomazia rivolta alla gente, affidandola ad Amazon, sembra un'ottima mossa: non c'è da meravigliarsi che i diplomatici americani credano che il programma «servirà a rilanciare l'immagine dell'America come leader tecnologico».
Ma si tratta, purtroppo, solo di un pio desiderio — la realtà è molto più complessa. Io per primo non credo più che una partnership tra diplomatici americani e Amazon sia senz'altro una buona idea. Penso, anzi, di essermi sbagliato di grosso tre anni fa e di essere stato pericolosamente ingenuo. Quello che allora non potevo prevedere era quanto sarebbe stato difficile per le aziende americane del settore tecnologico mantenere una parvenza di autonomia nel cooperare con il governo degli Stati Uniti. Il complesso di Silicon Valley aspira a essere considerato promotore della pace, dell'accesso alla conoscenza e del dialogo universale; in realtà, c'è chi pensa che cospiri con i potenti e appoggi qualunque iniziativa che appaia gradita al governo degli Stati Uniti.
Si può davvero considerare Twitter indipendente, quando il Dipartimento di Stato può ottenere che la manutenzione programmata del sito sia procrastinata, come si è verificato durante la fallita e fin troppo pubblicizzata «Twitter Revolution» del 2009 in Iran? Google può davvero essere ritenuto neutrale se chiede aiuto alla National security agency, come è accaduto a seguito dell'attacco subito (presumibilmente da parte del governo cinese) nei primi mesi del 2010? E si può ancora pensare che Amazon sia libero quando alla fine del 2010, cedendo alle pressioni dei politici americani, ha eliminato dai suoi server i documenti caricati da Wikileaks — il più noto nemico pubblico del Dipartimento di Stato? I 16 milioni e mezzo di dollari che Amazon riceverà dal governo degli Stati Uniti — aggirando ogni forma di gara, come se le giuste prediche dell'America sul buon governo fossero destinate solo al pubblico straniero, non a quello domestico — sono la ricompensa per la buona condotta tenuta durante la saga di Wikileaks? Forse no — ma questo non impedirà ai teorici della cospirazione a Mosca, Teheran e Pechino di vederla in quel modo. Silicon Valley, dal canto suo, è sempre più considerata dagli avversari dell'America uno strumento del potere degli Stati Uniti. Dopo tutto il parlare che si è fatto dei virus spia costruiti dagli Usa, come Flame, i politici stranieri che utilizzano Kindle per leggere una cosa qualsiasi dovrebbero pensarci bene: come fanno a sapere che il governo americano non stia nascostamente studiando le loro abitudini di lettura attraverso la nuvola informatica di Amazon? Quanto dovrà ancora avvicinarsi Amazon al governo degli Stati Uniti perché queste preoccupazioni divengano realtà?
Con ogni probabilità gli avversari dell'America vedranno in questa nuova iniziativa un segno dell'intenzione Usa di politicizzare lo spazio ebook — un modo astuto di utilizzare le infrastrutture di comunicazione di Silicon Valley per incoraggiare nascostamente un cambiamento di regime. Che questa sia la vera intenzione dell'America non è poi così importante; nella maggior parte dei casi, la politica internazionale è per il 90% percezione e solo per il 10 realtà. In effetti, regimi come Cina, Russia e Iran nutrono già preoccupazioni del genere per la loro dipendenza da email, motori di ricerca, sistemi operativi e social network americani, e questo spiega i grandi sforzi per vietarli, passare ad alternative «open source», creare equivalenti nazionali e dichiararli beni di importanza strategica che non possano essere venduti a investitori stranieri.
Nell'era di Flame e Stuxnet — creati dal governo americano e capaci di sfruttare le debolezze dei software americani — queste non sono preoccupazioni banali. Quanto tempo ci vorrà prima che Cina e Iran vietino tutti gli ereader stranieri e promuovano alternative nazionali? E c'è qualcuno che dubita che saranno molto peggiori, sul piano della privacy e della libera espressione dei dissidenti, del Kindle di oggi — che, per motivi puramente politici, potrebbe essere sempre più difficile da ottenere in quei Paesi?
Stipulando l'accordo con Amazon, il governo Usa introduce una turbativa perversa nel mercato globale degli ereader. Strumenti che precedentemente apparivano positivi o inermi saranno ora considerati sovversivi. È il paradosso della «Internet freedom agenda» americana: più Washington la promuove, più le cose peggiorano.
La morale, per i diplomatici ben intenzionati (e gli ex cyberutopisti come me), è la seguente: per quanto ereader, social network o motori di ricerca siano straordinariamente efficienti nel far circolare le informazioni, è sbagliato considerarli dei semplici strumenti con connotazioni definite e coerenti (per non parlare di effetti chiari e facilmente prevedibili). Una volta adottati dal governo degli Stati Uniti, questi strumenti non si collocheranno più nel vuoto geopolitico di Silicon Valley. A creare il contesto entro il quale saranno interpretati contribuiranno anche la lunga e complessa storia della politica estera americana, gli esperimenti che Washington sta conducendo con le armi cibernetiche, i precedenti scontri di Silicon Valley con i governi autoritari. In altre parole, il loro significato, funzionamento ed effetto cambiano a seconda di chi li osserva e perché.
Non voglio essere disfattista o sostenere che i diplomatici non devono provare a usare le ultime tecnologie. Ma devono farlo sapendo che le loro buone intenzioni potrebbero essere male interpretate, e a volte produrre esiti indesiderati. Potrebbe non valere la pena, per loro, di insistere nella ricerca di strumenti innovativi — soprattutto se a lungo andare questo rischia di peggiorare le cose. Purtroppo quel che sappiamo sulla partnership tra il Dipartimento di Stato Usa e Amazon ci fa pensare che i diplomatici americani non abbiano questa consapevolezza. Uno strumento da sogno per i dissidenti resta quello che è — un sogno.
(Traduzione di Maria Sepa)
Corriere 22.6.12
Le tre piaghe del Vaticano
Apertura ai lefebvriani, caso Ior, lotte interne alla Curia
di Hans Küng
Dall'uscita del mio libro Salviamo la Chiesa, nel 2011, la crisi della Chiesa cattolica si è acuita in modo drammatico. A fare da cupo sfondo a tutte le discussioni ci sono sempre gli abusi sessuali all'interno del clero cattolico di tutto il mondo, che hanno inflitto un colpo senza precedenti alla credibilità non solo del clero ma anche dei Papi e dei vescovi che li hanno occultati. Contemporaneamente, tuttavia, sia in Italia sia in Germania, si sono verificati altri avvenimenti che rappresentano altrettanti indicatori dell'aggravarsi della crisi.
In Germania, la tanto annunciata visita papale dell'autunno 2011 è avvenuta con un enorme dispendio di mezzi mediatici e di denaro; ma è stata una delusione per i tedeschi pronti alla riforma e per la grande maggioranza dell'opinione pubblica. Durante questo viaggio il Papa si è pronunciato chiaramente sia contro le riforme strutturali della Chiesa cattolica sia contro un'intesa seria con le Chiese evangeliche. La delusione ha colto perciò anche i cristiani evangelici.
L'iniziativa di dialogo dei vescovi tedeschi che ne è seguita è finita in un vicolo cieco: nelle riunioni si poteva sì discutere e trattare temi critici, ma le questioni principali della riforma strutturale venivano ampiamente bloccate dalla gerarchia. Al Katholikentag 2012 di Mannheim, tuttavia, il malumore e la collera del popolo della Chiesa si sono espressi con tutta la loro forza: i vescovi che si limitavano a scuse superficiali sono stati fischiati. In quell'occasione, le questioni critiche, comprese quelle inerenti alla riforma strutturale della Chiesa, sono state discusse pubblicamente, ma la delusione è stata grande lo stesso, perché non si erano ancora fatti progressi in questo senso. Il rifiuto della riforma «dall'alto» ha avuto una conseguenza: i movimenti, che aspirano al rinnovamento «dal basso», godono ora di un consenso sempre maggiore e di uno spazio sempre più ampio anche sui media. Hanno ormai costituito una rete internazionale sul Web e reagiscono in tutto il mondo alle iniziative di Roma.
In Italia la critica non aveva ancora raggiunto i picchi registrati a nord delle Alpi, ma soprattutto tre recentissimi sviluppi hanno richiamato l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica sulla crisi della Chiesa cattolica.
La riconciliazione con la Fraternità sacerdotale san Pio X — una confraternita tradizionale, ultraconservatrice, antidemocratica e antisemita —, portata avanti dal Papa e dalla Curia, incontra dubbi e perplessità crescenti. Ora, in Vaticano si deve prendere atto che la consacrazione dei vescovi ordinati da monsignor Lefebvre è non solo illecita, ma anche nulla dal punto di vista del diritto canonico. La maggioranza dei cattolici non è disposta a riconciliarsi con questi rappresentanti finché non accettano tutti i punti sostanziali del Concilio Vaticano II, dalla riforma della liturgia alla libertà religiosa.
Il Papa ha cercato di intervenire per mettere fine agli intrighi, in parte criminali, della banca vaticana, lo Ior, ma da quanto è emerso di recente non ci è riuscito; il capo della Banca vaticana nominato da non molto per eliminare gli abusi è stato destituito dal suo incarico nel maggio 2012 e si deve temere che lo Ior resti, oggi come ieri, sulla lista nera delle banche che operano il riciclaggio del denaro sporco.
L'affare Vatileaks ha scosso la Curia. Non si tratta solo del maggiordomo del Papa, ma di difetti sistemici che rendono possibile un simile tradimento: non c'è trasparenza, dalle nomine dei vescovi all'economia finanziaria. Dalla nascita della Curia romana nell'XI secolo le caratteristiche di questo sistema sono le consorterie, l'avidità di denaro, la corruzione e appunto l'abitudine a occultare i fatti. La curiosità di vedere come la giustizia vaticana verrà a capo di tutti questi scandali è legittima.
Le mie analisi critiche hanno ricevuto una spiacevole conferma dagli avvenimenti recenti. Anzi, la crisi della Chiesa è ancora più drammatica. Ne consegue che è ancora più impellente la necessità di riforme fondamentali del sistema romano come quelle da me proposte con estrema concretezza. Nonostante delusioni e difficoltà, mi mantengo fedele alla Chiesa cattolica, la mia Chiesa tanto provata. E faccio volentieri mio il titolo scelto per l'edizione italiana del libro dalla eccellente editrice Rizzoli: «Salviamo la Chiesa!».
Corriere 22.6.12
Tracce di Storia
Tecnica e sperimentazione Le case sull'acqua di 7000 anni fa sono il «design del Neolitico»
Erano necessari per la difesa e la pesca. Nel 1854 furono scoperti i primi reperti
di Giovanni Caprara
Il design? Una cosa da uomini preistorici. Perché, girando per il Museo delle palafitte di Fiavé, inaugurato un mese e mezzo fa, tra il lago di Garda e il parco dell'Adamello-Brenta, vien facile pensarlo, stupendosi. Ma come facevano, seimila anni fa, a modellare il legno così bene? Di questo prezioso materiale, i due piani dell'esposizione conservano qualcosa come trecento reperti unici — dai frollini ai manici d'ascia, dai mestoli ai fusi e falcetti — restaurati col metodo della liofilizzazione.
Un passo indietro. Alla fine degli anni 60 del secolo scorso, Renato Perini, maestro elementare trentino, si mise in testa di scavare in questa valle, dove un tempo c'era il lago Carera. Ma sul concetto di tempo occorre mettersi d'accordo. Il lago di Ledro insegna. «A una ventina di km da qui, sul lago della valle di Ledro, negli anni 30 del '900, l'archeologo Raffaele Battaglia scava in riva in cerca di insediamenti neolitici. Viene chiamato anche a Fiavé, ma senza successo», ricorda Paolo Bellintani, archeologo per la sovrintendenza per i Beni librari archivistici archeologici di Trento e responsabile del Museo di Fiavé. È lui la nostra guida nel Museo delle palafitte.
«Ecco, vede, in quel video Perini spiega come sia riuscito a rintracciare il fenomeno palafitticolo che va dal 5000 al 500 a.C.». E conservato perfettamente — parliamo naturalmente dei pali su cui erano adagiate le palafitte — grazie all'azione della torba in grado di tutelare i pali conficcati sia nel terreno che nell'acqua. Lunghi fino a nove metri. «Gli scavi di Fiavé, patrimonio Unesco da poco meno di un anno, insieme ai 111 siti palafitticoli — quelli italiani lungo l'intero arco alpino — hanno rivoluzionato 150 anni di studi», aggiunge Bellintani, entrando nella seconda sala del museo, dove l'archeologia si trasforma in scienza associata alla paleobotanica ed all'archeozoologia. È il bello dell'allestimento curato da Franco Didoné e da Gruppe Gut, di Bolzano: qui si alternano studi archeologici e fenomeni naturali. Alla fine del giro, per esempio, incontreremo la riproduzione di un Biotopo, a due passi dagli scavi.
Nella metà del 1800, a Fiavé, in seguito all'estrazione della torba, nel lago di Carera, spuntano fuori pali, ceramiche e strumenti in pietra. Negli stessi anni Fernand Keller, tra i massimi studiosi degli insediamenti palafitticoli, si trova in Svizzera per delle ricerche che lo portano ad affermare come queste strutture fossero esclusivamente costruite sull'acqua. «Fino a quando Perini non dimostra l'esistenza di tre tipologie abitative: sull'acqua, sulla riva asciutta del lago e sulla terraferma», ricorda l'archeologo. Siamo al secondo piano, nella pancia dell'esposizione, chiamata «Un giorno in palafitta». Vi entriamo con i piedi nell'acqua e sopra la nostra testa il tetto di una enorme palafitta. «È una simulazione, fra le tante degli spazi museali, per comprendere l'organizzazione di un villaggio misto, tra terra e acqua: sul basso, una platea reticolata galleggiante, lo scheletro della struttura; siamo nella zona due degli scavi di Perini, in cui sono conservati i villaggi Fiavé 4, 5 e 6». L'intero museo è diviso per epoche storiche, da Fiavé 1 a Fiavé 6, dal tardo Neolitico all'età media del Bronzo. Per capirlo, subito a sinistra c'è un plastico in scala 1 a 20 costruito da Gigi Giovanazzi, artigiano del posto, che si è divertito a riprodurre gli 820 pali ritrovati nella valle. In sette metri per tre c'è la vita quotidiana nelle palafitte. Da ricostruire, entro il prossimo anno nel museo all'aperto, quel parco archeologico a cui si accede attraverso un camminamento.
E siamo fuori, in un terreno sconnesso, a due passi dal lago trasformato in una bolla d'acqua («è come se il tempo si fosse fermato, per evitare che la torba invada lo specchio d'acqua in cui sono conservati i pali»), dalle punte dei resti di capanne, soprattutto di abete rosso e larice, e dall'area archeologica in cui saranno costruite le tre tipologie di capanne. Dove poter fare archeologia sperimentale. Manipolare il legno, per esempio, oggi come cinquemila anni fa. Chiude Bellintani: «Recentemente, abbiamo ricostruito, insieme alle università di Trento, Ferrara e Verona, un arco in corniolo, legno agile e leggero e più velocemente realizzabile rispetto all'utilizzatissimo legno di tasso». Già, ma qui siamo a Fiavé, dal design preistorico-funzionale. E sperimentale.
Peppe Aquaro
Corriere 22.6.12
Quei villaggi sospesi sui «mari» del mondo
I primi contadini che arrivavano dal Medio Oriente si diffondevano in Europa via terra e attraverso il Mediterraneo. Furono probabilmente i successori di questi ultimi, più avvezzi al mondo acquatico, a creare per primi un nuovo tipo di insediamento su palafitte, un nuovo modo di abitare sulle rive dei laghi e lungo i fiumi. Ma tutto ciò si ignorava fino al 1854 quando dei contadini di Obermeilen, sul lago di Zurigo, trovarono per caso uno strano campione di terra che portarono al professor Ferdinand Keller, fondatore della Zurich antiquarian society e uno dei primi protagonisti europei della nascente archeologia preistorica. Nel terriccio vi erano pezzi di legno, ossa e altri frammenti che incuriosirono lo studioso al punto da organizzare uno scavo nel luogo del ritrovamento sulla riva del lago. Ed è lì che sono venuti alla luce i resti di un villaggio su palafitte. Era il primo ad essere scoperto. La risonanza fu mondiale e animò altre ricerche in molte nazioni in zone lacustri attraverso le quali venne rivelato un capitolo affascinante della storia degli insediamenti umani.
Tutto era iniziato intorno al cinquemila avanti Cristo e alla particolare tecnologia abitativa si fece ricorso intensamente per oltre quattromila anni. Poi non scomparve del tutto; anzi, continuò a esistere in certe condizioni e in alcuni luoghi. I resti del più antico villaggio europeo su palafitte venne scoperto sul lago di Bracciano in località «La Marmotta». Era stato costruito tra il 5750 e il 5260 avanti Cristo e rivaleggiava con quello trovato a La Draga, sulla Costa Brava, in Catalogna (Spagna), le cui date si collocano tra il 5400 e il 5000 avanti Cristo.
Gli insediamenti si diffusero soprattutto intorno all'arco alpino tra Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Austria e Italia. Non a caso il più antico in queste zone è sull'isolino del lago di Varese (4300 a.C.). Sulle ragioni della scelta di questo tipo di costruzioni si discute ancora oggi. «Forse volevano vivere all'asciutto, contemporaneamente sull'acqua e sulla terra, beneficiando della pesca e dei frutti della coltivazione oltre che della pastorizia — spiega Cesare Ravazzi dell'Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr — E nello stesso tempo poteva contare la necessità di difendersi».
Certi luoghi erano favorevoli all'installazione per diversi aspetti. Innanzitutto non era difficile conficcare in un suolo melmoso pali fino a 6-7 metri di profondità. Oltre il livello dell'acqua, la costruzione poteva essere anche di due piani e ospitava tutto al suo interno, compresi gli animali (capre, pecore e maiali). Per le pareti e il tetto usavano canne di palude, erbe e argilla. Succedeva che i villaggi si incendiassero, ma in genere venivano ricostruiti anche più volte, oppure potevano essere abbandonati per l'abbassamento delle acque, non offrendo più i vantaggi originari. La quotidianità dei villaggi è stata ricostruita grazie ai sedimenti nei quali si sono conservati benissimo preziosi dettagli: dai legni allo sterco degli animali, attraverso i quali si è risaliti alle caratteristiche dell'ambiente e al tipo di vita condotta fra la terra l'acqua dai nostri progenitori.
Con lo scorrere dei secoli le strutture si perfezionarono diventando più complesse, gli spazi di coltivazione intorno si ampliarono e lo stesso numero di abitazioni che componeva il villaggio crebbe raggiungendo e superando talvolta il centinaio di unità perché la popolazione diventava sempre più stanziale, legata al luogo e alla coltivazione. Talvolta una casa aveva altre destinazioni oltre all'abitazione: dispensa, granaio, fonderia, tessitura, fabbrica di oggetti. E poco lontano, a cinquecento metri o a un chilometro, poteva sorgere un altro villaggio con la stessa vita che si replicava. Mentre il tempo scorreva, altrove, come in Egitto, nascevano le piramidi. E dal Neolitico si passava all'età del Rame e poi del Bronzo, con la quale si può dire finisca, intorno all'8-900 a.C., anche l'epoca delle case sull'acqua.
«Proprio per il loro grande valore, i siti palafitticoli dell'arco alpino sono diventati adesso Patrimonio dell'Unesco», ricorda Raffaella Poggiani, Soprintendente ai beni archeologici della Lombardia.
Ma i villaggi su palafitte in qualche caso e in qualche regione della Terra sono sopravvissuti ai secoli e oggi spesso li vediamo nelle immagini dei Paesi asiatici o del Pacifico. Non dimentichiamo, però, che pure Venezia nacque così, nel V secolo, in questo caso solo per ragioni di difesa, perché i veneti dell'entroterra dovevano sfuggire alle orde barbariche incombenti. E dalle palafitte nacque un gioiello.
l’Unità Lettere 22.6.12
Paracelso, un medico vero
‘La preghiamo, si fermi da noi, dott. Paracelso! Chi non accoglierebbe a braccia aperte un medico come lei, che vide nel ‘malato da curare’, senza distinguere tra potenti e popolani, il terminale del suo continuo girovagare attraverso l’Europa a pensare/conoscere/sperimentare: per guarire. Che dire poi del suo coraggio di considerare ‘superati’ tipi come Aristotele, Galeno, e Avicenna? E ben venga, soprattutto, quel suo caratteraccio, più a difendersi dagli, che a offendere i, colleghi incapaci, caratteraccio che a lei, di schiacciante superiorità professionale (e morale), procurò, a quel che si legge, tanti odi e guai’. Peccato che sia mancato, nel 1541, a soli 47 anni! Svizzero di nascita, e laureatosi a Ferrara, penso che Salisburgo (chiesa di S. Sebastiano, dove è sepolto) sia davvero fiera di ospitarlo.
Gianfranco Mortoni