Il coraggio di dire: l’Italia è di chi ci nasce
di Andrea Di Consoli
QUEL CHE IERI PIERLUIGI BERSANI HA DICHIARATO SUL DIRITTO DI CITTADINANZA ai figli di immigrati che nascono sul suolo italiano è un sussulto di coraggio e di intelligenza in un’Italia avvoltolata nell’esiguo vocabolario della crisi, terribilmente uguale a quello della paura. Cosa vogliamo dire? Che gli stranieri che vivono in Italia, e che decidono di farvi nascere i propri figli, sono una ricchezza straordinaria, non una minaccia al nostro troppo mitizzato benessere. Che cosa c’è di più bello di uno straniero che trova nel tuo Paese la pace, il lavoro, una casa e la possibilità di un’esistenza dignitosa? Di uno straniero che sceglie, tra i tanti Paesi del mondo, proprio il tuo?
Eppure tanti italiani continuano a sedersi comodamente sulla sintassi della loro inspiegabile superiorità: gli immigrati sporcano, rubano, spacciano, violentano le donne, ecc. Ignorando, del crimine, l’universalità, nonché la destinazione e la committenza, tutta rigorosamente «made in Italy». Diciamola tutta: chi lava, nell’Italia di oggi, il sedere ai nostri anziani genitori? Chi lava i nostri piatti sporchi? Chi raccoglie i nostri pomodori? Chi impasta le nostre pizze? Chi ripara le nostre suole, magari ricevendo in cambio paghe inadeguate oppure tutte le delizie del lavoro nero e del caporalato?
Nonostante tutto, questi stranieri che qualcuno vorrebbe ancora oggi vedere seppelliti nei fondali del Mediterraneo continuano ad amare il nostro Paese, a studiare la nostra lingua, a cucinare i nostri prodotti, a meravigliarsi delle nostre bellezze. Spesso, inoltre, decidono pure di far vivere in Italia i loro figli, ovviamente sperando che qualcuno si accorga della loro italianità, profondamente arricchita di culture e di memorie lontane.
Da qualche mese, inoltre, sta avvenendo qualcosa che dovrebbe allarmarci: molti immigrati stanno decidendo di ritornare nel proprio Paese di origine, perché qui da noi, per tanti motivi, è diventato troppo difficile vivere. Qualcuno soprattutto nel centrodestra, ne siamo certi, sospirerà di soddisfazione. Noi invece ne siamo preoccupati. Anzitutto perché il nostro calo demografico ci renderebbe ancora più deboli come sistema-Paese. Poi perché potrebbe saltare parte del nostro welfare privato e la possibilità per gli imprenditori in crisi di avere manodopera. Infine perché il controesodo sarebbe una chiara testimonianza della bassa appetibilità del nostro Paese.
L’Italia sia, dunque, di chi vi nasce,dichilaamaedichiha interesse a rimanerci. Perché se gli immigrati vengono, vuol dire che vivere in Italia è anche conveniente, e bisogna finalmente smetterla di considerare la convenienza un movente di serie B. Siamo certi che Bersani non abbia inteso esprimere buoni sentimenti, magari per assecondare la parte buonista del suo elettorato. Bersani sa che ogni bambino figlio di immigrati che nasce nel nostro Paese deve essere messo nelle condizioni giuridiche, sociali, economiche, culturali di essere una forza e una risorsa del nostro Paese. In tal modo, paradossalmente, fondando un concreto patriottismo che sia basato sull’inclusione.
l’Unità 24.6.12
Bersani: Pd senza padroni. Prima legge sulla cittadinanza
All’assemblea dei segretari di circolo nessun accenno alle primarie
«La prima norma del governo del centrosinistra dirà che tutti i bambini nati in Italia sono italiani»
di Simone Collini
ROMA Neanche un accenno a Matteo Renzi e solo un passaggio dedicato alle primarie, sostanzialmente per dire che non bisogna pensarci adesso. Al centro dell’intervento con cui Pier Luigi Bersani chiude l’Assemblea nazionale dei segretari di circolo del Pd c’è invece altro. C’è la rivendicazione del fatto che il Pd è un partito «senza padroni»: «Non abbiamo padroni ad Arcore, a via Bellerio e neanche i padroni che arrivano via internet», dice con chiaro riferimento al Pdl, alla Lega e a Beppe Grillo. Ma soprattutto c’è un ragionamento già proiettato al dopo Monti, con una rassicurazione sulla «fase di rinnovamento» che si aprirà e con un «impegno» assunto pubblicamente. La prima: «C’è una nuova generazione ormai di lungo corso sui territori, nelle amministrazioni, che salvo l’ausilio di qualche preziosa esperienza dovrà caricarsi le responsabilità che il Pd avrà nel governo del Paese». Il secondo: «La prima norma del nuovo governo di alternativa dirà che tutti i bambini che oggi nascono in Italia e non sono né immigrati né italiani saranno italiani» (su questo tema il Forum immigrazione del Pd ha organizzato per il 4 luglio un sit-it davanti a Palazzo Chigi).
L’Assemblea dei segretari di circolo (6.123 sparsi in tutta Italia) nelle intenzioni di Bersani segna non il via alla sfida con Renzi, nonostante la contemporaneità con l’appuntamento alla Leopolda e il guanto di sfida lanciato dal sindaco di Firenze («io credo che noi siamo maggioranza»). L’argomento primarie per la premiership (di cui si discuterà all’Assemblea nazionale del Pd fissata per il 13 e 14 luglio, che dovrebbe stabilire una deroga allo Statuto per consentire a Renzi di correre) viene toccato di sfuggita da Bersani, più che altro per rispondere alle perplessità sollevate da qualche segretario di circolo («vi garantisco che se ci son dentro anch’io non diventeranno una rissa») e per intimare di non mettersi ora a pensare alle primarie: «Ora abbiamo altro da fare, c’è l’Italia».
LA SFIDA PER IL DOPO MONTI
È proprio questa la sfida a cui pensa Bersani quando incita a lavorare per «aprire» il partito sui territori e a evitare dinamiche dettate dal «correntismo», quando ribadisce il sostegno del suo partito al governo «per quanto non ci sia facile» ma al contempo fa un ragionamento già proiettato al dopo Monti.
La sfida, per Bersani, sarà da giocare su più fronti, contro «chi pensa di guidare stando ai box», contro un Berlusconi che vuole tornare in campo («ma se dopo dieci anni della sua cura non c’è più neanche il campo», ironizza) e contro il malcontento che c’è nel Paese per le misure adottate da un governo di cui Bersani vede «luci e ombre» («su queste siamo pronti ad assumerci impegni per il futuro») e che si riverserà anche sul Pd. «Avremo il battesimo vero del Pd dentro questa crisi», avverte, e «la sfida più impegnativa» dei prossimi mesi sarà «intercettare di nuovo il Paese ora ostile ai partiti»: «Tocca a noi sanare la ferita tra politica e società».
Da qui la volontà di rendere il partito più «aperto e inclusivo» di quanto sia oggi, le rassicurazioni sul rinnovamento e il lancio delle primarie per scegliere anche i candidati al Parlamento, anche se il leader del Pd ci mette l’«avvertenza» che sarà necessario avere nella prossima legislatura gruppi parlamentari con certe competenze: «Dobbiamo garantire la partecipazione e anche un nucleo di competenze, questo è buon senso». Come dice il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo aprendo i lavori, per la selezione dei parlamentari varranno comunque rispettate le regole statutarie, «che sono più stringenti di tante chiacchiere da bar che si sentono in materia»: «Tre mandati massimo e poche deroghe, al massimo per il 10% dei parlamentari uscenti. Tradotto circa trenta deroghe sui 945 candidati a Costituzione vigente. Si può fare di più, certo, ma non partecipo al gioco di chi la spara più grossa per un po’ di visibilità».
Chiaro il riferimento a Renzi, criticato anche da diversi segretari di circolo. Bersani invece pensa ad altro, in primis alle ripercussioni che potrebbero esserci sul piano nazionale se il Consiglio europeo di fine mese non dovesse portare agli esiti sperati: «Non credo possiamo dire che ci avviciniamo al vertice in condizioni di tranquillità. Problemi ci sono ancora, bisogna dare un segno di discontinuità e non di ulteriore traccheggiamento. Altrimenti ci saranno conseguenze non solo sul piano economico ma anche su quello culturale e politico».
Non sarà il Pd a far mancare il sostegno a Monti, anche perché, dice Bersani, «l’emergenza che c’era non è scomparsa» e perché il Pd «vincerà, ma non sulle macerie del Paese bensì su una prospettiva per l’Italia». I movimenti di Berlusconi però preoccupano. Uno showdown in autunno impedirebbe a Bersani di portare a compimento il percorso pianificato, che prevede il cambio di legge elettorale, la definizione di una «carta di intenti» da far sottoscrivere a chi vuol far parte della coalizione dei progressisti e le primarie per la premiership. Quando si riunirà l’Assemblea nazionale del Pd, a metà luglio, il quadro sarà sufficientemente chiaro per capire quali di questi tre obiettivi sarà possibile raggiungere.
La Stampa 24.6.12
Bersani: “Il voto a ottobre? A questo punto il rischio esiste”
Il leader Pd: escalation dei toni del Pdl, Berlusconi vuole restare in campo
di Carlo Bertini
ROMA In pubblico, chiudendo l’assemblea dei circoli Pd, Bersani dice che «ci avviciniamo al vertice europeo in condizioni certo non tranquille, perché i problemi ci sono ancora e bisogna dare il segno di una svolta, altrimenti ci saranno conseguenze sul piano economico e politico». In privato, il leader del Pd veste i panni dell’analista e la profezia non è delle più rosee «perché il rischio che si voti a ottobre a questo punto inizio a pensare che esista davvero». E anche se questo rischio sembra farsi ogni giorno più concreto, Bersani non perde il suo àplomb, «perché sono fatalista» e non teme di caricarsi l’onere di governare in mezzo alle temperie, «in ogni caso ci dobbiamo provare». Ma è chiaro che a suo avviso il responsabile di uno sbocco così poco augurabile per il paese ha un nome e cognome, Silvio Berlusconi.
In pubblico, Bersani lo sfotte, «dice che scende in campo: ma guarda che dopo dieci anni di cura non ci hai lasciato nemmeno il campo! Trattieniti, gli dico, ma pare di no». E giù applausi dei mille, giovani e meno giovani, segretari di sezione. Ma in privato, l’analisi è meno sbrigativa e parte dalla premessa che «tutte le dichiarazioni di questi ultimi giorni di quelli lì del Pdl sono in salita e sembrano portare verso questo esito del voto». Il Bersani dei conversari più riservati torna indietro nella memoria e ricorda di «averci preso due volte, una con il governo Prodi e l’altra con Berlusconi, quando pur non capendo bene dove andava a cascare l’asino, fiutavo che stava cascando lì... ». Il disegno che sembra avere in testa il Cavaliere, al segretario Pd appare chiaro, in quanto «Berlusconi vede che si apre uno slargo in quell’area del populismo alla Grillo e vede che Alfano non ce la fa a recitare quel copione. Il punto per lui è avere uno spartito e un interprete. E se è vero che lo spartito deve suonare una musica border-line al grillismo, pur senza essere consonante su ogni nota, dicendo un giorno che siamo fuori dall’euro e l’altro aggiustando il tiro, è chiaro che l’interprete di questa musica non può che essere soltanto lui».
Ecco, dietro queste considerazioni attribuite al «nemico» potrebbe esserci pure quella che magari per molti nel Pdl non sia più un tabù l’ipotesi di staccare la spina al governo perché la linea di lotta può esser premiata dai sondaggi. Lo stesso Bersani gira le piazze d’Italia «e quando vai a un’assemblea c’è sempre uno che si alza, di solito il più anziano, e ti chiede, “perché non torniamo alla lira? ” Ecco allora tocca caricarsi la fatica di spiegare bene quali sarebbero le conseguenze». Bersani lo dice chiaro e forte dal palco della Fiera di Roma che «noi del Pd, anche se ci costa tanta fatica, manterremo l’impegno di lealtà al governo, sulla cui azione ci sono luci e ombre e tante cose sono difficili da digerire. Ma vista dall’ottica dei mercati, cosa devono pensare di un paese dove il primo partito, cioé il Pd, è responsabile ed europeista, il secondo nei sondaggi, cioé Grillo, sostiene che non va restituito il debito, il terzo che vuole stare fuori dall’euro? Perché dovrebbero prestarci i soldi? Noi dunque dobbiamo essere popolari e non populisti: spieghiamo che se crollasse l’euro arriverebbe una recessione di dimensioni cosmiche; che chi ha i soldi all’estero e i debiti in Italia fa un affarone, mentre chi guadagna in Italia avrebbe in tasca carta straccia... ».
Per questo, la linea di Bersani resta quella di un patto «con le forze che vogliono far argine al populismo, pure Casini dice che non si può non governare con la sinistra riformista». Poi fare di tutto per cambiare il porcellum come si può, per far scegliere gli eletti alla gente». Quindi va scritta una carta d’intenti per perimetrare il campo dei progressisti; poi primarie aperte, «che finché ci sarò io non si trasformeranno in una rissa. Nessuna faziosità, nessuna tifoseria. Ed è ovvio che serve il rinnovamento, abbiamo tanta gente di qualità tra i nostri amministratori, ma non si può escludere l’ausilio di esperienze preziose». Tradotto, avanti con le deroghe ai tre mandati in Parlamento, alla faccia di Renzi, mai nominato malgrado la sfida a distanza col rivale.
Anche se si voterà a ottobre, Bersani non esclude di fare le primarie, «non è detto che in quel caso saltino», mentre è sempre più lontano da Di Pietro, che «se si votasse oggi sarebbe fuori dall’alleanza e in ogni caso le ammucchiate prive di contenuti non le voglio».
Corriere 24.6.12
Bersani: attenti, si rischia il voto a ottobre
Il segretario: Berlusconi vuole le urne
Vinceremmo sulle macerie, non sarebbe facile governare
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Il rischio del voto a ottobre esiste davvero»: è un Bersani pensoso quello che dietro il palco dell'assemblea dei circoli del Pd ragiona ad alta voce sulla situazione politica. «D'altronde tutte le dichiarazioni e le azioni del Pdl delle ultime settimane portano lì», aggiunge il segretario, prima di rivelare inedite doti da Cassandra: «Devo dire che per due volte, quando sono caduti Prodi e Berlusconi, ci ho preso. Non capivo bene dove andava a cascare l'asino, ma fiutavo che stava per cascare. E anche adesso inizio a pensare...».
Il leader del Pd lascia in sospeso la frase, ma non i pensieri che si affollano nella mente. Né i dubbi. O i timori. Si è andato convincendo che Berlusconi possa staccare la spina al governo con l'obiettivo di andare alle elezioni candidandosi per l'ennesima volta a premier: «Il Cavaliere ha uno spartito, che è border line rispetto al grillismo, ed è quello per cui un giorno dice che dobbiamo uscire dall'euro, e quello dopo aggiusta il tiro, ma lascia capire che l'aria tanto è quella. Ora il problema è che oltre a uno spartito bisogna sempre avere anche un interprete e Berlusconi vede che Alfano non ce la fa a recitare quel copione e pensa di poter essere lui il solo interprete». Ma perché il centrodestra punterebbe alle elezioni anticipate, rischiando il tonfo? Il leader del Partito democratico teme che possa «passare l'idea che buttando giù Monti si guadagni nei sondaggi», visto che il Paese è sempre più in affanno. «Pure noi - ammette Bersani - quando giriamo per le assemblee del Pd incontriamo sempre qualcuno che si alza - magari i più anziani - e chiede: "Perché non torniamo alla lira"?». La risposta a questa domanda il segretario la dà più tardi, dal palco: «Non sottovalutiamo il Berlusconi sull'euro: se tornassimo alla lira sarebbe un crollo di dimensioni cosmiche».
Ma anche «l'aria che tira» in Europa preoccupa non poco Bersani: «È brutta: se al vertice di fine giugno i tedeschi non faranno concessioni sarà un problema, e da quello che si è visto a Roma nella riunione a quattro non pare proprio che siano disposti a farne. Insomma, non ci stiamo avvicinando a quell'appuntamento in condizioni di tranquillità». Il segretario sa che se ci fossero le elezioni dietro l'angolo il Pd vincerebbe, ma non vuole «una vittoria sulle macerie». Del resto, Bersani sa anche che appoggiare il governo non è sempre facile: «Sappiamo cosa ci costa, sappiamo le cose che non vanno e le cose difficili da digerire». Ma che ne sarebbe del nostro Paese se la legislatura si interrompesse prima del tempo? «È vero che noi potremmo vincere, con il 25 per cento, con il 30...ma il punto è un altro. Vista con gli occhi dei trader di Londra e New York quale sarebbe la situazione? Si domanderebbero perché mai fare i loro investimenti in Italia dove il primo partito, il Pd, è responsabile e vuole l'euro, ma il secondo è per la non restituzione del debito pubblico e il terzo con Berlusconi vuole uscire dall'euro. Metà Paese ha queste pulsioni qua e governarlo non sarebbe facile...». Bersani non vuole che la spina venga staccata anzitempo. Ma è uomo pragmatico e non vuole trovarsi impreparato nel caso di voto anticipato: «Le primarie ci saranno lo stesso, aperte, apertissime». E questo è l'unico accenno indiretto a Renzi, che, per il resto, Bersani snobba e infatti non pronuncia mai, nemmeno una volta, il suo nome. Ancora sul voto, anche se sarà anticipato, assicura il segretario, «non andremo con un'ammucchiata». Quindi senza Di Pietro? «Se il voto fosse domani non ci sarebbe storia: lui sarebbe fuori». Invece la porta è sempre aperta per Casini: «I centristi sanno che non si può non governare con la sinistra riformista. D'altronde anche quello che sta succedendo in Europa lo dimostra: Bayrou in Francia si è spostato a sinistra. Quindi il Pd può pure vincere le elezioni, ma in ogni caso proporrò ai moderati un patto di legislatura».
Bersani prevede tempi difficili: «Siamo al passaggio più critico dal dopoguerra, c'è un senso di impotenza rispetto alle misure per affrontare la crisi». Eppure...«Eppure dobbiamo provare a governare. E su questo non sono preoccupato, sono fatalista. Eppoi, diciamo la verità: il nostro è un grande Paese. Con tutto quello che succede, contro ogni previsione, il nostro bacino di imprese che esporta va avanti come un treno. È tutta gente che non sa nulla di articolo 18, articolo 19...ma lavorano a testa bassa e portano avanti il Paese, perché noi non siamo come la Spagna, è bene saperlo».
il Fatto 24.6.12
Qui Roma
“Tocca a noi, che paura”
di Fabrizio d’Esposito
Le primarie e Matteo Renzi possono aspettare. Al sindaco di Firenze, Pier Luigi Bersani, non dà nemmeno la dignità del nome. Mai citato. Poi un doppio avvertimento: “Stiamo tranquilli, finché ci sono dentro io, le primarie non saranno una rissa. Però adesso abbiamo altro da fare”. Questo è il punto. Spiega il segretario del Pd, colorando la frase con un finale dialettale: “Non è che adesso voi dovete cominciare a organizzare le primarie nèèèèèè”. Capito?
PADIGLIONE 14 della Nuova Fiera di Roma. Il Pd riunisce in un capannone enorme i suoi segretari di circoli. Dovrebbe essere la giornata dell’orgoglio di Partito, con la maiuscola iniziale, contro le velleità dei rottamatori. Ma Bersani ai suoi collaboratori consegna riservatamente un’altra preoccupazione. Dopo la svolta populista di Fiuggi del Cavaliere no-euro, un timore inchioda i vertici democrat: le elezioni anticipate a ottobre. In pratica, il treno del voto è partito e al momento le percentuali sono pari: 50 per cento che si va alle urne, 50 no. Tutto è legato al vertice europeo del prossimo fine settimana. Anche in questo caso domina il pessimismo. B., già “disperato” per le sue aziende, potrebbe rompere per cavalcare la tigre della destra demagogica. Non a caso, l’ex premier viene evocato più volte da Bersani: “Vuole scendere in campo, ma non c’è nemmeno più il campo. L’ha distrutto lui”. Nel sarcasmo viene rosolato pure il restyling del Pdl: “Berlusconi è alla caccia del nuovo nome del formaggino. Tempo fa ha rifiutato la mia proposta di chiamarlo ‘Viva la mamma’”.
L’ironia è l’arma con cui il leader del Pd tenta di esorcizzare il possibile assalto mortale di B. al governo Monti. Il pericolo è europeo: “Il grande campo di battaglia sarà una destra ricattata e populista. Noi non stiamo a quel punto perché Berlusconi si limita a dire di uscire dall’euro, ma se viene giù l’euro è una tragedia di proporzioni cosmiche”. Davanti a migliaia di segretari di circolo e amministratori locali, Bersani ripete una decina di volta la parola “partito”: “Siamo gli unici a chiamarci così”. C’è un’antica fierezza in questo mantra. Contro Berlusconi ma anche contro Grillo: “Noi siamo senza padroni. Non ne abbiamo: né ad Arcore né via Internet. Ci sono operazioni inedite tipo partiti per procura. Chi comanda non si candida, si mette il burqa e vuole guidare la macchina stando ai box. Torneremo all’invisibilità del comando? ”.
Il Movimento 5 Stelle è al centro di una ricerca commissionata dal Pd alla Swg di Roberto Weber. L’elettorato grillino è composto così: 18 per cento dal Pdl; 14 dall’Idv; 10 dal Pd; 22 dall’area del non voto; 11 dalla Lega; 9 dal Terzo Polo; 5 dalla sinistra radicale; 2 dallo stesso M5S; 9 da altri. Per Weber, la scommessa vera del Pd è in questa cifra: il 39 per cento degli italiani oggi è indifferente al risultato delle elezioni. Motivo: “Sono indifferente a chi vincerà perché tanto la mia vita non cambierà”. Chiosa il sondaggista, intervenuto dal palco: “Qua dentro dovete mettere la vostra rete di vendita nel senso più nobile del termine”. Missione quasi impossibile in questi tempi di crisi. Lo ammette lo stesso Bersani: “Saranno mesi duri in cui sarà difficile anche dare un volantino. Questo è un governo di luci e ombre, alcune cose sono difficili da digerire. Ma noi non vogliamo vincere sulle macerie”.
VINCERE: ma con quale legge elettorale? Bersani allontana il sospetto di volere, sotto sotto, il Porcellum: “C’è qualcuno che lo crede in questa sala? Noi vogliamo il doppio turno ma stiamo sbattendo al muro perché non abbiamo la maggioranza”. Ergo, il Porcellum potrebbe rimanere lo stesso. Magari con i nominati scelti alle primarie. Alla fine, in ogni caso, “toccherà a noi” governare. Sempre che il partito faccia prevalere i pregi sui difetti. Elencati con puntiglio: “anarchismo, feudalizzazione, faziosità, personalismi, spirito divisivo”. Un messaggio per Renzi ma anche per suoi giovani turchi Fassina e Orfini: “Io mi ritengo moderatamente bersaniano, senza faziosità”. Finisce con una promessa: la cittadinanza con lo ius soli. Poi parte una canzone dei Negrita. “Ho imparato a sognare”. La stessa già usata da Renzi tre anni fa. L’unica citazione impropria dell’avversario.
il Fatto 24.6.12
Qui Firenze “Dove voglio arrivare?”
Pd, derby non giocato
Renzi congeda i “vecchi”, ma non si lancia Bersani snobba la rissa, ma è preoccupato per il voto
di Wanda Marra
Questa macchina fotografica ve la ricordate? Una Polaroid. Ecco la foto. Questa, invece, è una Polaroid di un modello più nuovo. Un altro scatto. La foto è la stessa, ma cambia la qualità”. Dal palco del Big bang. Italia, obiettivo comune, Matteo Renzi si diletta con le immagini. E dunque, quella del primo atleta che fece il salto in alto all'indietro, “potenziando del 25 per cento le prestazioni sportive”, i fotogrammi di Mary Poppins in cui il giovane protagonista non riesce a schioccare le dita, “perché non basta uno schiocco per risolvere i problemi dell' Italia”, un omaggio video alle mamme di tutto il mondo. E poi Fabio Volo ne La febbre che al capo dello Stato dice: “Non voglio più essere cittadino”. “Dove voglio arrivare? ”, si chiede (più o meno retoricamente) Renzi. Eppure, la domanda centra il punto. Dove vuole arrivare? Sono passati otto mesi dalla Leopolda e con il Big bang di ieri sembra la accomuni solo il nome.
OTTO mesi fa il sindaco di Firenze si era preso tutta la scena, con una manifestazione che irradiava energia, che incuteva timore all'establishment democratico. La scenografia con i dinosauri, il succedersi di economisti alla Zingales e scrittori alla Baricco, persino la colonna sonora quasi ossessiva targata Jovanotti. Nulla di tutto questo, nell'evento di ieri. Scenografia sobria. Lavori condotti da un terzetto anomalo: l’ex direttore di Media-set, Giorgio Gori, il presidente del Consiglio regionale dell'Emilia Romagna, Matteo Richetti, e un ex candidato perdente alle primarie di Palermo, Davi-de Faraone. Renzi tra la gente a prendere appunti. Sala non affollatissima. Interventi, scanditi dal gong, di amministratori locali, per lo più sindaci o assessori di piccolissimi centri, che con loro hanno portato una foto simbolica (dalla cartolina turistica del luogo di provenienza a primi piani dei convenuti). Apre il sindaco di Finale Emilia, Fernando Ferioli, tra i luoghi più colpiti dal terremoto. Ognuno racconta la sua esperienza, la sua battaglia civica. Una platea tipica del Pd piu’ tradizionale, infatti quasi tutti gli amministratori sono stati eletti con i democratici. Un pubblico molto simile a quello che sta seguendo Bersani a Roma, come sottolinea il portavoce Di Traglia su Twitter. Ma manca il centro. “Vanno cambiate forme, idee, facce, regole del gioco”, spiega Renzi. Insomma, una rottamazione versione soft? Il sindaco di Firenze attacca: “Grazie d'Alema, Veltroni, grazie Rosy, Marini per quello che avete fatto per il paese, ma anche basta. Si può fare politica senza essere attaccati alla poltrona”. Però manda un saluto “affettuoso” a Bersani.
RENZI non annuncia la candidatura neanche stavolta: “Aspettiamo le regole”, dice. Vuole primarie aperte, perché “senza quelli che hanno votato Berlusconi noi le elezioni le perdiamo”, anche se diventa viola se gli si nomina il progetto raccontato dall'Espresso per candidarlo nel centrodestra. Un tormento-ne che ormai va avanti da un anno. In mezzo c'è stato il Big bang di Monti, Bersani, garante dell'equilibrio costituito, si è ripreso il partito e quello di Renzi rischia di assomigliare a un boomerang. “Siamo un noi e questo noi deve esprimere una candidatura”, dice poi in conferenza stampa. Ma non è mai sembrato così solo: Pippo Civati è in vera rotta di collisione. E la Serracchiani, che doveva venire a chiudere, ha cambiato idea: arriva nel pomeriggio dopo essere stata ai circoli. Manca perché in vacanza Del-rio, presidente dell’Anci, vero pezzo forte. Anche se “Matteo non ha paura neanche del diavolo”, come racconta qualcuno, intorno a lui si nota una certa perplessità: si vuole candidare, si candiderà. Che possa vincere, nonostante le sparate (“Siamo noi la maggioranza del Pd”), forse non ci crede neanche lui. A Firenze non si parla di elezioni a ottobre. Ma certo, se ci fossero, la questione primarie decadrebbe. “Matteo ha 37 anni, in quel caso continua a fare il sindaco di Firenze”, dicono nel suo staff. Forse senza troppi rimpianti. A un certo punto riempiono la sala le note de L'estate sta finendo dei Righeira. Praticamente non è cominciata.
Repubblica 24.6.12
Renzi, il nuovista arcaico
di Miguel Gotor
IN UN tempo in cui le campane suonano a morto per i partiti, la giornata di ieri ha rivelato che, almeno il Pd, è vivo e lotta fra noi. Sono state organizzate due assemblee, una a Roma e l’altra a Firenze, ricche di energie democratiche. Nella Capitale si sono riuniti oltre 6000 segretari di circolo. Un terzo aveva fra i 20 e i 30 anni, un mondo di volontariato civile in rappresentanza degli oltre 600mila iscritti. A Firenze è stata la giornata di Matteo Renzi che ha raccolto un migliaio di amministratori, per lo più giovani e dinamici. In tanti pensavano che il sindaco di Firenze avrebbe colto l’occasione per annunciare la sua candidatura alle primarie, ma sembra che l’appuntamento sia di nuovo rinviato. In verità, l’argomento utilizzato da Renzi è apparso debole perché tutto formalistico, avendo egli sostenuto di voler conoscere, prima di candidarsi, le regole delle primarie, come se esistessero norme che possono di per sé farlo vincere, a prescindere dai contenuti politici della sua sfida. In realtà, nonostante i filmati di Mary Poppins, le foto con la polaroid e l’abbronzatura salutista, la proposta di Renzi stenta a decollare, a causa di tre limiti che egli potrebbe ancora riuscire a correggere. Il primo è l’assenza di una lettura critica della lunga stagione berlusconiana. Su questo punto la sua analisi è elusiva o culturalmente subalterna, nel solco di una stessa traccia populistica e personalistica. Non a caso l’Espresso ha pubblicato un dossier che lo indica come possibile leader della destra. Il sindaco di Firenze ha smentito vigorosamente, ma dovrebbe interrogarsi su come sia stato solo possibile concepire nell’entourage vicino a Berlusconi una proposta così offensiva. A questo proposito certo non è aiutato dall’avere a fianco una raffinata testa d’uovo del berlusconismo degli anni ruggenti come Giorgio Gori. Sullo sfondo di quest’opzione c’è il convincimento che, dopo il Cavaliere, la nuova offerta politica dovrà avere necessariamente dei contenuti populistici e plebiscitari non alternativi. È un’analisi rispettabile, ma che non tiene conto dei danni che quell’esperienza politica ha comportato per il tessuto civile di questo Paese e del travisamento della realtà prodotto, i cui costi saremo costretti a pagare a lungo. Il secondo limite è quello di fondare la propria identità politica contro il suo partito. Renzi non parla quasi mai degli avversari (Berlusconi, la Lega, Grillo, la destra), ma si scaglia soltanto contro il Pd e la sua classe dirigente, essendo consapevole che quella è l’unica ragione per cui è ascoltato. Così facendo si propone di raccogliere il risentimento antipartito e di volgere a suo favore il vento dell’antipolitica, ma ha difficoltà a elaborare un pensiero propositivo che possa consentirgli di entrare in connessione sentimentale con l’elettorato progressi- sta. Il problema è serio e sbaglierebbe se continuasse a sottovalutarlo. Egli comunica di continuo l’impressione di trovarsi nella parte sbagliata del campo e, se fa bene a ricordare che non è un delitto piacere alla destra, dovrebbe però porsi il problema di piacere, almeno un po’, anche al centrosinistra. Al contrario, su alcune questioni la dissonanza è clamorosa. Ad esempio, durante le laceranti discussioni relative alla riforma dell’articolo 18, nelle stesse ore in cui Bersani era impegnato in una battaglia in cui stava difendendo le ragioni costitutive del Pd, l’ultima cosa che un aspirante leader progressista avrebbe dovuto dire è «che dell’art. 18 non me ne po’ frega’ de meno». La sensazione è che il sindaco di Firenze si stia servendo del Pd per provare un’operazione di sfondamento a destra di carattere presidenzialista, mescolando i voti di entrambi gli schieramenti, qualcosa di simile ( si parva licet) a quanto tentò di fare nel 1974 un altro toscano come Fanfani in occasione del referendum sul divorzio. Una strategia ambiziosa, ma che dovrebbe indurlo a candidarsi direttamente come premier, senza passare attraverso la strada delle primarie. Forse il suo attuale esitare scaturisce proprio dalla presenza di quest’allettante possibilità. Il terzo limite si chiama nuovismo, ossia l’esaltazione acritica del cambiamento in quanto tale. Ma dietro l’immagine guascona si assiste al restauro di una patina collegata agli anni Ottanta che viene furbescamente presentata come nuova e originale. Il sindaco di Firenze parla sempre di futuro, ma lo fa in modo archeologico, usando la carta giovanilistica dello scontro generazionale per coprire il tratto moderato del proprio progetto, che ha una chiara impronta craxiana, di cui Berlusconi è stato l’originale erede. Renzi ha indubbie qualità politiche corsare che si basano sul potere di interdizione e di ricatto e, con questo suo modo di fare, sembra il figlio ideale di Ghino di Tacco. Nonostante simili limiti politici, che spetta a Renzi impegnarsi a migliorare se li riterrà tali, sale dall’assemblea fiorentina una voglia di cambiamento e un nucleo di modernizzazione che è parte integrante del tessuto del Pd e che Bersani farebbe bene ad ascoltare. La sfida, dunque, è quella di riuscire a connettere le energie dell’assemblea di Roma con quelle di Firenze, senza viverle come alternative. L’errore più grave sarebbe avvitarsi in una discussione sulle primarie, tra colpi bassi e scontri personali, che finirebbero per favorire l’eventuale sfidante, trascurando l’Italia e la sua crescente mancanza di lavoro, di uguaglianza sociale e di fiducia in se stessa.
il Fatto 24.6.12
Si salvi chi può. Le deroghe ai 3 mandati
Il responsabile dell’organizzazione del partito democratico, Nico Stumpo, l’ha annunciato con una certa naturalezza: le deroghe saranno “poche, il 10 per cento, una trentina in tutto”. Eppure la notizia non è di poco conto: chi saranno i 30 fortunati che non dovranno sottostare al limite dei 3 mandati parlamentari previsto dallo statuto del Pd? Certo, in confronto ad oggi, sono pochissimi: in Parlamento, ora, ci sono già 35 onorevoli Pd fuori statuto, e al prossimo turno elettorale se ne aggiungeranno altri 59 non ricandidabili, poichè al momento sono al loro terzo mandato. Stumpo ha detto che il Pd “rispetta le regole” e che i tre criteri con cui verranno composte le liste elettorali sono “il criterio di genere, la competenza e il radicamento territoriale”. Giusto come promemoria, ricordiamo chi sono i parlamentari con il record di legislature: Massimo D'Alema, Anna Finocchiaro e Livia Turco (7 a testa), Franco Marini, Walter Veltroni, Anna Serafini (moglie di Piero Fassino), Giovanna Melandri(a quota 6). Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti e Antonello Soro (fermi a 5). Quello in corso dovrebbe essere l’ultimo mandato anche per Bersani, Letta e Franceschini. Deroghe permettendo.
l’Unità 24.6.12
Destra e sinistra esistono, spaesato chi voleva andare “oltre”
di Massimo Adinolfi
NEL PAESE NEL QUALE NON ESISTONO LA DESTRA O LA SINISTRA O PERLOMENO: NEL PAESE IN CUI PER ANNI SI È PROVATO A DIFFONDERE L’IDEA CHE DESTRA O SINISTRA NON ESISTONO, E CIOÈ: NEL NOSTRO PAESE la sentenza con la quale il tribunale di Roma ha chiesto alla Fiat di assumere a Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom viene commentata così: «Siamo un Paese dove può succedere di tutto, compreso il fatto che il potere giudiziario possa imporre un imponibile di manodopera ideologizzata». Non so se è chiaro: la Fiat esclude sistematicamente i lavoratori iscritti a un sindacato, e quando un giudice fa notare la cosa, Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare, riesce a dire che è tutto il contrario, è il potere giudiziario (non il tribunale, un giudice, la magistratura, no: il potere giudiziario) ad infiltrare la fabbrica con operai comunisti.
Tuttavia, non esistendo la destra e la sinistra, visto che il campo politico è permanentemente in corso di ristrutturazione e intanto abbondano leader nuovi e opinion maker vecchi che si spacciano per nuovi, insomma gente per la quale queste categorie sono obsolete,
suonano insopportabilmente novecentesche, e soprattutto frenano lo sviluppo del Paese, le parole dell’ex ministro restano lì, tra il paradosso e la boutade, e non possono essere classificate come meritano.
In questo stesso Paese né di destra né di sinistra, nel quale la parola libertà viene declinata anzitutto come libertà dal fisco e dalla giustizia non come libertà politica o libertà civile capita anche che si possa progettare la costruzione di un nuovo rassemblement politico al grido di liberazione dall’euro (o se proprio non ci si può liberare dall’euro, che ci si liberi almeno dai tedeschi). Dal momento che non sono più disponibili le categorie di destra e di sinistra, non si sa più bene come prendere neppure queste manifestazioni di prorompente orgoglio patriottico. Poi però viene in soccorso Francesco Storace uno che incomprensibilmente non rinuncia a chiamare La Destra il suo movimento il quale giustamente rivendica la primogenitura dell’idea. Lui per la verità dice di più: questa storia della moneta unica non funziona, una moneta è poco, ce ne vogliono almeno due, lira e euro insieme a circolare, e soprattutto: non paghiamo i debiti alle banche straniere. È evidente che manca solo lo slogan per convertire questa politica in una nuova, travolgente battaglia autarchica e allora sì che si capirebbe in che Paese siamo, o rischiamo di finire.
Ma diciamo la verità: oltre la destra e la sinistra non ha provato ad andarci solo il nostro Paese. Di nostro ci mettiamo quel mix di fantasia e cialtronaggine che non ci facciamo mancare mai: ci mettiamo Sacconi e Berlusconi, oppure i processi di piazza evocati da Grillo o gli editoriali de Il Giornale che per criticare Balotelli se la prendono col multiculturalismo: cose così. Ma sta il fatto che il 1994 non è solo l’anno in cui il Cavaliere vince le elezioni, è anche l’anno in cui in Inghilterra si pubblica Beyond Left and Right, “Oltre la destra e la sinistra”, del teorico della Terza via, Anthony Giddens, il guru di Blair. Questo libro non mi sarebbe ricapitato tra le mani se l’editore non avesse deciso di ripubblicarlo lo scorso anno, con prefazione di Michele Salvati. Il quale Salvati, nel dare conto di argomenti, limiti e meriti del libro, fa la seguente osservazione critica: Giddens tratta la globalizzazione come una variabile indipendente del suo ragionamento, oggettiva, naturale, inevitabile. E invece «questi fenomeni hanno madri e padri, Margaret Tatcher e Ronald Reagan, e le cose potevano andare diversamente se non avessero prevalso le idee di cui quei leader politici erano portatori». Giusto, ben detto. Ma come si fa allora a dire che bisogna andare oltre la destra e la sinistra?
Non basta. Giddens scriveva nel ’94, rileva Salvati, e dunque «non gli si può far colpa di non aver previsto la grande crisi di questi ultimi anni». E qui no, non ci siamo proprio: né con Giddens, né con Salvati. Perché neanche la crisi è imprevedibile, naturale e inevitabile. Pure la crisi ha madri e padri, e variabili assunte come indipendenti e idee che ci hanno portato sin qui. E forse, se non fossimo andati troppo oltre con questa storia della destra e della sinistra che non ci sono più, ce ne saremmo accorti prima di una nuova edizione del libro di Giddens.
Repubblica 24.3.12
Beppe Grillo e Berlusconi all’assalto del potere
di Eugenio Scalfari
C’È STATO a Roma venerdì scorso il “quadrilatero” dei premier di Germania, Francia, Italia e Spagna. Tema: la sorte dell’euro e dell’Europa.
Ma c’era stato qualche giorno prima a Ginevra un incontro di banchieri e industriali sullo stesso tema. Tedeschi, italiani, olandesi, spagnoli, inglesi, il fior fiore dell’economia reale e finanziaria. Spero che i lettori capiranno perché do la precedenza al “meeting” di Ginevra: registra in modo più autentico lo stato d’animo degli operatori, dei risparmiatori, della cosiddetta borghesia produttiva. Come era facile prevedere, i tedeschi ragionavano in modo completamente diverso da tutti gli altri e – questo è stato il fatto più rilevante di quel “meeting” – non sembravano affatto preoccupati di quanto sta accadendo in Europa e nel mondo. Le loro tesi si possono sunteggiare sui seguenti punti: 1. La Germania ha già fatto le riforme necessarie a trasformare l’economia rendendola idonea ad affrontare i problemi posti dalla globalizzazione.
2. In particolare hanno riformato il welfare e il mercato del lavoro, hanno aumento la competitività delle loro imprese, hanno accresciuto la penetrazione delle loro merci, delle loro aziende e dei loro investimenti in tutto il mondo e non soltanto in Europa.
3. Sono molto pochi anzi, quasi nessuno, i Paesi membri dell’Unione che hanno imitato la Germania. Ma adesso è venuto il loro turno, sono in ritardo e sono anche riluttanti a percorrere
quella strada.
Malgrado questa riluttanza e il disordine delle loro economie, la Germania – punto 4 – ha accettato di rinunciare alla propria moneta dando vita alla moneta comune. È stato un gesto di solidarietà e di fiducia nel futuro dell’Europa, ma assai male ripagato dagli altri partner.
5. Se i Paesi oberati dal debito, da disordine finanziario, da mercati del lavoro inefficienti e da pubbliche amministrazioni elefantiache e improduttive, imboccheranno un percorso virtuoso l’Europa ce la farà ad uscire dall’emergenza, ma fin d’ora bisognerà procedere verso un’architettura degna d’uno Stato federale. Ci vorranno dunque cessioni di sovranità da prevedere fin d’ora con una tempistica rapida; esse riguardano, per cominciare, la politica fiscale, l’unità bancaria, il programma di sviluppo, la riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.
6. Qualora i Paesi in questione non adempiranno a questi impegni saranno loro a mettere le premesse per uscire dall’euro, ma potranno sempre rientrarvi quando ne saranno in grado. 7. Quand’anche restasse sola, la Germania manterrà la moneta europea e sarà comunque in grado – anche da sola – di affrontare le sfide dell’economia globale.
Gli altri partecipanti a quell’incontro hanno ovviamente esposto le loro critiche, hanno fatto notare che il peso dell’unificazione tedesca è stato sopportato in ampia misura anche dal resto dell’Europa, hanno affermato che l’eccessiva sobrietà peggiora in modo drammatico la recessione rischiando di avvitarsi su se stessa. Per ragioni di cortesia (mal riposta secondo me) non hanno ricordato ai loro colleghi tedeschi che la Germania ha debiti storici indelebili con il resto del mondo. Ma si sono comunque trovati di fronte ad un muro rafforzato dall’indifferenza verso un possibile trauma generale dell’Europa. Alcuni dei partecipanti hanno anche avuto l’impressione che i tedeschi presenti a quell’incontro se lo augurassero.
Va aggiunto comunque che non c’era in quell’incontro alcun membro dei governi dell’Unione. I pochi politici tedeschi erano di area liberale.
Questo è quanto accaduto a Ginevra
qualche giorno fa.
* * *
L’incontro a quattro svoltosi a Roma venerdì scorso ha fatto emergere alcuni segnali inusitati. Angela Merkel ha accettato il piano di investimenti europeo di 130 miliardi e la Tobin Tax sulle transazioni bancarie. Le altre questioni e cioè la Grecia, le banche spagnole, la “golden rule” chiesta da Monti, saranno discusse al vertice europeo del 28 a Bruxelles. Può sembrare poco o molto, ma comunque segnala una Merkel in evoluzione.Questa purtroppo è l’Europa, anzi questa è la Germania. La maggioranza dei tedeschi è convinta che la Germania, anche da sola, può navigare senza problemi nell’economia globale. Del resto molti italiani – a cominciare da Beppe Grillo e da Berlusconi – sono convinti che per l’Italia è più opportuno tornare alla lira. Sono forme di collettiva follia che si stanno purtroppo diffondendo.
Ma che cosa ne pensano veramente gli italiani?
* * *
Questa domanda è capitale perché non riguarda solo i nostri destini nazionali. Noi abbiamo un ruolo decisivo in Europa e l’Europa ha un ruolo decisivo nel mondo. Non siamo una dittatura ma una democrazia. Fragile quanto si vuole, spesso percorsa da tentazioni popu-liste, soggetta al fascino di demagoghi incantatori, rappresentata da una classe dirigente non sempre (anzi quasi mai) all’altezza dei compiti che dovrebbe svolgere. Siamo comunque una democrazia basata sulle scelte del popolo sovrano. Ma il popolo sovrano procede a corrente alternata. Se esercita la sua sovranità tenendo conto degli interessi generali tutto andrà per il meglio; ma se privilegia tentazioni, seduzioni, clientele, voti di scambio, allora lo sfascio diventerà inevitabile.I nostri interlocutori tedeschi possono ostentare indifferenza perché ritengono di salvarsi in ogni caso, ma noi no. Noi, con scelte dettate da rabbia distruttiva, saremo proiettati in un futuro a livello di Paesi africani. L’ancoraggio europeo per noi è vitale proprio perché siamo fragili. La Grecia è fragile, il Portogallo e l’Irlanda sono fragili, ma nessuno di quei Paesi è determinante per il destino dell’Europa. La Spagna è determinante e noi lo siamo ancor più della Spagna.
Nell’intervista che Mario Monti ha dato a Repubblica nel quadro del nostro “meeting” bolognese, ad una domanda sul nostro futuro così ha risposto: «Quando mi si fa questa domanda mi viene da pensare all’ammontare eccezionalmente elevato del nostro debito pubblico. Sono 2 mila miliardi di euro, il 120 per cento del reddito nazionale, accumulato durante il decennio 1975-1985 e da allora mai diminuito. Che cosa è stato fatto con quella mole immensa di ricchezza che i risparmiatori hanno
prestato allo Stato? Sono state costruite nuove e necessarie infrastrutture? È stata trasformata la pubblica amministrazione? È stata aperta la via alle giovani generazioni? È stato insomma fatto dell’Italia un Paese veramente europeo? A me non pare. Forse è venuto il momento che gli italiani si pongano questo problema».
Mentre Monti diceva quelle parole anch’io ho cercato di rispondere a quella domanda: che cosa abbiamo fatto noi italiani, noi cittadini elettori, noi popolo sovrano? Quante volte da allora il popolo sovrano è andato a votare? Si è mai posto quella domanda? Ha mai punito quella classe dirigente che adesso è definita la casta? Se è una casta, come mai è lì da trent’anni? Ma sbaglio il conto: se una casta c’è, essa ci governa dai tempi della Dc. Quarant’anni ha governato quel partito senza soluzioni di continuità, associando al governo, man mano che diventava necessario, i partiti laici prima e poi il Partito socialista. Il debito pubblico, l’immenso debito pubblico raggiunse il massimo ai tempi del duopolio tra Dc e Psi, Forlani, Andreotti, Craxi. Si chiamò “l’Italia da bere”. Il popolo sovrano prestava i soldi e ne riceveva pingui interessi ma anche elevata inflazione. «La nave va» si diceva.
In realtà gli italiani di allora lasciarono il debito ai figli e ai nipoti e gli lasciarono anche la casta da loro votata e confermata.
Adesso scaricare sul futuro il debito pubblico è diventato impossibile. La nave non va più, la zavorra va buttata fuori bordo. E che cosa fa il popolo sovrano? Si innamora del demagogo di turno che promette di cacciar via il primo governo che sta tentando di riportarci a galla.
Per realizzare quest’obiettivo il demagogo di turno predica lo sfascio totale attaccando soprattutto un presidente della Repubblica che è riuscito a tener dritta la barra del timone nel mezzo d’una tempesta paurosa, uno tsunami che infuria da quattro anni nel mondo intero.
Il demagogo di turno utilizza la rabbia proveniente dai sacrifici ma anche la faziosità di chi si frega le mani col tanto peggio tanto meglio. E finisce col trovare convergenze con il demagogo che fu messo in libera uscita otto mesi fa ed ora cerca di riemergere inalberando la bandiera dell’anti-euro e del ritorno alla lira.
Due demagoghi, quello di ieri che vuole tornare al timone e quello di oggi che se ne vuole impadronire con le stesse ricette. Il primo ci ha condotto al punto in cui siamo, il secondo per ora ha conquistato il Comune di Parma un mese fa e non è ancora riuscito a fare la giunta.
Io ho fiducia negli italiani, il nostro “meeting” di Bologna mi ha molto confortato, le piazze e i luoghi del dibattito erano gremiti di giovani. Ne abbiamo tratto grande conforto. Ma quando leggo i sondaggi che danno il demagogo al 30 per cento ed oltre e l’ex demagogo che speravamo in pensione ma che è ancora speranzoso di ascendere al Quirinale e vedo la tremenda – tremenda – somiglianza tra quei due Dulcamara, allora lo sconforto riprende il sopravvento.
La rabbia bisogna saperla indirizzare. La rabbia può servire a costruire scegliendo la saggezza e la responsabilità civile, oppure a distruggere affidandosi ancora una volta alla demagogia. Questa è la sfida cui il popolo sovrano dovrà rispondere.
il Fatto 24.6.12
Sul blog di Beppe lo spot di Forza Nuova
La notizia ha fatto subito il giro della rete: sul blog di Beppe Grillo, visitatissimo e punto di forza del Movimento 5 stelle, è comparso un annuncio di Forza Nuova. Il partito della destra radicale, guidato da Roberto Fiore, ha tenuto un incontro proprio ieri a Bari. Una manifestazione per «parlare del signoraggio bancario e della crisi, ma anche dell'avanzata dei movimenti nazionalisti in tutta Europa». Il banner dello spot rimanda a un sito di informazione “tze tze”, ma sarà un caso, una distrazione?
Il Pd ha protestato: “La pubblicità di Forza Nuova,che appare sul Blog di Beppe Grillo è una vergogna e ci auguriamo che il fondatore del Movimento 5 stelle voglia cancellare”, ha detto Emanuele Fiano, Responsabile Sicurezza del Pd. In serata il banner pubblicitario è stato tolto.
il Fatto 24.6.12
Vittorio Sgarbi
“Il piano per portare B. al Quirinale”
di Malcom Pagani
A Fiuggi Berlusconi ha dimostrato che c’è. Si è tolto dai piedi il modestissimo Alfano. Ripartiamo”. Vittorio Sgarbi, presto segretario del Partito della rivoluzione, prepara le omonime giornate. “Ci conteremo. Batterò l’Italia in 5 date, da Milano a Cefalù”. Per bastigliesco simbolismo ed endemica megalomanìa aveva scelto sabato 14 luglio. L’afflato ideale si è scontrato con le code verso il mare e Vittorione si è riscoperto realista. “Sarà il 13, col cazzo che lascio morire una grande idea nel vuoto di una città deserta. Sono libero e posso dire ciò che voglio. Con la nomenklatura dei Gasparri, dei Cicchitto e degli Alfano pasteggio. Niente sarà più come prima. I satrapi tardano a capirlo”.
Alfano ieri faceva finta di nulla. Parlava da segretario.
Nonostante sia stato io a suggerire Berlusconi di non abbandonare i suoi figli per un figlio di puttana come me e allo stato non sia chiarissimo chi sostituirà Angelino, una certezza c’è. Alfano non sarà mai candidato premier.
Cosa glielo suggerisce?
Tempo fa io e Volpe Pasini siamo stati da Berlusconi.
Risultato?
Pasini, anima pulita, ha invitato Silvio a ripresentarsi da leader. Io, dissidente autonomo, ho suggerito il passo indietro. “Devi ritirarti e capeggiare una lista giovani del Pdl”.
E Berlusconi?
Ci ha ascoltato. L’idea è semplice. Geometrica. Berlusconi deve accordarsi con Casini e Bersani, ottenere dall’agonia di Monti un proporzionale alla tedesca e aspettare.
Aspettare cosa?
Che attirati dall’urlo della foresta, gli elettori distratti dalla diaspora tornino a noi. Via da Grillo, a destra.
Il famoso spacchettamento.
Mi segua. Una lista Storace, 3%. Un’altra della Santanchè, al 4. C’è già il nome: “Partito delle donne forti”. Iconografia? Una testa di Minerva.
Originale.
Non mi interrompa. Ai due si aggiungerà la nuova An, un altro 5, la lista di Silvio che può valere il 13 e poi il mio partito.
Partito?
Pdr. Amo le parole rivoluzione e partito. Offrono appartenenza. Se nel Psi di Craxi rubavano tutti non significa che l’intera storia repubblicana sia da buttare.
Con i suoi calcoli siamo al 25 per cento. Opposizione?
Io dico il cazzo che mi pare e sarei il Grillo del Pdl. Valgo almeno il 5. Arriviamo al 30.
Non basta.
Si perde certo, ma poi a dare le carte sarebbe Bersani e se passa il proporzionale con lo sbarramento al 5%, Berlusconi si opporrebbe a qualsiasi nome e una convergenza andrebbe trovata per forza.
Un Monti 2?
Ma non per colpa del proporzionale. È lo schema più bipolarista che c’è. Chi non arriva al 5 è fuori.
Chi non arriva al 5?
La banda dei falliti, in primis Fini. Il vuoto cosmico, il niente in regimental, un comico. Lui e il suo amico Montezemolo.
Non le piace?
Un pusillanime che non vuole rischiare di sporcarsi a destra e politicamente è già morto. Poteva essere funzionale alla fase dell’egemonia di B. Oggi è carta straccia.
Ma lei insulta.
Prove tecniche del partito della rivoluzione, prego. Urlerò forte.
Qualcuno dovrà pur governare.
È per questo che il teorema Renzi non solo era verosimile, ma vero. Berlusconi sarebbe potuto finire al Quirinale, ma non considera il ragazzo esattamente un genio. Renzi avrebbe avuto una chance. Solo che non ci arriva.
Non ci arriva?
Poverino, è fesso, non ha capito un cazzo. Dalla Gruber gli ho detto quanto lo stimassero Dell’Utri e Verdini ed è impallidito: “Sono di sinistra. La destra è il male”. Patetico.
Quindi, par di capire Sgarbi, la solita ingovernabilità .
Dipende dal Pd. È dissanguato da Napolitano, ma con Casini, forse Di Pietro e Saviano può superare il 40.
Quando si vota?
Credo a ottobre. Mi devo sbrigare. Per prima cosa, abolizione delle regioni che sono più inutili delle province e dei comuni con più di 100.000 abitanti. Nessuno è più stupido di un Alemanno che vuole svendere l’acqua pubblica a Caltagirone, né più superfluo di un Pisapia. Un collegio di saggi per le grandi città, ecco. Poi accorpamento degli stipendi tra deputati e amministratori locali. A Montecitorio non fanno un cazzo, è ora che lavorino.
Ma lei a Venezia era il principe degli assenteisti.
Se lo ridice la querelo. Torniamo alle regioni. Cosa ha fatto il presidente della Lombardia? Mezza legge sui parchi.
Sarà contento Formigoni.
È l’ultimo al mondo di cui mi freghi qualcosa. Ma la stessa legge non poteva farla il Parlamento?
Nella scorsa legislatura ne discutevano al telefono Bocchino e Bisignani.
Accadono delle schifezze, è vero, ma non significa che Formigoni o Lombardo servano a qualcosa.
l’Unità 24.6.12
Lusi: «I rutelliani sapevano»
Interrogato per 7 ore a Rebibbia L’ex tesoriere della Margherita: «Gli investimenti erano pattuiti»
I legali chiedono la scarcerazione o i domiciliari: «Ha raccontato al Gip come funzionava il sistema»
di Giuseppe Vittori
ROMA «Tutti gli investimenti immobiliari che ho fatto dal 2007 in poi li ho fatti per conto della corrente rutelliana, c'era un preciso patto fiduciario». Questo uno dei passaggi del lungo interrogatorio, nel carcere di Rebibbia, del senatore Lusi davanti al gip durato oltre sette ore.
Il senatore durante l'interrogatorio di garanzia ha ripercorso tutta la sua attività di tesoriere della Margherita. Ha precisato che «dal 2001 al 2007» il controllo che operava sui bilanci del partito era «regolare e rigoroso e riguardava una verifica accurata di tutte le entrate e le uscite». Dal 2007 in poi, ovvero da quando il partito si scioglie, ha precisato Lusi davanti al gip, il suo controllo operato sui bilanci «è stato solo un controllo formale e non riguardava le entrate e le uscite», dunque «era meno accurato». L’ex tesoriere ha ricordato il patto spartitorio 60-40, del quale aveva già parlato durante l’interrogatorio con i magistrati romani, ma ha aggiunto «che tutti gli investimenti immobiliari» da lui fatti, tracciabili e riconducibili appunto alla sua persona «sono stati fatti per conto della corrente rutelliana e in virtù di un patto fiduciario con tale corrente per fare rientrare i soldi in questa maniera». Secondo quanto si è appreso, il senatore avrebbe anche ammesso che in questo meccanismo di gestione poco accurata dei bilanci si sarebbe anche lui appropriato di somme di denaro. Ma ha più volte sottolineato che la stragrande maggioranza degli acquisti di immobili sono stati fatti proprio in virtù del patto con la corrente del'ex presidente Dl Rutelli.
L’ISTANZA DI SCARCERAZIONE
Il senatore è nel carcere romano da mercoledì sera, dopo che Palazzo Madama, con il sì del Partito democratico e il non voto del Popolo delle libertà, ha autorizzato la richiesta di arresto per la prima volta nella storia del Senato.
Luigi Lusi è accusato di associazione a delinquere e appropriazione indebita, nell’inchiesta che riguarda l’ammanco di oltre 25 milioni di euro dalle casse della Margherita, partito di cui il senatore è stato tesoriere per oltre un decennio (fino a dieci giorni fa), e per la quale sua moglie, Giovanna Petricone, è già agli arresti domiciliari. I due commercialisti che erano stati raggiunti dall'ordinanza di custodia hanno ottenuto nelle scorse settimane l'obbligo di firma.
Il mondo politico è silente, (salvo Francesco Storace, che ha sarcasticamente gigioneggiato sul gioco di parole «Lusi-gnolo» e ha aggiunto: «Se canta farà molto male alla sinistra»), nell’attesa di capire quanto l’ex tesoriere della Margherita spingerà a fondo il coltello nella «chiamata in correità» nei confronti degli altri dirigenti dielle.
Ieri però è intervenuto Matteo Renzi, sindaco di Firenze che era stato tirato in causa dall’ex tesoriere: «È bene che Lusi dica tutto quello che sa, davvero tutto, e che faccia chiarezza. Il fatto che abbia aspettato di essere arrestato per farlo è un po’ triste. Ma io spero che ora dica tutto quello che deve dire». Riguardo ai presunti finanziamenti per delle sue iniziative con fondi pubblici della Margherita, dei quali aveva parlato Lusi, il sindaco di Firenze smentisce categoricamente: «Io non ho avuto un centesimo di finanziamento pubblico».
La Stampa 24.6.12
Politica e affari. Il caso Margherita
Lusi conferma le accuse a Rutelli
Sette ore d’interrogatorio: i soldi li ho investiti per la sua corrente. Gli avvocati : i pm troveranno riscontri
di Grazia Longo
Aveva annunciato che avrebbe «vuotato il sacco» e lo ha fatto. «Tutti gli investimenti immobiliari dal 2007 in poi li ho fatti per conto della corrente rutelliana, c’era un preciso patto fiduciario» ha dichiarato Lusi ai magistrati.
Dopo sette ore e mezzo di interrogatorio gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono confermano: «Ha fornito dettagli ed elementi utili per ricostruire il sistema. Anche gli altri hanno preso i soldi, ha dato tutte le informazioni necessarie. Ora spetta ai magistrati trovare i riscontri». Ha fatto nomi nuovi? «No, non ha fatto nomi nuovi. In passato aveva già chiamato in causa i vertici del partito».
Sono le nove e mezza della sera quando si è concluso l’interrogatorio di garanzia dell’ex tesoriere della Margherita, finito in carcere mercoledì dopo il parere favorevole del Senato alla richiesta di arresto della procura di Roma per «associazione a delinquere e appropriazione indebita».
«Stavolta racconto tutto per davvero, non voglio fare il capro espiatorio» aveva assicurato Lusi, accusato di essersi impossessato di 25 milioni di euro dalle casse del partito (vicenda per cui la moglie Giovanna Petricone è agli arresti domiciliari), e ha mantenuto la promessa. Di fronte al gip Simonetta D’Alessandro, il pm Stefano Pesci e il procuratore aggiunto Alberto Caperna, Lusi ha detto di aver ricevuto 214 milioni di euro dal 2002 al 2011 e, in particolare, dal 2007 consegnava i soldi ai «rutelliani», ma non chiedeva riscontri scritti. A supporto delle sue dichiarazioni ha consegnato agli inquirenti tutta una serie di mail spedite a Rutelli.
I difensori dell’indagato, gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono entrano nel carcere di Rebibbia alle 13. Vogliono mettere a punto gli ultimi particolari con il loro assistito. Escono alle 13.30, per poi rientrare alle 14. Ma prima di superare il cancello della prigione dichiarano: «Il senatore è sereno e tranquillo. Soprattutto è pronto a raccontare tutta la verità».
Lusi aveva già chiamato in causa i vertici dell’ex Margherita, Francesco Rutelli ed Enzo Bianco e, per altri versi, il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Eppure le sue contestazioni non hanno trovato ancora riscontro: la procura e la guardia di finanza di Roma hanno avviato approfondite indagini per verificare le sue informazioni. Invano. Non ce n’è una - finora - che abbia trovato conferma. L’interrogatorio di garanzia rappresenta dunque un punto di svolta?
Lusi, dal canto suo, deve tra l’altro ancora chiarire dove sono finiti circa 5 milioni di euro che mancano all’appello.
Rutelli respinge tutte le accuse e, sicuro di sé, dichiara: «Se ha detto questo è fuori di testa, farà la fine di Igor Marini». Anche il sindaco di Firenze prende le distanze. «E’ bene che Lusi dica tutto quello che sa, davvero tutto, e che faccia chiarezza» dichiarava Renzi prima dell’interrogatorio dell’ex tesoriere. «Il fatto che abbia aspettato di essere arrestato per farlo è un po’ triste». E ancora: «Io non ho avuto un centesimo di finanziamento pubblico. Ci sono stati contributi di Lusi anche ad iniziative della Margherita a Firenze, ma non hanno riguardato le mie campagne elettorali. Io i soldi li avevo chiesti alla Margherita, ai Ds ed al Pd. Ma non li ho avuti. Non ho avuto un centesimo di finanziamento pubblico. Anzi, io sono favorevole all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti».
Inevitabile l’interrogativo: quello di Lusi è soltanto un bluff? Magari per risparmiarsi il prolungamento della detenzione? Infatti i suoi difensori, al termine dell’incontro tra i magistrati e il loro assistito, avrebbero chiesto la remissione in libertà o una diminuzione della misura cautelare in atto.
Nel caso, oltre al senatore e alla moglie, sono coinvolti anche due commercialisti che dall’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari hanno ottenuto l’obbligo di firma.
Per Lusi, invece, il tribunale del Riesame ha confermato la misura emessa dal gip nel maggio scorso (e che non poteva essere attuata prima del voto del Senato in virtù dell’immunità parlamentare). I difensori, gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, hanno proposto ricorso in Cassazione. Per ora Lusi resta a Rebibbia. Certo, molto dipenderà dall’esito dell’interrogatorio di garanzia.
il Fatto 24.6.12
Il tradimento degli intellettuali
di Paolo Flores d’Arcais
Il Presidente della Repubblica è il custode della Costituzione o il garante dei partiti? Rappresenta la Nazione, cioè tutti i cittadini, o le nomenklature politiche e altri privilegiati di establishment? L’inquilino del Quirinale e i maggiorenti della Casta sembrano oggi avvinti in una sinergia di reciproco sostegno, a preventiva de-legittimazione e anatema per qualsiasi critica che possa mettere in discussione l’uno o gli altri. Il Capo dello Stato aveva scelto la data del 25 aprile per un attacco in piena regola al movimento di Beppe Grillo, tacciato di qualunquismo. Il Presidente di tutti gli italiani può attaccare una forza politica, a meno che questa non metta a repentaglio la Costituzione repubblicana e il suo fondamento antifascista? Non avendo avuto nulla da ridire né sul partito di Berlusconi né sulla Lega, Napolitano si è inibito il diritto, istituzionale, politico e innanzitutto morale, di criticare chicchessia.
I partiti si sono schierati perinde ac cadaver in sua difesa, quando ha ostracizzato la “campagna di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla”, cioè la pubblicazione delle intercettazioni del suo consigliere giuridico colto in aumma aumma con il testimone (poi indagato) Mancino per intralciare il lavoro di una Procura. Nessun reato? Probabilmente. Mentre in America per intralcio alla giustizia, crimine di particolare gravità, si finisce subito in galera. Si può in buona fede negare che vi sia stata almeno “immoral suasion”?
Schifani ha tuonato che “chi attacca Napolitano attacca il Paese”, con Bersani allineato “toto corde”, mentre Casini haaccusato “schegge della magistratura che forse hanno obiettivi intimidatori”, benché sappia benissim o che non solo il Procuratore antimafia Grasso, ma perfino il Procuratore generale della Cassazione Esposito (che a Mancino dice: “Io sono chiaramente a sua disposizione”) hanno dovuto riconoscere come ineccepibile il comportamento di Ingroia e Di Matteo. Chi ha obiettivi intimidatori?
Pesa, fin qui, il silenzio di tanti giuristi e intellettuali da sempre impegnati nella difesa della democrazia. La loro perplessità non ha nulla di risibile, anzi. Sono angosciati per una crisi gravissima, che potrebbe precipitare al buio e nel buio. Pensano che “lasciar correre” sul Presidente sia il male minore. Hannah Arendt diceva che i mali minori preparano il male peggiore. Napolitano ha spinto pubblicamente perché il Parlamento approvi la legge bavaglio. Siete davvero sicuri che sia questo il male minore?
Corriere 24.6.12
Ingroia: «Evitare strumentalizzazioni su Napolitano»
di Dino Martirano
ROMA — A luglio il Pdl tornerà a chiedere un'accelerazione in aula per il ddl intercettazioni anche se il Pd ha già annunciato che quella legge è inadeguata e per questo deve retrocedere in commissione. Per il ministro della Giustizia Paola Severino, dunque, la via d'uscita è sempre più stretta. E chi in via Arenula sperava in un rinvio sine die per non affrontare a luglio un tema che scotta si è dovuto ricredere davanti al nuovo ciclone intercettazioni che ha investito addirittura gli uomini del Quirinale nell'inchiesta palermitana sulla presunta trattativa tra Stato e mafia nei primi anni Novanta. Il «salto di qualità», di fatto, ha messo in crisi quel fronte politico-giudiziario-mediatico che in 4 anni ha frenato il progetto di Silvio Berlusconi di vietare tutte le pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche per l'intero arco delle indagini preliminari.
«C'è una sorta di nemesi nella storia italiana...», dice ora l'ex coordinatore del Pdl Sandro Bondi che non si è lasciato sfuggire un'occasione ghiotta: «E si scopre improvvisamente che il ricorso sistematico alle intercettazioni è una barbarie inaccettabile, mentre fino a ieri venivano giustificate e considerate necessarie al fine di alimentare una scandalosa campagna mediatico-giudiziaria contro il presidente Berlusconi». Così, a 48 ore dall'intervento di Napolitano («Insinuazioni costruite sul nulla, una campagna di sospetti con ricostruzioni arbitrarie») ecco che il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, prova a gettare acqua sul fuoco. E per farlo, il pm che da lustri indaga sulla presunta trattativa tra mafia e Stato sottolinea l'importanza «delle autorevoli parole del capo dello Stato nel riconoscere il ruolo delle indagini della magistratura».
Ma l'affermazione più importante di Ingroia riguarda la Suprema Corte di Cassazione e le presunte pressioni esercitate sui pm dai palazzi romani: «A noi non è arrivato nessun intervento né dalla Cassazione né da altri. Quindi nessuna pressione nessuna interferenza». Quindi, conclude il procuratore, sul capo dello Stato «bisogna evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione». Invece Antonio Di Pietro, in questa situazione nuova, alza ancora di più la voce: «All'improvviso, la casta ha ricominciato a parlare di intercettazioni e di bavagli. Ma nessuno osi tappare la bocca alla stampa». Di Pietro si riferisce alle prese di posizione di alcuni esponenti moderati del Pd, come Marco Follini, per il quale serve «un ripensamento legislativo».
Alla Camera il testo Alfano è fermo da mesi: il ddl è in Aula per la sua terza lettura senza relatore (si è dimessa Giulia Bongiorno, Fli, e al suo posto è arrivato Enrico Costa del Pdl) e con un carico di problemi. Il nodo politico riguarda la pubblicazione almeno per riassunto delle intercettazioni nel corso delle indagini qualora il giudice decida di allegarle, per esempio, ai decreti di perquisizione. In altre parole, sebbene il testo della commissione preveda un'udienza filtro (quella in cui accusa e difesa selezionano le intercettazioni penalmente rilevanti da quelle irrilevanti), il Pdl è tornato alla carica chiedendo di eliminare anche la possibilità di pubblicare «per riassunto» le intercettazioni non ancora setacciate dall'udienza filtro. Su questo punto, ha confermato Giulia Bongiorno, «non faccio un solo passo indietro».
Il secondo problema è di tecnica: la Camera (in prima lettura) e poi il Senato hanno approvato (con una doppia lettura conforme immodificabile) una proposta che assegna a un tribunale collegiale di distretto (tre giudici) il compito di autorizzare le intercettazioni chieste dal pm. Bene, ha argomentato l'Anm, si rischia di paralizzare gli uffici per il meccanismo delle incompatibilità che impedirebbe a molti giudici di intervenire, in seguito, in un processo sul quale si sono già pronunciati. «Questo non è più un problema perché presto avremo solo tribunali provinciali di grandi dimensioni», dice Enrico Costa (Pdl). Invece, Donatella Ferranti (Pd) chiude ogni spiraglio: «Il testo in discussione in Aula alla Camera non è all'altezza del compito di risolvere le vere problematiche della questione. Sarebbe meglio approfondire la materia in commissione Giustizia».
il Fatto 24.6.12
Carl Colby
La mafia? Contro i comunisti
di Roberta Zunini
Qualunque rapporto non ufficiale e segreto tra la Democrazia cristiana e la mafia, avrebbe avuto perfettamente senso”, dice al Fatto Quotidiano Carl Colby, figlio dell’ex capo della Cia, William: una delle figure più influenti dell’intelligence americana del dopoguerra. L’ex spia statunitense conosceva molto bene la politica italiana. Quando viveva a Roma con la famiglia, negli anni Cinquanta, aveva stabilito un rapporto significativo con Giulio Andreotti. “Non posso giurare che fossero amici, perché ero troppo piccolo per capire cosa significasse l’amicizia o la complicità, ma certo è che si conoscevano bene”.
Carl è autore del documentario pluripremiato intitolato L’uomo che nessuno ha conosciuto: cercando mio padre, spia e direttore della Cia William Colby, che tra poco uscirà anche nelle nostre sale.
IL FILM lascia aperti molti interrogativi, nonostante sia “sharp”, affilato, circa una figura chiave dei giochi più sporchi dell’intelligence americana in tutto il mondo, e anche in Italia, in un periodo cruciale della nostra storia. Carl sottolinea di non essere a conoscenza diretta di una possibile relazione tra la mafia e le istituzioni italiane nel secondo dopoguerra, né tanto meno, vent’anni fa, però: “So comunque che mio padre era a conoscenza delle tensioni tra i partiti italiani e la mafia. Questa organizzazione criminale è stata per lo più in linea con i partiti di destra: non aveva altro posto dove andare a parare. Mio padre, oltre ad aver finanziato una costosa azione politica per portare alla vittoria la Democrazia cristiana contro il Partito comunista, era stato l’artefice della cosiddetta ‘Sinistra aperta’. Credeva che questo progetto politico avrebbe potuto garantire un governo stabile e mantenere la Dc al potere, spingendo i partiti moderati della sinistra (socialisti e liberali) ad affiancarla. È stata una strategia molto controversa e alcuni politici americani, come Joseph P. Kennedy, ne erano contrari”.
LA CIA AVEVA montato la più grande e costosa campagna di azione politica segreta nella sua storia per uno scopo: sconfiggere il Partito comunista più forte d'Europa e portare la Democrazia Cristiana al potere. “Se tutto ciò avesse voluto significare che gli americani avrebbero fatto tutto quanto in loro potere per mantenere il Vaticano e la mafia dalla parte della Democrazia cristiana contro i comunisti, non c’è dubbio che sarebbe stato un prezzo del tutto irrisorio da pagare”.
Carl, occhi di ghiaccio e pragmatismo yankee chiede ai lettori del Fatto Quotidiano: “Voi cosa avreste preferito tra stabilità e controllo politico? ”. Colby, dopo aver vissuto a Roma, si trasferì con la famiglia a Saigon. Scoprì solo per caso, saltando dal trampolino di una piscina frequentata dai figli dei diplomatici, attraverso gli sfottò degli amici, che suo padre non era un semplice funzionario dell’ambasciata americana. Era il numero uno dei servizi segreti. Con licenza d’uccidere.
il Fatto 24.6.12
Pomigliano
Sentenzia Fiom. La Fiat riassumerà i lavoratori?
di Salvatore Cannavò
Come avverrà e quando non lo sa ancora nessuno. La Fiat è rimasta in silenzio per 48 ore e questo fa pensare a una riflessione profonda da parte dell'azienda. Quello che la Fiom, e soprattutto i suoi legali, ripetono in queste ore è sempre lo stesso concetto: "La Fiat deve eseguire diligentemente l'ordine del giudice”. Che è lì, scritto nero su bianco, senza ambiguità o confusioni possibili: “Ordina a Fabbrica Italia Pomigliano – scrive il giudice Anna Baroncini - di assumere 145 lavoratori iscritti alla Fiom”. Si tratta di “un colpo al cuore” alla strategia Fiat degli ultimi due anni, dal referendum di Pomigliano in avanti con il contratto separato, quello nazionale, l'uscita da Confindustria: espellere la Fiom dagli stabilimenti del gruppo. La riassunzione dei 145 a Pomigliano farebbe saltare questa linea perché renderebbe operativa un'altra sentenza, del 16 luglio 2011, emessa a Torino dal giudice Vincenzo Ciocchetti che, mentre sanciva la legittimità del contratto di Pomigliano ordinava però all'azienda di garantire l'agibilità sindacale della Fiom in fabbrica. Solo che fino ad oggi nessun iscritto al sindacato di Maurizio Landini poteva rendere operativa quella decisione. Ora cambia tutto, perché non appena ci saranno le riassunzioni la Fiom nominerà i suoi rappresentanti in azienda, le Rsa e la Fiat si troverà di fronte un antagonista diretto.
AVENDO visto in azione la Fiat negli ultimi anni, però, sono in molti a chiedersi se andrà veramente così o se non ci saranno ulteriori colpi di scena. Del resto, a Melfi la Fiom ha vinto un'altra sentenza importante, quella contro il licenziamento di tre suoi iscritti con l'accusa di “sabotaggio”, reintegrati dal giudice. Ma la Fiat ha preferito continuare a pagare loro lo stipendio senza mai farli rientrare in produzione e “confinandoli” nella saletta sindacale. “A Melfi la Fiat ha sbagliato – spiega al Fatto quotidiano Lello Ferrara, uno dei legali del ricorso vinto dalla Fiom – a Pomigliano però deve eseguire l'ordine del giudice che è immediatamente esecutivo”. L'eventualità che la Fiat aggiri la sentenza non viene presa in considerazione (pagare 145 operai e tenerli fermi ha un costo). Anche perché questa, ad oggi, darebbe vita a ipotesi davvero straordinarie. Una potrebbe essere una sorta di ripicca: assumere 145 operai tranne i 19 iscritti Fiom che hanno presentato il ricorso, cioè il gruppo dirigente del sindacato a Pomigliano. La Fiat potrebbe ottemperare alla sentenza lasciandoli fuori perché l'ordine di assunzione non è nominativo. L'azienda può assumere chi vuole, l'importante è che si tratti di iscritti Fiom. Ma si tratterebbe di “un atto odioso” che darebbe vita a una nuova discriminazione. Altra ipotesi molto ardita è che riassumendo 145 dipendenti l'azienda dichiari un esubero analogo chiedendo la cassa integrazione o la mobilità. Significherebbe mettere la Fiom contro gli altri operai dello stabilimento. Alla Vodafone di Roma, ad esempio, è avvenuto un caso analogo: dopo il ricorso vinto da parte di 33 dipendenti, reintegrati dal giudice in azienda, la Vodafone ha chiesto un esubero proprio per 33 persone. “Ma contro una simile sfacciataggine il ricorso sarebbe senz'altro vinto” spiega sempre Ferrara.
In ogni caso il “pool” di legali e giuslavoristi che ha assistito finora la Fiom contro la Fiat si riunirà il 2 luglio a Bologna proprio per fare il punto. Si tratta di una equipe che ha inanellato vittorie importanti, non solo l'ultima sentenza ma anche quelle di Melfi, Bologna, Modena e Torino. Una squadra prestigiosa che vede la presenza di Piergiovanni Alleva, ordinario di diritto del lavoro all'università di Ancona e per anni presidente della Consulta giuridica della Cgil. E poi quella di altri ordinari di diritto come Franco Focarelli o Antonio Di Stasi insieme agli avvocati del lavoro Lello Ferrara, Elena Poli, Renzo Martino, Alberto Piccinnini, Piero Panici e Emilia Recchi. E' il collegio di difesa collettivo che finora ha messo la Fiat con le spalle al muro. Vedremo nei prossimi giorni le mosse del gruppo diretto da Sergio Marchionne.
l’Unità 24.6.12
Etica e diritti/1
Più coraggio, non devono esistere «cittadini a metà»
di Barbara Pollastrini
OGNI ARMONIA SA USARE NOTE DIVERSE E CON QUESTO SPIRITO MANTENGO ALCUNE DIVERSITÀ DAL DOCUMENTO del comitato presieduto da Rosy Bindi. Un testo complesso, impegnato, con passaggi convincenti a partire dal richiamo a Carte e Trattati sovranazionali e dalla centralità della dignità umana. In questo siamo tra i pochi che cercano di riannodare cultura e politica. Allo stesso tempo sappiamo quanto la credibilità di un partito dipenda dalla chiarezza del suo messaggio. Lo scrivo perché un documento su una «nuova cultura dei diritti» può evitare dettagli legislativi, ma ha bisogno di una corrispondenza tra principi e indicazione dei traguardi. Aggiungo, con umiltà, che una cultura dei diritti deve scolpire i diritti umani come il suo primo comandamento civile. Sono il frutto della migliore civiltà europea. Quella dei lumi, del solidarismo e del dialogo. Non è un caso che il loro tradimento oggi ci consegni drammi e regressioni.
Per un partito democratico è una sfida enorme in un mondo guasto, e in cui liberismo sfrenato e indifferenza etica hanno umiliato dignità e spirito critico. Vale per il lavoro, la libertà religiosa o la lotta contro la pena di morte. Vale per la crescita, per regolare l'economia e le relazioni internazionali. Inguaribili ottimisti sostengono che sui diritti umani si fonderà il nuovo ordine mondiale. E allora questa sia la nostra promessa. Altri, prima di noi, hanno saputo farlo. Penso alla «bibbia laica» che è la nostra Costituzione e all’articolo 3 che enuncia l’uguaglianza dei cittadini e l'obbligo dello Stato a rimuovere gli ostacoli. Sta oggi a noi ricollocare quella promessa nello spirito del tempo. Tradurla in una trama indivisibile di diritti civili, politici e sociali. Conquiste mai date per sempre ma da difendere, espandere e che vivono nei conflitti sociali e delle idee. Da qui la responsabilità della politica e il senso della sua autonomia. Lo sanno bene le donne che hanno dovuto conquistarsi il rango di soggetto costituente nella storia dei diritti umani universali. Non a caso su questo piano nel mondo si consuma una «guerra» per il potere sul corpo femminile. Che siano stupri etnici, burqa o infibulazione. O nel cortile di casa nostra, la violenza.
Anche il tema del bilanciamento tra diritti richiede uno sguardo umano. Dunque sì all'obiezione di coscienza ma anche due sì all’applicazione dell'intera 194, spesso disattesa per mancanza di medici che praticano l'interruzione o di fondi per la prevenzione. Sì all'attenzione sulla legge 40 che con la sua corazza ideologica ha costretto migliaia di coppie ai tribunali e ai viaggi procreativi. L'agenda è fitta. C'è il tema di un numero elevato di embrioni destinati alla distruzione perché non più impiantabili e che potrebbero salvare da gravi patologie. Se la ricerca sulle cellule staminali non solo adulte, come già accade altrove, può curare persone senza speranza, non è accettabile che l'accesso a nuove terapie sia filtrato dal censo (chi può si cura all’estero). E gli altri? Noi siamo nati per occuparci degli altri. Anche di chi, a proposito del testamento biologico, vorrebbe sentirsi rassicurato sul fatto che l’ultima parola sarà la sua o quella del suo fiduciario.
SOLUZIONE CONDIVISA
Quanto alle unioni gay, penso anch’io che un bimbo possa crescere protetto dall’amore di una coppia omosessuale e che la parola matrimonio non sia un tabù. Ma intanto mi chiedo se una soluzione condivisa non debba essere quella del riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili, omosessuali e non. Scelta compatibile con gli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione e che nulla leva agli investimenti sulla famiglia. Conosco il senso di una ricerca vera; con Rosy e i Dico la praticammo. Oggi semmai serve maggior coraggio nelle scelte. Lo stesso che ha spinto Bersani a proporre verso il 2013 il percorso meno semplice ma più aperto. Mi è stato detto che il documento può contenere tutte queste cose. Vorrei fosse così. Perdonatemi se scomodo il Manzoni: «...perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente...». Le parole sono strumenti fragili o potenti a seconda del loro incastro e di chi le usa. Noi siamo oggi il primo partito del Paese e questo accresce i nostri doveri. C'è un collasso morale delle élites. Sulla crisi economica si consuma la democrazia. Il Pd è nato per ricostruire il legame sentimentale tra politica e persone, tra diritti e etica pubblica, tra individui e comunità. Vuol dire che nessuno dovrebbe sentirsi «cittadino a metà». E, al di là di tutto, la sinistra c'è, lo dico a Castagnetti con la stima di sempre, perché anche io mi senta un «residuo» meno solo quando cerco di difendere un punto di vista.
l’Unità 24.6.12
Etica e diritti/2
La politica ha un limite di fronte alle coscienze
di Paolo Corsini
AI FINI DI UNA CORRETTA VALUTAZIONE DEL DOCUMENTO SUI DIRITTI ELABORATO DALLA COMMISSIONE presieduta da Rosy Bindi, credo si debba tener conto della sua natura e finalità: da un lato si è prodotto un testo di cultura politica non dunque una trattazione giuridico-filosofica dall’altro si è inteso offrire al decisore politico il partito, i suoi gruppi parlamentari chiamati alla produzione legislativa un quadro di riferimento generale peraltro da sottoporre al dibattito di una più vasta platea di soggetti. Oltre che ai protagonisti della vita politica del Paese, all’intera società italiana da tempo segnata da profondi cambiamenti di costume, di stili di vita, di pratiche comportamentali. È da condividere, pertanto, il giudizio espresso a caldo da Pier Luigi Bersani allorché osserva che «quel documento...ci mette in grado di inquadrare le decisioni che dovremo prendere su una base molto solida», aggiungendo, subito dopo, che «c’è uno spazio enorme per decisioni più coraggiose» da assumere tanto nelle sedi di partito quanto a livello istituzionale. Come a dire un documento aperto, non definitivamente asseverativo come non potrebbe essere che riflette l’impegno ad una interrogazione permanente, doverosa per un partito plurale e pluralista, quanto ai diversi approcci culturali e antropologici, qual è il Pd.
Del resto posso testimoniare di un dialogo fecondo che ha visto protagonisti i membri della commissione, un dialogo che è proceduto non attraverso mediazioni la cultura politica non deve mediare, deve elaborare e chiarire le proprie posizioni bensì mediante progressive e reciproche acquisizioni, in vista di un arricchimento di tutti. Acquisizioni su di un arco assai ampio di temi che investono il quadro dei diritti, sino a quelli, per richiamare una definizione di Norberto Bobbio, di terza e quarta generazione, nella sottolineatura dei nessi di mutua implicazione che presiedono al loro riconoscimento, alla loro tutela e promozione. Come a dire che non c’è diritto umano per fare un esempio da riferire alle esternazioni di Beppe Fioroni se non si afferma il nesso inscindibile che rapporta tra loro diritti civili e diritti sociali. Fondamentale, dunque, il riferimento alla persona, alla sua libertà e dignità, al suo valore, la persona che è soggetto, individuo, cittadino, lavoratore, che va sempre riconosciuta nella sua differenza di genere, come categoria peraltro ampiamente costituzionalizzata e come paragone della dinamica sociale e dell’agire politico.
Sono molteplici i passaggi del testo cui si potrebbe fare riferimento, da approfondire e discutere. Impossibile in questa sede un’evocazione anche solo parziale e limitata. C’è, tuttavia, un aspetto della cultura politica che attraversa il documento meritevole, a mio avviso, di sottolineatura: l’impegno a misurarsi con una dimensione costitutiva del moderno, vale a dire l’assunzione piena della storicità dei diritti dell’essere umano. Dunque la loro evoluzione, il loro sviluppo, la loro affermazione. Il che ci rende più consapevoli della necessità di riconoscere nuovi diritti emergenti e nel contempo di batterci per tutelare i tanti diritti misconosciuti, negletti, addirittura negati.
UN DIRITTO MITE
In linea con questa prospettiva mi pare in effetti cruciale un passaggio del documento che entra nel vivo del rapporto tra diritti ed etica. «Ciò che va valorizzato della deliberazione politica democratica su temi eticamente sensibili è il suo carattere di sintesi provvisoria e sempre perfettibile». Questo orientamento trova la propria ispirazione nella consapevolezza del limite della politica, della sua parzialità, della sua inadeguatezza a dare espressione alla totalità della coscienza di ciascuno. Una formulazione che rimanda, inoltre, ad un diritto mite quel diritto che abbiamo invano richiamato a proposito della volontà del paziente di rifiutare alimentazione ed idratazione forzata volto ad impedire abusi e a porre vincoli all’esercizio del potere, alla stessa normatività della legge. Quel diritto che valorizza la differenza, la pluralità delle visioni etiche. Che, in definitiva, restituisce ruolo ed assegna responsabilità alla politica.
Infine, sulla vexata quaestio dei Dico, delle unioni civili, dei rapporti coniugali tra persone omosessuali, non resta che prendere in mano la sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale secondo cui all’unione omosessuale «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Qui vale, credo per tutti, l’ammonimento, quasi un’invocazione, a «cercare ancora».
La Stampa 24.6.12
Dopo-Bertone, il Papa vuole un “governo tecnico”
Grandi manovre in Vaticano: il Segretario sarà avvicendato
di Giacomo Galeazzi
Vatileaks, il Papa in campo. Ieri mattina Benedetto XVI ha consultato i capi dicastero (incluso il segretario di Stato Tarcisio Bertone), poi nel pomeriggio altri cinque cardinali per arginare la falla provocata dalla fuga di documenti riservati. In Curia, sotto la consueta formalità, si agita la gravità senza precedenti di una crisi di «governance» per la cui soluzione il Pontefice ha avviato consultazioni nel Sacro Collegio. Il sostituto Becciu, vice di Bertone, ammette: «È in dubbio la credibilità della Chiesa, ma non è il momento di abbandonarla».
L’accelerazione impressa da Benedetto XVI si presta nei Sacri Palazzi ad una duplice interpretazione. Da un lato appare iniziato il conto alla rovescia verso un sempre più probabile avvicendamento a dicembre in Segreteria di Stato. Dall’altro viene blindata la Curia, responsabilizzando i ministri circa la riservatezza dei documenti. In pratica il Pontefice sonda le gerarchie ecclesiastiche principalmente sulla possibilità di un «governo tecnico» affidato ad un rappresentante della diplomazia pontificia. Bertone tra sei mesi compie 78 anni e proteste al Pontefice sul suo operato sono giunte sia da maggiorenti curiali sia da vescovi e nunzi. Alcuni errori (come il caso del negazionista Williamson) gli vengono addebitati anche da Joseph Ratzinger che però è consapevole di come il suo più stretto collaboratore subisca la reazione di cordate per decenni dominanti in settori strategici come la sanità e la geopolitica. Quindi, per non rischiare di lasciare campo libero a vecchi e nuovi potentati, il Papa vuole analizzare bene i possibili scenari. Non è detto, perciò, che non decida di mantenere al comando il pur sempre fidato (anche se azzoppato da Vatileaks) Bertone, «commissariandolo» in una conduzione più collegiale della macchina burocratica. A far suonare il campanello d’allarme erano state nelle ultime ore le richieste di chiarimento pubblicamente formulate da due porporati autorevoli come VingtTrois (espressione degli episcopati nazionali) e Turkson. «Il Santo Padre approfondisce le sue riflessioni in dialogo con le persone che condividono con lui la responsabilità per il governo della Chiesa», afferma il portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi.
Il Papa ha presieduto personalmente alle 10, nella Sala Bologna, il «consiglio dei ministri» d’Oltretevere, poi alle 18, nel suo appartamento alla Terza Loggia, si è incontrato con cardinali di sua totale fiducia come Pell, Ouellet, Tauran, Ruini, Tomko per ristabilire «il desiderato clima di serenità e di fiducia nei confronti del servizio della Curia Romana». Un gesto atipico, di eccezionale rilievo. Il Pontefice continuerà nei prossimi giorni i suoi colloqui, «profittando della venuta a Roma di tanti pastori in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo».
Intanto, dopo esattamente un mese dalla perquisizione che ha portato a ritrovare nella sua abitazione una ingente mole di documenti sottratti dall’appartamento pontificio, Paolo Gabriele, il maggiordomo infedele di Benedetto XVI, è ancora agli arresti nella caserma della Gendarmeria Vaticana. «Gabriele è un “mostro” creato dalla vanità di chi gli ha montato la testa sfruttandolo per anni come fonte e poi ne ha perso o ceduto il controllo», commenta uno dei più autorevoli analisti di questioni ecclesiastiche come il vaticanista Salvatore Izzo. «È probabile che Gabriele sia stato raccomandato all’appartamento proprio perché si pensava di poterne utilizzare i servizi. Non si sa se, oltre che ai giornalisti, i dossier finivano anche in altre mani, magari di curiali corrotti che volevano farsene scudo». Benedetto XVI affida ad un «direttorio» di porporati di totale affidabilità la transizione verso la nuova leadership della Segreteria di Stato. Un governo meno italiano e in grado di pacificare la «stanza dei bottoni» della chiesa universale.
Un segno di lungimiranza e di umiltà da parte di un Pontefice che per uscire dalla palude di Vatileaks individua una via d’emergenza ma in prospettiva scorge anche la possibilità di forzare la mano per attuare quella riforma della Curia finora sempre osteggiata Oltretevere.
Nel frattempo la Segreteria di Stato ha nominato consulente per la comunicazione il giornalista Usa della Fox News e membro dell’Opus Dei, Greg Burke.
il Fatto 24.6.12
Così la chiesa tedesca combatte i pedofili
Il vescovo Ackermann: “Indagine nazionale sui dossier di tutti i preti”
di Marco Politi
Stephan Ackermann, 49 anni, vescovo di Treviri è delegato della Conferenza episcopale tedesca per il dossier degli abusi del clero. Un ruolo creato nel 2010, quando in Germania esplose lo scandalo della rivelazione di migliaia di abusi perpetrati in prestigiosi collegi religiosi. Il sistema tedesco è l’esempio di come si può organizzare seriamente il contrasto alla pedofilia. Se non ci si limita a qualche direttiva burocratica come ha fatto la Cei.
Vescovo Ackermann, perché un “delegato nazionale” per la lotta agli abusi?
Si voleva dare un volto all’impegno dello’episcopato. Naturalmente ogni vescovo è autonomo nelle sue responsabilità. Diciamo che ci è stato dato il compito di ricordare alle diocesi le nostre Linee-guida ed esortare alla loro realizzazione.
Linee-guida che prevedono referenti per gli abusi in ogni diocesi.
Il referente, obbligatoriamente, non deve fare parte della direzione diocesana per non dare adito a conflitti di ruolo. A volte il prete rischia di difendere esclusivamente il prete. Perciò è bene che vi siano persone terze.
Poi ci sono gli incaricati a cui la vittima può rivolgersi per segnalare il suo caso. Gli avvisi diffusi dalla diocesi di Treviri, anche via Internet, indicano una donna, giurista, e un psicologo-teologo.
Sono le persone a cui si possono segnalare casi sospetti. E’ un sistema che funziona bene. Sempre più persone si fanno avanti.
Nella tempesta del 2010 un suo confratello ha esclamato: “Ne soffriremo gli effetti per dieci anni…”
Non so quanto durerà. È stato uno choc enorme, un colpo fortissimo che ha scosso tutta la vita ecclesiale. È stata messa a rischio tutta la nostra credibilità, screditando il nostro ruolo morale. Con il risultato di provocare una mancanza di fiducia nel ruolo del sacerdote.
Benedetto XVI riconosce che gli abusi hanno scosso la fede di molti.
Di fronte ad abusatori, che annunciavano il Santissimo e distribuivano il Santissimo nella comunione, come non poteva succedere che per tanti si infrangesse anche il rapporto con Dio? Però altri mi dicono anche: nonostante tutto non ho perso la fede.
Cosa teme di più?
Più ancora delle polemiche mediatiche temo la ritirata silenziosa dei fedeli. L’atteggiamento di quanti si distanziano senza fare rumore. E’ un danno profondo.
Lei non ama la parola abusi. Insiste sul termine violenza.
É una terminologia suggerita dagli esperti e dalle vittime stesse. Perché ab-uso sessuale pare lasciar trasparire che vi possa essere un ‘uso’ positivo di queste relazioni. Invece vi è sempre violenza. Perché da parte dell’abusatore l’attrazione sessuale non c’entra niente. Qui non parliamo di eros. Si tratta unicamente di potere, di uso violento del potere. In una situazione asimmetrica in cui il bambino o il minore è sempre vittima, persino nel caso ipotetico in cui fosse ‘attratto’ da chi gli fa del male.
Non le piace neanche parlare semplicemente di vittime.
Credo sia più giusto parlare di persone colpite. Gli abusati stessi sono stanchi di essere chiamati continuamente vittime. Negli Stati Uniti si usa un termine duplice victim-survivors, sopravvissuti alla violenza.
Come procedete con la denuncia del colpevole?
Non è automatica proprio per rispetto delle persone colpite. Per lasciarle libere di parlare. Le incoraggiamo a sporgere denuncia e facciamo pressione sul colpevole perché si autodenunci.
Ci sono situazioni in cui denunciate?
Ci assumiamo l’obbligo di informare polizia e magistratura in due casi precisi: il pericolo di reiterazione del delitto e l’emergere di fatti che indicano l’esistenza di altre vittime. In ogni caso i responsabili di abusi non sono più messi a contatto con minori o impegnati nel regolare servizio parrocchiale.
L’anno scorso avete preso una decisione cruciale: affidare all’Istituto Criminologico della Bassa Sassonia una ricerca su eventuali abusi perpetrati in tutte le 27 diocesi tedesche dal 2000 al 2010 e un’altra indagine in nove diocesi campione sugli eventi dal 1945 ad oggi.
Permettiamo a una squadra di giuristi indipendenti di esaminare i dossier personali di preti, diaconi e religiosi. È una cosa delicata. Nessun’altra istituzione, nessun ministero lascia che altri gettino uno sguardo in questa maniera nei propri documenti. Siamo gli unici in Germania.
Perché vi siete decisi a questo passo?
Perchè, come conferenza episcopale, vogliamo capire meglio cosa è successo. Scoprire quanto è accaduto. Guardare in faccia la realtà.
Avete anche un sistema di risarcimenti?
Lo abbiamo deciso l’anno scorso. Non sono un fatto giuridico, si chiamano “riconoscimento materiale dell’ingiustizia subita” (5000 euro o più, ndr). Ma paga l’autore del delitto e la diocesi o l’ordine religioso. Noi in sede centrale formuliamo solo una proposta di indennizzo. E’ importante che il responsabile riconosca la sua colpa e paghi. Ma c’è anche chi rifiuta soldi, dicendo: mi sembrerebbe di prostituirmi
Quante richieste avete ricevuto sinora?
All’incirca millecento. A parte sono le spese di terapie individuali o di coppia. Inoltre da noi Stato, Regioni e Chiese hanno creato uno speciale ‘Fondo per bambini dei convitti’, finanziato con 120 milioni di euro.
Dovesse fare un bilancio: a che punto sta oggi la Chiesa?
Tra polemiche e sospetti la nostra credibilità è ancora labile. Un vescovo americano dice che sale e scende come la marea. Siamo in cammino. Si tratta di sapersi confrontare con mancanze e colpe della Chiesa senza sminuire i crimini, volendo trovare la verità.
C’è una domanda che si pone?
Dobbiamo chiederci: cosa è la Chiesa? Certo il miracolo dell’amore di Cristo verso la sua Chiesa resta, ma c’è anche bisogno di uno sguardo disincantato verso la Chiesa nella sua esistenza reale.
LA CHIESA è in cammino, dice il vescovo. A marzo la rivista Spiegel ha denunciato l’esistenza di sette preti pedofili o fruitori di materiale pedopornografico nella sua diocesi. Sono stati allontanati dal contatto con i minori e sono “sorvegliati a vista”, hanno replicato le autorità ecclesiastiche. La lotta è incessante.
Corriere 24.6.12
Da Avignone a Pio XII, la questione anti-italiana
di Luigi Accattoli
Il conflitto tra italiani e «stranieri» intorno ai papi ha tre date di fuoco: il 1348 che segna il momento più basso vissuto dagli italiani nel mezzo della stagione avignonese; il 1523 quando Adriano VI formula un durissimo atto di accusa contro la corte papale; il 1945 quando Pio XII rivoluziona il rapporto tra italiani e non italiani nel collegio dei cardinali e pone la premessa per l'elezione di un papa non italiano.
Il 9 giugno 1348 Clemente VI, Pierre Roger de Beaufort, di nazionalità francese, acquista la città di Avignone dalla regina Giovanna di Napoli per 80.000 fiorini e vi inizia la costruzione del Palazzo dei Papi. La residenza dei papi ad Avignone era iniziata nel 1309 ma solo a metà del secolo si decidono a prendervi dimora stabile. Clemente era un francese orgoglioso di esserlo e a chi sosteneva che il Papa dovesse «comunque» tornare a Roma era solito rispondere che personalmente preferiva Avignone a qualunque altro luogo della Terra. I dieci anni del suo regno furono quelli nei quali probabilmente l'Italia e gli italiani contarono di meno in tutta la storia del papato: egli nomina in totale 25 cardinali, tra i quali i francesi sono 21 e gli italiani 3.
Il 3 gennaio 1523 Adriano VI, Adriaan Florensz di Utrecht, olandese di lingua tedesca, ultimo papa non italiano prima di Karol Wojtyla, fa leggere da un suo legato alla Dieta di Norimberga un testo in cui riconosce le responsabilità della corte papale nella crisi della Chiesa che sta portando alla Riforma di Lutero e Calvino: «Noi sappiamo bene che anche in questa Santa Sede sono accadute cose abominevolissime: abusi delle cose sacre, prevaricazione nei precetti, e tutto infine volto al male». Adriano era osteggiato dalla curia per le intenzioni riformatrici e dal popolo di Roma per la severità in fatto di feste e giochi. Era anche poco amato perché parlava male l'italiano: le «pasquinate» lo bersagliavano in continuità. In quella sua drammatica denuncia egli tuttavia non se la prendeva con il popolo, ma con i papi e con la curia: «Noi intendiamo usare ogni diligenza perché sia emendata anzitutto la Corte romana dalla quale forse tutti questi mali hanno preso l'avvio; da qui allora avrà inizio il risanamento e il rinnovamento, come da qui ha avuto origine l'infermità».
Il 23 dicembre 1945 Pio XII annuncia la nomina di 32 nuovi cardinali tra i quali gli italiani erano solo quattro. Scrisse Silvio Negro sul Corriere della Sera che «fino a domenica mattina il Sacro collegio era composto di 24 italiani e di 14 non italiani, ora i primi sono 28 e i secondi 42. La famosa ipotesi di un papa non italiano è ormai cosa a portata di mano». Passeranno 33 anni e arriverà al papato il polacco Wojtyla.
Da allora la curia romana si è fatta sempre più internazionale e via via più numerosi sono stati i cardinali non italiani. Ci fu una breve stagione — all'inizio del pontificato di Giovanni Paolo II — in cui sia il papa che era polacco, sia il segretario di Stato che era il francese Jean Villot, sia il Sostituto alla segreteria di Stato che era lo spagnolo Eduardo Martinez Somalo, non erano italiani. Per quasi sei mesi, per trovare un italiano al vertice della Santa Sede occorreva scendere al quarto posto, quello del segretario agli Affari straordinari che era tenuto da Agostino Casaroli. Non ci sarà dunque da meravigliarsi se tra qualche mese dovesse arrivare un nuovo segretario di Stato non italiano, pur trovandoci in presenza di un papa non italiano.
Tradizionalmente gli italiani erano guardati con favore nella Curia romana a motivo — si usava dire — di un loro «maggiore equilibrio» nella considerazione degli «affari» riguardanti i diversi paesi: come a dire che erano meno affetti da partigianeria nazionalistica. Oggi la considerazione pare essersi rovesciata di segno e si direbbe che sugli italiani gravi un pregiudizio uguale e contrario che li vuole litigiosi e schierati per bande.
La Stampa 24.6.12
Regole più severe per le visite a pagamento
Solo bancomat o assegni per le parcelle dei medici che lavorano in strutture private
di Paolo Russo
Le liste d’attesa chilometriche mettono il turbo al business dell’attività libero-professionale dei medici mentre il Governo si appresta a varare un “decretone” sanità che proroga fino al 30 novembre prossimo la possibilità di visitare a pagamento anche fuori degli ospedali.
Un dietrofront rispetto a quanto deciso pochi mesi fa dal Parlamento, che aveva decretato lo stop alla cosiddetta intramoenia nelle cliniche e negli studi privati a partire dal 30 giugno.
Il provvedimento che riaccende il semaforo verde alle visite dei medici ospedalieri nel privato dovrebbe essere varato martedì o mercoledì prossimi parallelamente al Decreto sulla Spending review. E sarà un decreto omnibus, con la proroga dei contratti per i precari di asl e ospedali e norme per mettere un freno al boom delle cause sanitarie, limitandole solo ai casi di colpa grave o dolo. Ma la polpa è sull’attività libero professionale dei camici bianchi.
I dati del Ministero della salute dicono che la cosiddetta “intramoenia” frutta oltre un miliardo e cento milioni l’anno e che ai medici ospedalieri rende come un altro stipendio: in media 75 mila euro l’anno. Dalle prime informazioni che si stanno raccogliendo al dicastero di Renato Balduzzi risulta che ad “arrotondare” con le visite a pagamento siano meno della metà dei medici. Ma quelli che ne fanno un vero business sono una minoranza molto più esigua, quasi tutti appartenenti all’élite dei Primari, che sono poi i responsabili dell’andamento dei reparti. Quindi in buona misura anche delle liste d’attesa. Proprio quelle che secondo recentissimi dati del Censis spingono un italiano su dieci a rivolgersi privatamente a un medico pubblico. Per l’esattezza il 56,4% di chi si fa visitare in “intramoenia”. Ed è una scorciatoia sempre più cara. “Dai primi dati raccolti - spiega Francesco Maietta, responsabile politiche sociali del Censis - rileviamo una maggiorazione delle tariffe, che l’intramoenia avrebbe invece dovuto calmierare”. Del resto se ne sono accorti per primi gli assistiti che in quasi la metà dei casi hanno dichiarato di pagare una parcella troppo alta.
Nel frattempo il “decretone” sanità proroga fino al 30 novembre prossimo la possibilità per i medici pubblici di visitare anche in clinica e studi privati. Poi cambieranno le regole. Dopo il 30 novembre le Regioni, fatta una ricognizione sugli spazi disponibili nelle strutture pubbliche, decideranno se acquistare o affittare “spazi ambulatoriali esterni”. Ma dove questi spazi non saranno trovati, cosa non improbabile viste le ristrettezze di bilancio, le Regioni potranno continuare ad autorizzare l’attività anche negli studi privati, compresi quelli dove lavorano medici che svolgono attività libero professionale per proprio conto, senza alcun raccordo con asl e ospedali come è invece previsto per “l’intramoenia”. «Una novità che equivale a un liberi tutti», commenta il responsabile della Cgil medici Massimo Cozza, per il quale «ci saranno meno garanzie di trasparenza e di qualità dell’assistenza, visto che nelle strutture private sono più difficili i controlli sia rispetto alla appropriatezza clinica e diagnostica che agli adempimenti fiscali». E almeno su quest’ultimo aspetto i dati dell’Agenzia delle entrate sembra dargli ragione, visto che in media il 40% dei medici pubblici che lavorano privatamente non emettono fattura ed intascano anche la parte (minima) della tariffa che dovrebbe andare alla Asl. Il tutto mentre percepiscono una tutt’altro che trascurabile indennità di esclusiva.
Per porre freno al fenomeno il decreto Balduzzi alza però delle barriere, vietando il cash e prevedendo solo pagamenti in moneta elettronica o assegni, da intestare alla asl anziché al medico. Inoltre gli studi privati dovranno lavorare “in rete” con l’azienda pubblica e dovranno essere fissate delle tariffe minime e massime per ciascuna prestazione. Novità meno gradita agli assistiti: un obolo del 2% sulla parcella, che dovrà essere destinato alla riduzione delle liste d’attesa.
La Stampa 24.6.12
La Germania e l’abuso della storia
di Gian Enrico Rusconi
Esiste un abuso della storia. Un modo cioè di proiettare sul presente eventi del passato, con l’intento di trarne insegnamenti, mentre in realtà li si deforma strumentalmente. Il passato viene ricalcato sul presente con il risultato di imbrogliarci ancora di più nel capirlo. Si diventa cattivi storici, e ancora peggiori analisti.
Farò due esempi che sono circolati in queste settimane: l’idea di un Piano Marshall per l’Europa affidato ora alla responsabilità tedesca, e l’idea che l’euro sia stato il prezzo pagato dalla Germania per la sua riunificazione, come ultima rata del conto da estinguere per i suoi crimini passati. Come se l’euro avesse una sorta di plusvalore morale ritrattabile.
E’ una tesi che oggi, formulata in modo insidioso, viene messa in circolazione in alcuni ambienti tedeschi. E’ la variante tedesca della voglia di liberarsi dall’euro. La cancelliera Merkel deve tenere a bada questa idea. Questo spiega anche la rigidità della sua condotta politica che mira a salvare ad ogni costo l’euro. A suo modo, naturalmente.
Come si vede, la Germania è sempre al centro di ogni riflessione. Ma in questo caso si tratta di ragionamenti, che spostano il discorso oltre l’altalena degli inconcludenti summit politici, oltre l’oscillare dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Oltre la contingente incontrollabilità del presente, per rintracciare una dimensione storica che ridia senso ad una vicenda che appare fuori controllo.
L’idea di un nuovo Piano Marshall per l’Europa circola da tempo nella pubblicistica, perché fa parte dell’immaginario positivo sulla ricostruzione del dopoguerra europeo. E’ una metafora politico-economica sempre attraente nella sua genericità. Ma settimane fa lo storico americano Charles Maier, eccellente studioso di storia europea, l’ha ripresa sul «New York Times» e su altri giornali, con una rilettura che ha trovato immediata approvazione anche da noi. Lo storico ha usato argomenti apparentemente convincenti per un «Piano Marshall tedesco» a favore dell’Europa. La leadership che la Germania esercita di fatto nell’Unione Europa in modo coercitivo – dice non è vera leadership sin tanto che non si convince delle «ragioni sistemiche» che le impongono di sostenere i membri in difficoltà. La Germania ha già fatto un’operazione analoga per ricuperare le regioni orientali post-comuniste. «Due decadi dopo i tedeschi devono estendere lo stesso senso di obbligazione all’Europa in senso ampio». Ma lo storico fa di più. Invocando un Piano Marshall tedesco osserva che quello americano ha funzionato perché aveva sospeso la condizionale che l’aiuto agli europei dipendesse dall’immediata messa in atto di riforme strutturali. E’ quello che dovrebbe fare ora la Germania nei confronti dei partner in difficoltà - ma qui lo storico Maier – per amore di analogie con il presente - si lascia prendere la mano, dimenticando l’inconfrontabilità della situazione catastrofica dell’Europa postbellica con la natura delle difficoltà dell’Unione europea oggi. Non ha senso paragonare l’iperpotenza americana degli anni 1945-48 con la pur solida posizione economica della Germania di oggi in Europa. Lo storico cancella completamente il contesto internazionale, la competizione con l’Unione Sovietica nella fase incipiente della guerra fredda. Oggi in compenso si è formata una rete insostituibile di istituti finanziari internazionali, l’emergere di grandi nazioni-continenti, competitive ma non reciprocamente aggressive ecc. Insomma il Piano Marshall storico appartiene ad una congiuntura irripetibile. Per convincere il governo tedesco a mutare atteggiamento occorrono ben altri argomenti.
Un approccio apparentemente diverso ha l’argomento storico a favore della opportunità di uscire dall’euro, formulato in Germania con molta risonanza pubblicistica da alcuni personaggi che mettono in campo non soltanto ragioni strettamente economico-finanziarie, ma motivi di altra natura storica. Da settimane sui principali giornali tedeschi si discute dell’ultimo libro di Thilo Sarrazin. «L’Europa non ha bisogno dell’euro». Il dibattito è molto articolato e ricco di dati e analisi economico-finanziarie, ma il tema della legittimità per i tedeschi di uscire dall’euro, emancipandosi da ogni verdetto di colpa storica che continua ad essere loro addossata, sembra rappresentare uno dei motivi profondi. «Settant’anni dopo la seconda guerra mondiale i tedeschi hanno il diritto (e il dovere) nei rapporti internazionali di carattere finanziario di farsi guidare dal proprio ragionevole interesse, senza dover temere sempre la reprimenda morale». E’ in fondo quello che pensano quasi tutti i tedeschi, naturalmente, senza arrivare necessariamente alla conclusione estrema di andarsene dall’euro seguendo il proprio «ragionevole interesse». Ma qui sta l’insidia dell’argomento.
Nella discussione è intervenuto anche il leader socialdemocratico Peer Steinbrueck, ex ministro delle Finanze della Grande Coalizione (guidata dalla Merkel) e probabile candidato cancelliere per le prossime elezioni tedesche. Le sue contro-argomentazioni passano criticamente in rassegna tutte le tesi economico-finanziarie della proposta dell’uscita dell’euro, arrivando ovviamente alla tesi opposta della bontà e necessità dell’euro per la Germania e per l’Europa. Ma non può esimersi dall’enunciare anche un assunto di ordine storico eticopolitico: «L’Europa e quindi la moneta comune non possono essere comprese tramite una mera razionalità economica e fissandosi sui deficit di Stato e dei bilanci di pagamento. L’integrazione europea è la risposta alle catastrofi del XX secolo».
Ma questa affermazione, se non vuole limitarsi ad essere soltanto «politicamente corretta» di fronte alle tentazioni nazional- populiste, deve sapersi articolare in un discorso pubblico convincente. Soprattutto per quanto riguarda la corresponsabilità storica della Germania verso l’Europa, non tanto sullo sfondo delle catastrofi del passato quanto dell’impegno consensualmente assunto nella costruzione della Ue. E’ qui che tocchiamo con mano il senso storico vero di Maastricht e dei patti politici connessi e successivi. E’ a partire da qui che vanno misurate le aspettative e le richieste nei confronti della Germania. E’ questa la storia che ci ha raggiunto, cogliendoci di sorpresa.
l’Unità 24.6.12
Attila Mesterhàzy: «Non lasciate sola l’Ungheria qui si rischia la dittatura»
Il leader dei socialisti ungheresi: «Non esiste più il dialogo, né opposizione a Budapest. Solo l’Europa può aiutarci a uscire dalla deriva del governo Orban»
di Umberto De Giovannangeli
Ha conosciuto di persona il carcere, per aver denunciato la deriva antidemocratica del regime del suo Paese. «Il futuro dell’Ungheria è ostaggio di un regime populista che fa spregio dei diritti politici e civili». A parlare è Attila Mesterhàzy, 38 anni, leader del Partito socialista ungherese (Mszp). A Roma per un incontro con il segretario del Pd PierLuigi Bersani, l’Unità lo ha intervistato.
Il 28 e 29 giugno a Bruxelles si svolgere un Consiglio europeo per molti versi decisivo per il futuro dell’Europa. Qual è la sua posizione in merito?
«Come socialisti ungheresi, ci sentiamo in linea con la posizione assunta dai partiti progressisti europei, che fanno capo al Pse, nel sostenere che le misure di austerità, la fiscalità più dura, non sono sufficienti per far ripartire la crescita. Per la crescita, occorre ragionare sull’occupazione. Per creare lavoro, in Europa è necessario definire strumenti finanziari europei. Perché questa crescita va finanziata. Il che significa rafforzare il bilancio europeo. È necessario riconoscere che fino a un certo livello la disciplina di bilancio è necessaria, ma superato quel livello di fatto congela le possibilità di rilanciare l’economia». Venendo dal quadro europeo alle vicende interne del suo Paese, l’Ungheria sembra essere diventata il laboratorio politico di uno dei più inquietanti populismi di destra in Europa. Qual è oggi la situazione in Ungheria e in che modo le forze progressiste provano a contrastare questa deriva autoritaria?
«Quella ungherese è una situazione particolarmente unica, con una coalizione di centrodestra che ha più di due terzi del Parlamento. Non hanno bisogno di negoziare alcunché con l’opposizione. Possono cambiare la Costituzione, cancellare o stravolgere tutte le leggi precedenti. Non è solo una questione numerica. Il fatto è che la loro linea politica non prevede il dialogo. Non c’è alcun tipo di scambio, di confronto. Nulla. Solo l’imposizione. La stessa cosa avviene nella società. Questo è un governo che non dialoga con le forze della società civile: l’associazionismo, i sindacati,le organizzazioni non governative. Quello che il primo ministro Viktor Orbàn vorrebbe fare non è creare un nuovo sistema democratico in Ungheria, ma realizzare un nuovo “sistema Fidesz” (il partito del premier, ndr). Il sistema dei pesi e contrappesi propri di un Paese democratico stanno venendo meno. Non solo il loro populismo emerge sempre più minaccioso. Ciò che emerge è anche l’estremismo, è la radicalizzazione di alcune opposizioni. Come Sarkozy ha provato a vincere in Francia rincorrendo le posizioni estreme del Front National di Marine Le Pen, anche Orbàn sta provando a fare la stessa operazione in Ungheria. Non c’è più una linea di demarcazione tra quello che è un partito di centrodestra quale tradizionalmente dovrebbe essere Fidesz e quello che è l’estremismo di destra di un partito quale Jobbik, un partito che ha posizioni marcatamente fasciste. Orbàn vuole istituzionalizzare la dittatura e quanto all’Europa, vale ciò che ha affermato in un suo intervento in Parlamento: “Noi non crediamo nell’Unione europea, crediamo nell’Ungheria...», esaltando un deteriore populismo nazionalista. Ad un Paese in queste condizioni, in piena emergenza democratica, noi socialisti proponiamo un’alternativa fondata su tre pilastri...».
Quali?
«Anzitutto, la giustizia sociale. Il secondo pilastro, è l’ancorarsi ai valori europei e al sistema politico-istituzionale europeo, e quindi rafforzare l’integrazione europea. Il terzo pilastro di questa proposta è riscoprire i valori e la pratica della democrazia». In questa ottica, quale contributo può venire dai progressisti europei?
«Una cosa che può essere molto utile è che anche voi vinciate le prossime elezioni... Vorrei che sia chiaro che questo non è solo un mio auspicio, ma di fatto per l’elettorato ungherese, vedere che il vento in Europa sta cambiando, che i progressisti nei diversi Paesi europei in Francia, in Germania, in Italia, in Gran Bretagna stanno recuperando posizioni, tutto ciò dà un nuovo stimolo, una nuova fiducia alla possibilità del cambiamento anche da noi in Ungheria. Altra cosa estremamente importante per la nostra gente è sentire che non sono soli in Europa. Per questo è stato molto importante avere avuto oggi (ieri, ndr) un incontro con Bersani, con l’impegno del Pd di sostenere anche in Ungheria le iniziative che il nostro partito porterà avanti. Allo stesso tempo, sarà importante spingere anche altri partiti progressisti europei a seguire l’esempio di Bersani: ciò ci aiuta perché dimostra una cosa semplice, ma di fondamentale importanza: noi abbiamo partnership, abbiamo amicizia, riceviamo solidarietà dalle forze democratiche e progressiste europee e dai loro leader. Orbàn invece è isolato, perché si è isolato in virtù delle posizioni estremiste che ha assunto in questi due anni. La prova è che è isolato anche nell’area dei conservatori europei».
il Fatto 24.6.12
La medaglia ungherese
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, avrà notato la notizia: Elie Wiesel ha restituito all’Ungheria l’alta onorificenza ricevuta da quel Paese dopo avere appreso che il presidente dell’Assemblea nazionale ungherese aveva presenziato alla commemorazione di un “eroe” fascista. Mi domando come sia possibile che l’Europa tolleri una simile situazione che offende e toglie senso alla storia.
Gabriele
IL FATTO (come riportato da Alessandra Farkas sul Corriere della Sera del 20 giugno) avviene in un Paese rappresentato da una delle stelle della bandiera europea che, sotto la guida del primo ministro Orban, sta diventando completamente fascista. È interessante – e allarmante – notare le analogie con la quasi irrisolvibile crisi economica che l’Europa tenta invano di domare, adesso, dopo averne ignorate le cause per un decennio. I conti in disordine di molti Paesi erano noti, la speculazione giocava come il gatto col topo, a incoraggiare una tendenza alle avventure spericolate, compresa l’intossicazione delle banche e degli enti locali attraverso grandi quantità di titoli spazzatura, bilanci truccati, debiti impossibili, e una vasta e continuata omissione di controllo. Al momento della resa dei conti (condizioni di crisi mondiale) molte situazioni sono apparse (e forse resteranno) insostenibili. Ma erano insostenibili già prima della crisi. E nessuno ha voluto accorgersene. L’Europa senza governo ha covato un problema che non può risolvere perché non ha unito conti e destini. Non sarà la stessa cosa (crisi senza via d’uscita) quando si scoprirà che il fascismo ha già diffuso in modo più o meno profondo il suo focolaio di infezione in molti Paesi non più recuperabili? Alba dorata, il partito greco apertamente e rigorosamente nazista, ha suscitato stupore e scalpore con il suo 6 per cento di voti nel Parlamento greco, nelle ultime elezioni. Ma il partito fascista di Orban in Ungheria incassa “elettoralmente molto di più” fra la disattenzione generale. Ha la maggioranza assoluta, governa, mette a tacere stampa e magistratura elimina dalla vita pubblica gli avversari (togliendo lavoro, cariche, incarichi e visibilità) e ha come sola, importante opposizione, solo il partito Jobik ancora più a destra, ancora più rigorosamente fascista. Tutto ciò dovrebbe richiedere una drastica e netta revisione della Unione europea, Commissione, Parlamento europeo, Consiglio d’Europa. E dovrebbe richiedere capacità di decidere e di imporre che non sembrano esistere. L’Europa che abbiamo fatto decide sulla quantità di cacao nel cioccolato, ma non sulla quantità di fascismo in un Parlamento. Impossibile non riconoscere il vuoto e il pericolo. Il gesto di Elie Wiesel non dovrebbe passare inosservato a Strasburgo o a Bruxelles, o in ogni paese europeo, prima che sia tardi.
il Fatto 24.6.12
Libia
Il patto è sopravvissuto al Raìs
di Furio Colombo
La notizia è che il trattato con la Libia è in vigore. Lo stupore è che si tratta dello stesso trattato firmato e celebrato da Berlusconi e Maroni con Muammar Gheddafi, già capo di un governo che non esiste più, mandante ed esecutore di innumerevoli omicidi, a sua volta assassinato. Lo scandalo è che tutto sia avvenuto quasi in segreto fra due strani contraenti: un governo tecnico italiano che ha deciso, senza dibattito e senza parlamento, di confermare una delle peggiori bravate di Berlusconi, condannata dall'Europa e da tutte le organizzazioni umanitarie del mondo, e un governo libico che non c’è. Infatti in Libia, al momento, esiste solo un debole comitato esecutivo composto da ministri quasi impotenti, che non fingono neppure di governare su un mare di bande armate con piani, interessi, etnie differenti e in lotta tra loro. Cerco di essere chiaro. “Quasi in segreto” significa che di un fatto di tale enormità è stato detto poco o niente, in aprile, al momento della strana firma. Non una parola (non parliamo di conferenza stampa) del governo. E una benevola disattenzione dei media, come se fosse stato firmato un protocollo con San Marino. Ma l’evento è stato reso ancora più strano da due coincidenze. La prima è che, in pieno governo tecnicoeinun’epocachedovrebbe essere diversa, troviamo il ministro dello Interno Cancellieri dirigere la vicenda con lo stesso ruolo improprio del ministro dell'Interno Maroni che, nella brutta operazione “Trattato con la Libia” si era sostituito al ministro degli Esteri del tempo, Franco Frattini, disposto a farsi da parte per cedere spazio al vorace ministro leghi-sta, anche su grandi questioni internazionali.
INFATTI c’erano, in quel trattato, misure crudeli e inumane, per assecondare le ossessioni razziste della Lega: il respingimento in mare, la negazione del diritto di asilo, i mancati salvataggi in mare, la consegna dei superstiti alle prigioni libiche da cui quasi nessuno è uscito vivo, e dove poco è cambiato dopo Gheddafi. La seconda coincidenza è in una maledizione che porta con sè questo trattato. Chi vi partecipa e lo difende assume, quasi inconsciamente, il tono sarcastico e sprezzante che era stato tipico degli estensori, fautori, firmatari e sostenitori del patto Berlusconi-Maroni-Gheddafi. Sentite la risposta di una brava persona come il ministro Cancellieri al giornalista Ruotolo de La Stampa (20 giugno) che chiede se, nella nuova versione, ci sono garanzie sul diritto di asilo (Amnesty International e l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati dicono di no). Afferma la Cancellieri: “Non sopporto i pregiudizi ideologici, le prese di posizione a prescindere. Trovo un che di disonesto nel non riconoscere che, in almeno due passaggi del testo si fa riferimento esplicito ai diritti umani”. Come vedete parole curiosamente risentite, bizzarramente irriguardose, e nessuna vera risposta. Non è molto per un tipo di trattato che dovrebbe essere tutto dedicato ai diritti umani, perché si parla di esseri umani da accettare o respingere in situazioni di vita e di morte. Ed è strano parlarne con offesa irritazione, come rispondendo a un rompiscatole che pone domande futili. Ma il giornalista insiste: né la Libia di prima né questa Libia hanno mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra (sui diritti umani, ndr). Risposta: “Annuncio solennemente che in ogni occasione inviteremo gli amici libici a sottoscrivere la Convenzione”. Non si capisce se la frase sia esasperata, ironica o mal riuscita. Ma intanto la stampa internazionale ci racconta che le condizioni nelle carceri libiche restano disumane, e segnate dalle torture, che le esecuzioni senza processo continuano, che il funzionario dell’Onu e i tre avvocati giunti in Libia per verificare le condizioni e l’eventuale processo al figlio superstite di Gheddafi, AlIslam, sonostatiarrestatie sono tuttora detenuti. Il seguito delle dichiarazioni del ministro Cancellieri (il ministro dell’Interno che ci parla di requisiti di validità dei trattati, in luogo del competente ministro degli Esteri) è anche più imbarazzante. Dice la Cancellieri senza esitazione: “Non credo che gli accordi tra governi precedenti possano essere rimessi in discussione”. Possibile che il ministro Cancellieri non abbia un consigliere diplomatico? La sua affermazione significa che il patto Roma-Berlino è ancora in vigore, come fa notare Andrea Sarubbi, deputato Pd, nel suo blog (20 giugno). Sembra di leggere un testo di Jonesco. Ma purtroppo, il ministro comunica anche in modo ufficiale una cattiva notizia. Il trattato che si suppone assurdamente ancora in vigore e che è stato invece riportato in vita dalle nuove firme, è identico a quello che alcuni di noi (con i Radicali e pochi altri) hanno appassionatamente avversato alla Camera e in Senato a causa di clausole inaccettabili, di imposizioni esose (ingenti pagamenti in dollari, pretesi da Gheddafi e offerti da Berlusconi) e dalla totale mancanza di garanzie per i diritti umani.
MA I CONTRAENTI, allora, erano Berlusconi, Maroni e Gheddafi. Purtroppo questa volta firme di persone normali sono state prestate a un trattato inconcepibile per un Paese civile, che prevede stretta alleanza militare, scambio di segreti, messa a disposizione di basi aeree, pagamento di somme considerevoli e totale vuoto di garanzie per i diritti umani. Tutto vivo e in funzione, vi rendete conto? Persino se non c’è la Libia come Stato e come governo, ma c’è solo una Libia di torture, di prigioni, di guerra per bande, dove si arrestano gli inviati dell’Onu, e dove, dunque i migranti sono più che mai in pericolo di vita perfino se non c’è più la Lega a stravolgere la moralità e il diritto per il nostro paese. Il 20 giugno, il giorno in cui sono state raccolte queste frasi da teatro dell’assurdo, e la rivelazione della sopravvivenza dei trattati stipulati da persone dichiarate “nemici dell’umanità” (da distruggere subito, a cura e a spese della Nato, tra cui l'Italia) era il “giorno dei Rifugiati” proclamato dall’Onu. Pur di dare la caccia ai migranti che continueranno a venire e a morire, come dimostra il tragico naufragio di Otranto, un governo democratico dichiara che non scioglierà i vincoli e gli oneri contratti con il governo assassino di allora e rinnovati con il non governo di oggi, purché le bande che sono subentrate al potere dispotico si assumano il lavoro sporco (respingimento, prigione, morte) di fermare esseri umani colpevoli di cercare salvezza in Italia.
La Stampa 24.6.12
La Cia è attiva in Turchia e smista ai gruppi dell’opposizione le armi
Siria, missili e soldi Così arabi e Usa sostengono i ribelli
I sauditi versano uno stipendio mensile ai soldati che abbandonano Bashar Assad
di Maurizio Molinari
Arrivano da Arabia Saudita e Qatar i fondi per gli stipendi dei ribelli dell’Esercito di liberazione siriano (Els): le rivelazioni fatte a Gedda dai diplomatici di tre Paesi arabi coincidono con le indiscrezioni che rimbalzano dal Congresso di Washington contribuendo a fare maggiore chiarezza sulla coalizione di nazioni che sostiene la rivolta armata contro il regime di Bashar Assad.
L’impegno finanziario della monarchia wahabita e dell’Emirato del Qatar, stretti alleati di Washington, avviene sulla base di un accordo con l’Els guidato dal colonnello Riad al-Asaad firmato il 2 aprile. Sono versamenti mensili che si propongono di «incentivare le defezioni dalle forze di Assad», il cui numero in effetti sta aumentando. Si tratta di soldati e agenti che si uniscono ai rifugiati in Turchia e Giordania per poi confluire in basi nel Sud della Turchia, da dove poi raggiungono le unità combattenti in Siria. Proprio nella Turchia meridionale, secondo il «New York Times», la Cia ha posizionato un ristretto numero di consiglieri con il compito di decidere a quali gruppi di ribelli far arrivare le armi. Sempre gli Stati Uniti, per ammissione del portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, garantiscono ai ribelli la fornitura di apparati di comunicazione per evadere la sorveglianza elettronica dei servizi di sicurezza siriani, che possono a loro volta disporre della sofisticata tecnologia di sorveglianza iraniana.
Se la scelta di Istanbul come sede del comando di alAsaad conferma il ruolo strategico della Turchia, il tassello che manca è relativo alle forniture di armi. Ripetute indiscrezioni pubblicate dalla stampa del Golfo suggeriscono che potrebbero essere i sauditi, assieme ad altri Emirati, a pagare gli armamenti che poi transitano dai confini turchi verso i ribelli mentre le notizie recenti sulla neutralizzazione di carri armati siriani con armi anticarro di provenienza israeliana, sebbene non confermate, suggeriscono che il governo di Gerusalemme potrebbe aver deciso di modificare la linea del non-intervento.
Sui cieli della Siria operano invece i droni della Cia che, assieme ai satelliti, tengono d’occhio in primo luogo i depositi di armi chimiche e batteriologiche siriane nel timore che possano essere saccheggiate da jihadisti, iraniani e Hezbollah.
È tale scenario di crescente pressione sul regime di Assad che spiega l’errore compiuto da Damasco con l’abbattimento di un aereo di Ankara, innescando minacce di ritorsione turche che la Siria ha tentato di disinnescare presentando formali scuse ed impegnandosi nella ricerca del pilota disperso. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan preannuncia «futuri passi» verso Damasco, senza svelare cosa intende. Sul terreno intanto continuano le violenze: l’opposizione parla di almeno 40 vittime civili a Deir al-Zor nelle ultime 48, dove l’artiglieria ha bombardato i quartieri attorno all’area del vecchio aeroporto.
La Stampa 24.6.12
L’integrazione impossibile di Hong Kong
di Ilaria Maria Sala
Nel quartiere di Wanchai, nell’isola di Hong Kong, c’è un bar molto alla moda che si chiama The Pawn (Negozio di Pegni): offre cocktail e cibo britannico da gastro-pub, ed è uno dei pochi edifici antichi ancora in piedi in questa metropoli in continua costruzione. Disegnato da Stanley Wong, un architetto locale, è frequentato da giovani professionisti che parlano un po’ tutte le lingue. Anche se ultimamente, come in tutta Hong Kong, si sente spesso il cinese mandarino (la lingua ufficiale della Cina continentale), che si sovrappone al cantonese parlato qui. Ragazzi con vestiti curati e un forte accento pechinese, che lavorano nella finanza e che transitano dalla ex colonia britannica alcuni anni, alle prese con i «lychee mojito» e i «vodka mango mud» con aria mondana. Ma se i muri potessero parlare... chissà se racconterebbero di altri ragazzi come loro dall’accento settentrionale, arrivati in tutt’altre circostanze ma passati proprio per di qui, da questo negozio dei pegni.
Hong Kong infatti ne è ancora piena, e la maggior parte non sono stati convertiti in bar: hanno un bancone molto alto, che permette di non farsi vedere in faccia quando si depone un orologio o un paio di orecchini preziosi in cambio di un po’ di contante, e uno schermo di legno che nasconde alla vista dei passanti. Negli scorsi decenni i principali avventori erano persone appena scappate dalla Cina continentale, arrivate magari a nuoto, in fuga dalla Rivoluzione, dal Grande Balzo in Avanti, dalla Rivoluzione Culturale e dai costanti sconvolgimenti politici, con addosso tutto quello che possedevano: due o tre orologi, qualche gioiello affidato da chi invece non poteva scappare. Hong Kong, che in epoca britannica a lungo ha concesso la cittadinanza alla maggior parte dei cinesi che «toccavano terra» qui, consentiva che da poche banconote si riuscisse a costruirsi una vita intera, con la determinazione degli emigranti, pronti a prendere anche due o tre lavori pur di farcela, e far andare a scuola i figli.
Oggi, quindici anni dopo il passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina, non c’è più bisogno di venire a nuoto: i permessi si ottengono facilmente, e i «continentali» vengono a milioni – alcuni per lavoro, la maggior parte per fare shopping di lusso, sfoderando mazzette di banconote e carte di credito con la spocchia dei nuovi ricchi.
Ma nel frattempo, Hong Kong, governata da lontano da Pechino, secondo una formula ambigua chiamata «Un paese Due sistemi», non è più aggrappata al «tempo preso a prestito» di epoca coloniale, e ha cominciato a mettere radici. Guarda con insofferenza i continentali in coda davanti ai negozi di Vuitton e Cartier, e mostra di avere una coscienza politica che nessuno le sospettava.
Lo scorso 4 giugno 180.000 persone (una cifra record) hanno partecipato alla veglia per l’anniversario della repressione armata delle proteste di Tiananmen, e a nulla sono valsi i tentativi, innumerevoli quanto goffi, per far sì che anche Hong Kong dimentichi il 1989.
Non c’è più il carismatico governatore Chris Patten, chiamato affettuosamente Ah Pang («cicciotto»), ma un Capo dell’Esecutivo che, malgrado le promesse, di nuovo è stato selezionato da un comitato elettorale e non per suffragio universale. C.Y. Leung, che prenderà i poteri il primo luglio, è sospettato di far parte del partito comunista clandestino (dato che il partito unico del continente non ha ancora voluto registrarsi qui) ed è chiamato da tutti «il lupo».
E visto che le condizioni sono queste, invece di rassegnarsi Hong Kong si mantiene allerta, sulla difensiva, pronta a urlare allo scandalo tramite una stampa che continua a essere combattiva. La censura aperta è ancora minima, e Internet può essere navigato senza intoppi ma, come denuncia regolarmente Mak Yin-ting, dell’Associazione dei giornalisti, i media, controllati come sono dai grossi imprenditori con notevoli interessi in Cina, «praticano una costante autocensura, dato che i proprietari dei giornali e delle Tv sono troppo vicini a Pechino: è un problema quotidiano».
La diffidenza, poi, è costante: basta dire di star andando in una qualunque città cinese per farsi riempire di raccomandazioni: «Stai attenta a quello che mangi, quando sei là! », dicono tutti. Oppure: «Rubano, in Cina: tieni la borsa sempre davanti a te», e intimazioni di stare attenti per la strada, ai Bancomat, nei negozi...
Quest’anno, le tensioni fra cinesi «continentali» e hongkonghesi sono scoppiate in modo imprevisto: i cinesi che vengono qui sono sempre più numerosi, ma sono percepiti come intenti a sfruttare Hong Kong, le sue libertà, il suo rispetto per le regole, e la sua sicurezza, senza lasciare nulla, anzi, snaturando la città. Così, l’inverno scorso un gruppo di studenti ha messo un annuncio su un giornale, chiamando «locuste» i cinesi, e invitando Hong Kong a «svegliarsi» per proteggere i propri diritti. «Le persone qui sono così emotive! - esclama Fiona Wong, ceramista - ma il problema, è politico. Bisognerebbe imparare a parlarsi, senza insultarsi, e invece non abbiamo ancora trovato il modo di farlo. È perché Hong Kong si sente priva di voce in capitolo».
E per quanto la Cina ora sia certo più ricca di quanto non fosse prima, Hong Kong sa che il 66% degli investimenti diretti esteri in Cina provengono da qui, e che la spocchia dei nuovi ricchi è fuori luogo.
In questi 15 anni, nulla di quanto predetto si è avverato: Pechino non ha «ingoiato» la ex colonia, i capitali non sono fuggiti, Hong Kong non è divenuta irrilevante. I cambiamenti sono stati lo stesso molti, e quell’alto grado di autonomia promesso alla città c’è, ma non è stato sempre mantenuto: un sentimento di maggior timore si è impadronito dei governanti locali, che cercano di indovinare cosa possa fare più piacere a Pechino, e che sono ora avvertiti come più lontani ancora di quando questa era una colonia britannica.
Il risultato è sorprendente: un sondaggio dell’Università di Hong Kong ha mostrato che la popolazione di Hong Kong non si è mai sentita meno «cinese» di oggi: il 35% dice di sentirsi «di Hong Kong». A rispondere «mi sento cinese» è stato solo il 15% della popolazione. Il resto dice di essere «cinese di Hong Kong»: e Pechino non ha migliorato le cose, dato che interferenze politiche dal Nord avevano cercato di bloccare la diffusione del sondaggio.
A tutto questo si accompagna una ricerca di stabilità e identità nuove: a Shek Kip Mei lo stilista Douglas Young ha aperto una cava di Aladino di oggetti, chiamato «Museo della Cultura», dedicato a Hong Kong. Dice: «Sotto gli inglesi, la cultura locale era considerata irrilevante. Ora dal punto di vista ufficiale si enfatizza solo quella cinese. Per dare dignità a noi stessi, alla nostra storia, alla nostra estetica nata da incontri e scambi di influenze diverse, dobbiamo pensarci da soli».
Corriere 24.6.12
Bo Xilai, la moglie e l'architetto francese arrestato
E intanto la «Macbeth di Chongqing» confessa l'omicidio dell'amante inglese
di Marco Del Corona
PECHINO — La leadership comunista si era tanto raccomandata. Il caso Bo Xilai è isolato, il caso Bo Xilai è ormai chiuso, non lasciate che il caso Bo Xilai inquini i preparativi del congresso del Partito, la nazione serri i ranghi, l'esercito segua il Partito: le parole d'ordine si sono accavallate per settimane, ma lo scandalo che ha abbattuto l'ex segretario del Partito nella megalopoli di Chongqing è tutt'altro che riassorbito. Addirittura, valica i confini della Cina. Una delle sue ultime conseguenze è infatti lo scontro diplomatico sfiorato con la Francia. Un attrito che dunque aggiunge un ulteriore livello internazionale a un intrigo che già conta un morto britannico: l'uomo d'affari Neil Heywood, del cui omicidio è sospettata la moglie di Bo, Gu Kailai.
Francia e Cina sono entrate in rotta di collisione quando in settimana è stato arrestato in Cambogia l'architetto Patrick Devillers. Attivo in Cina dall'87, il professionista si era trasferito da Shanghai a Dalian nel '92, anno in cui Bo era stato nominato sindaco nella città del Nordest. Devillers si legò alla coppia Bo-Gu, ottenne commissioni, partecipò da protagonista alla vorticosa frenesia edificatoria che trasformò Dalian finché il sindaco non venne promosso a Pechino ministro del Commercio (2000). Per quanto abbia lasciato la Repubblica Popolare nel 2005 «così come ci ero arrivato, cioè senza niente», ha dichiarato a Le Monde, l'architetto si è stabilito a Phnom Penh conducendo una vita discreta, secondo i conoscenti quasi da asceta, tant'è che a una richiesta d'intervista del New York Times si è limitato a rispondere con una citazione taoista. La Cambogia ha fermato Devillers su indicazione della Cina, investitrice generosa. Un accordo sull'estradizione firmato 12 anni fa sembrava indirizzare il francese verso la Cina, evidentemente convinta che l'uomo conosca dettagli su Bo e sulla moglie Gu Kailai. La quale intanto avrebbe confessato — stando all'Asahi Shinbun — di aver ordinato l'assassinio di Heywood per evitare che lui ne rivelasse i maneggi finanziari con l'estero.
Venerdì, tuttavia, la Cambogia (messa sotto pressione dalla sua ex dominatrice coloniale, la Francia) ha fatto sapere che per il momento Devillers resta a Phnom Penh. Pechino può perciò dedicarsi a quanto ha già in mano. Gli organi di disciplina interni al Partito devono articolare le «gravi violazioni» commesse da Bo; vere o non vere che siano le rivelazioni della stampa nipponica, la giustizia deve venire a capo della vicenda Gu; e tocca concludere, senza traumi, il ridimensionamento della «sinistra» nelle file del Partito. A Chongqing il comitato permanente del Politburo locale è stato de-Boxilaizzato, a Pechino le varie ipotesi del toto-Politburo per il congresso hanno dimenticato l'ambizioso paladino di un neo-maoismo strumentale. E se è vero, come si sussurra nella capitale e si scrive a Hong Kong, che Hu Jintao vuole chiudere il caso Bo con l'estate, potrebbero arrivare settimane intense.
La Stampa 24.6.12
Gramsci
Un piccolo Principe per il Pci
di Massimiliano Panarari
Cosa di meglio del linguaggio del fumetto, verrebbe da dire, per esercitarsi su una fantabiografia? Specialmente se si tratta di quella, molto gettonata negli ultimi tempi proprio attraverso lo strumento del graphic novel, di un personaggio importante del pensiero e della politica del Novecento delle ideologie.
Dopo Cena con Gramsci (di Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini, uscito da Becco Giallo), è ora la volta di Nino mi chiamo (Feltrinelli, pp. 286, 17) del fumettista Luca Paulesu, letteralmente «uno di famiglia», visto che si tratta del nipote di Teresina Gramsci, la diletta sorella del pensatore sardo.
Paulesu - un vignettista decisamente politico e leftist (ha anche illustrato, infatti, un libro di Ugo Mattei su acqua e beni comuni) - disegna un Gramsci bambino, solitario e un po' spettinato, i cui occhi, con l'innocenza tipica dei piccoli, si trovano però a filtrare le vicende durissime del Secolo breve. Una sorta di Gramsci «piccolo Principe» (a metà tra Saint-Exupéry e la teorizzazione del partito quale reincarnazione del politico di Machiavelli), con la presenza di un Palmiro Togliatti nelle vesti di «amico immaginario» (giustappunto…), che intervalla le vignette con vari testi (tra cui, alcune pagine tratte dai Quaderni e dalle Lettere dal carcere) e con la sua biografia.
Un Gramsci bambino perché, originariamente, il fumetto era stato pensato come guida per le visite delle scolaresche alla casa-museo del filosofo a Ghilarza. Ma che, trasformatosi il progetto in libro a sé stante, nel segno grafico che lo ferma all'infanzia, mostra tutta la sua vulnerabilità di fronte ai drammi e agli sconvolgimenti di quell'epoca di ferro e fuoco che ha coinciso con il XX secolo, mentre la sua «grande testa» traduce visivamente la potenza di pensiero di colui che, tra un balloon in cui urla «Non sono un frazionista! » e un altro nel quale si dipinge come l'AntiCroce, aveva tematizzato la nozione di egemonia e la centralità della funzione degli intellettuali (oggi un po' negletta…) per la sinistra. Senza dimenticare, naturalmente, l'amore struggente per Giulia Schucht.
Un'altra manifestazione, dunque, della Gramsci Renaissance che, da qualche tempo a questa parte, contraddistingue la cultura internazionale e italiana, ma anche del connubio, sempre più frequente, tra la storia del comunismo e il graphic novel.
l’Unità 24.6.12
La seconda vita di Karl Marx
Nuovi manoscritti smontano dogmatismi antichi e offrono analisi attuali sulla crisi
Dopo anni di lodi sperticate alla logica di mercato, è molto utile analizzare la sua opera e i suoi appunti
di Marcello Musto
Con questo articolo Marcello Musto, docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche della York University di Toronto, ed esperto di marxismo, avvia una collaborazione con l’Unità
SE LA PERPETUA GIOVINEZZA DI UN AUTORE STA NELLA SUA CAPACITÀ DI RIUSCIRE A STIMOLARE SEMPRE NUOVE IDEE, si può allora affermare che Karl Marx possiede, senz’altro, questa virtù.
Nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, conservatori e progressisti, liberali ed ex-comunisti, ne avessero decretato, quasi all’unanimità, la definitiva scomparsa, con una velocità per molti versi sorprendente, le sue teorie sono ritornate di grande attualità. Di fronte alla recente crisi economica e alle profonde contraddizioni che dilaniano la società capitalistica, si è ripreso a interrogare il pensatore frettolosamente messo da parte dopo il 1989 e, negli ultimi anni, centinaia di quotidiani, periodici, emittenti televisive e radiofoniche, di tutto il mondo, hanno celebrato le analisi contenute ne Il capitale.
NUOVI SENTIERI PER LA RICERCA
Questa riscoperta è accompagnata, sul fronte accademico, dal proseguimento della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels, la Mega2. In essa, le numerose opere incompiute di Marx sono state ripubblicate rispettando lo stato originario dei manoscritti e non, come avvenuto in precedenza, sulla base degli interventi redazionali cui essi furono sottoposti.
Grazie a questa importante novità e tramite la stampa dei quaderni di appunti di Marx (precedentemente quasi del tutto sconosciuti), emerge un pensatore per molti versi differente da quello rappresentato da tanti avversari e presunti seguaci. Alla statua dal profilo granitico che, nelle piazze di Mosca e Pechino, indicava il sol dell’avvenire con certezza dogmatica, si sostituisce l’immagine di un autore fortemente autocritico che, nel corso della sua esistenza, lasciò incompleta una parte significativa delle opere che si era proposto di scrivere, perché sentì l’esigenza di dedicare le sue energie a studi ulteriori che verificassero la validità delle proprie tesi.
Diverse interpretazioni consolidate dell’opera di Marx vengono, così, rimesse in discussione. Le cento pagine iniziali de L’ideologia tedesca (testo molto dibattuto nel Novecento e da tutti considerato pressoché terminato) sono state pubblicate, per la prima volta, in ordine cronologico e nella veste originaria di sette frammenti separati. Si è scoperto che essi erano degli scarti delle sezioni, del libro in cantiere, dedicate agli esponenti della Sinistra hegeliana Bauer e Stirner. La prima edizione del testo, stampata a Mosca nel 1932, ma anche le numerose e successive versioni, che non ne variarono di molto la sostanza, crearono, invece, l’errata impressione che il cosiddetto «capitolo su Feuerbach» rappresentasse la parte principale del libro scritto da un Giano bifronte (Marx ed Engels), nel quale – secondo gli studiosi sovietici – erano state esposte esaustivamente le leggi del materialismo storico (espressione, per altro, mai utilizzata da Marx), o – secondo il marxista francese Althusser – era stata partorita niente meno che «una rottura epistemologica senza equivoci, chiaramente presente nell'opera di Marx».
Ulteriore motivo di interesse di questa edizione è l’avanzamento nella distinzione tra la concezione di Marx e quella di Engels. Passaggi precedentemente considerati del tutto unitari vengono letti in modo differente. La frase, oggetto di critiche feroci e difese ideologiche, ritenuta da diversi autori come una delle principali descrizioni della società post-capitalistica secondo Marx («la società comunista (... ) regola la produzione in generale e (... ) mi rende possibile il fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare”), fu, in realtà, opera del solo Engels (ancora influenzato dalle idee degli utopisti francesi) e del tutto respinta dal suo amico più caro.
Le acquisizioni filologiche della Mega2 hanno prodotto risultati di rilievo anche rispetto al magnum opus di Marx. Nel corso dell’ultimo decennio sono stati pubblicati quattro nuovi volumi, contenenti tutte le bozze mancanti dei Libri Secondo e Terzo de Il capitale – lasciati, com'è noto, da lui incompleti. La stampa di questi testi consente di ricostruire l’intero processo di selezione e composizione dei manoscritti marxiani svolto da Engels (i suoi interventi ammontano a diverse migliaia – cifra inimmaginabile fino a pochi anni fa), nel lungo arco di tempo compreso tra il 1883 e il 1894.
Oggi si può valutare, dunque, dove egli apportò consistenti modifiche e dove, invece, rispettò più fedelmente il testo di Marx che pure, occorre affermarlo con chiarezza, non rappresenta affatto l’approdo finale della sua ricerca (incluse le pagine sulla celebre Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto).
NON SOLO UN CLASSICO
Credere di poter relegare Marx alla funzione di classico imbalsamato, al campo degli specialismi dell’accademia, costituirebbe, però, un errore pari a quello commesso da coloro che lo trasformarono nella fonte dottrinaria del “socialismo reale”. Le sue analisi sono più attuali che mai.
Quando Marx scrisse Il capitale, il modo di produzione capitalistico era ancora in una fase iniziale del proprio sviluppo. Oggi, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla sua espansione geografica in nuove aree del pianeta (in primis la Cina), esso è divenuto un sistema compiutamente globale – che invade e condiziona tutti gli aspetti (non solo quelli economici) della vita degli esseri umani – e le riflessioni di Marx si rivelano più feconde di quanto non lo fossero al suo tempo.
Dopo vent’anni di lodi incondizionate alla società di mercato, pensieri deboli subalterni e vacuità post-moderne, poter ritornare a guardare l’orizzonte sulle spalle di un gigante come Marx è una notizia positiva per tutti quelli che sono impegnati nella ricerca, politica e teorica, di un’alternativa democratica al capitalismo.
Karl Heinrich Marx (1818 – 1883), filosofo ed economista tedesco
Il ritorno del gigante
La Mega 2
La nuova edizione tedesca (Marx-Engels Gesamtausgabe) si articola in quattro sezioni: la prima comprende le opere e gli articoli; la seconda Il capitale e tutti i suoi manoscritti preparatori; la terza l’epistolario; e la quarta i quaderni di estratti. Dei 114 volumi previsti, ad oggi ne sono stati pubblicati 58 (18 dalla ripresa avvenuta nel 1998), ognuno dei quali comprende un amplio apparato critico.
La traduzione italiana (Marx Engels Opere Editori Riuniti), iniziata nel 1972 e basata sull’edizione tedesca del 1956-68, venne interrotta nel 1990, quando erano stati dati alle stampe solo 32 dei 50 volumi programmati. Di recente le case editrici Edizioni Lotta Comunista e La Città del Sole hanno pubblicato alcuni dei 18 tomi rimanenti.
Oggi nel mondo
In Germania Il capitale è divenuto nuovamente un best seller, mentre in Giappone ha riscosso grande successo la sua versione manga. In Cina è in corso di stampa una nuova mastodontica traduzione (dal tedesco e non – come avvenuto in passato – dal russo) delle sue opere complete e vengono ora pubblicati anche i principali lavori dei “marxisti occidentali”. In America latina, infine, una nuova domanda di Marx è ripresa anche dal versante politico.
In libreria
Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Manifestolibri 2012 Inventare l'ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune a Parigi, Alegre 2011 L’alienazione, Donzelli 2010
Introduzione alla critica dell’economia politica, Quodlibet 2010
Il capitalismo e la crisi, Derive e Approdi 2009 Quaderni antropologici, Unicopli 2009
Corriere La Lettura 24.6.12
È Topolino il filosofo del relativismo
I limiti delle posizioni contrapposte di Ferraris e Vattimo sul pensiero postmoderno
Modellare il reale in forme diverse non è un peccato bensì un dovere della ragione
di Giulio Giorello
Come è morto Ramsete II? Di tubercolosi, dicono gli esperti delle varie discipline che scandagliano il pozzo del passato. Niente affatto, ribatteva il «sociologo della conoscenza» Bruno Latour circa una decina di anni fa: il bacillo responsabile di quella malattia (Mycobacterium tubercolosis) è stato scoperto solo nel 1882 da Robert Koch. Maurizio Ferraris, nel recentissimo Manifesto del nuovo realismo (Laterza), commenta sarcasticamente che «se la nascita della malattia coincidesse con la sua scoperta, si dovrebbero sospendere immediatamente tutte le ricerche mediche, perché di malattie ne abbiamo più che a sufficienza». Ma il bacillo di Koch uccideva prima e può continuare a uccidere anche dopo che è stato individuato, proprio come, indipendentemente dalla consapevolezza dei chimici che l'acqua è un composto di idrogeno e di ossigeno, questa sostanza comunque bagna «e io non potrò asciugarmi — ci dice ancora Ferraris — con il solo pensiero che l'idrogeno e l'ossigeno in quanto tali non sono bagnati».
Questa è la tesi del Manifesto: «Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte. Se c'è il sole, la sua luce è accecante; se la lasciamo troppo sul fuoco, la caffettiera scotta. Non c'è alcuna interpretazione da opporre a questi fatti: le uniche alternative sono gli occhiali da sole e le presine». Insomma, la realtà con cui facciamo i conti, sia nell'impresa tecnico-scientifica sia nell'esistenza quotidiana, è una sorta di «reale che non ha voglia di svaporare in reality».
Un grido di dolore non meno accorato si leva da un altro odierno manifesto, Democrazia! (con tanto di punto esclamativo), per la penna di Paolo Flores d'Arcais (Add editore). Solo se manteniamo lo scarto tra cose e parole, possiamo smascherare l'«alchimia» creata dalla propaganda: «La lotta politica per la democrazia e la lotta filologica per il significato della parola sono terreni diversi dello stesso scontro», dichiara Flores, che teme l'arroganza di qualsiasi Grande Fratello. Né vale ribattere che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», almeno quando si ha a che fare con l'acqua che bagna o con i bacilli che minacciano la nostra salute... Ma che dire quando in gioco sono espressioni come buon governo, virtù politica o democrazia?
Per difendere il nostro patrimonio di significati c'è davvero bisogno di un'idea «forte» di verità? Per esempio, occorreva già qualcosa del genere per opporsi ai totalitarismi del Novecento o ce n'è urgenza oggi contro i vari dittatorelli del Medio Oriente, o contro l'ancor più subdolo dispotismo di democrazie in via di avanzata decomposizione? Non basterebbe la tenace volontà di non cedere mai, ovvero la decisione di resistere a qualunque potere che si spaccia per irresistibile?
La questione non è puramente accademica. Un conto sono le verità di «puro buon senso», come direbbe il Kit Carson amico di Tex Willer, o le stesse affermazioni della scienza, un conto la Verità (con la maiuscola), quella invocata, per esempio, da tutti coloro che si sentono assolutamente convinti del «fatto» che Dio starebbe dalla loro parte. Non potrebbero emergere così forme di dominio ancor peggiori di quelle che in nome della fede si vorrebbero abbattere?
Proprio per questo Gianni Vattimo non risparmia le varie manifestazioni di «nevrosi fondamentalista che percorre la società tardo-industriale», tra le quali include il realismo filosofico, che per lui è solo una «possibile ideologia della maggioranza silenziosa», come scrive nel suo Della realtà (Garzanti).
La disputa, non solo italiana, finisce con l'investire i territori elusivi della politica e dell'etica. Per questo essa non si riduce a mere contrapposizioni personali. Il «nuovo realista — precisa Ferraris — non si limita a dire che la realtà esiste», ma insiste sulla tesi che «non è vero che essere e sapere si equivalgono». Il suo avversario potrebbe ricorrere, a questo punto, a Paul Feyerabend (un pensatore che Vattimo ben conosce), piuttosto che ai soliti numi del postmoderno, come Lyotard o Baudrillard, per i quali il reale si sarebbe ormai dissipato come fumo virtuale. Invece, è proprio il realismo che porta acqua alla tesi per cui nell'avventura umana — e non solo nella dinamica della conoscenza scientifica — emergono schemi di pensiero «incommensurabili», in cui cose e parole variano radicalmente di significato. Noi definiamo, infatti, il valore di qualsiasi oggetto dal suo uso, e la portata di un concetto o di un nome dall'impiego linguistico che ne facciamo. Feyerabend l'ha mostrato trattando di come la nuova scienza della natura di Galileo spazzò via l'opposizione degli aristotelici o di come la «sovversiva» fisica quantistica mandò in pezzi la costellazione dei pregiudizi dei fisici più legati alla tradizione. Ma è anche stato estremamente abile nello sfruttare il patrimonio di esperienze e informazioni che ci vengono dal lavoro degli antropologi.
Qui in poche righe non possiamo addentrarci nei dettagli. Ci limitiamo allora all'apologo narrato da Merrill de Maris (sceneggiatura) e Floyd Gottfredson (soggetto e matite) per la Walt Disney, Il selvaggio Giovedì (1940) — che il lettore del «Corriere» ha avuto modo di apprezzare negli allegati «Gli anni d'oro di Topolino» (2010). In breve, i nervi del nostro Topo sono messi a dura prova da Giovedì, capitatogli in casa per sconvolgere l'uso abituale di cose e termini. Così, il preteso «selvaggio» scambia la pelliccia leopardata di una superba dama per l'animale vero e proprio e non esita a colpire con la sua lancia le prosperose natiche della signora. Per non dire che impiega vetri, penne, matite, ciabatte, eccetera in modi nuovi ma a lui perfettamente funzionali.
In questo modo, la lancia di pietra del selvaggio Giovedì non solo mostra quanto convenzionali e fragili siano alcuni dei nostri più consolidati valori, ma manda in pezzi... anche le tesi opposte dei due miei cari amici, Vattimo e Ferraris. Se è vero che essere e sapere non coincidono, che questo scarto è una delle più forti molle per l'innovazione nella scienza e nell'arte e che tutto lascia aperta una via di scampo nel mondo stesso della politica, cercare schemi concettuali «incommensurabili», escogitare usi e dunque significati nuovi, modellare in maniere differenti il reale che pure così ostinatamente ci resiste, non è un peccato bensì un dovere della ragione, una genuina esperienza di libertà, che vale più di qualsiasi imbalsamata «verità».
Corriere La Lettura 24.6.12
La medicina è servizio
La società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più «prendersi cura», ma «curare»
di Umberto Curi
«Servizio» — è questo il significato originario del termine greco therapeía. E dunque è letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del therápon. Nell'Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therápontes rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo «servizio», perché lo «assistono», agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo epepeítheth' etaíro — «obbedì all'amico». La therapeía implica l'obbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque prestandogli obbedienza.
Un contesto di significati molto simile si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l'«interesse» per qualcuno o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa disposizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa «stare in pensiero», essere «preoccupati» per lui.
Una traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ritrova peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care for vuol dire «prendersi cura», senza riguardo ai possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall'uso prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell'espressione I care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con l'italiano «cura»), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la determinazione ontologica fondamentale dell'Esserci, vale a dire il fatto che l'Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana.
Per quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza un punto. Alle origini della tradizione culturale dell'Occidente — pensiamo a quanto la Grecia resta importante — le parole che designano la «cura» alludono a una condizione soggettiva — quella di chi «si preoccupa» e dunque si pone al «servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale «preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli dovrebbe assistere. Patroclo è genuinamente therápon di Achille non perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per l'amico, perché lo ascolta (obbedire — ob-audire — vuol dire «mettersi all'ascolto»). Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitudine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche terapeutiche.
Con il passare dei secoli, si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo affidare questo compito al medico. Dall'altro lato, e in connessione con questa «professionalizzazione», la «cura» perde ogni connotazione «affettiva» e viene piuttosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Curare non è più — come in precedenza — un verbo che allude allo stato d'animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui che sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La «cura» non ha più alcun rapporto con la disposizione d'animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura — i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del paziente — ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui efficacia dipende dunque esclusivamente da un'incidenza «misurabile» in termini quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il terapeuta — non importa se del corpo (quale è il medico generico) o dell'«anima» (come vorrebbe essere lo psicologo) — non è colui che, mosso da premura, «obbedisce» al suo assistito ma, all'opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi a una «cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto — immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell'identità e della «storia» del paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di principio «efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da peculiarità individuali.
Non è nota l'origine del termine greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino comes — «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che assiste», magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci.
Corriere La Lettura 24.6.12
No, la medicina è scienza
Una carezza aiuta a stare meglio, ma non guarisce Anche Veronesi qui sbaglia
di Giuseppe Remuzzi
Chi stabilisce cosa è meglio per l'ammalato? In altre parole chi ti «cura»? Il dottore, chi se no? E il dottore di un tempo era come quello di Lev Tolstoj ne La morte di Ivan Ilic? «"Vedete, questo indica che nei vostri visceri accade qualcosa, ma se l'esame della tale e tal altra cosa non lo confermasse, bisognerebbe supporre allora questo e quest'altro. E se si suppone questo e quest'altro, in tal caso si potrà fare così...". A Ivan Ilic importava una sola cosa: il suo stato era grave sì o no? "Ditemi, dottore, in generale questa malattia è grave oppure no?". Il medico lo fissò severamente, attraverso gli occhiali, come a voler dire: accusato, se non state al vostro posto, sarò costretto a farvi allontanare dall'aula. "Vi ho già detto, signore, tutto quello che ritenevo utile e ragionevole che sapeste"».
Oggi è diverso, tanti ammalati vanno dal dottore dopo aver passato ore in Internet, sanno già molto della loro malattia e dei centri migliori e delle terapie più moderne. Sbagliato? Niente affatto. Più un ammalato è informato, più è facile curarlo ed è specialmente vero quando non ci sono abbastanza dati per sapere qual è la cosa giusta da fare. Ma «curare non è più un verbo che allude allo stato d'animo del terapeuta verso il suo assistito, segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo» scrive Umberto Curi e poi «curare» o «prendersi cura»? Importa poco, il rapporto dell'ammalato con il suo medico va ben al di là del curare o prendersi cura, è tutt'altra cosa. La lettera della mamma di un ragazzo di 18 anni ci aiuta a scoprirlo: «Mio figlio ha avuto una diagnosi di ipertensione polmonare e soffre di reni. Ho letto tanto e mi pare di aver capito che ci potrebbe essere un legame tra queste due malattie. Lo hanno curato con un beta bloccante, warfarina e l-arginina, la pressione nell'arteria polmonare è tornata normale. È stato fortunato, perché mi pare, da quello che ho letto, che una risposta così favorevole a questi farmaci sia insolita. Adesso però sta di nuovo male, fatica un po' a respirare. So che ci sono farmaci nuovi. Lei pensa si possa usare la prostaciclina per bocca? L'ultima spiaggia per il mio ragazzo potrebbe essere un antagonista di tipo A del recettore dell'endotelina. Pensa che possa servire al mio ragazzo o farà male? Sono anche preoccupata per mia figlia, ha 16 anni, studia a Oxford. Se prendesse la pillola, si ammalerebbe anche lei? E se decidesse di avere una gravidanza, potrebbe avere l'ipertensione polmonare? Forse potremmo incontrarci e parlarne».
Quello che il «New England Journal of Medicine» nell'ultimo numero chiama «The changing task of medicine», la sfida della medicina che cambia, è tutto qua, in questo «potremmo trovarci e parlarne».
Per quelli che lo sanno fare — si capisce — visto che all'università a parlare con gli ammalati non te lo insegna nessuno. E un bravo medico deve anche saper ascoltare per poi suggerire le soluzioni e i vantaggi e i rischi. E se una cosa non la sa fare lui, ti manda dalla persona giusta (questo un po' è prendersi cura) senza connotazioni affettive o caritatevoli però, perché oggi è l'ammalato l'artefice vero del suo guarire. Un po' come dal barbiere — irriverente se volete, ma rende l'idea — quasi nessuno di quelli che ci vanno dice «faccia lei». I più vogliono i capelli così, la messa in piega cosà, il barbiere consiglia, ma si decide insieme. Quando poi si ha a che fare con una mamma come quella della lettera — e oggi di malati così o quasi così ce ne sono — servono conoscenze anche molto sofisticate. Di medicina? Non solo, «serve curare lo spirito oltre che il corpo» scrive il professor Veronesi, che è anche autore di un bellissimo libro: Una carezza per guarire. Ma si può guarire con una carezza? Forse no, ma certo si sta meglio. Entro certi limiti però: se uno ha un'emorragia cerebrale quello di cui c'è bisogno è un neurochirurgo con la pratica giusta (la téchne per dirla anch'io coi greci), uno che sappia operarti bene insomma.
Per Matteo è stato proprio così. Lui non ha nemmeno 50 anni, ha avuto bisogno della dialisi per più di 10 anni, poi finalmente un trapianto gli ha ridato la vita. Moglie e due bambine e un bel lavoro come avrebbe sempre voluto. Una sera non si sente bene, lo portano al pronto soccorso. Sulle prime non sembra niente, gli esami del sangue sono normali, fanno un elettrocardiogramma: normale, anche l'ecografia del cuore è normale. Ma il cardiologo del pronto soccorso non si accontenta, fa un'altra ecografia con una sonda che passa attraverso l'esofago.
C'è una fessura nell'aorta. È una cosa grave, non c'è un minuto da perdere, con quella lesione il più delle volte si muore. Dopo 10 minuti Matteo è in sala operatoria, niente Tac: non c'è tempo, il cardiochirurgo di guardia quella sera è uno di quelli bravi. Cominciano a operare alle 10 di sera e finiscono alle 7 del mattino dopo. Matteo dopo pochi giorni lascia l'ospedale. Chissà, forse non si è nemmeno reso conto di essere stato così vicino alla morte.
Le carezze per Matteo adesso sono quelle delle sue bambine che possono ancora giocare con lui. Quel cardiologo e quel chirurgo non li incontrerà nemmeno più. Saranno stati «in pensiero» per lui? Non lo so, e non è nemmeno tanto importante. Certo che «contrapporre la scienza all'attenzione per la persona è un vecchio trucco retorico: è la crescita delle conoscenze che ci rende più umani» (Alessandro Pagnini, «Il Sole 24 Ore», 21 luglio 2010). Tanto più che oggi al letto dell'ammalato si incontrano genetica, biologia, evoluzione, dati degli studi che servono per guarirti e poi, psicologia sperimentale e persino neuroscienze. Dov'è finita quella che chiamavano clinica? Non c'è quasi più e sta scomparendo anche chi curava o si prendeva cura.
Resta una mole impressionante di conoscenze che cresce ogni giorno e che consente di curare — e guarire certe volte — malattie che fino a ieri erano senza speranza. Ricordo che Edoardo Boncinelli in un suo scritto si chiedeva che senso avesse contrapporre la scienza all'«umanesimo». C'è niente di più umano che studiare come è fatto l'uomo? E come funzionano il suo corpo e la sua mente? E come essere d'aiuto se qualcosa si inceppa?
Corriere 24.6.12
Scrivere con la penna. Quel gesto uscito dalle nostre vite
Le vecchie biro impugnate solo per qualche scarabocchio
di Paolo Di Stefano
L'ultima volta che hai preso in mano una penna per scrivere? Non un'ora fa, non due ore fa, non ieri, nemmeno l'altro ieri e nemmeno cinque giorni fa. Ma, se ricordo bene...: sei settimane fa. Un mese e mezzo fa!? Proprio così hanno risposto, in media, gli adulti del Regno Unito a un sondaggio pubblicato dal quotidiano Mail online. Si sapeva che la scrittura a mano era in declino, ma non fino a questo punto.
Si parla, ovviamente, di adulti, perché per il momento i ragazzi in età scolastica la penna la usano, non certo la stilografica ma la biro, però la usano: almeno finché non disporranno di un portatile in classe o non potranno dettare i loro componimenti su Dragon. Dei duemila intervistati, i due terzi hanno confessato che, se utilizzano la penna, è solo per fare scarabocchi veloci, segnare rapidi promemoria, prendere appunti a uso immediato che però non sarebbero in grado decifrare dopo qualche ora, tali e tante sono le abbreviazioni e i segni in codice.
Hai passato anni a svenarti regalando stilografiche ai tuoi nipoti per la Cresima o per i compleanni che contano, sicuro di fargliene un omaggio a futura memoria, una specie di immarcescibile atto di fiducia, di promessa per la vita, perché intuivi che attraverso la scrittura intesa come calligrafia passava tutto, il carattere del ragazzino, le sue ambizioni, la sua cultura. Ma è stato inutile, chissà in che angolo di scrivania o in quale scatolone dimenticato in cantina saranno finite: eppure erano oggetti bellissimi, neri, lucidi, in resina, in lacca di Cina, pennino a vista o coperto, finiture cromate. Parker, Waterman, Aurona, Omas, Pelikan, Montblanc, Cartier delicatamente adagiate sul velluto e fermate da un elastico... Nomi eleganti che, impressi sull'astuccio, facevano il tuo status symbol di generoso donatore e insieme promettevano — al figlio di tuo fratello, di tua sorella o di un amico — maturità, carriera, prestigio, futuro. Nomi che chiedevano, a chi impugnava quelle stilografiche, di dimostrarsi all'altezza del carisma riposto nel marchio. E la prima prova per il ragazzino era la firma, che in genere imitava quella autorevole di papà: per esteso, inclinata e piena di svolazzi improbabili. Usare la penna, esibirla, aveva a che fare con l'orgoglio: oggi, ci informa Mail online, una persona su sette ammette di provare vergogna della propria calligrafia, persino del proprio autografo.
Già, la firma. Nemmeno una firma nelle ultime sei settimane? Possibile? Non un accordo da sottoscrivere? Non una carta di credito? Un segno di riconoscimento vergato su un modulo? Tutto digitale? Avanti così e tra un paio d'anni prenderai la penna in mano ogni sei mesi e magari a rovescio. Avremo case senza mozziconi di matita nei vasetti di cucina e senza penne bic accanto al telefono (già, nel frattempo è scomparso anche il telefono!). I tuoi figli disegneranno con il ditino sul touch screen e per sillabare useranno solo la tastiera: non per niente si chiamano nativi digitali. Nella loro pagella la vecchia materia «Disegno e bella scrittura» sarà sostituita dalla voce «Design, mouse e abilità nel cliccare». Ti piacerebbe che tuo figlio non sapesse scrivere a mano? Pensa a un bambino che a scuola impari solo a digitare e non sappia tracciare un segno di matita su un foglio. Lo sai che l'anno scorso un'équipe di neurofisiologi francesi e norvegesi ha dimostrato che la scrittura a mano accende molte più aree cerebrali rispetto al semplice digitare su una tastiera? Perché usando la penna su un foglio «vediamo» e «sentiamo» il formarsi delle lettere sotto i nostro occhi e le nostre dita, dunque sviluppiamo notevoli abilità visive, motorie e costruttive.
In fondo poi la grafia è sempre stata considerata un'espressione inconfondibile del carattere, anche se la grafologia non ha mai avuto dignità di scienza esatta, però dovresti sapere che le perizie calligrafiche servono ancora oggi, persino in sede giudiziaria, a riconoscere la paternità dello scrivente: ti sembra poco? E dove finirà il carattere di un bambino quando la sua grafia sarà sostituita da quella del computer? Sì, d'accordo, è vero che anche il computer ha i suoi caratteri, Times Helvetica Arial Bodoni..., ma il temperamento individuale è un'altra cosa. Dunque, prendi il coraggio a due mani, non dico di pretendere dai tuoi nipoti che vadano in cantina a riesumare i tuoi nobilissimi regali d'antan, ma affronta senza paura e senza vergogna il rischio di venire accusato di moralismo, disfattismo, catastrofismo apocalittico e luddismo antitecnologico, e ogni tanto fatti vedere da tuo figlio con in mano una bic. Ci sono cambiamenti a cui bisogna resistere o dobbiamo accogliere tutte le novità a braccia aperte, sottoscrivendo incondizionatamente le magnifiche sorti tecnologiche e progressive senza neanche l'orgoglio di impugnare una penna ma solo con un banalissimo clic?
Corriere 24.6.12
Forza e lacrime, l'eterno mascolino
L'archetipo della virilità autentica ha un doppio volto e lo tradisce chi compie una violenza sui più deboli
di Guido Ceronetti
Bastano le sessanta donne uccise in Italia tra gennaio e maggio per marchiare col fuoco, di vergogna, l'umanità intera.
Gli stupri denunciati l'anno passato sarebbero — apprendo con schifo — circa settantacinquemila. Ma quelli tra le mura di casa, tutti i non denunciati dalle vittime, chi li può calcolare? E quasi tutti gli omicidi sono tra coppie conviventi o coniugate; qualcuno speciale, di padre che assassina la figlia per sgarro etico religioso, è storia che si ripete. («L'integrazione è un fallimento», parola di Angela Merkel). Nella prassi ordinaria il movente è la gelosia, o anche la semplice intenzione di voler cessare una relazione invivibile. Sui parossismi attinti dalle molestie degli abbandonati e dei respinti c'è rincaro di nausea.
Posso dire di essere cresciuto, pur tra le violenze di una guerra mondiale, in una Italia migliore, più pulita d'anima, di midollo. Né mi pare di aver mai fatto parte della banda di predicanti «famiglia! famiglia!». La famiglia è stata oppressiva sempre, Saturno ha sempre sgranocchiato i suoi figli (vedi Goya, e là vedi la famiglia), e adesso è il cuore della decomposizione morale della nostra miseranda vita associata. Lì non c'è appiglio. La mentalità imbecilloide ci vede un punto importante del suo delirio economicista, ma un inferno famigliare non è fatto di soldi in più o in meno. È tutto enigma.
Poiché la strage di donne giovani (quasi sempre tra 15 e 30) ci morde nella nuca, meno si fanno deplorazioni, più si lenzuola di reverenza le povere vittime. Per portarne il lutto come intera civitas in colpa, bisogna prima capire. E neppure brancicare in vaghe punizioni, senza prima aver sciolto, dell'enigma criminale, una parte almeno.
E allora bisogna aprire un varco al capire. L'archetipo dell'Eterno Mascolino (come lo chiama Frank Thiess in Tsushima, romanzo illeggibile per qualsiasi donna) è una combinazione, in dosi diverse, di lacrime e di forza, entrambe generatrici di violenza. Le lacrime della forza e la forza delle lacrime. Traduco, per semplificare, questi tre versi di Miguel Hernández, dalla sublimità irraggiungibile (ma non siate pigri nel cercarli in castigliano): «Sotto la fronte tragica e tremenda, un solitario toro, sulla riva, piange; dimentica che è toro, e mascolino». Accidenti, questo è avere palle di poeta! Sono tre versi che toccano il fondo dell'archetipo maschile. Da sottolineare tragica, tremenda e il muggito di dolore del contrasto toro e piange. Il toro-uomo si nasconde per piangere, non dà cornate ma piange; il toro-uomo è la forza che piange, che nelle lacrime perde la coscienza di quel che è toro, dimentica la sua taurinità di maschio tragico, tremendo.
Questa è la mascolinità, la virilità profonda. La capacità riproduttiva è del tutto secondaria: l'archetipo spirituale la ignora. Jung diceva che la virilità consiste nella misura della capacità di lavoro. Tra i sessi, la complementarità è mosca bianca. Il conflitto regna.
Nel simbolismo del toro-che-piange, chi uccide una donna è un non-toro, l'immagine degradata del maschio, un non-cresciuto incordonato ancora al grembo materno, una caricatura di toro privo di lacrime. Dalla gelosia ad ogni altro motivo, nell'uccidere una donna non c'è che ignominia. Una società in cui un simile crimine si è fatto così frequente non è degna neppure di divenire storica: è in corsa verso una preistoria etica in cui tutto è foresta di scimmie sanguinarie, e l'uomo perde la cittadinanza umana.
Si può uccidere per proteggere una donna, un bambino, in una radicale etica mascolina; ma, ti faccia o no soffrire una donna, puoi restare soltanto toro-che-piange in solitudine sulla riva deserta, per non perdere la mascolinità, le mani pure.
Trovo una spiegazione ad una folta parte di questi crimini nell'inesorabile declino della forza d'animo maschile. La dipendenza tecnologica è forse la causa principale della nostra incapacità crescente di sopportare la perdita del sostegno femminile, dall'infanzia alla morte. L'uomo adulto è in realtà un bambulto: se la donna con cui vive si sveglia dall'ipnosi sessuale e vede nel compagno un bambulto di canna rotta, fa le valigie, lo lascia per un altro che le sembri un po' più valido (basta poco, se ne contentano), e nel trasloco può incontrare l'orrida maschera d'assassino del debole abbandonato che non tollera di perdere quel forzato, rassicurante sostegno, la persecuzione sadica delle telefonate e delle minacce, e una nuova incertezza, per sé e gli eventuali figli, perché l'accerchiamento delle dipendenze maschili è dappertutto, eccetto dove c'è povertà e verità di toro che invece (oh stupore!) di accoltellare ignobilmente, ha imparato regole ancestrali di cavalleria dagli angeli, da qualcosa che è fuori da questo irredimibile mondo.
Corriere 24.6.12
Falce più svastica: alle radici dello sterminio
di Frediano Sessi
Se escludiamo Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (1951) e Vita e destino di Vasilij Grossman (1959), gli studi comparativi sulle cause delle uccisioni di massa di civili, provocate nel Novecento da nazismo, comunismo e regimi ad essi comparabili, si sono adeguati alle condizioni indotte dalla guerra fredda. Cosicché si sono avanzate ricerche sui singoli regimi e sui loro crimini, ma poco è stato scritto per illuminare un periodo che ha visto un accanimento unico su popolazioni inermi.
Allo scadere del secondo millennio, è ripreso lo studio sulle radici europee e occidentali della violenza etnica, ripristinando così il metodo comparativo per comprendere il Male assoluto.
Consapevole che le uccisioni di massa «rivestono il massimo significato morale per il XXI secolo», Timothy Snyder con il suo Terre di sangue (Rizzoli, pp. 592, 28,50) ha rilanciato appunto la prospettiva comparativa, puntando su un «luogo» che si estende dalla Polonia centrale alla Russia occidentale, e include la Bielorussia, l'Ucraina e gli Stati baltici, nel quale i regimi nazista e comunista, in poco più di un decennio, eliminarono circa 14 milioni di persone in modo pianificato (un terzo per mano sovietica). La stragrande maggioranza non vide un lager o un gulag: rimase vittima della politica delle due potenze, che seppero interagire a lungo prima di arrivare allo scontro.
Nelle «terre di sangue» del centro-est Europa l'eccidio iniziò con una carestia politica imposta da Stalin all'Ucraina, costata più di tre milioni di vite. Continuò con il Grande Terrore tra 1937 e 1938, proseguì con la politica di sterminio comune attuata da nazisti e sovietici nei confronti della Polonia, per arrivare al culmine nel '41 con la guerra totale tra le due potenze. Auschwitz e le altre fabbriche della morte naziste, così come le azioni di «bonifica» delle retrovie da parte degli eserciti nazista e sovietico, ne sono implicati. Rileggendo Terre di sangue, colpisce una considerazione: «il conto dei 14 milioni non è un calcolo completo di tutti i decessi che il potere tedesco e quello sovietico causarono nella regione», ma piuttosto una stima del numero delle vittime assassinate a causa di una premeditata politica di sterminio (il più delle volte inutile per la vittoria finale).
Secondo Snyder, «il regime nazista e quello stalinista vanno raffrontati, non tanto per comprendere l'uno e l'altro in se stessi, ma per capire i nostri tempi e la nostra civiltà». Questo è infatti un saggio «sullo sterminio intenzionale, più che sulle brutalità», riguarda i civili, più che i soldati in servizio attivo. Si rintracciano memorie personali, familiari, testimonianze di sopravvissuti quasi a voler dare voce a ciascuna delle individualità, comprese in quei 14 milioni di morti avvenute nelle terre di sangue. Ogni persona, aveva una storia diversa, ed è proprio questo che vollero eliminare i regimi nazista e comunista, trasformando le persone in numeri.
«Non furono usati i tronchi Per spostarle erano sufficienti pochi uomini con delle funi»
Il video della simulazione su www.lastampa.it
La Stampa 24.6.12
Isola di Pasqua, così danzavano i moai
Un team di ricercatori ha dimostrato come furono trasportate le statue: “Solo con l’ausilio di corde”
di Paolo Manzo
SAN PAOLO Dopo anni di spedizioni dal 1999 a oggi, finalmente un test svela uno dei segreti più affascinanti dell’Isola di Pasqua. L’équipe scientifica guidata dai professori di antropologia e archeologia Terry Hunt dell’Università delle Hawaii e Carl Lipo della California State University Long Beach è riuscita a dimostrare concretamente il modo in cui le gigantesche sculture monolitiche di pietra che hanno reso celebre l’isola in tutto il mondo, i moai, siano state trasportate dalla cava in cui venivano prodotte fino ai punti sacri dell’isola dove venivano disposte in gruppi anche di sette o otto.
Niente extraterrestri - in passato era stata sfiorata anche questa fantasiosa ipotesi - e niente trasporto delle statue adagiate in modo orizzontale su tronchi di legno. «La verità è un’altra - spiega a La Stampa Terry Hunt - e noi siamo riusciti finalmente a dimostrarla». Lo scorso novembre - ma la notizia è stata resa nota solo adesso - il National Geographic’s Expeditions Council ha finanziato il test dei due professori che davanti alle telecamere hanno fatto trascinare da un gruppo di 18 persone un moai di 5 tonnellate, alto tre metri. Il moai è stato spostato con l’aiuto di corde in modo che rimanesse sempre in posizione verticale. Dalle immagini appare come una figura enorme, quasi danzante da sola, riesca a muoversi grazie all’aiuto di poche persone. E se non bastasse, un’altra conferma arriva dalla cava più importante dell’isola, Rano Raraku, dove il popolo Rapa Nui produceva le sue gigantesche sculture che raffiguravano gli antenati protettori. A mostrarcela l’ex governatore dell’isola Sergio Rapu, diventato archeologo e collaboratore di Hunt. «Basta guardare al taglio della base spiega Rapu -, era fatto in modo da facilitare il trasporto. La base non era né piatta né regolare ma curva, permettendo così ai moai di reggersi sempre in piedi anche in movimento, dondolando per non cadere». Da notare che rispetto al resto del corpo la base veniva levigata solo in sito, quando il trasporto si era concluso. «Questo -continua l’ex governatore - permetteva eventualmente di correggere le possibili ammaccature prodotte nel trasporto».
Non contiene l’entusiasmo Terry Hunt, autore insieme al collega Lipo del volume The Statues That Walked, con cui ha vinto quest’anno il premio della Society for American Archaeology per il miglior libro destinato al grande pubblico. «Questo test aggiunge un tassello importante alla mia teoria sulla fine della cultura Rapa Nui». Contro l’ipotesi del suo prestigioso collega, lo scienziato Jered Diamond, che vede nell’isola un esempio straordinario di «collasso di una civiltà» per ipersfruttamento delle proprie risorse naturali, Hunt sostiene il contrario. «Questa civiltà non è finita perché si sono tagliati centinaia di alberi per trasportare i Moai, ma gli alberi - si parla di milioni di palme oggi scomparse - sono stati distrutti dai topi portati, insieme alle malattie, dai primi Europei nel XVIII secolo». I Moai non hanno colpa dunque per Hunt ma furono l’espressione più alta di una civiltà conclusasi con l’arrivo dell’uomo occidentale. Anche se pare che i primi europei, quando arrivarono sull’isola, la trovaronogià spoglia. E le ricerche archeologiche sembrerebbero attestare la presenza dei topi in un periodo ancora anteriore.
La Stampa 24.6.12
La terra scoperta dai polinesiani
L’Isola di Pasqua, che appartiene al Cile, si trova nell’Oceano Pacifico, a circa 3.700 chilometri a Ovest dalle coste dell’America Latina. Si tratta di un’isola vulcanica dalla superficie di 160 chilometri quadrati, su cui attualmente vivono circa 3.800 persone. Secondo alcune teorie, i primi colonizzatori, attorno all’anno 1000, furono i polinesiani: furono loro a realizzare i Moai. All’epoca l’isola era un’immensa foresta di palme, che nei secoli successivi - con il progressivo aumento della popolazione - subì un forte disboscamento. Il primo occidentale ad arrivare sull’isola fu l’olandese Jakob Roggeveen, che sbarcò la domenica di Pasqua del 1722: una data che ne segnò il nome.
La Stampa 24.6.12
La leggenda dei colonizzatori spaesati
di Maurizio Assalto
Un’antica leggenda di Rapa Nui racconta che l’ ariki Hotu Matúa, il capo approdato con due grosse imbarcazioni sull’isola fino a quel momento disabitata, dopo avere sconfitto l’invidioso fratello Aroi e essersi ritirato in solitudine sulle pendici di uno dei quattro vulcani, ormai vicino alla fine si era arrampicato su una roccia e aveva lanciato un grido. Dalla lontana Hiva, sperduta nel mare infinito, gli rispose il canto di un gallo. Il vecchio ariki morì sereno.
Il racconto tradizionale racchiude il mistero sulle origini della popolazione che circa 1600 anni fa colonizzò l’isola scoperta il 5 aprile 1722 (domenica di Pasqua, da cui il nome con il quale è meglio nota in Occidente) dall’olandese Jakob Roggeveen. «Hiva» è un toponimo diffuso nel Pacifico, che soltanto nell’arcipelago delle Marchesi, il più prossimo (se così si può dire) a Rapa Nui, ricorre tre volte. È comunque da qualche parte della Polinesia che devono essere partiti i primi coloni, in contrasto con l’ipotesi sudamericana avanzata da Thor Heyerdahl negli anni 50 del secolo scorso.
Nelle isole del Pacifico, quando il figlio maggiore dell’ ariki succedeva al padre, gli altri figli, alla testa dei rispettivi clan, se ne andavano in cerca di terre vergini. A Rapa Nui («isola grande»), il posto abitato più lontano da ogni altro posto abitato (la costa del Cile dista 3747 chilometri, Tahiti 4050), è probabile che fossero approdati per caso, trascinati dai capricci dell’oceano. E fin dal principio dovettero avvertire il senso del proprio isolamento, la nostalgia della patria perduta, la consapevolezza che per loro le porte del mare si erano chiuse per sempre e il ritorno sarebbe stato impossibile.
È anche per contrastare questa sensazione di spaesamento che gli abitanti di Rapa Nui si industriarono per costruire un proprio mondo, in cui i moai, le statue degli antenati, dovevano farsi garanti del legame con la nuova terra, riversando sui clan isolani la potenza protettrice del loro mana. Una funzione che a un certo punto, però, devono essersi stancati di svolgere. Comunque siano andate le cose, che sia colpa degli indigeni o degli europei, nell’isola di Pasqua si è verificato un collasso ambientale con pochi riscontri (per fortuna) altrove: una fine del mondo in miniatura.
La Stampa 24.6.12
Rulfo, è la menzogna che ricrea la realtà
Torna La pianura in fiamme del grande autore messicano tra i capostipiti del “realismo magico”
di Ernesto Franco
La pianura in fiamme ( El llano en lamas ) uscì nel 1953
Forse per i suoi ostinati silenzi, forse per la geniale essenzialità della sua opera ( La pianura in fiamme nel 1953 e Pedro Páramo nel 1955), forse per un certo stile involontario del personaggio, o forse per tutto questo insieme, Juan Rulfo è stato ed è uno scrittore circondato da leggende.
Fra le molte possibili, non è la meno verosimile quella tramandata da Gabriel García Márquez: Juan Rulfo avrebbe detto, o gli avrebbero fatto dire, che aveva composto i nomi dei suoi personaggi leggendo lapidi fra le tombe dei cimiteri di Jalisco. La leggenda, all’apparenza, si adatta perfettamente allo scrittore e all’opera. Un uomo solitario, lontano dai circoli intellettuali, dalla mondanità, e un’opera che usa materiali veri, tratti dall’epoca della post-rivoluzione, dalla guerra dei cristeros, dall’esercizio brutale del potere dei singoli piccoli o grandi cachiques .
Senza poter essere confuso mai con uno scrittore regionalista o addirittura costumbrista, Juan Rulfo appare comunque a una prima lettura come uno scrittore della realtà, vicino ai fatti, alla storia vissuta dal basso, dai contadini, dalla povera gente abbandonata nel mondo e nel tempo. A ciò si aggiunga che indiscutibilmente i racconti di La pianura in fiamme fotografano ancora oggi una fetta dell’anima messicana, un quid, per restare più bassi, del carattere nazionale, nonostante tutte le metamorfosi di quasi cent’anni di storia. L’immagine dell’uomo che passeggia per i cimiteri dello stato di Jalisco alla ricerca dei nomi dei suoi personaggi è, dunque, un ottimo emblema di questo radicamento, nella realtà, nella regione, nella storia. Ma c’è un ma.
In una nota intitolata spavaldamente La sfida della creazione, pubblicata nel 1980, quindi sei anni prima della morte, e come al solito molto laconica, ma molto precisa, Juan Rulfo dice, a proposito del mestiere dello scrittore, parole che sono in netto contrasto con l’aspetto verista della leggenda delle lapidi. «I miei compaesani mi hanno criticato molto – scrive Rulfo – dicendo che racconto menzogne, che non faccio storia, che tutto ciò di cui chiacchiero e scrivo, dicono, non è mai accaduto e in effetti è proprio così». «La letteratura è menzogna », continua e precisa Rulfo, ma da questa menzogna deve uscire una «ricreazione» della realtà.
Sì, uno dei principî fondamentali della creazione consiste, per Rulfo, nel «ricreare» la realtà. E per far questo, continua la nota del 1980, sono necessari tre «passi»: creare il personaggio, creare l’ambiente in cui si muove e, terzo, il linguaggio attraverso cui si esprime. Quanto ai temi, Rulfo sembra Borges: non ci sono altro che tre temi, dall’inizio dei tempi: l’amore, la vita e la morte. Il problema è trovare la forma in cui raccontarli di nuovo, per non ripetere un’infinitesima volta. «In concreto», dice Rulfo, si lavora con l’immaginazione (che «non ha limiti»), l’intuizione (che porta lo scrittore a «pensare» qualcosa che sta «accadendo nella scrittura» e non altrove) e un’apparente verità.
Proviamo a fare i tre «passi» di cui parla Rulfo all’interno di La pianura in fiamme. Primo, i personaggi. A questo proposito, mi è già capitato altrove di ricordare un libro fondamentale per comprendere il carattere nazionale profondo del Messico: Il labirinto della solitudine (1950) di Octavio Paz. Lo faccio di nuovo perché La pianura eIl labirinto si parlano come si parlano il racconto del pane e il racconto dell’olio. «L’indio si fonde con il paesaggio, si confonde col muretto bianco a cui s’appoggia alla sera, con la terra bruna su cui si sdraia a mezzogiorno, con il silenzio che lo avvolge. Dissimula a tal punto la sua singolarità umana che finisce con abolirla; e diviene pietra, lentisco, muro, silenzio: spazio. Non voglio dire che sia in comunione col tutto, alla maniera panteista, né che in un albero percepisca tutti gli alberi, ma che effettivamente, cioè in modo concreto e particolare, si confonde con un oggetto determinato».
Intorno a questo brano Octavio Paz sta svolgendo tutto un suo ragionamento sulle varie maschere messicane, che lo porterà lontano. Ma sempre più vicino al quid nazionale. Ma il brano in sé è la miglior descrizione possibile dei personaggi di Rulfo, che non sono tutti indios naturalmente, ma che dell’indio di Paz hanno questa vocazione a diventare oggetto, pietra, elemento del paesaggio. Octavio Paz si preoccupa giustamente di dissolvere qualsiasi equivoco metafisico. L’uomo di cui si parla, trasformandosi in cosa, non entra in comunione con il tutto perché nel mondo dell’abbandono di Paz e Rulfo non c’è aldilà delle cose, ma, come ha osservato Carlos Monsiváis, un «quipersempre». Quest’uomo qui e ora e questa cosa qui e ora.
Dai contadini di Ci hanno dato la terra ai ribelli di La pianura in fiamme, dall’assassino di All’alba ai cognati amanti di Talpa, l’uomo sembra essere un evento naturale. Cerca di sopravvivere senza un’idea di futuro ma per istinto di conservazione, e uccide senza rabbia e senza senso di colpa, ma solo perché, così come stanno le cose, non c’è altro da fare. Fatalismo, certo. Abbandono della storia. Il mondo che vince sulla volontà di cambiarlo proprio in uno dei paesi del sogno novecentesco della Rivoluzione. E in tutto ciò, è ancora Carlos Monsiváis a notarlo, «la violenza come atto naturale». Si parla dell’«innocenza» della belva che uccide per istinto non cosciente. Nel mondo dei personaggi di La pianura in fiamme, l’omicidio, la vendetta, lo stupro, l’umiliazione fanno parte dell’ordine naturale delle cose. Persino la pietà è spietata nel Messico di Rulfo, come in quel passo di La Cuesta de las Comadres dove l’assassino guarda la sua vittima: «Allora vidi che gli s’intristiva lo sguardo come se cominciasse a sentirsi male. Era tanto che non mi capitava di vedere uno sguardo così triste e mi fece pena. Perciò gli tolsi l’ago dall’ombelico e glielo piantai un po’ piú su, dove pensavo che avesse il cuore. E infatti ce l’aveva lì, perché sussultò due o tre volte come un pollo senza testa e poi rimase fermo».
Le belve non sanno nulla né di storia, né di futuro, né di speranza. Gli uomini di Juan Rulfo hanno solo disperazione, a loro storia, futuro e speranza sono stati tolti. In questo, sì, sono come i morti della leggenda delle lapidi, che trova così un nuovo modo di dire la verità: Juan Rulfo non rappresenta la realtà della cronaca messicana, ma reinventa un mito della solitudine che esprime, al di là dei singoli eventi che la determinano, una visione del mondo diffusa in Messico oltre la Storia.
Repubblica 24.6.12
L’evoluzione infinita
Uno dei temi scientifici più dibattuti è se gli esseri umani abbiano smesso di evolversi
Ecco le idee del grande antropologo che spiega perché l’ambiente urbano cambia la specie
di Desmond Morris
La scoperta scientifica annunciata qualche settimana fa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences – la specie umana è ancora in evoluzione – sorprende tanto quanto affermare che l’acqua è bagnata. Certo che ci siamo ancora evolvendo! Gli esseri umani, come ho già dichiarato, sono scimmie in posizione eretta, non angeli caduti. Siamo animali. Animali straordinari, ma pur sempre animali. Procreiamo e quindi ci evolviamo. Il significato di fondo della riproduzione sessuale – cosa che, a differenza dei panda, sappiamo fare abbastanza bene – è insito nel fatto che essa consente a una specie di essere adattabile. Ogni generazione è il frutto dei successi riproduttivi dell’ultima generazione. E l’ultima generazione è generata sotto l’influenza dell’ambiente così come esso era durante il breve arco di tempo trascorso su questa Terra. Se quell’ambiente cambia, anche i successi procreativi cambieranno di conseguenza. Non c’è niente di misterioso sulla morte: si tratta semplicemente di un meccanismo congenito dei nostri geni che ci consente di avere il tempo di riprodurci e di passare oltre. Abbiamo tutti geni che rendono la sostituzione delle nostre cellule sempre meno efficiente col passare degli anni, fino a quando diventiamo così deboli che cadiamo vittime di una malattia o di un’altra. Ogni specie ha questi geni, che operano a velocità diverse, in funzione della taglia dell’animale e di molti altri fattori. Un uomo vive più a lungo di un topo, ma i topi si moltiplicano più rapidamente degli uomini. E i microbi si riproducono più rapidamente di tutti e questa – come potrà confermarvi qualsiasi ricercatore medico – è una grossa seccatura, perché implica che riescano a evolversi così rapidamente da poter sviluppare tempestivamente l’immunità nei confronti dei nostri ritrovati terapeutici più recenti. Di conseguenza, per comprendere in che modo gli esseri umani si stiano evolvendo, tutto ciò che dobbiamo fare oggi è osservare in che modo sta cambiando il nostro ambiente. Se quest’ultimo è immutato, la nostra evoluzione si interromperà. Se viceversa è sottoposto a qualche tipo di sconvolgimento, allora la nostra evoluzione accelererà. Naturalmente, essendo noi animali di grossa taglia, il nostro processo evolutivo è molto lento. Negli ultimi dodicimila anni abbiamo vissuto un unico grande cambiamento ambientale, come specie di primati: l’urbanizzazione. Fino al punto in cui scoprimmo l’agricoltura, avevamo sempre vissuto in piccole comunità tribali di cacciatori e raccoglitori. Una volta piantate le sementi e addomesticati gli animali, però, ci concedemmo l’opportunità di mettere insieme scorte di cibo. Ciò permise ai primi villaggi di diventare cittadine e poi alle nostre cittadine di diventare città piene di specialisti che facendo nuove scoperte straordinarie ci indirizzarono verso l’eccellenza tecnologica. Accadde così che la primigenia scimmia nuda antropomorfa, che si era evoluta per vivere in piccoli gruppi, all’improvviso si trovò circondata da estranei, in popolazioni urbane sempre più ampie. E questo processo perdura ancor oggi a ritmo sostenuto. Questa è stata l’unica grande pressione esercitata dall’ambiente su noi uomini, intesi come specie. Chiunque scoprisse di essere incapace ad adattarsi a questo nuovo mondo affollato, pieno di trambusto, di stress sociale e di rumore, incontrerebbe difficoltà a metter su casa, famiglia e procreare. L’evoluzione per loro si interromperebbe e la specie andrebbe avanti. Esistono molteplici modi con i quali l’evoluzione può accomiatarsi da soggetti di questo tipo, per esempio facendo sì che si suicidino, provocando in loro la depressione, procurando loro qualche disturbo da stress o interferendo direttamente nell’atteggiamento che hanno nei confronti dell’atto dell’accoppiamento. Se alcune tipologie di persone non si riproducono in questo nuovo mondo urbano, ciò a poco a poco cambia la nostra specie. La cosa avrebbe un impatto anche nel caso in cui questi esseri umani diventassero “riproduttori limitati”, permettendo alla nostra specie di diventare più efficiente, un nuovo tipo di Scimmia Antropomorfa Urbana. Alcune correnti filosofiche e di pensiero hanno avuto un effetto negativo sul successo della procreazione. Per smettere di riprodursi non è necessario buttarsi giù da un alto edificio. Lo si può fare semplicemente prendendo la decisione di non riprodursi. Monaci, suore, preti cattolici, scapoli, nubili, gay e lesbiche hanno tutti probabilità di gran lunga inferiori di trasmette i propri geni e quindi di influenzare il futuro genetico della specie umana. Naturalmente, possono sempre influenzare il futuro culturale della nostra specie grazie ai loro insegnamenti o alla loro creatività. Ma il loro patrimonio genetico andrà in gran parte sprecato. Le loro uova ovuleranno, il loro sperma si formerà, ma vi saranno bassissime probabilità che si incontrino. Un’altra categoria di persone per la quale vi sono minori probabilità di procreare può essere quella dei cosiddetti “intellettuali altruisti”. Si tratta di coloro che osservando che la specie umana con i suoi sette miliardi di esseri viventi oggi è già estremamente popolosa, avvertono l’esigenza – dato che questo trend non pare dar segno di voler decrescere in futuro – di limitare il numero della specie uma- na. Se dunque tali individui decidono di conseguenza che è meglio non mettere al mondo figli, o quanto meno di avere una famiglia molto contenuta, contribuiranno meno al futuro della specie di coloro che non si danno pensiero di queste cose e si riproducono in piena libertà. Ad avere le migliori probabilità di influenzare il futuro della nostra specie dal punto di vista genetico sono dunque le grandi famiglie felici – quelle con genitori premurosi e tanti figli. Dico “felici” perché le famiglie infelici hanno invece maggiori probabilità di mettere al mondo figli che avranno problemi a riprodursi. Sono le famiglie felici quelle che meglio si sono adattate al nuovo mondo urbano. In qualche modo sono riuscite a lottare con successo con il loro nuovo ambiente affollato e non hanno capitolato, pur nello stress e sotto tensione. Tutto ciò lascerebbe intuire che la nostra specie oggi stia evolvendo in direzione di una condizione meno ansiosa, meno burrascosa, meno violenta. Essere in grado di godersi una vita famigliare felice nel bel mezzo delle difficoltà odierne significa essere adulti più tranquilli, più spontanei, più gioiosi, più pacifici e più ottimisti di quanto si fosse in passato. Ma che dire delle atrocità che continuiamo a sentire ogni mattina dai notiziari? Siamo certi che la specie umana non sia costituita ancora da animali aggressivi e violenti, capaci di commettere azioni di incredibile ferocia? Sì, ma il fatto che la maggioranza delle persone viventi sul pianeta resti raccapricciata da queste azioni perpetrate da un’esigua minoranza, riflette chiaramente che come specie ci siamo evoluti. I notiziari non riferiscono mai quanti esseri umani si sono svegliati questa mattina e hanno vissuto una giornata tranquilla e pacifica, rispetto a coloro che sono stati travolti dal finimondo. E il finimondo fa notizia soltanto perché è così raro. Senza accorgersene, l’indole della nostra specie negli ultimi anni si è evoluta, ed è diventata leggermente più giovanile e allegra. Questa è la nostra migliore speranza per il futuro. Ancora qualche parola, in conclusione, sulla sovrappopolazione. Mentre noi aumentiamo sempre più di numero, coloro che non tollerano la situazione si riprodurranno sempre meno e la nostra specie continuerà ad adattarsi alla vita nelle metropoli. Ai primordi della nostra evoluzione, sviluppammo una caratteristica precisa: sopravvivere collaborando. Tale capacità è connaturata ai nostri geni e può rafforzarsi geneticamente a mano a mano che passa il tempo. Mentre ci moltiplichiamo e diventiamo sempre più numerosi, però, ci troviamo alle prese con il grande pericolo al quale ci espongono i nostri nemici invisibili, il pericolo maggiore per noi: i virus e i batteri che si riproducono velocemente. I microbi ostili migliorano le loro caratteristiche incessantemente e una delle situazioni nelle quali prosperano meglio in assoluto è “la contiguità dell’ospite”. In altre parole, quanto più ci ammassiamo a vivere nelle nostre megalopoli, tanto più si moltiplicano per i nostri nemici microbi le occasioni di colpire a livelli di epidemia. Se per esempio un virus mortale riuscisse a evolversi e da contagioso diventare infettivo al punto da poterlo prendere dalla persona che ci siede accanto, allora ci ritroveremmo alle prese con una nuova Morte Nera. E la nostra popolazione di sette miliardi di individui nel volgere di pochi anni potrebbe ridursi a un milione. In ogni caso, quel milione di persone – le più resistenti – alla fine inizierebbe di nuovo a riprodursi e nel giro di poche migliaia di anni torneremmo nuovamente a essere in tanti. Quanto ho esposto potrebbe sembrare un sistema basato sullo spreco. Decisamente staremmo molto meglio se fossimo come i topolini comuni: quando la loro popolazione diventa eccessiva, le femmine incinte riassorbono l’embrione. Se la sovrappopolazione colpisce invece le volpi, non sono i cacciatori a controllarne il numero, ma le volpi femmine, che smettono di entrare in calore fino a quando il numero della loro popolazione non torna nella norma. Per qualche motivo, la specie umana è priva di questi efficienti meccanismi di controllo della popolazione. Siamo una specie talmente nuova sulla Terra che non sembra che abbiamo ancora trovato il tempo di metterlo a punto. Forse un giorno, chissà… (Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The Telegraph)
Repubblica 24.6.12
L’intervista
Da Darwin alla genetica le sfide sulla nostra natura
di Angelo Aquaro
Massimo Pigliucci, della City University di New York fa il punto sulle diverse teorie che oggi si fronteggiano «E se parlassimo invece di “evoluzione guidata”? ». Oh no: non si finisce di mettere un punto che sei già di nuovo a capo. Mai i nipotini di Charles Darwin sono apparsi così divisi: una vera diaspora. E manco a dirlo: in continua evoluzione. Massimo Pigliucci, classe ’64, studi di biologia e oggi direttore del dipartimento di filosofia alla City University di New York, è da anni sulle barricate: da quando si trovò circondato all’università del Tennessee da studenti creazionisti. «Anche a biologia. Certo che tutti studiavano l’evoluzione: ma una buona metà per vedere che cosa diceva il diavolo». Peccato che adesso l’inferno sia scoppiato tra gli evoluzionisti. Quando Einstein superò la fisica di Newton nessuno si sognò di dire che il vecchio Isaac era un cretino. Perché su Darwin sono tutti contro tutti? «Da una parte ha avuto contro la religione. Dall’altra certi marxisti: il determinismo spezzava il sogno della rivoluzione». Ok, ma tutta questa confusione, oggi, non sarà anche un po’ colpa vostra? Darwiniani contro neodarwiniani... «Ecco, già questo è un errore. Nel calderone dei neodarwiniani la pubblicistica di oggi mette di tutto». Stephen Jay Gould, Richard Dawkins, Daniel Dennett... «Invece i neodarwiniani sono quelli che, negli anni ’30 e ’40, hanno riletto Darwin. Si chiama “sintesi moderna”. Contesa da chi – ci sono anch’io – reclama una “sintesi estesa”: sostenendo che gli stessi meccanismi dell’evoluzione si evolvono nel tempo ». Ma non ci sono più darwiniani puri? «Il darwinismo originale si riassume in due cardini. Il common descent: e cioè la discendenza comune di tutte le specie. E poi ovviamente la selezione naturale». Perché non poteva reggere più? «Ai tempi di Darwin i geni non erano stati individuati. È all’inizio del ’900 che si riscoprono gli studi di Mendel. La “sintesi moderna” sintetizza appunto mendelismo e darwinismo». Non bastava? «La scienza non si ferma. Nel ’53 Watson e Crick scoprono la struttura del Dna. Tutto diventa genetica. È la posizione estrema di Dawkins: il gene egoista da cui dipende tutto. E l’ambiente, per esempio? No, la “sintesi moderna” non basta più». Morris dice che l’ambientecittà è l’ultima sfida dell’evoluzione: ma può decretarne la fine. Tattersal ipotizza che l’evoluzione fisica è finita: non ci resta che quella culturale. «Certo già parlando di città parliamo comunque di evoluzione culturale. Dawkins riconduce perfino la cultura ai geni. Ipotizzando quei “memi” che sarebbero i geni del sapere culturale: tramandabili con la selezione naturale. Ma è più una metafora che uno strumento di indagine». Ricorda Tattersal: perché i caratteri si possano riprodurre occorre una popolazione ristretta. E 7 miliardi non sono pochi. «Ma l’ingegneria genetica non sarebbe un’altra forma di evoluzione? Chiamiamola “evoluzione guidata”. I traguardi sono lontanissimi ma Craig Venter ci lavora già». Sarà evoluzione, però per selezione per niente naturale. «Qui gli estremi si incontrano. L’“evoluzione guidata” sarebbe un po’ come il disegno intelligente di cui parlano i creazionisti: solo che stavolta il disegno è umano ». Troppo umano?
Repubblica 24.6.12
Lo scrittore di “Io non ricordo” racconta
Effetto Werther
Dai libri alla psicologia, la sindrome del contagio che porta gli adolescenti a desiderare la morte
di Stefan Merril Block
Cosa si può scatenare in una comunità
Ci eravamo trasferiti a Plano, in Texas, perché sembrava un posto per famiglie di successo
Ma un’epidemia di suicidi tra i ragazzi colpì quel piccolo mondo ricco e immacolato
La madre ha una teoria sullo stile ideale dell’architettura texana: quando uno vive in un posto come la Florida, tutto sta ad avere una bella vista sul mare. Quando uno vive in Colorado, tutto sta a poter guardare le montagne. Ma in Texas, l’ideale è una casa che dia su tutto quel cielo azzurro, azzurro e pieno di sole. La casa della mia famiglia, leggera variazione su quello che a Plano (Texas) è essenzialmente lo stesso modello di decine di migliaia di case fatte in serie, rappresenta un’espressione dell’estetica solare di mia madre: il piano superiore è dedicato perlopiù all’esterno, lasciando spazio alle finestre da quattro metri e mezzo che riempiono le stanze di luce implacabilmente allegra. Il sole! Secondo me io sono fotosintetico di natura. Quando sono al sole provo letteralmente un senso di spiritualità. Mia madre va in estasi, ma io tutto quel cielo azzurro e quel sole li ho sempre trovati un po’ opprimenti. Nella densa e intricata Brooklyn, dove abito da quando ho ventidue anni, gli spazi hanno sempre un che di personale, il corpo e la voce di una persona sembrano sufficienti a riempire una certa area. Ma da ragazzino, a Plano, mi sembrava di poter fare qualunque cosa – potevo beccarmi un pugno al fegato sulla pista di atletica durante l’ora di educazione fisica; potevo imprecare contro i miei crescenti arcipelaghi di acne: potevo sentire i miei compagni delle superiori che davanti alla scuola spargevano la notizia che l’ennesimo ragazzino si era suicidato – e quell’impassibile volta azzurra assorbiva tutto: il momento passava, e poi restava soltanto quella luminosità silenziosa.
* * *
Era il giorno del mio diciassettesimo compleanno, nel febbraio 1999, e stavo tornando a casa in macchina da scuola. Il cielo fuori dal parabrezza era perfetto, l’ennesima bella giornata di un inverno di siccità. Il comune aveva cominciato a razionare le scorte d’acqua; la polizia pattugliava i quartieri per controllare che non ci fossero irrigatori accesi di straforo. Plano era una delle città americane che crescevano più rapidamente, ma la terra dura e secca su cui sorgeva spesso le dava filo da torcere. Quel giorno, mentre i trattori diserbavano smisurate strisce di prateria per fare spazio a futuri mini-centri commerciali e comprensori residenziali, la terra arida si alzava formando tempeste di polvere in miniatura, masse di marrone e arancione in movimento. Le lezioni in genere finivano alle quattro e un quarto di pomeriggio, ma non era ancora mezzogiorno e io stavo già andando a casa. Quella mattina ero arrivato prima della campanella e avevo trovato i professori con gli occhi rossi e distratti. La mia insegnante della prima ora, famosa per la sua affabilità, aveva avuto uno scatto di rabbia a una domanda maligna di uno dei miei compagni. Alla terza ora, gli studenti gironzolavano per i corridoi e si accasciavano contro gli armadietti singhiozzando. Il preside, non sapendo come altro regolarsi, aveva sospeso le lezioni e ci aveva fatto andare via prima. E così, non era neanche ora di pranzo che stavo già tornando a casa.
* * *
I miei genitori ci avevano fatti trasferire a Plano per le stesse ragioni di tanta altra gente: lavoro, buone scuole, una città perfettamente congegnata per produrre famiglie di successo. Plano, rinomata per la sua prosperità, compare regolarmente sulle riviste come una delle migliori città del paese in cui far crescere i propri figli. È un posto inventato, anonimo, un patchwork di catene commerciali, filiali di aziende e case fabbricate in serie, il tutto organizzato in vista della massima produttività e semplicità, come un nuovo aeroporto. Di recente, una volta che ero tornato a Plano a trovare i miei, ho fatto una passeggiata con mia madre in uno dei curatissimi parchi della città. Fermandoci su un piccolo belvedere, abbiamo osservato la geometria luminosa e banale dell’abitato. Beh, ha concluso lei, è il posto ideale per tirare su una famiglia. Qui è tutto molto sensato. Sapevo che tu e tuo fratello sareste stati al sicuro. E quindi abitavamo a Plano perché, almeno in parte, Plano sembrava prometterci sicurezza. Ma, come ebbi modo di scoprire, anche una città così solare aveva un tremendo lato oscuro che di tanto in tanto riaffiorava, in forme orribili e improvvise. Nel giro di un anno, a metà degli anni Ottanta, mentre Plano si trasformava rapidamente da una cittadina rurale in un vero e proprio sobborgo di Dallas, cinque ragazzi iscritti alla mia futura scuola superiore si suicidarono. I giornalisti arrivarono, in massa, a fornire spiegazioni familiari e vaghe: la solitudine dei ragazzini lasciati troppo tempo soli in casa, il vuoto esistenziale di una città senza storia, i genitori che, nella loro instancabile ricerca della prosperità economica, trascurano i figli, lo strano fenomeno psicologico dei suicidi a catena. Per un paio d’anni, Plano faticò a scrollarsi di dosso una notorietà non voluta (la Capitale Americana dei Suicidi, venne ribattezzata dai cronisti), ma continuò a proliferare, e, nata dal nulla com’era, si espandeva troppo in fretta perché qualunque ricordo le restasse attaccato a lungo. Eppure, come una maledizione soprannaturale, quel particolare lato oscuro tornò. Durante il mio secondo e terzo anno alle superiori, diciotto ragazzi morirono in un’epidemia di overdose da eroina, e poi in un’altra catena di suicidi. Che cosa sapevo io di quelle morti? Inizialmente, ben poco. Molto spesso, in quei mesi, arrivavo a scuola e la trovavo zittita dalla notizia della morte dell’ennesimo ragazzo che non conoscevo. Gli studenti del mio anno erano 1700: le morti avvenivano a una certa distanza da me, ma al tempo stesso mi circondavano da ogni parte. Un giorno, durante la pausa pranzo, un mio compagno di scuola che non conoscevo prese un bidone dell’immondizia e se lo sollevò sopra la testa. Urlò contro i tavoli e scagliò i rifiuti all’altro capo della mensa. Quella stessa sera si sparò in testa con la pistola del padre. Io e i miei compagni di classe, quando i giornalisti venivano a intervistarci, ostentavamo un tono cupo e cinico, intensificando il nostro normale atteggiamento da adolescenti. Giustificavamo la noia adolescenziale trasformandola in sociologia da quattro soldi: Certo, dicevamo, è comprensibile che tanta gente non riesca a sopportare un posto così sterile e senz’anima. Per tutto questo successo, avvisavamo, c’è un prezzo da pagare. Quelli di noi che non avevano ancora perso un amico riuscivano a vedere i suicidi come una metafora, una macchia su quei prati intonsi e quelle strade costeggiate di tulipani, un atto di ribellione che incitava ad altri piccoli atti di ribellione anche da parte nostra. Per via dei suicidi, i giornalisti erano venuti nella nostra scuola per invitarci a esporre sulle riviste e nei servizi tv ciò di cui un tempo ci lamentavamo solo gli uni con gli altri, che non avremmo mai osato dire agli insegnanti e ai genitori che avevano creato quella radiosa cittadina per il nostro benessere. Certo, dicevamo ai giornalisti, non vi pare che tutto torni? Ecco cosa succede quando una città ricca e immacolata trascura le cose più importanti. Ma quando un mio amico, Ken McKinney, una sera si suicidò asfissiandosi nella macchina dei suoi, di colpo sembrò infantile e ridicolo attribuire alla cosa un qualunque significato. La morte di Ken produsse un brusco scollamento nel mio pensiero: tutt’a un tratto, i piccoli lotti di terra scintillanti di verde chimico parvero non avere nulla a che fare con la cosa terribile che stava succedendo. C’era soltanto, ora lo capivo, l’insensatezza del fatto che un ragazzino di sedici anni, pieno di talento e di carisma, si era ammazzato. Dopo la morte di Ken, gli psicologi della scuola ci parlarono dell’elaborazione del lutto e della depressione, ma le loro parole sembravano vaghe e inadeguate come quelle di chiunque altro. E alla fine ci apparve chiaro che non ci sarebbe mai stato modo di dare una spiegazione all’accaduto. Il giorno del mio diciassettesimo compleanno, arrivando a scuola venni a sapere che la sera prima una delle psicologhe aveva chiuso la saraci- nesca del garage, messo in moto la macchina, e atteso che il gas di scarico le togliesse la vita.
* * *
Quel giorno, mentre tornavo a casa, viaggiando verso ovest sulla Ford dei miei, la città di Plano a un certo punto lasciò il posto a lotti di terreno ancora non edificati, dove gli operai stavano ripulendo e spianando quella che un tempo era terra agricola per fare spazio a nuovi esercizi commerciali e villette. Il vento soffiava a raffiche intermittenti, e la polvere sollevata dalle ruspe e dai trattori si accumulava formando strane figure, macchie di Rorschach fatte di terra. Le nuvole aleggiavano come fantasmi rugginosi sopra Parker Road. La città cresceva così rapidamente che le strade erano irriconoscibili rispetto anche soltanto a un mese prima. Diciotto ragazzi si erano uccisi, e adesso anche una psicologa della scuola. La polvere stava facendo qualcosa che non le avevo mai visto fare: restava sospesa sopra i campi e le strade in forme che parevano sfidare le norme della fisica. Ero euforico e impaurito al tempo stesso, soggetto al potere di nuove e strane forze. Le nuvole si spostavano verso il centro della strada e io mi ci infilavo dentro accelerando, senza preoccuparmi di cosa potessero nascondere. Quando ne attraversavo una, il parabrezza diventava marrone e per un attimo non vedevo neanche il cofano. Poi, ogni volta, riemergevo, più forte e spavaldo, nel giorno azzurro e tirato a lucido. Presi velocità e mi abbandonai sempre di più. Attorno a me si radunarono altre nuvole di polvere: sembravano qualcosa di personale. A meno di un chilometro da casa mia, a un semaforo, svoltai a destra e mi affacciai sul lungo rettilineo vuoto di Communications Road, sopra il quale stazionava la nuvola finora più grossa, piazzata lì come un fantascientifico portale spaziotemporale per i veicoli in arrivo, destinato a inghiottire le auto moderne e a depositarle in qualche ruvido momento del passato texano. Accelerai ed entrai nella massa marrone. Dentro la nuvola, a sessanta all’ora, improvvisamente una figura umana. Una persona, che rimbalzava via dal cofano della mia macchina; ma era troppo tardi per sterzare o frenare. In un attimo la mia macchina si fermò e l’esplosione dell’airbag mi gettò le braccia verso il tetto. La realtà di ciò che avevo appena fatto – Ho preso in pieno qualcuno, ho ammazzato qualcuno – apriva un altro futuro, contaminato per sempre da quel momento. La polvere non si disperdeva: il mio parabrezza era un trapezoide opaco oltre il quale non riuscivo a vedere nulla. Quando infine il vento spazzò via quella nuvola, esalai un sospiro. La figura che avevo intravisto era stata un’illusione ottica o uno scherzo della mia mente. Non ero andato a sbattere contro una persona, ma contro un Suv, il cui paraurti cromato rifletteva il mio viso a una distanza di non più di mezzo metro.* * *
Il suicidio è contagioso. Gli psicologi lo chiamano Effetto Werther, e la sua influenza è facile da misurare: dopo un suicidio molto pubblicizzato, non solo il tasso generale di suicidi aumenta, ma c’è anche una drammatica impennata nel numero di incidenti stradali che coinvolgono una singola vettura. Gli psicologi offrono varie teorie per spiegare il fenomeno, ma nessuno riesce davvero a capire perché questa unanimità mortale sia tanto radicata nella nostra mente, come mai il desiderio compulsivo di morte passi con tanta facilità e sottigliezza da una persona all’altra. Io non riesco ancora a spiegarmi i suicidi di Plano, perché cominciarono proprio quell’anno e perché si interruppero, e non so se la mia collisione quasi fatale fu connessa a quelle morti da un qualche algoritmo socio-cognitivo. Sono passati più di dieci anni, e quando parlo con i miei amici di Plano di quel triste periodo, nessuno di noi concorda con gli altri sul numero esatto dei morti, e ci viene difficile ricordare le motivazioni che snocciolavamo con tanta sicurezza quando avevamo sedici anni. Ma mi vedo ancora davanti agli occhi quella figura umana sbalzata contro la mia macchina, anche se alla fine il vento l’ha cancellata, riassorbendola nel cielo immacolato di Plano. (Traduzione di Martina Testa)
Repubblica 24.6.12
Il saggio
Ritratti di psicoanaliste l’altra metà di Freud
di Luciana Sica
Dodici psicoanaliste del passato riproposte attraverso lo sguardo complice di altrettante analiste di oggi.
Tutt’altro che banali biografie “di donne sulle donne”, è l’intensità dei ritratti a restituire la forza intellettuale delle più grandi signore del movimento freudiano. Se il libro appassiona, è per la straordinarietà del genio femminile che attraversa la storia della psicoanalisi e sembra coinvolgere profondamente le analiste della contemporaneità. Solo qualche esempio delle autrici che firmano il libro: Gemma Trapanese rilegge Anna Freud, la celebre “figlia d’oro”; Manuela Fraire si confronta con una maestra del pensiero come Melanie Klein; Angelique Costis è alle prese con la complessità di Piera Aulagnier; Amalia Giuffrida rivisita la musa per eccellenza, Lou Salomé; Marina Malgherini riscopre Sabina Spielrein fuori del triangolo con Jung e Freud... Patrizia Cupelloni, la curatrice del volume che ha anche scritto di Paula Heimann, insiste sul sottotitolo “Il piacere di pensare” come «una conquista espressiva che contraddice vecchi pregiudizi che attribuiscono il logos al
maschile e la corporeità al femminile».
PSICOANALISTE. IL PIACERE DI PENSARE a cura di Patrizia Cupelloni Franco Angeli, pagg. 314, euro 38