La Stampa 13.6.12
Pd, sondaggio choc Renzi tallona Bersani Ma vince lo “straniero”
Ma in caso di nuova legge elettorale le primarie d’area potrebbero anche saltare
di Carlo Bertini
Possiamo far finta di nulla e litigare di Rai o primarie mentre tutto brucia? », chiede a tutto il Pd Marina Sereni con una buona dose di realismo. Fatto sta che nel suo partito si litiga sulle regole delle primarie, sulla voglia dei giovani di correre («Ci sto pensando», ammette la Serracchiani) o sulle minacce del moderato Fioroni di candidarsi anche lui se una legge sulle coppie gay restasse una priorità del programma di Bersani. Ma dietro le quinte i più avveduti sanno che se per un caso del destino fosse cambiata la legge elettorale, le primarie andrebbero in soffitta: in queste ore di febbrili trattative per modificare il porcellum, molti sono consapevoli che i gazebo, benedetti dalla direzione di venerdì scorso, verrebbero allestiti solo se restasse il sistema di voto che obbliga alle alleanze e assegna un ricco premio di maggioranza. Se poi per disgrazia si andasse a votare a ottobre, non ci sarebbe tempo per farle, anche perché molti vorrebbero che un mese prima vengano aperte le iscrizioni ai gazebo, creando «un albo degli elettori» che eviti inquinamenti dell’ultim’ora sui territori. Per questo Renzi mette le mani avanti, «le primarie saranno libere, aperte e democratiche, saranno a un turno solo e non ci sarà nessun giochino per impedire la partecipazione».
Ma a dare la sensazione di quanto queste primarie possano creare problemi a Bersani è il sondaggio diffuso ieri sera a Ballarò, che contiene dati allarmanti per il vertice del partito: la fetta più consistente di elettori di centrosinistra (26%) voterebbe un esponente della società civile non ancora conosciuto, Bersani è dietro al 24%, Renzi lo tallona però al 21%. Montezemolo (quotato anche per eventuali primarie del Pdl) all’11% e Vendola al 10%. E ieri Renzi si è messo di traverso sul doppio turno: il segretario lo preferisce perché consente a chiunque vinca di avere l’intero schieramento dietro e una maggioranza assoluta. Ma è indubbio che questa soluzione penalizza i terzi in classifica. Renzi o Vendola uscirebbero dal primo round non con un paniere gonfio di consensi da poter spendere a vario titolo, ma con il marchio meno brillante di «eliminato al primo turno». I cattolici temono di venir oscurati da Renzi che toglierebbe peso ai vari big presidiando il campo dei moderati. Tanto che gira voce che la Bindi minacci di candidarsi se le primarie si trasformassero in un congresso del Pd. Fioroni lo dice esplicitamente, con l’argomento di voler presidiare la difesa della famiglia. «La gente che incontro non vuole sapere di diritti degli omosessuali, ma di crisi ed esodati». «Si candidi pure - lo provoca Ignazio Marino - così sapremo veramente cosa pensano i nostri elettori».
Ma un bersaniano doc fa notare che «ora tutti sono spaventati perché sanno di dover fare i conti con Renzi, che non è affatto escluso arrivi secondo con il 30-35% dei voti». Sostenendo poi che con le primarie Bersani potrebbe liquidare pure il tormentone del «papa straniero»: nessuno se ne potrà uscire a tre mesi dal voto dicendogli di farsi da parte. «Perché chi vuole misurare il suo consenso, si accomodi ora». A nessuno è sfuggita però venerdì l’apertura di Bersani a trattare col Pdl qualsiasi formula (senza recriminare poi «che ci siamo venduti l’anima al diavolo») per superare il porcellum. Se vi fosse un accordo per cambiarlo, allora tornerebbe utile lo schema di gioco gradito a moderati e veltroniani di un Pd a vocazione maggioritaria apparentato con una lista civica e senza obbligo di fratellanza con Sel e Idv...
l’Unità 13.6.12
Coppie di fatto, pronto il testo Pd
Il no di Fioroni. Polemica nel Pd sui diritti gay
Il comitato presieduto da Bindi presenta domani le sue proposte: sì ai diritti delle coppie gay, no ai matrimoni
Il senatore ex popolare: «Il segretario dovrebbe occuparsi piuttosto di crescita, giovani, famiglia»
Martinelli, responsabile Pd: «Fioroni usa strumentalmente il tema dei diritti civili»
di Maria Zegarelli
Fuoco alle polveri. Ci ha pensato Beppe Fioroni che in un’intervista ad Avvenire ha criticato Pier Luigi Bersani per aver auspicato una legge sulle coppie di fatto. Antica ferita del Partito democratico il dibattito interno sul riconoscimento delle unioni civili. Per il giornale dei vescovi italiani, poi, una legge così di fatto aprirebbe ai matrimoni gay. Ipotesi che Fioroni vede come fumo negli occhi. «Io mi aspetto primarie di programma. Di contenuti. E mi auguro che i grandi temi possano essere raccolti da Bersani, che sia lui a declinare lavoro, crescita, giovani e famiglia», dice l’ex ministro. Ma, aggiunge, se lui, cioè Bersani, non c’è, allora «sarei costretto a riflettere e, magari, a muovermi». Si delinea l’ipotesi di una nuova candidatura alle primarie? Fioroni non conferma e non smentisce, ma intanto crea una polemica furente che rimbalza da twitter a facebook ed entra nella carne viva dei democrat. L’invito dal web è a candidarsi davvero «così finalmente facciamo tra gli elettori Pd quel referendum invocato da tempo sui diritti civili. Vedremo se la sua posizione raccoglie il 90 o il 10%», sintetizza il senso il twitter del senatore Ignazio Marino.
Dalla segreteria nazionale parla invece Ettore Martinelli, responsabile diritti civili del Comitato che il partito ha istituito per stilare un documento sull’intera materia. «Fioroni usa strumentalmente il tema dei diritti civili per accreditarsi presso i moderati. Non si spiega altrimenti il totale disinteresse al lavoro del Comitato, di cui è parte. Non è mai venuto in oltre un anno di lavoro. Venga lì a confrontarsi e a trovare un punto di sintesi». Ivan Scalfarotto, vicepresidente Pd: «Finalmente sapremo quanti sono gli italiani di centrosinistra che avversano temi come le unioni gay e il testamento biologico. L’esperienze europea ci dice che questi sono temi che fanno parte dell’identità delle persone progressiste: contare i sostenitori di Fioroni ci farà finalmente uscire dall’equivoco».
Tace per ora il segretario anche perché giovedì al Nazareno si riunirà il Comitato, presieduto da Rosy Bindi, per mettere a punto il testo finale che affronta a 360 ̊ i temi delle coppie di fatto, del testamento biologico, della fecondazione assistita. E sarà quella la sede di discussione. Quello a cui stanno lavorando i membri del Comitato non sarà un testo fatto di articoli e commi, si tratterà di una serie di linee-quadro da sottoporre al voto dell’Assemblea generale del prossimo luglio. Del gruppo di lavoro fanno parte politici tra i quali Ivan Scalfarotto, Paola Concia, Ignazio Marino, lo stesso Fioroni filosofi e costituzionalisti e si è anche avvalso del contributo dell’attuale ministro Renato Balduzzi.
«Ciò che il Pd non può permettersi dice Martinelli è di continuare a ignorare un tema, quello di creare un istituto giuridico che regolamenti le convivenza delle coppie dello stesso sesso, su cui il nostro Paese è in grave ritardo ed è già stato sollecitato da tempo dall’Unione Europea e anche dalla Corte Costituzionale». Il faro per il Comitato è soprattutto la sentenza 4184 della corte di Cassazione secondo la quale le coppie gay, che allo stato «non possono far valere il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato all'estero» hanno tuttavia il «diritto alla “vita familiare”» e dunque a «vivere liberamente una condizione di coppia», potendo in «specifiche situazioni», avvalersi di un «trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Nel documento a cui sta lavorando il Pd non si prevede il matrimonio tra gay ma si auspica l’individuazione «di un istituto giuridico che equipari la condizione dei cittadini omosessuali a quella degli etero nei rapporti di coppia», come spiega uno dei membri. Anche sul testamento biologico la linea sarà quella di escludere l’eutanasia ma di prevedere il rispetto delle volontà espresse dal singolo individuo. Il documento, tuttavia, non riscuote l’ok unanime. Critico Marino, che durante l’Assemblea nazionale dello scorso invocò l’istituzione del Comitato. «Quello che emerge osserva alla vigilia dell’incontro conclusivo è che non c’è una visione comune all’interno dei dirigenti del Pd, al contrario di quanto avviene tra gli elettori democratici, seppur con sensibilità diverse a seconda delle fasce di età. Sul matrimonio tra gay nei dirigenti ci sono grandi distanze». Così grandi che il senatore Pd annuncia di presentare entro una settimana un ddl sulle coppie di fatto e il matrimonio gay, «inizierò a raccogliere le firme e a quel punto vedremo chi vorrà davvero adeguare la nostra legislazione a quella di moltissimi Paesi europei».
Corriere 13.6.12
Il Pd e le unioni gay Il no di Fioroni investe le primarie
di M. Gu.
ROMA — Beppe Fioroni non ci sta a «passare per omofobo». La reazione del Pd lo ha «indignato», l'ex ministro vi ha visto «una forma di intolleranza» nei confronti dei cattolici e il tentativo di strumentalizzare le sue parole per «fare un regalo alla destra». A scatenare un vespaio dentro (e fuori) il Pd è stata un'intervista ad Avvenire, in cui Fioroni sfidava Bersani sulle unioni civili. Titolo di prima pagina: «Si cambi o corro alle primarie». Un'ipotesi che Fioroni (nella foto sotto, con Bersani) non conferma e non smentisce. L'apertura del segretario democratico a una legge sulle unioni di fatto in occasione del Gay Pride lo ha convinto a «dire no a derive eutanasiche e coppie gay», temi che Fioroni non ritiene prioritari «in questo momento così complicato». Il segretario del Pd non ha parlato di matrimoni omosessuali e se l'ex ministro ha aperto preventivamente un fronte con Bersani è perché teme che il centrodestra possa strumentalizzare la questione. Sui social network è esplosa la polemica. Contro Fioroni si sono schierati la sinistra del Pd, i prodiani e i leader delle associazioni di cultura omosessuale. «Fioroni? Un dinosauro con posizioni retrograde» è il giudizio di Rossana Praitano, presidentessa del Circolo Mario Mieli. «Fioroni si candidi, così ci divertiamo e finalmente sappiamo quel che sai già: che sei in minoranza», ha scritto su Twitter Paola Concia. Fioroni ci è rimasto male: «Ho sentito toni molto sgradevoli, io invece non ho detto nulla contro nessuno. Ho solo ripetuto quello che vado dicendo da vent'anni e cioè sì ai diritti civili e no ai matrimoni gay, che per me è la differenza tra democrazia e demagogia». E la Concia ribatte, accusando Fioroni di «strumentalizzare i diritti delle coppie gay per battaglie interne al Pd». Il partito si è spaccato. I cattolici con Fioroni, i liberal con Bersani. Enzo Bianco e Sandro Gozi accusano Fioroni di «far tornare indietro l'orologio della giustizia sociale e dei diritti». E la prodiana Sandra Zampa chiede il limite di tre mandati per spazzare via una «classe dirigente ferma sulle proprie posizioni come statue di sale». Per Ignazio Marino, Fioroni offre al partito una grande opportunità: «Si candidi e sapremo come la pensa il Pd su questi temi». Ma l'ex ministro non svela le sue intenzioni: «Candidarmi? Ho fatto un ragionamento politico per dire che sono contrario all'idea che nel centrosinistra si possa stare solo se favorevoli ai matrimoni gay o all'eutanasia».
Repubblica 13.6.12
Coppie gay, Fioroni sfida il segretario Pd “No alla legge o corro anche io alle primarie”
Prodiani e liberal col leader, Avvenire lo attacca
“Creare alternative al matrimonio” è “un cupo azzardo contro il futuro di una società”: così il direttore di Avvenire Marco Tarquinio sulle dichiarazioni di Bersani
di Giovanna Casadio
ROMA — «Se Fioroni si candida alle primarie contro i gay, allora mi candido anch’io in quanto gay». Paola Concia all’attacco. All’origine dello scontro nel Pd l’ennesimo sulle unioni omosessuali - c’è l’uscita di Beppe Fioroni, cattolico, che suggerisce a Bersani di «riflettere bene», che «le priorità» per il partito devono essere altre e che i Democratici rischiano di darsi la zappa sui piedi e di regalare il voto cattolico e moderato alla destra. Tutto accade dopo che il segretario dei Democratici, qualche giorno fa, ha annunciato l’impegno del Pd: «Serve una legge per fare uscire dal Far West le convivenze stabili tra omosessuali». Il centrosinistra al governo non potrà più tollerare questa cancellazione di diritti civili. Ed ecco, la bagarre. Si scatenano i cattolici. Entra in campo Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Fioroni, sempre al giornale cattolico, dichiara: «Alle primarie a questo punto potrei correre anch’io». Contro Bersani. Impazzano sul web pro e contro. Twitter ieri registra tre trend topic #fioroni; #cassano; #omofobia. Di “froci” nella Nazionale infatti parla anche il fantasista del Milan. Ma è il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio a dedicare la rubrica delle lettere alla questione e a bacchettare: «È una scelta sbagliata del Pd, di convenienza o meno non importa». Hollandiana- obamiana o «più semplicemente vendoliana» che sia, la presa di posizione di Bersani sui «simil-matrimoni gay», è una mossa politicamente da bocciare. «Creare alternative al matrimonio e “premiarle” significa disincentivare definitivamente il matrimonio, con quel che segue», scrive Tarquinio. Non siamo al tempo del “non possumus” dei vescovi sui Dico (la legge sui diritti dei conviventi) del governo Prodi, che alla fine naufragò, però su quella strada. I Democratici ancora una volta si dividono. Domani c’è la riunione del “comitato per i diritti” del Pd presieduto da Rosy Bindi che dovrà dare il via libera alla “carta” su unioni gay (sì al riconoscimento dei diritti), testamento biologico e divorzio breve da votare poi nell’Assemblea dei mille, a luglio. Bindi, cattolicodemocratica, nel comitato dovrà sciogliere i “nodi” e “richiamare” Fioroni a un atteggiamento da “cattolico adulto”. A questo punto, Concia interviene a gamba tesa: «Caro Fioroni, stai strumentalizzando tu per primo i diritti delle coppie gay per battaglie interne al Pd». Ironie online: «Fioroni candidi Cassano». Botta e risposta Fioroni/Vendola su Twitter: «Fioroni non è nemmeno un bravo calciatore, né ha una propensione evangelica... » (Vendola) ; «Hai tu una propensione evangelica» (Fioroni). A sfidare il leader cattolico ci sono i “liberal”Pd: «Si candidi, così ci contiamo e vediamo chi vince ». Sandro Gozi, Enzo Bianco si schierano con Bersani: «Siamo accanto al segretario e gli diamo pieno appoggio». La via maestra per «uscire dagli equivoci» è una: «Fioroni ha posizioni di estrema destra, si candidi e vedremo quanti la pensano come lui», incalza Ivan Scalfarotto; rincara Marino. I prodiani sostengono Bersani. Sandra Zampa torna sul rinnovamento del partito: «Le dichiarazioni dai toni minacciosi fatte da Fioroni sulle coppie di fatto dimostrano che le correnti del Pd sono pensate esclusivamente come piccoli potentati dotati di poteri di interdizione, o per la conquista di poltrone e incarichi. C’è bisogno più che mai del rinnovo della classe dirigente». Fioroni dal canto suo insiste: «Il matrimonio gay provoca il divorzio tra progressisti e moderati ». Però in parte rettifica con un tweet, in cui spiega che è a favore del riconoscimento dei diritti ma non del matrimonio gay così com’è contrario all’eutanasia. Barbara Pollastrini, ex ministra delle Pari Opportunità, che con Bindi, nel governo Prodi, fu autrice dei Dico, dà l’alt: «I diritti avanzano o arretrano tutti insieme. L’Italia è inadempiente rispetto alla propria Costituzione che prevede uguaglianza e pari dignità per tutti».
l’Unità 13.6.12
Presidenzialismo. Lite Bindi-Finocchiaro
La capogruppo Pd: sì a un referendum consultivo
di Andrea Carugati
Il presidenzialismo continua a tormentare le acque della politica. La Russa minaccia di lasciare il Pdl in caso di defezioni in Senato nel voto degli emendamenti previsto per domani. Bindi e Finocchiaro litigano sul referendum consultivo proposto dalla capogruppo Pd, e benedetto anche da Luciano Violante, con cui far pronunciare gli italiani, nella prossima legislatura, sulla forma di governo da adottare.
Sempre nel Pd si muove una piccola ma agguerrita pattuglia di senatori, guidati da Tonini, Ceccanti e Morando, che vorrebbe votare sì alle proposte di Berlusconi e Alfano sul sistema alla francese. Ceccanti ha chiesto un voto formale del gruppo prima che si esprima l’Aula. Intanto spunta pure un altro emendamento alla riforma costituzionale, firmato da Franca Chiaromonte del Pd e da Luigi Compagna del Pdl (ma sconfessato dai democratici) che reintroduce una sorta di autorizzazione a procedere per i parlamentari che i magistrati dovrebbero chiedere alla conclusione delle indagini preliminari. L’Idv è sulle barricate.
Nel frattempo, proseguono gli approcci tra Pdl e Lega, nel tentativo di convincere i senatori del Carroccio a votare sì al semipresidenzialismo, in cambio di aperture dei berluscones (per ora molto generiche) sull’introduzione del Senato delle regioni. In mezzo a tutto questo bailamme, procede il tentativo degli sherpa (guidati da Violante e dal Pdl Quagliariello) di lavorare comunque a una nuova bozza di legge elettorale, sul modello ispano-tedesco ma con tratti più maggioritari, in modo da favorire i partiti maggiori e sfavorire la frammentazione. Un tentativo benedetto dal Quirinale e dai presidenti delle Camere, che vogliono evitare ad ogni costo che si torni a votare con il Porcellum e con un nulla di fatto sulle riforme.
Che succederà dunque tra oggi e domani? Sia Finocchiaro che il capogruppo Udc D’Alia chiedono che si vada avanti con il pacchetto condiviso, approvato dalla commissione Affari costituzionali e benedetto dai leader di Pd, Pdl e Udc: riduzione dei parlamentari, aumento dei poteri del premier e modifica del bicameralismo. Quanto alle proposte Pdl, la richiesta Pd, Udc e Idv è che si torni in Commissione per esaminarle, evitando il voto dell’Aula. «Non si può pensare di approvare emendamenti che cambiano lo spirito e il merito del testo approvato in Commissione», spiega la capogruppo Pd. Che però propone, in cambio, ai pidiellini un referendum consultivo sulla forma di governo. «Si ritirino gli emendamenti e si collabori ad una legge costituzionale che preveda un referendum di indirizzo per far decidere gli elettori».
Una proposta che tenta l’ala più dialogante del Pdl, e per questo La Russa interviene a gamba tesa: «Il Pd vuole solo insabbiare la questione. Se mancheranno i numeri in aula perché non ci saranno tutti i voti del Pdl, allora molti di noi non starebbero dentro un partito dove c’è chi preferisce l’inciucio al presidenzialismo». La Russa conta sui voti della Lega, che anche ieri ha ribadito di non essere contraria, ma di volere in cambio il dimezzamento dei parlamentari e il Senato federale.
Ma, a sorpresa, il Carroccio potrebbe votare a favore del ritorno del pacchetto in commissione insieme a Pd e Udc. Lo spiega a l’Unità il senatore Sergio Divina, membro della Affari costituzionali: «La proposta del Pdl cambia l’impianto della forma di governo: non si può votare così in Aula, sarebbe un pasticcio istituzionale. Bisogna rivedere bene i contrappesi, scrivere un testo armonico. Bisogna tornare in Commissione...».
Nel Pd intanto è polemica sul referendum consultivo: «La direzione Pd non ha neppure preso in considerazione questa proposta», tuona la presidente Rosy Bindi. Sulla stessa linea anche il senatore D’Ubaldo: «La linea non si può improvvisare...». E Bersani avverte il Pdl: «Se votano con la Lega salta il tavolo...»
La Stampa 13.6.12
Semipresidenzialismo
Finocchiaro spariglia “Disponibili al referendum”
Il Pd avanza una proposta che, se farà strada, forse riuscirà a salvare quel tanto di riforma costituzionale su cui i maggiori partiti sembrano d’accordo. L’idea mira a sgombrare dal tavolo il semipresidenzialismo (che i berlusconiani vorrebbero far passare sotto forma di emendamento) prendendo l’impegno a discuterne con calma nella prossima legislatura, tenendo se il caso pure un referendum a riguardo. L’accordo, casomai venisse raggiunto, verrebbe ratificato da un’apposita mozione parlamentare.
Padre della mediazione è Luciano Violante, «madrina» Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, che l’ha formalizzata ieri. La risposta dal centrodestra ancora non arriva. Ne ragioneranno oggi Alfano e Berlusconi insieme con Quagliariello, «tessitore» per conto del Pdl. Può accadere che, nell’attesa, slitti di qualche giorno il voto sugli emendamenti semi-presidenzialisti. Se verrà evitato lo scontro molto dipende dal clima complessivo, dalla voglia dei partiti di rinunciare agli «strappi».
Nel Pd la proposta di referendum sul semi-presidenzialismo è stata duramente contestata da Rosy Bindi: «Sogno o son desta? Non ricordo che la direzione del partito se ne sia occupata... Sarebbe paradossale che un Parlamento di nominati si attribuisse funzioni costituenti per scardinare la democrazia parlamentare». Chi conosce Violante e la Finocchiaro, esclude peraltro che abbiano preso l’iniziativa di mediare senza discuterne prima con i vertici del Pd. Tra l’altro è attiva nel partito la schiera di quanti ritengono un errore demonizzare il semi-presidenzialismo.
Tensioni ben più forti nel Pdl, dove La Russa vorrebbe che si tentasse il tutto per tutto per imporre la svolta semi-presidenziale, magari agganciando la Lega (che chiede in cambio Senato federale e dimezzamento dei parlamentari). Nel timore di qualche «inciucio» col Pd, l’ex ministro della Difesa è andato addirittura a «picchettare» l’Aula di Palazzo Madama. «I numeri ci sono - è la sua tesi - se dovessero mancare sarebbe solo per defezioni interne». Nel qual caso, lancia la minaccia, gli ex di An sarebbero pronti a mollare il partito.
Corriere 13.6.12
Gentiloni: «Da Bersani una proposta indebolita Il premier dia i nomi, noi li voteremo»
di Giovanna Cavalli
ROMA — Non è che voi del Pd vi siete ficcati in un vicolo cieco?
«Vede, noi siamo ovviamente molto delusi dal comportamento del governo sulla Rai. Sei mesi fa il premier aveva promesso cambiamenti stupefacenti. Sei mesi dopo purtroppo constatiamo che questo è uno dei pochissimi veti che ha subito».
Da chi?
«Dal Pdl, ovvio. La riforma del servizio pubblico non è stata fatta. E ci ritroviamo con la legge Gasparri, tale e quale. Il Pd è giustamente scontento».
Il segretario Pier Luigi Bersani ha deciso di non partecipare alla scelta dei consiglieri di amministrazione. Può succedere che Pdl, Lega e Udc votino lo stesso. O che sia prorogato il cda attuale. Non le pare una strada senza uscita?
Paolo Gentiloni, 57 anni, è stato ministro per le Comunicazioni e presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai (di cui è tuttora uno dei commissari), a cui spetta indicare 7 consiglieri su 9 per viale Mazzini.
«Non avendo ottenuto nemmeno una modifica, Bersani giustamente chiede uno strappo».
E lei lo condivide?
«Capisco la sua richiesta, sì. Peccato però che risulti indebolita dal modo in cui i vertici del Pd hanno gestito la parallela vicenda delle Authority, una figuraccia».
Per non farne un'altra, come ci si toglie dall'impasse in Rai?
«Eviterei proposte tipo: il Pd indichi personalità di area. Non mi risulta che i due che ci rappresentano oggi siano uomini di partito. Suonerebbe come ulteriore presa in giro degli elettori».
E allora?
«Troviamo una soluzione con cui la volontà di dare questo strappo non impedisca l'elezione del cda».
E lei ce l'ha?
«Qualche giorno fa Fioroni e Casini hanno fatto una proposta».
Affidare al governo anche la selezione dei 7 consiglieri.
«Ecco. Il Pdl non accetterà mai. Potremmo farlo noi, per la nostra parte. Monti ci indichi personalità di prestigio, in totale autonomia rispetto ai partiti, vincolandole almeno alla riforma minima della governance della tv pubblica. E noi e l'Udc le voteremo. Una sorta di disarmo unilaterale».
Risultato?
«Si creerebbe così una maggioranza sufficiente: il presidente e il consigliere indicato dal ministero dell'Economia, più i tre scelti così».
Il classico 5 a 4 che ha funzionato spesso.
«Manterremmo il punto senza lasciare l'azienda a bagnomaria. Vorrà dire che avremo una Rai a maggioranza tecnica».
A proposito, da esponente della Vigilanza, non si è sentito scavalcato dall'iniziativa del premier Monti? Indicare il dg non spetterebbe a lui.
«Mi infastidisce che abbia fatto marcia indietro sulla riforma. Quanto ai nomi, sono di altissimo livello».
Vengono dalle banche.
«La scelta di candidati interni tranquillizza gli interni, non me. E l'ultimo dg non mi pare abbia dato buoni risultati. Gubitosi di telecomunicazioni ne capisce. Non gli chiederemo solo di dare una sforbiciatina ai conti. Ma di differenziarci dalla tv commerciale, di portare più qualità e più Internet, che è il futuro anche per la televisione. E magari di ridimensionare il perimetro del servizio pubblico: 40% di share e 15 canali, non è la dimensione giusta. Dimagrire allungherebbe la vita alla Rai».
Li chiamano alieni.
«Spero che siano gli alieni giusti al posto giusto».
Corriere 13.6.12
Sulla Rai Bersani deve scegliere cambiare o lasciarla agonizzare
di Paolo Conti
Dice Pier Luigi Bersani, segretario Pd, che il Consiglio di amministrazione Rai uscente ha «sbattuto fuori Fazio e Saviano» e quindi pensa «che la governance non possa stare in piedi così» e «i partiti non debbano nominare», confermando la linea sostenuta da mesi: niente votazione del nuovo Consiglio con la legge Gasparri.
In realtà Fazio non è in discussione nel palinsesto 2012-2013, e resterà tranquillamente al suo posto in prima serata su Raitre domenica e lunedì, ma Bersani ha tutte le ragioni per sostenere che l'attuale governance permette infiltrazioni politiche di ogni tipo, e basterebbe il caso Minzolini-Tg1 per avere una prova plastica della perversa conseguenza di un Consiglio figlio purtroppo non del Parlamento ma dei partiti e delle loro voglie di occupazione di una tv pubblica troppo spesso ridotta ad ancella (ad esser buoni) della maggioranza del momento, centrodestra o centrosinistra che sia.
Detto questo, Mario Monti ha proposto tre nomi per una futura Rai di tutto rispetto: Anna Maria Tarantola per la presidenza, Luigi Gubitosi per la direzione generale, Marco Pinto consigliere per l'Economia. Il presidente del Consiglio-ministro dell'Economia ha messo nel conto gli inevitabili, e comprensibili attacchi che sarebbero nati dall'aver designato subito il nuovo direttore generale. Insomma: si è fin troppo esposto per far cambiare aria alla Rai. In più ha chiesto ai partiti di collaborare per attribuire più poteri al presidente e rendere più agile la governance.
Domanda: di fronte a una possibilità come questa (dando per scontato che cambiare ora per legge i criteri di governance richiederebbe mesi, strada impraticabile per l'ostilità Pdl) è meglio «turarsi il naso» e votare con la Gasparri o insistere con l'astensione, certo popolarissima tra la base ma che farà saltare il banco Tarantola-Gubitosi aprendo inevitabilmente la strada (a norma di Codice civile) alla proroga dell'attuale Consiglio? Meglio il nuovo via Gasparri o meglio far agonizzare la Rai con un Consiglio ridotto a sette membri (Nino Rizzo Nervo dimesso da gennaio, Giovanna Bianchi Clerici ora all'Autorità per la Privacy) e la direzione generale di Lorenza Lei, che Bersani attacca continuamente? Altre vie, no, davvero non ci sono. Perché non esistono.
La Stampa 13.6.12
Le nomine Agcom e il primato del pluralismo
di Vladimiro Zagrebelsky
Sarebbe bene sostituire la misteriosa sigla della Agcom con il suo nome vero, per ricordare la natura e la missione di quella Autorità indipendente, che è istituita «per le garanzie nelle comunicazioni». Essa svolgerà un ruolo decisivo nella assegnazione delle frequenze per le trasmissioni televisive: un ruolo determinante per ciò che vedremo, ascolteremo e sapremo nei prossimi anni. La gravità degli attuali problemi economici, che monopolizzano le attenzioni e preoccupazioni, spinge a vedere solo il profilo economico di questioni che invece riguardano anche altre ed importanti esigenze. E’ significativo che le critiche largamente portate alle recenti nomine dei componenti della Autorità finiscano spesso con il riflettersi solo sulle previsioni di comportamento di questo o quel commissario nelle decisioni che hanno conseguenze economiche sui vari operatori televisivi, attuali o potenziali.
Nessuno, specie di questi tempi, può sottovalutare la portata economica delle decisioni da prendere. Ma essa non deve esaurire l’ attenzione di chi le prende, né la vigilanza della pubblica opinione. In un suo intervento a «Otto e mezzo» de La7, l’altro giorno il segretario del Pd ha menzionato la cacciata «politica» di Santoro dalla Rai come un esempio di inettitudine «economica» da parte di una impresa, che dovrebbe curare i suoi interessi. Difficile nascondere lo stupore: non un cenno al profilo che riguarda la qualità dell’informazione fornita dalla Rai, responsabile del servizio pubblico. Come se, al contrario, non ci fosse stato nulla da dire nel caso in cui il programma cancellato non avesse avuto grande audience. Evidentemente l’unica logica è ormai quella dei costi/ricavi economici.
La informazione, completa e pluralistica è un bene pubblico, condizione fondamentale di una società idonea a far vivere il sistema democratico. Ad essa deve tendere l’opera del Parlamento, del Governo e della Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni. In linea con ciò che prescrive la Costituzione, è ora giunta a ricordarcelo una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con essa l’Italia è stata riconosciuta in violazione della libertà di espressione e informazione.
Da tempo la situazione italiana è ritenuta allarmante in tutte le sedi europee. Nel 2003 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, rilevando che il livello di concentrazione del mercato televisivo italiano era il più alto in Europa ed era caratterizzato da un duopolio fra RAI e Mediaset. All'epoca poi entrambe erano sotto l'influenza del presidente del Consiglio. Il Parlamento europeo ha anche notato che il sistema audiovisivo italiano continuava ad operare fuori di un quadro legale, in violazione di quanto stabilito nel 1994 e poi ancora nel 2002 dalla Corte costituzionale.
Il caso italiano deciso dalla Corte europea è straordinario innanzitutto nel suo svolgimento. I governi italiani succedutisi nel tempo a partire dal 1999 sono riusciti a farsi condannare dal Consiglio di Stato, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e ora infine dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E le sentenze in materia della Corte costituzionale sono andate nello stesso senso, ma sono rimaste ignorate da Parlamento e Governo. Tutti i giudici in terra si sono pronunciati: contro il governo, contro la legge italiana e contro l’applicazione fattane che «aveva favorito gli operatori esistenti a danno dei nuovi, anche se questi erano titolari di concessione, ma si trovavano nella impossibilità di trasmettere per la mancata assegnazione di radiofrequenze». Si trattava della società Centro europa 7, che nel 1999 aveva ottenuto la concessione per l’installazione di una rete televisiva con diritto a tre radiofrequenze atte a coprire l’80% del territorio nazionale. L’attribuzione di quelle frequenze doveva essere fatta secondo le prescrizioni di un «piano di assegnazione», che però fu attuato solo nel 2008. Nel frattempo, mentre si preparava il passaggio alle trasmissioni numeriche, una serie di norme transitorie aveva permesso agli operatori già attivi di continuare a trasmettere occupando le relative frequenze. L’impedimento valeva, infatti, per i nuovi operatori, cui le frequenze non venivano assegnate.
La Corte europea - nella stessa linea seguita da tutti i giudici che sono intervenuti nella vicenda - ha addebitato all’Italia di non avere adottato una legislazione e una azione amministrativa idonee a «garantire un effettivo pluralismo nei media». Non basta infatti l’esistenza di più canali e la possibilità teorica di accedere al mercato audiovisivo. Occorre invece una possibilità effettiva, in modo da «assicurare nel contenuto dei programmi, considerato nel suo insieme, una diversità che rifletta quanto più possibile la varietà delle correnti di opinioni che attraversano la società». Poiché la democrazia si fonda sulla libertà di espressione e richiede il massimo pluralismo delle voci. I media audiovisivi, poi, svolgono un ruolo particolarmente importante, perché la trasmissione di suono e immagine produce un effetto più immediato e potente del messaggio scritto. «Se un gruppo economico o politico potente fosse autorizzato a dominare il mercato dei media audiovisivi, che hanno il potere di far passare messaggi immediati, una simile posizione dominante sarebbe lesiva della libertà di comunicare e di ricevere informazioni e condurrebbe quel gruppo ad esercitare una pressione che restringerebbe la libertà editoriale, mettendo in crisi il ruolo fondamentale della libertà di espressione nella società democratica, in particolare quando si tratti di informazioni e idee di interesse generale, che, d’altra parte, il pubblico ha diritto di conoscere».
La considerazione degli interessi economici, se isolata e insensibile alle esigenze dei doveri e diritti fondamentali, potrebbe spingere ad assegnare tutte le frequenze ad un solo operatore, se solo ce ne fosse uno abbastanza ricco da offrire un prezzo più alto di tutti gli altri. Ma lo Stato deve assicurare il massimo grado possibile di pluralismo nella informazione, anche pagando qualche necessario prezzo economico, specialmente quando «il sistema nazionale è caratterizzato da un duopolio». Ciò vale naturalmente quando si tratti di mettere una pluralità di operatori in condizioni di trasmettere. Ma vale altrettanto quando si considera il «servizio pubblico» cui è destinata la Rai e che essa deve essere messa in grado di svolgere al riparo da pressioni, censure, allettamenti politici o altrimenti forti.
l’Unità 13.6.12
Esodati, Fornero sapeva da sei mesi
La ministra ha fatto finta di nulla
Il rapporto dell’Inps fu chiesto dalla stessa ministra e venne consegnato lo scorso gennaio
I dati utilizzati per preparare il decreto sui 65mila
di Massimo Franchi
La relazione dell’Inps contestata da Elsa Fornero è stata chiesta dalla stessa ministra all’Ente pensionistico sei mesi fa. Il documento che Fornero accusa di provocare «disagio sociale» è stato sulla sua scrivania fin da gennaio. E non è rimasto in un cassetto. Ma valutato e soppesato, usato come strumento utilissimo per dar vita al decreto interministeriale che dei 390mila esodati calcolati dall’Inps ne ha «salvaguardati» solo 65mila.
Una relazione dunque la cui responsabilità ricade completamente sulla ministra. Ed ecco la colpa politica di Elsa Fornero. Per sei mesi ha scientemente sottovalutato il caso “esodati” sottostimando il numero della platea dei “dannati” che, grazie alla sua riforma, si sono trovati senza lavoro e senza pensione per anni.
La relazione è stata chiesta da Fornero nei giorni in cui, con il decreto Milleproroghe, il Parlamento stava cercando di allargare, almeno in parte, le maglie della riforma delle pensioni. Fornero, sotto la pressione della Ragioneria dello Stato, del ministero dell’Economia e della presidenza del Consiglio, ha chiesto all’Inps di stimare il numero dei potenziali “esodati”. Così il coordinamento statistico dell’Inps ha iniziato a lavorare, spulciando i suoi database e quelli degli altri enti pensionistici esistenti. Il perimetro che quella relazione ha costruito, calcolando tutti coloro che con la riforma rischiavano di rimanere senza coperture, ha misurato 390.200 persone. A quel punto la cronaca parlamentare ci ricorda come l’atteggiamento del governo sia stato molto evasivo, dando parere contrario perfino alla richiesta di allargare almeno agli accordi sindacali sottoscritti dopo il 4 dicembre (data della entrata in vigore del decreto SalvaItalia e quindi della riforma) lasciando fuori pertanto anche gli “esodati” Fiat di Termini Imerese.
Su quella relazione Elsa Fornero ha subito chiesto al direttore generale Mauro Nori (che la firmava in quanto responsabile tecnico), al presidente Antonio Mastrapasqua e a tutti i loro collaboratori di non divulgare alcun dato sulla delicata questione esodati.
Il “vincolo” del silenzio è stato rispettato per mesi. L’Inps, davanti all’insistenza dei giornalisti, ha sempre preso tempo, sostenendo che i calcoli erano «difficili», «complessi». L’unica dichiarazione che può essere criticata è quella fatta da Nori in audizione parlamentare ad aprile, quando però parlo di 130mila e non di 390mila. Nel frattempo proprio il Coordinamento statistico dell’Inps lavorava a stretto contatto con i tecnici del ministero di via Veneto. E con Elsa Fornero e il suo staff. Un lavoro lungo e complesso per valutare gli effetti dei “paletti” che il decreto doveva inevitabilmente alzare. E proprio utilizzando quella relazione sono stati costruiti requisiti ad hoc per eliminare dai «salvaguardati» decine di migliaia di esodati già per il 2012, per esempio fra chi si paga i contributi da solo con il via libera dell’Inps (le cosiddette prosecuzioni volontarie) e chi ha perso il lavoro (i “cessati”).
Di più. La relazione non è stata resa pubblica, come accusa sempre la ministra, dall’Inps. Molto verosimilmente viene invece dallo stesso ministero di via Veneto. A renderla pubblica, a passarla all’Ansa che l’ha pubblicato, sarebbe stato uno dei tanti dirigenti del ministero del Lavoro messi da parte dalla professoressa Elsa Fornero. Che essendo un tecnico ha praticamente reso disoccupate centinaia di persone con altissime competenze, avendone come reazione una legittima acrimonia.
La riunione di lunedì sera al ministero è stata molto tesa. Elsa Fornero ha attaccato direttamente Mastrapasqua e Nori cercando (senza successo) di metterli uno contro l’altro. La richiesta di dimissioni non c’è stata. Anche perché non ne esistevano i presupposti, visto che i due non sono di sola nomina ministeriale e un eventuale commissariamento dell’ente dovrebbe essere deciso direttamente da Mario Monti. La diarchia al vertice dell’Inps va dunque avanti. Nonostante le forti frizioni, Mastrapasqua (uomo di Gianni Letta, nominato nel 2008 da Berlusconi ma con amicizie bipartisan) e Nori (uomo vicino alla Cisl) hanno fatto fronte comune, sapendo che la caduta dell’uno produrrebbe la caduta dell’altro. In più Mastrapasqua ha terminato la “luna di miele” con la ministra Fornero: seguendo i dettami del Pdl (leggasi le parole di Brunetta) ha da settimane iniziato ad attaccare senza sosta la titolare del Lavoro.
Ieri, però, molto stranamente, dopo mesi di silenzio è tornata d’attualità la nuova governance degli enti pensionistici. Una coincidenza ha voluto che i sindacati presentassero la loro proposta in Parlamento. Fornero ora potrebbe prendere la palla al balzo per accelerare i tempi e disfarsi di Nori e Mastrapasqua. Ma oramai è senza sponde politiche. E l’impresa sembra quasi impossibile.
Repubblica 13.6.12
Il rovesciamento della realtà
di Massimo Riva
STAVOLTA non si tratta di uno dei tanti balletti di cifre sui conti pubblici cui gli italiani hanno fatto ormai il callo da molti anni. Al centro del problema ci sono quasi 400mila cittadini che si trovano a non avere più un lavoro e a non ricevere il relativo salario, ma senza aver ancora maturato il diritto alla pensione. Siamo di fronte a un dramma sociale di enormi proporzioni. SOPRATTUTTO se si tiene presente che, nella maggior parte dei casi, pone gravi problemi di normale sopravvivenza a una larghissima platea di famiglie con figli a carico, mutui da rimborsare, spesa quotidiana da fare. Il primo aspetto scandaloso di questa vicenda nasce dalla insistita sottovalutazione della dimensione del problema. Eppure, siamo franchi, non ci voleva Pico della Mirandola per capire che, allungando l’età di pensionamento, la riforma previdenziale avrebbe avuto effetti perversi su quel gran numero di lavoratori che, in base alla vecchia normativa, aveva accettato di lasciare il proprio posto per favorire i processi di ristrutturazione di tante aziende in difficoltà. Fatto sta che né il governo nel predisporre la sua riforma né il parlamento nel discuterla e approvarla hanno ritenuto la questione meritevole di un congruo approfondimento e quindi anche di una tempestiva soluzione. Un po’ tutti, perfino in qualche misura anche i sindacati, si sono fidati delle assicurazioni del ministro competente, Elsa Fornero, secondo la quale il nodo sarebbe stato sciolto presto e bene. Tanto presto e bene che, a mesi di distanza, la questione oggi riesplode facendo venire alla luce l’inaffidabilità degli impegni ministeriali. Con una caparbietà — che non testimonia certo acutezza di visione politica e tanto meno economica — la signora Fornero ha continuato nella sua sistematica strategia di sottostima del problema, acconciandosi alla fine con fatica a proporre un intervento di sostegno limitato a circa 65mila soggetti. E ciò nonostante che dai sindacati, dai partiti, oltre che da esperti della materia, venissero valutazioni ben più cospicue sul numero dei malcapitati rimasti prigionieri della riforma previdenziale. Un atteggiamento ingiustificabile da parte di chi ha responsabilità di governo, tanto più se in materia sociale, che ora ha raggiunto il colmo con gli attacchi della stessa Fornero all’Inps, reo di aver alzato il velo sulla realtà sgradita alla signora ministro calcolando in quasi 400mila gli italiani vittime della tenaglia del niente salario e niente pensione. Sorvoliamo pure sul fatto che la titolare del ministero del Lavoro ha bollato come «deplorevole» la diffusione di questi dati mettendo in luce una concezione, diciamo così, elitaria del diritto alla conoscenza degli affari pubblici in una normale democrazia. Il punto ancora più critico è che la signora Fornero ha accusato i vertici dell’Inps di «creare disagio sociale» rammaricandosi di non poterli licenziare speditamente come sarebbe possibile in un’azienda privata. Par di capire, insomma, che il ministro sospetti i capi dell’Inps di aver tramato contro di lei. Se così è, si può rassicurarla: nessuno sta tramando contro Elsa Fornero più e meglio di quanto stia facendo lei stessa in prima persona. Qualcuno, infatti, dovrebbe chiarirle che l’Inps sarà pure un ente sottoposto alla sua vigilanza, ma esso è soprattutto un istituto al servizio degli italiani prima e più di chi occasionalmente esercita il ruolo ministeriale. E anche l’accusa di fomentare il disagio sociale appare solo come un infelice tentativo di rovesciamento della realtà. Non sono i numeri dell’Inps, per quanto pesanti, ad alimentare le paure degli italiani. Di autentica disperazione ce n’è una sola: quella degli sventurati che sono rimasti senza lavoro e senza pensione nelle mani di un ministro che non vuole neppure riconoscerne l’esistenza. Quello recitato da Elsa Fornero sembra, a questo punto, un copione da farsa. Prima che volga in tragedia (le premesse sociali ci sono già tutte) è urgente che Palazzo Chigi si riappropri della questione esautorando — non importa se di fatto o di diritto — un ministro così recalcitrante dinanzi alla realtà. Con quel che già succede sui mercati internazionali, non c’è proprio bisogno di ulteriori tensioni domestiche.
La Stampa 13.6.12
Veleni nella Chiesa
“Allo Ior i soldi degli affari con la mafia”
Trapani, l’ombra di Cosa Nostra dietro lo scandalo
di Guido Ruotolo
Ammanchi per milioni di euro. Nella lotta di potere tra l’ex vescovo e l’ex economo della diocesi di Trapani l’inchiesta sta evidenziando vicinanze con gli uomini di Cosa Nostra Il vescovo Miccichè L’ex vescovo di Trapani rimosso dopo l’intervento dal Papa Messina Denaro È l’unico della vecchia guardia di Cosa Nostra a essere ancora libero
Questa è la storia di una guerra per il «potere» e il «denaro» in terra di mafia, combattuta all’interno della Chiesa e che ha avuto delle vittime: un vescovo destituito, un economo diocesano sospeso a divinis e indagato dalla magistratura italiana. L’uno e l’altro fino a ieri - e chissà se non ancora - con pesanti coperture, con cardinali e ministri che dalla Santa Sede hanno dispensato loro benedizioni. «Il Vescovo Miccichè per parte di madre ha stretti legami parentali con uomini d’onore di San Giuseppe Jato». Benvenuti a Trapani. Il narratore di questa storia è un prelato influente. Tanto che le precisazioni della Procura di Trapani di non nominare il nome di Matteo Messina Denaro invano, sono superate dalla «terribile preoccupazione» che non viene nascosta neppure tra i collaboratori più stretti del Santo Padre. E cioè che tra i soldi trapanesi transitati su conti Ior, «si nascondono soldi orribili». E il perché lo spiega il nostro prelato: «È emerso solo uno spruzzo di lava, sotto c’è una bomba a orologeria che è pronta a esplodere». E, dunque, colpisce che il vescovo defenestrato, Francesco Miccichè, che pure aveva avuto la proposta di dimettersi in cambio di un coperchio sullo scandalo, sia «accusato» di essere «vicino ad ambienti mafiosi».
Rimosso dal Pontefice
Il suo processo - con condanna - l’ha subito in tempi strettissimi. Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, era stato inviato dal Papa a ispezionare e riferire direttamente a lui. L’istruttoria, da giugno a dicembre, si è conclusa con una «camera di consiglio» e al termine (a maggio), il Pontefice ha sostituito Micciché. Quali le colpe, i reati e i peccati di Miccichè? Purtroppo, nell’inchiesta della Procura di Trapani sugli imbrogli dell’ex economo della diocesi, don Ninni Treppiedi, il vescovo è parte lesa, è la vittima di una campagna diffamatoria e calunniatoria che don Ninni ha orchestrato con due giornalisti locali. Ma il sospetto è che i due abbiano «alienato beni della diocesi» che non potevano alienare perché sarebbe stato necessario il consenso del Vaticano, essendo di valore superiore al milione di euro. E le operazioni sono state prive di autorizzazioni interne come sarebbe stato necessario.
Vista da Oltretevere, questa di Trapani è la storia di due soci in affari, il Vescovo e l’economo, che a un certo punto rompono il loro rapporto per questione di affari. In un’intervista a un mensile siciliano, don Ninni Treppiedi ha detto: «Credo che quando due persone dopo dieci anni che stanno insieme divorziano (il riferimento è alla rottura con il Vescovo Miccichè, ndr) quanto meno devono avere la buona creanza di lavare i propri panni, soprattutto se si tratta di cose molto delicate, in casa, in questo caso tra le stanze del Vaticano e non andarsi a sputtanare».
Forse possono infastidire certe parole, ma la sostanza è più grave: non portare fuori dalla Chiesa le beghe interne è un messaggio tipicamente mafioso. Secondo i testimoni di questa faida, in realtà, la rottura avviene quando il Vescovo promuove l’economo nominandolo arciprete di Alcamo. Don Ninni si «allarga», bypassando il vescovo nella promozione di affari immobiliari.
La rottura definitiva
La rottura tra i due avviene dunque per motivi di potere e denaro. Era stato don Ninni a introdurre il Vescovo nel mondo della politica locale, alla corte di Antonio D’Alì, ex sottosegretario all’Interno con delega a gestire i fondi dedicati al culto. Si cementa così un rapporto d’interesse intenso. Il sottosegretario è molto attento a soddisfare le richieste del vescovo per ristrutturare chiese, conventi, luoghi di culto. E don Ninni cresce grazie a certe frequentazioni.
Trapani è città di massonerie e logge coperte. Il senatore D’Alì, poiché il padre di Matteo Messina Denaro era campiere nelle terre di famiglia, conosceva bene il capo dei Corleonesi nel Trapanese. E il senatore, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha ottenuto il rito abbreviato.
La storia di questa guerra tra due schieramenti interni alla Chiesa sembra la metafora di una guerra incruenta interna a Cosa nostra. In carcere tutti i «viddani» (da Riina a Provenzano), della vecchia guardia è libero solo Matteo Messina Denaro. È un reduce. Defenestrato il vescovo, don Ninni si pensa vincitore, anche se è stato sospeso a divinis. E presto la giustizia italiana farà il suo corso. Per don Ninni è questione di ore e poi dovrà vedersela in Tribunale.
La Stampa 13.6.12
Scandali sessuali e corruzione La guerra dentro la diocesi
Lotta senza esclusione di colpi tra l’ex vescovo e l’economo
di Giacomo Galeazzi
Trapani, diocesi di Gomorra. Violazione della clausura in un convento di suore, cinquanta immobili della Curia svenduti agli amici a un decimo del loro valore, ammanchi milionari nei bilanci, lettere di censura dei ministri vaticani dei religiosi e dei vescovi. Le carte segrete che hanno indotto la Santa Sede a rimuovere lo scorso mese il presule trapanese Francesco Micciché aggravano il quadro già inquietante delineato dall’inchiesta della procura.
Ogni documento apre squarci da far-west ecclesiastico tra procedure canoniche calpestate, abusi di potere, contabilità truccata. Per esempio, a fine novembre il cardinale Marc Ouellet, responsabile vaticano dei vescovi, chiede conto a Micciché (su segnalazione del dicastero per gli Istituti di vita consacrata) di una perquisizione al monastero benedettino dell’Angelo Custode ad Alcamo. Era accaduto, infatti, l’impensabile, in barba alla configurazione giuridica «sui iuris» del convento. Alle cinque di mattina, infatti, la guardia di finanza e il pm avevano bussato alla porta del convento, «alla presenza del vescovo che ne ha autorizzatol’accesso». Gli investigatori cercavano l’atto di cessione del complesso storico (valore due milioni di euro) all’economo diocesano don Ninni Treppiedi, sospeso dal ministero sacerdotale per le irregolarità amministrative. Le suore, però, fanno quadrato attorno al sacerdote già da tempo in lotta con il suo vescovo per la gestione finanziaria della diocesi e si barricano dentro. Per un’ora Micciché aveva cercato di mediare e, quando si presentarono i vigili del fuoco per fare irruzione in canonica, le religiose si piegarono alla perquisizione. A condizione che il vescovo si allontasse e che fosse nominato un bibliotecario come loro fiduciario. I finanzieri finalmente entrarono, ma non trovarono nel monastero i documenti (poi rintracciati nell’abitazione di un amico egiziano) con cui le suore avevano nominato amministratore ed erede universale don Treppiedi, che di Alcamo era anche l’arciprete. I guai per Micciché sono appena iniziati. Finisce sotto accusa in Vaticano per aver permesso alle forze dell’ordine quell’invasione della clausura che ha «violato l’intimità delle monache e creato disagi alle consacrate». Inclusa la «gravissima ispezione da parte delle guardie all’interno del tabernacolo». Parte l’inchiesta della Santa Sede e l’incaricato papale, ex numero tre della Cei e presidente degli affari giuridici, vescovo Domenico Mogavero, lavora ad una relazione minuziosa da consegnare personalmente a Benedetto XVI. Nel vortice di accuse di scandali sessuali, malaffare e corruzione, Mogavero, da esperto giurista, lascia da parte le voci e si basa soltanto su atti incontrovertibili. E cioè, i documenti contraffatti o mancanti di operazioni immobilari insensate, portate a termine scavalcando controlli e passaggi obbligati della procedura canonica. In sei mesi l’indagine è un faldone di prove schiaccianti contro entrambi i contendenti. Poche settimane dopo aver ricevuto la relazione di Mogavero, la Santa Sede destituisce Micciché e conferma la sospensione di Treppiedi.
Corriere 13.6.12
Gotti: così lo Ior ostacolò i controllori dei conti
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — Le gestione dei conti dello Ior doveva «seguire le regole fissate dalla società di revisione Deloitte che era nella lista dei consulenti», ma a luglio del 2011 «la collaborazione fu interrotta perché all'interno del board furono avanzate critiche sui costi richiesti dalla società». Ettore Gotti Tedeschi torna a rispondere alle domande dei magistrati e conferma quanto scritto nel memoriale che «se dovesse succedermi qualcosa» doveva essere consegnato a tre amici, ma soprattutto al Papa.
Dura quattro ore il nuovo interrogatorio di fronte ai pubblici ministeri romani che indagano su presunte operazioni di riciclaggio effettuate attraverso conti dello Ior.
E si concentra su quelle duecento pagine di e-mail, lettere e appunti che ricostruiscono i suoi due anni e mezzo trascorsi al vertice dell'Istituto opere religiose. Ma anche sulla selezione dei quarantasette faldoni posti sotto sequestro per ordine della procura di Napoli che la scorsa settimana aveva fatto eseguire una perquisizione nell'ufficio e nell'abitazione dell'ex presidente dell'Istituto opere religiose e li ha trasmessi poi a Roma per competenza.
Nel memoriale Gotti Tedeschi ricostruisce lo scontro sulla legge antiriciclaggio e di fronte ai magistrati illustra i documenti, che ha allegato al memoriale, spediti al cardinale Tarcisio Bertone, al cardinale presidente dell'autorità di vigilanza Attilio Nicora e al direttore generale Paolo Cipriani con il quale, come dimostra una lettera mandata proprio a Bertone, era in forte contrasto. Poi ricorda che JPMorgan decise di chiudere i rapporti con lo Ior «non avendo ricevuto dall'Istituto le informazioni richieste». La sua versione non cambia: «Fu Benedetto XVI a volere la legge antiriciclaggio per adeguare la Santa Sede e lo stesso Ior agli standard europei di trasparenza, ma ci sono state resistenze quando si è trattato di passare agli aspetti interpretativi della normativa, soprattutto sulla retroattività della legge e sulla possibilità quindi di applicarla ai casi precedenti al primo aprile 2011, data di entrata in vigore».
La collaborazione di Gotti Tedeschi viene ritenuta preziosa, soprattutto alla luce delle nuove verifiche avviate dopo l'invio di oltre dieci segnalazioni da parte dell'Uif, l'Ufficio di analisi finanziaria della Banca d'Italia. Relazioni che riguardano il passaggio di denaro di provenienza illecita su depositi aperti da preti e suore.
Il sospetto è che sia servito a «ripulire» le somme e su questo il banchiere che ha guidato lo Ior per oltre due anni può fornire indicazioni utili anche perché lui stesso è indagato insieme al direttore Paolo Cipriani per riciclaggio per la movimentazione di 23 milioni che furono messi sotto sequestro proprio dai magistrati romani e restituiti soltanto al termine dei controlli.
Quanto delicata sia questa fase dell'istruttoria lo dimostra la scelta del procuratore Giuseppe Pignatone di partecipare all'interrogatorio condotto dall'aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Rocco Fava.
Del resto la scelta del banchiere di collaborare con gli inquirenti ha provocato agitazione all'interno del Vaticano, tanto che venerdì scorso è stato diramato un comunicato per sottolineare «la massima fiducia nell'autorità giudiziaria italiana affinché le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate».
Ma anche per evidenziare di aver «appreso con sorpresa e preoccupazione le recenti vicende in cui è stato coinvolto il professor Gotti Tedeschi».
il Fatto 13.6.12
Conti e memoriale. Gotti Tedeschi quattro ore dai Pm
L’ex presidente Ior e la faida interna Le telefonate su Bertone e Simeon
di Marco Lillo
Ettore Gotti Tedeschi è stato interrogato ieri dai pm della Procura di Roma per quattro ore. L’ex presidente dello Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, ha risposto alle domande del procuratore capo Giuseppe Pignatone e dei due pm che da due anni indagano sullo Ior per reati minori, l’aggiunto Nello Rossi, e il sostituto Stefano Fava. Il 6 giugno scorso i pm romani avevano ascoltato l’ex numero uno della banca vaticana in una caserma dei carabinieri di Milano, ma era stato solo un abboccamento un po’ precipitoso. Il procuratore Pignatone era volato con Nello Rossi a Milano di gran carriera quando un’altra procura, quella di Napoli, che non indagava su Gotti Tedeschi ma su Finmeccanica, aveva intercettato le telefonate di Gotti con il presidente Giuseppe Orsi, e aveva scoperto grazie a una perquisizione del reparto operativo del Noe guidato dal capitano Pietro Rajola Pescarini, che nella sua casa di Piacenza e nel suo ufficio vicino alla Scala conservava carte interessanti anche sulla vicenda Ior.
IERI, FINALMENTE, Gotti Tedeschi ha capito la ragione di tanto interesse delle due procure. I magistrati romani gli hanno messo sotto al naso le carte trovate a casa sua, compreso il memoriale con la ricostruzione della sua battaglia all’interno del Vaticano: un testo di due pagine con allegati che Gotti aveva confidato di volere far giungere al Papa e che voleva affidare a tre persone, tra le quali spiccava il giornalista del Corriere della Sera Massimo Franco, un suo caro amico con il quale negli ultimi tempi si era confidato e che aveva scritto di Ior, di Gotti, e della sua paura di morire sul Corriere. Inoltre i pm hanno mostrato al banchiere alcuni documenti estrapolati dalle migliaia di pagine sequestrate dalla Procura di Napoli e in parte trasmesse, non senza qualche mal di pancia dei pm partenopei, a Roma. All’ex presidente dello Ior sono state probabilmente mostrate anche le telefonate e le lettere nelle quali si era sfogato sui personaggi di primo piano del Vaticano che lo avevano, a suo dire, fatto fuori a partire dal cardinale Tarcisio Bertone e dal dirigente Rai Marco Simeon. Grazie alle risultanze del lavoro più esuberante dei colleghi partenopei, i magistrati romani, che mai avevano disposto un’intercettazione né una perquisizione in due anni di inchiesta, hanno così potuto estendere la loro visuale rispetto ai primi interrogatori del settembre del 2010 nei quali l’aggiunto Rossi e il sostituto Fava avevano sentito Gotti Tedeschi come indagato per violazione delle norme antiriciclaggio. I Carabinieri del Noe guidati dal colonnello Sergio De Caprio, che lavorano per conto della Procura di Napoli ma in accordo con quella di Roma, hanno spulciato le carte trovate nell’armadio di Gotti Tedeschi (47 faldoni) e nella sua casa, a partire dal memoriale nel quale il banchiere sostiene di temere per la sua stessa vita e ricostruisce la sua lotta all’interno del Vaticano per imporre la trasparenza.
DOPO UNA SERIE di telefonate sulla linea Napoli-Roma, le due Procure hanno trovato un accordo di massima: Napoli ha spedito ai colleghi tutto il materiale sullo Ior tenendo le carte su Finmeccanica, come i contratti dei finanziamenti concessi dal Banco Santander (che si fa rappresentare in Italia da Gotti Tedeschi) alle aziende del gruppo Finmeccanica, rappresentato dal presidente Giuseppe Orsi, amico di Gotti Tedeschi. A Roma è finito praticamente tutto il materiale sul Vaticano. E, con queste carte sul tavolo, ieri il banchiere Ettore Gotti Tedeschi è stato interrogato alla presenza del suo avvocato. Gotti è indagato a Roma per violazione della normativa antiriciclaggio ma non è stato sentito, come già era accaduto nel settembre del 2010, nel-l’ambito di quell’inchiesta nella quale la sua posizione sembra destinata a essere archiviata.
Stavolta è stato interrogato dai pm romani per una seconda inchiesta segreta, nella quale non è indagato, che va avanti dal 2011 e nella quale è contestata l’accusa più grave di riciclaggio ad alcuni prelati che hanno fatto transitare somme sospette sui loro conti Ior. A difendere Gotti, stavolta, c’era l’avvocato Fabio Palazzo e non più Paola Severino, nel frattempo passata a dirigere il ministero di Grazia e Giustizia, quello stesso ministero che si dovrebbe occupare delle rogatorie inoltrate dalla Procura di Roma nelle inchieste sullo Ior e delle opposte rogatorie inoltrate dalla Santa Sede contro i giornalisti che hanno scritto dello Ior.
Repubblica 13.6.12
Gotti interrogato dai pm di Roma “Allo Ior ostacolata la trasparenza”
E sul memoriale: l’avevo scritto per informare il Papa
di Maria Elena Vincenzi
ROMA — Interrogatorio fiume per Ettore Gotti Tedeschi. L’ennesimo. L’ex presidente dello Ior è stato sentito dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, dall’aggiunto Nello Rossi, e dal pubblico ministero Stefano Rocco Fava. Oggetto dell’audizione per l’inchiesta romana su una quindicina di casi sospetti di riciclaggio, era il memoriale ritrovato negli uffici di Gotti Tedeschi. Un documento di poche pagine e tanti allegati che da qualche giorno è nelle mani delle toghe capitoline. Il banchiere, che è stato sentito come indagato di procedimento connesso (quello della procura di Roma sulla violazione delle normativa antiriciclaggio), con i pm ha analizzato punto per punto il suo memoriale. Appunti da inviare al Pontefice per tramite del suo segretario padre Georg Ganswein, in cui il presidente della banca Vaticana disegna un quadro dettagliatissimo e molto preciso di tutto quello che è successo dal suo arrivo al vertice dello Ior. La stessa cosa che Gotti Tedeschi ha fatto ieri con i pm romani. Ai quali avrebbe spiegato di essere stato chiamato dalla banca della Santa Sede con il preciso intento di portare trasparenza e «fare pulizia». Proposito che, però, secondo Gotti Tedeschi, sarebbe stato ostacolato. In particolare, il banchiere, così come ha fatto nel memoriale, ha ripercorso con i magistrati l’iter della legge antiriciclaggio vaticana, una norma voluta da Benedetto XVI per adeguare la Santa Sede e lo Ior agli standard europei di trasparenza, in modo da entrare nella white list. Una vicenda che, ha spiegato, ha incontrato grandi contrasti all’interno, specialmente quando si è trattato di passare agli aspetti interpretativi della normativa. Uno dei nodi più dibattuti, non a caso, è stato quello della retroattività della legge e della possibilità di applicarla ai casi precedenti al primo aprile 2011, data della sua entrata in vigore. Poi i conti. Nel documento, che inizia con “caro Monsignore”, c’è una disamina generale sulle procedure che si sarebbero dovute seguire. Procedure che Gotti Tedeschi individua nelle indicazioni fornite dalla società finanziaria Deloitte, con cui — avrebbe spiegato — lo Ior aveva in essere un rapporto di consulenza. Collaborazione che, però, si è interrotta a luglio perché, all’interno del board, furono avanzate critiche sui costi richiesti dalla società. Una vicenda dopo l’altra, un attrito dopo l’altro. Li mette tutti in fila il presidente dimissionato. Lo ha fatto per iscritto e lo ha fatto ieri davanti ai pubblici ministeri. A cui ha raccontato anche dei suoi dissapori con il direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani, indagato insieme a lui per la violazione delle normativa antiriciclaggio (procedimento per cui la procura di Roma ha anche sequestrato 23milioni di euro). Le loro liti riguardavano, appunto, la trasparenza. E non sarà un caso che nel memoriale abbia ricordato anche la vicenda di un conto Ior che JP Morgan decise di chiudere a metà di febbraio. Al segretario di Stato Tarcisio Bertone che chiede spiegazioni, Gotti chiarisce che, a suo avviso, la banca americana aveva giustificati motivi per chiudere i rapporti con lo Ior in quella fase, non avendo ricevuto dall’istituto le informazioni richieste. Nulla, invece, si sa delle carte trovate nel suo ufficio milanese di procuratore del banco Santander. I pm, che le hanno ricevute dal capoluogo lombardo due giorni fa, erano intenzionati a fare una prima cernita anche con l’aiuto di Gotti. Ma pare che non ci sia stato il tempo.
il Fatto 13.6.12
Rogatoria in Vaticano, scomparsi 10 milioni dalla diocesi
di Rino Giacalone
Un’altra rogatoria è pronta a partire da Trapani con destinazione Vaticano, mentre i finanzieri bussano alle porte di diverse banche per sollecitare risposte ai loro quesiti. L’indagine sui soldi (tanti) sottratti alla Diocesi di Trapani e finiti forse su conti correnti presso lo Ior, la banca vaticana, e quindi ripuliti, si fa ogni giorno più delicata. Anche se, stando alle voci, la mafia non c’entra. Ma basta la cifra del “danno” alla Diocesi, 10 milioni di euro spariti.
L’indagato principale per questa sottrazione è un sacerdote, Ninni Treppiedi, ex direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani. É suo uno dei due conti individuati allo Ior, l’altro è intestato a una suora che sarebbe sua prestanome. Il procuratore capo Marcello Viola conferma la delicatezza dell’indagine: “L’istanza di rogatoria avanzata allo Stato della Città del Vaticano – dice Viola – riguarda esclusivamente il procedimento pendente presso la Procura per la appropriazione di somme da parte dei soggetti indagati in danno della Diocesi di Trapani”. Se ci fosse stata la presenza della mafia l’indagine sarebbe già a Palermo, presso la Procura antimafia. Viola aggiunge: “Non mi risulta che vi sia altro troncone di indagine in quella sede”.
Intanto il procuratore si sente con i colleghi di Napoli e Roma che hanno tra le mani carte utili all’inchiesta trapanese, che già conta 14 indagati per reati che vanno dalla truffa al falso, dalla ricettazione, alla frode informatica, ora spunta l’ipotesi del riciclaggio. Si cercano anche reperti d’arte. Ad occuparsene sono i carabinieri del nucleo tutela patrimonio artistico. Ma più evidenti sono le tracce dei soldi spariti. Sul tavolo dei magistrati trapanesi alla caccia dei soldi della curia c’è anche un documento arrivato dalla Congregazione del Clero, protocollo numero 201200612, a firma del prefetto cardinale Placenza, e del segretario, l’arcivescovo Iruzubieta, dove si fa riferimento a un arco temporale tra il 2007 e il 2009.
IN QUEL PERIODO padre Treppiedi, il principale indagato della indagine trapanese, si è occupato di lavori edilizi in alcune chiese e della vendita di 11 immobili, per cifre che sfiorano i 950 mila euro. Con lo stesso decreto Padre Treppiedi è stato sospeso “a divinis” e obbligato a rendicontare la spesa dei 950 mila euro. Ma ha preannunciato un ricorso e si è affidato a Martha Wegan, avvocatessa austriaca molto vicino al Papa. Il sacerdote vanta legami importanti. Grande confidenza con l’arcivescovo di Palermo, monsignor Paolo Romeo e con altri cardinali come Franc Rodè, nonché col senatore Pdl Antonio D’Alì. Piace la politica, a padre Treppiedi. I pm di Trapani hanno trovato una foto dove sorridente stringe la mano all’ex premier Silvio Berlusconi. Dinanzi ai pm di Trapani, invece, il sacerdote è difeso dall’avvocato Vito Galluffo che a proposito del conto allo Ior invita a cercarne altri intestati ad altri prelati e per quello di padre Treppiedi sostiene che serviva per accreditare i suoi compensi da docente della Lumsa. Ma il rettore dell’università vaticana smentisce che il sacerdote abbia mai insegnato nell’ateneo.
Il Vaticano non ha sospeso solo Treppiedi: ha anche rimosso il vescovo Miccichè. Dapprima lo ha “richiamato” per avere permesso nell’ambito di questa indagine, la perquisizione di un monastero di Alcamo. Poi lo ha allontanato con una motivazione che ufficialmente non è stata divulgata, ma sarebbe collegata all’ispezione condotta in Curia dal vescovo di Mazara Domenico Mogavero al quale avrebbe trovato una gestione finanziaria disordinata del personale, attribuibile al vescovo Miccichè. A suo sfavore anche un rogito che, per il valore dell’immobile, non avrebbe potuto nemmeno stipulare.
il Fatto 13.6.12
La Chiesa americana fa lo sgambetto al candidato Obama
Offensiva contro il ministro della salute che garantisce pillola e aborto
di Marco Politi
I vescovi americani attaccano Obama e ne mettono a rischio la rielezione. Motivo scatenante sono le linee guida del ministero della Salute circa l’obbligo che i programmi assicurativi di ogni ente o azienda prevedano per gli impiegati la copertura delle spese di contraccezione, pillole abortive e sterilizzazione. Nella più civile Europa, dove vige il sistema del servizio sanitario nazionale, la questione non si porrebbe nemmeno. Ma negli Usa, dove al presidente Obama è stato impedito di organizzare qualsiasi schema di mutua statale, il governo può unicamente emanare istruzioni per la pluralità di enti assistenziali privati, spesso aziendali. E dunque Obama è venuto a scontrarsi con i programmi assistenziali degli enti ecclesiastici.
L’ala conservatrice dell’episcopato cattolico ha innalzato il vessillo della “libertà di religione” per opporsi all’assicurazione obbligatoria per la contraccezione. E non è bastato che Washington esentasse gli enti religiosi in senso stretto (diocesi, parrocchie), lasciando che l’obbligo riguardasse enti d’istruzione e assistenza dove lavorano impiegati anche non cattolici. L’opposizione capeggiata dal cardinale di New York, Timothy Dolan, ha controbattuto che voler decidere cosa è strettamente religioso e cosa no è un ulteriore attacco alla libertà dei fedeli.
Quarantatre istituzioni religiose, fra cui la celebre università di Notre Dame che conferì a Obama la laurea ad honorem, hanno fatto causa al ministero della Salute. E adesso i vescovi conservatori stanno trascinando tutto l’episcopato a partire il prossimo 21 giugno con la campagna “due-settimane-per-la-libertà”, una mobilitazione generale contro il governo che si realizzerà con celebrazioni di messe e iniziative di preghiera e formazione per culminare il 4 luglio – giorno dell’Indipendenza – con un rito officiato a Washington dal cardinale Donald Wuerl nel santuario nazionale cattolico dell’Immacolata Concezione.
L’EPISCOPATO americano ha la tradizione di occuparsi dei grandi temi nazionali. Ai tempi di Reagan fecero discutere i documenti sul riarmo e le questioni sociali, ma è la prima volta che la Chiesa cattolica d’America scende in campo praticamente nel bel mezzo della campagna elettorale, seguendo le orme dei fondamentalisti protestanti e prendendo (il non felice) esempio dalle adunate dell’episcopato cattolico contro le leggi di Zapatero e le dimostrazioni organizzate dall’ex presidente della Cei cardinal Ruini per bloccare in Parlamento la regolamentazione delle coppie di fatto. L’accusa rivolta a Obama è durissima: voler “violare il credo morale” dei cattolici. Difficile prevedere sino a che punto i fedeli seguiranno i falchi dell’episcopato. Ma è certo che – nel testa a testa fra Obama e il repubblicano Mitt Romney l’iniziativa dei cardinali più vicini a papa Ratzinger rischia di spostare a destra una frazione decisiva del voto cattolico e fargli perdere le elezioni. Già un vescovo, Daniel Jenky di Peora, ha iniziato a predicare contro “Obama e i suoi burocrati”, evocando le secolari persecuzioni contro la Chiesa dagli imperatori romani fino ai nazisti e ai comunisti.
La Stampa 13.6.12
Londra verso il sì alle nozze gay La Chiesa anglicana insorge
L’arcivescovo di Canterbury:potremmo non celebrare più nel nome dello Stato
di Andrea Malaguti
C’ è aria di scisma. Sono passati cinque secoli ma la storia si ripete. Adattandosi in parte alle esigenze della modernità. E stavolta è la Chiesa Anglicana che minaccia la divisione. Non più da Roma ma dalla sua Londra, non più dal Papa ma da David Cameron, conservatore che all’improvviso ha deciso di non conservare. Al centro dello scontro il tema non è cambiato: il matrimonio. Per garantire il proprio (il secondo) con Anna Bolena, Enrico VIII firmò nel 1534 l’Atto di Supremazia - «Il Re è l’Unico Capo della Chiesa d’Inghilterra» -, chiuse e saccheggiò i monasteri e calpestò il titolo di «Defensor Fidei» riconosciutogli da Clemente VII per il suo scontro con Lutero (ma un conto, si sa, sono le battaglie di principio, un altro quelle personali). Per consentire quello tra persone dello stesso sesso il governo Tory si è affidato a una consultazione popolare che chiuderà giovedì e sarà discussa alla House of Commons venerdì. Siete favorevoli ai «gay marriages»? Un plebiscito: 550 mila sudditi di Elisabetta hanno dato il proprio assenso a questa nuova rivoluzione. Piccola, inevitabile e già nei fatti per la collettività, spaventosa e inaccettabile per le alte gerarchie ecclesiastiche. «Potremmo vederci costretti a non celebrare più matrimoni nel nome dello Stato» ha fatto sapere l’Arcivescovo di Canterbury. Boom.
Theresa May, severo ministro dell’Interno, ha sottolineato che la scelta del governo non obbligherebbe nessuna chiesa a celebrare matrimoni contro la propria volontà. «Semplicemente ristabilirebbe un piano di uguaglianza». Le spiegazioni non sono servite.
Il comprensivo Reverendo Tim Stevens, Vescovo di Leicester, si è incaricato di esporre le posizioni della Chiesa Anglicana. «In un momento in cui i matrimoni sono in crisi e stiamo cercando di mantenere la tradizione, una scelta di questo genere sarebbe deleteria - ha detto -. Si altererebbe la natura intrinseca del matrimonio come unione tra uomo e donna. così come sancita dalle organizzazioni umane nel corso della storia e dai nostri canoni». Può sembrare la visione bizzarra di chi considera i matrimoni gay non un autentico atto d’amore ma solo il tentativo sgangherato di due uomini o di due donne di movimentare il presunto grigiore delle loro frequentazioni. In verità sotto c’è un mondo fatto di fede, potere e fragili equilibri.
Oggi le differenze tra un’unione civile e un matrimonio si riducono a poco. Su pensioni, eredità e beni condivisi gli obblighi e i diritti sono identici. Ma i matrimoni si sanciscono con un sì, le unioni civili con una firma. Soprattutto i matrimoni si celebrano in un luogo di culto, con tutto ciò che la sacralità comporta. Se non è più il sacerdote a essere titolare delle regole che consentono l’unione eterna, allora il suo ruolo è inutile. «È una lettura sbagliata. Non ci preoccupiamo di questo ma solo del fatto che maschio e femmina sono diversi. Il governo confonde uguaglianza con omologazione. Per di più una Corte europea potrebbe costringerci a celebrare contro volontà», chiosa Stevens. Il governo smentisce: «Il rischio non esiste».
Ma il punto resta controverso. Gli attivisti per i diritti umani attaccano: «La Chiesa racconta che questo è il più grave sconvolgimento nei rapporti con lo Stato dal saccheggio dei monasteri. La verità è che sono maestri nel melodramma e nell’intimidazione», dice Ben Summerskill, responsabile degli attivisti di Stonewall, mentre per il Consiglio Musulmano della Gran Bretagna «la proposta non aiuta e non è necessaria». Ma non è chiaro «chi» non aiuti e «a chi» non serva. O forse è chiarissimo.
Corriere 13.6.12
La Chiesa evoca lo scisma «No al matrimonio gay»
Sarebbe il divorzio più rumoroso dai tempi di Enrico VIII e Anna Bolena, la santa alleanza tra Stato britannico e Chiesa anglicana rischia di sfasciarsi sullo scoglio dell'amore omosessuale.
In un memorandum indirizzato al governo liberal-conservatore di David Cameron, i vertici ecclesiastici minacciano la rottura nel caso fosse legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che dal 2005 nel Regno possono contrarre unioni civili. Una legge che i Tories avevano promesso in campagna elettorale e che intendono approvare entro il 2015. Domani si chiude il giro di consultazioni con le parti civili avviato dall'esecutivo prima di portare la proposta in Parlamento. La Chiesa di Stato sostiene che l'introduzione dell'istituto del matrimonio per coppie gay comprometterebbe «l'intrinseca natura del matrimonio come unione tra uomo e donna» e agita lo spauracchio della Corte europea dei diritti umani, per la quale i britannici nutrono una storica e cordiale antipatia: la modifica degli estremi legali del matrimonio civile spianerebbe la strada a una serie di ricorsi ai giudici di Strasburgo per riconoscere agli sposi gay il diritto a cerimonie religiose. «Allarmismo» ribattono le associazioni per i diritti degli omosessuali. «Il governo non chiederà mai ad alcun soggetto di agire contro coscienza» replica Downing Street. Tutto in un momento di passaggio per la Chiesa anglicana, lacerata dal dibattito sul sacerdozio femminile e alle prese con la difficile scelta del nuovo arcivescovo di Canterbury (che guida l'istituzione insieme alla regina Elisabetta): il raffinato teologo progressista Rowan Williams si è dimesso proprio per le inconciliabili divisioni su dossier come l'unione omosessuale. Sul tema resistono posizioni divergenti all'interno dello stesso partito conservatore, con un'ala dura che accusa il premier di interferenza nella sfera religiosa. Online è partita una petizione anti-legalizzazione: oltre 550 mila firme raccolte finora.
Maria Serena Natale
«sulle note di «Nobody Knows Me» con brandelli della sua faccia sovrapposti ai volti di Hitler, del Papa, della leader dell'estrema destra Marine Le Pen che ha disegnata sulla fronte pure una svastica»
Corriere 13.6.12
La danza di frati e diavoli nella cattedrale di Madonna
Il solito video contro Benedetto XVI Un'ora di ritardo, fischi dal pubblico
di Sandra Cesarale
ROMA — La cattedrale cupa e angosciosa di Madonna ieri si è fermata allo stadio Olimpico di Roma, da dove è iniziata la parte italiana del suo nuovo tour mondiale (domani sarà a Milano e sabato a Firenze). «MDNA», lo ha chiamato la Material Mum, come il nuovo album che non brilla per le vendite. Come inusuali, per lei, sono i «buchi» fra gli spalti dello stadio e sul prato che segnano i posti rimasti vuoti (i biglietti costavano da 50 a 170 euro). Per lei sono arrivati in 42 mila.
In apertura la botta dance di Martin Solveig che fa ballare un po' tutti. L'inizio del concerto, invece, è funereo e arriva dopo un'ora di attesa, fra le proteste del pubblico.
Un gruppetto di frati incappucciati comincia a far dondolare un gigantesco turibolo per l'incenso, altri quattro monaci spuntano dal pavimento e intonano una nenia, loschi diavoli (hanno pure le ali) si dimenano ai lati della scena. Intorno a loro una cattedrale gotica e nera. Su un crocifisso è stampata la scritta «MDNA». Finalmente arriva lei, illuminata da una luce abbagliante, mentre prega, con una tutina nera alla Eva Kant, poi intona «Girl Gone Wild». E la festa può iniziare. «Revolver», con Madonna e le ballerine che impugnano pistole, e «Gang Bang» danno vita a una sequenza dark in cui la divina finisce per sparare a un gruppo di minacciosi danzatori, fra schizzi di sangue sul video e scene che rievocano guerriglia militare e violenze domestiche. Si chiude così il capitolo Madonna stile Tarantino.
In ogni tour, Madonna racconta sempre la stessa storia autocelebrativa — ma la declina in maniera diversa insieme alle sue ossessioni (il sesso, la religione, i crocefissi) fra trasgressioni e costumi griffati. Questa volta il viaggio passa dalla bolgia infernale e arriva in paradiso. Si comincia nelle tenebre e si finisce, dopo due ore, fra le luci abbaglianti di una discoteca. Madonna è scatenata, balla, suona la chitarra, rappa e canta, anche se, più di una volta, stecca in maniera imbarazzante. Gli effetti speciali, i funamboli, le indovinate riletture di vecchie canzoni (come le percussioni tribali di «Open Your Heart»), la sua invidiabile energia, non impediscono però alla noia di affacciarsi durante il concerto. Madonna mostra i video anche di trent'anni fa, quando era più giovane ma meno atletica. E, a 53 anni, Her Madgesty non ha paura del confronto con se stessa e con le più fresche rivali. A Istanbul ha fatto vedere un seno, all'Olimpico si abbassa i pantaloni e scopre una generosa parte del suo lato B e del tanga nero. «Non sapevo cosa sarebbe successo a Roma, ma arrivata qui sapevo che sarei vissuta pericolosamente» dice maliziosa. Le canzoni sono disseminate di messaggi. Ha scatenato le polemiche il video che apre la quarta e ultima parte dello show, sulle note di «Nobody Knows Me» con brandelli della sua faccia sovrapposti ai volti di Hitler, del Papa, della leader dell'estrema destra Marine Le Pen che ha disegnata sulla fronte pure una svastica (e per questo la politica francese vorrebbe essere risarcita). E non mancano i nomi degli adolescenti gay che si sono suicidati perché vittime del bullismo. Il messaggio più legato al gossip è per Lady Gaga: in «Express Yourself», danzato con costumi bianchi e rossi alla maniera delle majorettes, irrompe «Born This Way» della signorina Germanotta, subito seguita da «She's Not Me» («Lei non è me»).
Da questo momento in poi il concerto è in un impetuoso crescendo che attraversa il quadro «androgino-modaiolo» con «Vogue», «Candy Shop» (ambientato in un bordello), «Like A Virgin» (con l'accompagnamento di piano e archi). L'ultima parte, la «redenzione», si regge soprattutto su «Like A Prayer» — proposta in versione gospel con i ballerini a fare il coro e Madonna la sacerdotessa — e «Celebration», dove tutti si scatenano su altari pagani fatti di cubi colorati.
Corriere 13.6.12
Ora laici e cattolici lavorino insieme
di Andrea Riccardi
Caro direttore, la fine della Prima Repubblica ha determinato la diaspora dei cattolici e lo sperpero di un patrimonio politico. Così Dario Antiseri scrive con passione, anzi veemenza, sul Corriere dell'11 giugno. Non dimentica che la storia della Seconda Repubblica è stata accompagnata da una «strategia» ecclesiastica che ha ricollocato la Chiesa tra le forze in campo. Ma quel mondo è finito e una nuova Repubblica non è mai nata. Per far fronte a una gravissima crisi economica, è avvenuta la svolta del novembre 2011 con il governo Monti, grazie a un atto di responsabilità delle forze politiche. Era logico pensare che il tempo di un governo tecnico avrebbe dato agio ai partiti di ripensarsi dal punto di vista della cultura politica e, soprattutto, di radicarsi nuovamente nella società italiana, dove tante reti politico-sociali si sono sfilacciate. Nell'Italia reale, infatti, non mancano reazioni, rabbie, speranze, desideri; ma tutto questo non si fa passione politica. Sembra faticosa la comunicazione tra il sentire quotidiano della gente e la politica. La sintesi più vistosa viene realizzata dall'antipolitica con il discredito sistematico delle forme della politica.
E i cattolici? Antiseri si duole della loro assenza che, a suo dire, non nasce dalla mancanza di voglia di far politica, ma dalla diserzione dei loro leader. Il filosofo vede «sempre più necessario un partito di cattolici liberali, un partito sturziano». Nel suo articolo (in cui non fa nomi pur ripercorrendo gli ultimi vent'anni del cattolicesimo italiano), ha la bontà di ricordare chi scrive, come «disertore» verso tanta impresa e colpevole di aver detto che non è l'ora del partito cattolico. Il cattolicesimo italiano, nella sua storia, conosce partiti, lanciati e abortiti. Invece il Partito di Sturzo ebbe alle sue spalle, nel primo dopoguerra, la grande spinta del cattolicesimo del «non expedit», cui dette identità politica. La Dc, dopo la Seconda Guerra Mondiale, forte della rete della Chiesa, congiunse moderati e varie forze sociali, collocandosi al centro del sistema. De Gasperi governò la ricostruzione nell'alleanza tra cattolici e laici. Di fronte c'era la grande sfida del comunismo.
Quella sfida non c'è più. Né c'è il cattolicesimo organizzato di allora, nonostante esso ancora sia rilevante del vissuto italiano. I cattolici sono abituati alla diaspora in quasi tutte le forze politiche. Tuttavia, a ben vedere, una grande sfida c'è. È il caos della disgregazione di un Paese che poco si riconosce nelle istituzioni e nella politica. È il caos della crisi economica, che richiede attento governo e non avventure. Per questo responsabilmente i partiti hanno dato vita all'attuale esecutivo. Ma molti, in giro per il mondo, si chiedono: e dopo le elezioni del 2013?
Antiseri vede la risposta in un partito sturziano e cattolico. Francamente non mi sembra aggregante e mobilitante, nonostante la mia grande attenzione al pensiero di Sturzo. La sinistra si è aggregata richiamandosi a una storia politica. Al centro e sulla destra — mi pare — ci sono vecchie e nuove presenze, idee, ma anche crisi. Per i cattolici, da tempo, De Rita aveva notato l'assenza di un «federatore» come furono De Gasperi e Montini negli anni Quaranta. I mesi trascorsi lo hanno confermato.
L'azione di governo di Mario Monti e il suo senso di responsabilità personale hanno inserito nel panorama italiano un fare concreto (tecnico), dietro cui si intravede un'ispirazione cattolica. Non si può pensare — allora — alla lezione di De Gasperi come riferimento per una cultura politica capace di far lavorare insieme cattolici e laici, politici e tecnici, per ricostruire la Repubblica in un'Europa coesa? Bisognerebbe riflettere meglio sull'eredità dello statista trentino (e la sua ammonizione a non riprodurre storici steccati tra guelfi e ghibellini) e non tanto sulla possibilità di rieditare un partito cattolico.
Un pericolo si apre innanzi ai protagonisti della prossima legislatura: quel caos congeniale a un'Italia frammentata in profondità, ma tanto pericoloso per un Paese a rischio. Torna alla mente lo slogan del socialista Giuseppe Romita alla vigilia del referendum del 1946: «O la Repubblica o il caos». In ben altri termini, in modo però insidioso, si ripropone oggi quell'alternativa. Ci vogliono forze politiche «repubblicane», capaci di guidare l'Italia in una nuova stagione e di evitare lo scivolamento nell'abisso. Questa mi appare la risposta all'antipolitica, non tanto la deprecazione che fa parte di un teatro in cui questo fenomeno prospera. Sono alcune riflessioni che l'articolo di Antiseri ha provocato in me. Più che di riesumazione di foto dai libri di storia (anche gloriose), c'è bisogno di grandi e coraggiosi disegni per un'Italia che faticosamente si avvia nella complessa globalizzazione.
Ministro per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione
Repubblica 13.6.12
Quando la teologia diventa un network
L’ultimo saggio di padre Spadaro sul Cristianesimo e Internet
di Marco Ansaldo
CITTÀ DEL VATICANO «È la ricerca inesausta di senso che mi ha fatto capire il valore del cavo Usb che ho in mano. E so che il mio iPad ha a che fare con il mio inestinguibile desiderio di conoscere il mondo, mentre il mio Galaxy Note mi dice (anche quando è in silenzio) che io sono fatto per non stare da solo. Ma è la poesia di Whitman che mi dà il gusto del progresso. Ed è Eliot che mi fa attento a non cadere nei suoi tranelli. Ma è anche Flannery O’Connor che mi fa capire che “la grazia vive nello stesso territorio del diavolo” e pian piano lo invade ». Chi scrive queste righe intense potrebbe essere un giovane letterato appassionato di tecnologia. Oppure un poeta capace di affidarsi agli strumenti più moderni della scrittura. O ancora un filosofo in grado di districarsi tanto nella spiritualità quanto nelle frontiere più avanzate dell’innovazione digitale. È, invece, un prete. Un giovane sì, ma già affermato sacerdote, anzi un teologo, che probabilmente come molti altri suoi colleghi è capace di unire la propria ricerca – e l’insegnamento religioso – servendosi delle forme più recenti che la rete offre. A dimostrazione, ancora una volta, che la Chiesa, dalle più sperdute parrocchie di periferia fino agli austeri Sacri Palazzi del Vaticano sta adottando una rivoluzione che ne sta trasformando l’approccio e il linguaggio. Pioniere di questo sviluppo è di sicuro padre Antonio Spadaro. Un gesuita messinese dallo sguardo attento, da pochi mesi direttore di un quindicinale prestigioso come La Civiltà Cattolica che esce con l’imprimatur della Segreteria di Stato vaticana, e persona i cui interessi spaziano appunto dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla musica. E che trova una sintesi fondamentale dei propri orizzonti nella religione spiegata anche attraverso l’uso della tecnologia. Il Vaticano, al più alto livello, si è accorto di questo quarantacinquenne docente alla Pontificia Università Gregoriana. E lo stesso Papa Benedetto XVI di recente lo ha nominato consultore in due dicasteri chiave, quello della Cultura affidato alle capacità multiformi del cardinale Gianfranco Ravasi, e quello delle Comunicazioni sociali affidato alle mani sapienti di monsignor Claudio Celli. È stato Spadaro, già nel 2006 a dedicare ai nuovi fenomeni dell’interattività saggi come Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di Internet, e due anni fa l’innovativo Web 2.0. Reti di relazione. Molto attivo nell’ambito dei network, ha fondato nel 1998 uno dei primi siti di scritture creative, “Bombacarta. it”. Lo scorso anno ha poi inaugurato il blog “Cyberteologia. it”, aprendo infine una pagina Facebook dedicata, un account Twitter e da ultimo un quotidiano online. Dunque un veterano. E questo suo nuovo libro, Cyberteologia. Pensare il Cristianesimo al tempo della rete (Vita e Pensiero, pagg. 148, euro 14), non è affatto una raccolta di messaggi. Quanto piuttosto una riflessione argomentata sulla questione se la rivoluzione digitale in atto nel mondo contemporaneo tocchi in qualche modo oggi anche la sfera della fede. E la risposta che il teologo e direttore di Civiltà Cattolica dà in modo tutt’altro che assertivo, ma problematico, è che adesso è forse arrivato il momento di considerare la possibilità di una “cyberteologia”, vista come «intelligenza della fede al tempo della rete» (la rima, probabilmente voluta, è sua). Perché la logica dei network offre spunti inattesi alla possibilità di affrontare temi come la trascendenza, la comunione, il dono. E in tutto questo la teologia può aiutare l’uomo a trovare sentieri nuovi e più appropriati. Ma pure Spadaro, con la sua passione per le arti e l’indiscusso background tecnologico, ammette che hic sunt leones, si tratta cioè di un territorio ancora inesplorato, selvaggio, poco frequentato. Di fronte al quale lui stesso all’inizio si è trovato a disagio, nel tentativo di spiegare, di fronte allo schermo bianco del suo computer. Ha poi risolto l’impasse. E la lettura vale il tempo impiegato, fino alle ultime pagine, intessute dal raccordo di grandi pensatori, alcuni già con la mente protesa alle trasformazioni di oggi: «È il poeta Gerard Manley Hopkins che mi ha aiutato a capire il ruolo dell’innovazione tecnologica, è il jazz che mi ha fatto capire il ruolo dei network sociali, sono i teologi – da Tommaso d’Aquino a Teilhard de Chardin – che mi hanno illuminato sulle forze che rendono l’uomo attivo nel mondo, partecipando alla Creazione, e che sollevano l’uomo verso una meta che lo supera, ben al di là di ogni surplus cognitivo».
Repubblica 13.6.12
Il reportage di Marco Marzano nella vita quotidiana dei cattolici italiani Dalla crisi delle istituzioni alla resistenza dei sacerdoti di paese
L’ultima Chiesa
Viaggio nelle parrocchie per capire come cambia la fede
di Nadia Urbinati
Le cronache di questi giorni ci inondano di dettagli sugli intrighi del Vaticano, sulle trame delle varie cordate curiali, sulle mosse e contromosse dei singoli protagonisti delle lotte al vertice della Chiesa. La vita sotterranea di un’antica istituzione fa mostra di adattarsi perfettamente alle esigenze della società dello spettacolo, come quella delle corti monarchiche. Ma che cosa succede lontano dalla “chiesa legale”, nel “cattolicesimo reale”? In quello mai illuminato dai riflettori mediatici ma pur sempre l’unico davvero rilevante nella vita quotidiana di milioni di credenti? È questo l’argomento del libro di Marco Marzano appena pubblicato da Feltrinelli col titolo Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia. Il libro è un’inchiesta sociale, il resoconto di un viaggio durato tre anni, compiuto dall’autore in decine di parrocchie e di oratori in tutta la Penisola (ma soprattutto al Nord), a contatto diretto con tanti preti e laici impegnati nella Chiesa, e poi nelle aule di catechismo, in quelle dei corsi prematrimoniali, nelle assemblee parrocchiali, nelle corsie ospedaliere, nei seminari diocesani, ai funerali, e in altri luoghi ancora, ovunque si svolga concretamente la vita quotidiana dei cattolici italiani. Ne risulta una lettura sociologica originale dei cambiamenti in atto e una narrazione vivace e avvincente, “movimentata” dalla presenza di tanti personaggi e dal racconto di situazioni, di storie, di luoghi. Il lavoro è strutturato attorno a tre snodi centrati sugli effetti della secolarizzazione sui credenti e nell’istituzione. La secolarizzazione investe in pieno, ci dice Marzano, anche il cattolicesimo italiano nella forma di un distacco crescente della popolazione dai valori, dalle norme, dalle pratiche e dal linguaggio della tradizione cattolica. Soprattutto nelle giovani generazioni, l’allontanamento assume la forma di una frana difficile da arrestare. Sono molte le testimonianze “in presa diretta” in grado di materializzare immediatamente e in modo vivido la situazione, come il racconto di alcuni corsi di preparazione al matrimonio. Il numero dei matrimoni religiosi è in costante e rapida diminuzione a livello nazionale, e persino le coppie di sposi descritte dal sociologo, quasi tutte conviventi, sono distanti anni luce dal modello familiare proposto loro dal sacerdote che li segue nel corso. Non si rassegnano a rinunciare al loro punto di vista sull’amore, i rapporti sessuali, il divorzio, la vita di coppia; e questo loro punto di vista non coincide quasi mai con quello della dottrina ufficiale della Chiesa, che sentono estranea e lontana, in conflitto con la propria spiritualità autentica, con le loro convinzioni profonde. E fenomeni analoghi di dissociazione tra religione ufficiale e religione vissuta ritornano anche riguardo ai catechismi, ai funerali, ai reparti ospedalieri. Come ha spiegato Taylor, nel saggio L’età secolare, questo dipende dalla diffusione della “cultura dell’autenticità” e cioè dall’idea che, contro ogni conformismo, ognuno abbia il diritto/dovere di trovare una sua strada. Modificando così anche le “condizioni della credenza”. Come reagiscono le strutture portanti tradizionali della Chiesa cattolica a questa secolarizzazione? Parrocchie e clero, dice Marzano, possono svolgere ancora un ruolo importante nella vita civile e religiosa del Paese, ma a patto di riconoscere l’esaurimento definitivo del tradizionale modello monocratico centrato sulla figura solitaria del prete e di promuovere invece l’autonomia e l’iniziativa di laici finalmente divenuti adulti. È quello che già succede, in uno spirito davvero conciliare, in alcune parrocchie ben raccontate dall’autore. Sono una sorta di presidio sul territorio, dove i sacerdoti cercano di creare delle comunità, grazie anche a forme di dialogo costante con i ragazzi. Ma oltre a queste alternative, sembra esservi solo il declino. Dai racconti e dalle testimonianze degli intervistati, il clero ne esce come un ceto sociale in grande affanno, sempre più esiguo nei ranghi, parte di strutture obsolete e segregate come i seminari, in difficoltà nel mantenere alta la propria reputazione in una società secolarizzata che mette in discussione tutte le autorità tradizionali. Una società dell’autenticità nella quale, tra le altre cose, si tollera sempre più a fatica l’incoerenza del “predicare bene e razzolare male”, alla quale i preti sono costretti dall’obbligo del celibato. A tutte le difficoltà citate se ne aggiunge un’altra, comune a tutta la chiesa di base, al cattolicesimo delle parrocchie nel suo insieme: quella di far i conti con l’intransigenza conservatrice del pontefice e delle gerarchie romane che, amplificata quotidianamente da tutti i mezzi di informazione, spesso ostacola non poco il lavoro quotidiano dei parroci, che esige invece tolleranza e capacità di dialogo con il prossimo, anche con i tanti “lontani”. L’ultima parte del libro è dedicata a quelli che Marzano chiama i “nuovi cattolici”, ovvero i militanti di quei gruppi (i ciellini, i carismatici, i cursillos, etc.) che, dal Concilio Vaticano II in poi, si sono radicati nella Chiesa Cattolica. Marzano ha scelto di descriverne in profondità uno solo caso (il Cammino Neocatecumenale, l’organizzazione fondata dal pittore spagnolo Kiko Arguello negli anni Sessanta, nel tempo divenuta una delle più potenti ed influenti all’interno della Chiesa) mettendo in evidenze un processo di settarizzazione che risponde alle esigenze di forme nuove di autentica religiosità, ormai insoddisfatta dalle parrocchie. La diffusione del settarismo all’interno della chiesa è anche una conseguenza del rifiuto ostinato dei vertici ecclesiastici di considerare la secolarizzazione come una possibilità che potrebbe liberare il cattolicesimo di quegli orpelli che frenano la diffusione del suo messaggio religioso in un’età di secolarizzazione. Invece, dai vertici la secolarizzazione viene, spesso vanamente, combattuta e talvolta negata a tutti i costi. Persino al costo di veder trasformata l’antica Chiesa di Roma in una federazione di piccole conventicole guidate dal grande monarca romano.
Corriere 13.6.12
Nel Paese disegnato con il righello il destino dei Palestinesi
Tre milioni e mezzo di profughi vivono «senza casa» in Giordania
di Sergio Romano
Il Giordano segna il confine tra Israele e il Regno di Giordania, ma è ormai soltanto un ruscello. Mentre attraverso su un autobus il ponte di Allenby (oggi ponte di re Hussein) riesco appena a intravedere il filo d'acqua che scorre nel mezzo di una fitta vegetazione. Se avessi potuto passare il confine a piedi, lo avrei scavalcato con un salto. Ma le procedure per uscire da un Paese ed entrare nell'altro non durano, nella migliore delle ipotesi, meno di un'ora. La Giordania ha rinunciato a qualsiasi pretesa sulle terre a occidente del fiume, ha firmato con Israele nel 1994 un trattato di pace e lo ricorda ai viaggiatori, nella palazzina del valico, con una grande fotografia in cui Hussein, sorridente, accende la sigaretta di Rabin, premier israeliano nella fase che precedette l'accordo e suo grande amico. Ma i due Paesi sono ancora afflitti da uno stesso problema: la questione palestinese. Quelli che vivono in Israele e nei territori occupati sono circa 5 milioni, quelli della Giordania tre milioni e mezzo, vale a dire più della metà della popolazione. Per capire quale importanza questi dati abbiano nelle relazioni fra i due Paesi e nella politica interna della Giordania, occorre fare un passo indietro.
La Giordania non è uno Stato storico. Nacque dopo la Grande guerra quando Winston Churchill dovette compensare lo sceriffo della Mecca per l'aiuto che la sua famiglia aveva prestato alla Gran Bretagna nella guerra contro l'Impero ottomano. Dopo avere dato la Mesopotamia al figlio Feisal, gli inglesi ritagliarono per il fratello Abdullah una terra, al di là del Giordano, che era allora prevalentemente abitata da tribù beduine. Se darà un'occhiata alla carta geografica della regione, il lettore scoprirà che il confine del Paese con l'Arabia Saudita è tracciato con il righello, ma piega improvvisamente prima verso ovest poi verso est lasciando un vistoso spicchio alle tribù wahhabite di Ibn Saud. Quello spicchio viene popolarmente chiamato il singhiozzo di Churchill e la leggenda vuole che il grande uomo di Stato britannico, quel giorno, avesse bevuto un bicchiere di troppo.
Passano più o meno trent'anni e la Transgiordania, come si chiamava allora, conquista, alla fine del mandato britannico, i territori a ovest del Giordano e i quartieri storici di Gerusalemme. Da quel momento il regno cambia nome, diventa Giordania ed è più palestinese di quanto fosse in precedenza. Passano altri vent'anni e la Giordania perde nella guerra del 1967 i territori conquistati nel 1948, ma ospita un gran numero di rifugiati ed è ancora, quindi, in buona parte, uno Stato palestinese. Quasi tutti i cittadini sono arabi, ma per i giordani dell'est, abitanti del Paese da tempi immemorabili, i nuovi arrivati sono un corpo estraneo, una minaccia alle loro tradizioni e alla loro identità. La crisi scoppia nel settembre del 1970 quando re Hussein decide che la lealtà dei giordani dell'est è necessaria alla sopravvivenza dello Stato. Continua a ospitare i rifugiati, ma caccia dal Paese, dopo scontri sanguinosi, le milizie di Arafat e la dirigenza politica di Al Fatah. Il problema parrebbe politicamente risolto se qualche uomo politico della destra israeliana non dichiarasse ancora, di tanto in tanto, che il miglior modo per risolvere il problema dei territori occupati sarebbe la trasformazione del Regno giordano in uno Stato palestinese dove tutti gli arabi soggetti all'amministrazione d'Israele avrebbero finalmente una patria. Dopo la cacciata di Arafat re Hussein ha tranquillizzato i giordani dell'est concedendo ai loro clan posizioni dominanti nella funzione pubblica, nell'esercito e nella polizia. Ma nulla li preoccupa quanto il pensiero che il problema possa venire risolto sulla loro testa e a loro spese.
La questione è stata ulteriormente complicata dalla politica economica del re negli ultimi anni e dalle rivolte arabe. Per i «beduini», come vengono ancora impropriamente chiamati, Abdullah, figlio di Hussein e nipote del primo Abdullah, presenta due inconvenienti. Ha una moglie bella, intelligente e ambiziosa, ma palestinese. Ha fatto una politica di privatizzazioni che ha consentito al capitale internazionale di entrare in alcuni settori importanti dell'economia nazionale: fosfati, potassio, elettricità, i servizi marittimi del golfo di Aqaba. Per il giovane re questa è una mossa necessaria alla modernizzazione del Paese. Per i giordani dell'est il sovrano sta vendendo la loro terra, la loro patria. Le critiche sono diventate ancora più frequenti quando le privatizzazioni non hanno dato i risultati sperati. Oggi, in un quadro economico peggiorato dalla crisi europea e americana, il debito pubblico rappresenta l'80% del Prodotto interno lordo, il disavanzo è al 9,5% e il governo, dopo avere utilizzato la Banca centrale nei limiti previsti dalla legge, si è indebitato con le banche per una somma corrispondente alla metà dei loro depositi. Non è tutto. La Giordania ha lungamente vissuto di gas egiziano importato grazie al gasdotto che riforniva contemporaneamente Israele. Oggi l'Egitto non riesce a controllare il Sinai e il gasdotto è stato più volte boicottato da gruppi islamisti. Il boom edilizio degli scorsi anni non è ancora terminato e Amman è piena di cantieri, ma la disoccupazione ha toccato il 12,5%. Le numerose dimostrazioni degli scorsi mesi e un lancio di pietre nello scorso giugno contro il corteo reale a Tafillah, un centro «beduino» del sud del Paese, dimostrano che anche la Giordania ha avuto la sua primavera araba e dovrà rispondere alla protesta popolare con alcune riforme costituzionali. Sarà questo l'argomento del prossimo articolo.
(3-continua. La prima puntata è stata pubblicata il 7 giugno, la seconda il 10 giugno, entrambe rintracciabili su “spogli” alla data della loro pubblicazione)
l’Unità 13.6.12
«In Siria bimbi scudi umani»
Rapporto delle Nazioni Unite: minori torturati e uccisi sia dal regime sia da gruppi ribelli come l’Esercito libero siriano
Massacri e raid anche ieri
Sassaiola contro gli osservatori Onu ad Haffa
di Umberto De Giovannangeli
Orrore senza fine, senza limiti. È l’inferno chiamato Siria. Secondo un rapporto dell’Onu dal titolo «Bambini nei Conflitti Armati», le truppe siriane hanno torturato bambini anche di solo 8 anni, li hanno uccisi, stuprati e usati come scudi umani nelle incursioni militari contro i ribelli.
Le Nazioni Unite definiscono il governo di Damasco come uno dei peggiori nella lista annuale della vergogna, che elenca le nazioni che si servono dei bambini nei conflitti armati. Secondo i gruppi a difesa dei diritti umani sono ormai circa 1.200 i bimbi morti nei 15 mesi di rivolta contro il regime di Bashar al-Assad. «Raramente dice Radhika Coomaraswamy, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i bambini nei conflitti armati ho visto tanta brutalità come in Siria, dove ragazzi e ragazze sono strati arrestati, torturati, giustiziati e usati come scudi umani». «Molti ex soldati hanno parlato di attacchi armati nelle aree abitate da civili e di aver visto bambini, alcuni molto piccoli, uccisi e mutilati», ha affermato la Coomaraswamy.
RACCONTI AGGHIACCIANTI
«Ci sono testimoni che hanno visto bambini torturati e abbiamo sentito che sono stati messi dei bambini sui tank e usati come scudi umani per evitare che si sparasse contro i carri armati», ha aggiunto. Ma non solo. Il 9 marzo scorso, nella provincia di Idlib, prima dell’attacco al villaggio di Ayn l’Arouz, le forze del governo hanno razziato decine di maschietti tra gli 8 e i 13 anni: i ragazzini furono «usati dai soldati e dai miliziani come scudi umani, messi dinanzi ai finestrini degli autobus che trasportavano il personale militare dentro il villaggio per il raid».
La rappresentante delle Nazioni Unite sottolinea tuttavia che anche l’Esercito libero siriano (Els), i soldati disertori che combattono le forze pro-Assad, hanno utilizzato i bambini nel conflitto. «Per la prima volta ha affermato abbiamo sentito di bambini reclutati dall’Els per il fronte». «Il rapporto che è stato completato prima del massacro di Hula, il 25 maggio, dove 49 delle 108 vittime erano proprio bambini, alcuni di due o tre anni, uccisi con colpi alla testa o ritrovati con il cranio spaccatodocumenta brutalità di ogni genere. «Molti bambini vittime di tortura hanno raccontato di esser stati picchiati, tenuti con gli occhi bendati, costretti in posizioni innaturali, legati a pesanti cavi elettrici, segnati da bruciature di sigarette e, in un caso documentato, sottoposti a scosse elettriche applicate ai genitali». Per Save the Children è «scioccante e desta grande preoccupazione» il caso di «bambini utilizzati come scudi umani ed impiegati sulle linee del fronte da entrambe le parti negli scontri armati in corso in Siria, segnalato dal report diffuso delle Nazioni Unite. «I responsabili di questi crimini devono essere perseguiti. Si tratta di un azione in contrasto con la legge internazionale».
NUOVI MASSACRI
«Vi prego, aiutateci, impedite un massacro». È questo l’appello lanciato in un collegamento con la televisione Al Jazira dal dottor Aba al Baraa, medico nel quartiere di Al Khaldiyeh, nella città di Homs, sottoposto a bombardamenti dell’artiglieria e degli elicotteri governativi, secondo il quale c’è il rischio di un nuovo «massacro». Al Baraa chiede alla comunità internazionale di fare in modo che possano essere portati aiuti alla popolazione civile, affermando che non è nemmeno possibile soccorrere i feriti. Un altro residente, Hadi al Abdullah, ha detto che gli attacchi portati contro Khaldiyeh sono «senza precedenti» e che i ribelli dell’Esercito libero siriano (Els) stanno cercando di impedire che le forze governative si impadroniscano del quartiere, temendo che si possa ripetere «un massacro» come quello avvenuto a Hula. Cronaca di guerra. Non si fermano i bombardamenti in varie città della Siria e in 24 ore il bilancio sarebbe già di quasi 100 morti. Almeno 38 persone hanno perso la vita ieri mattina, vittime degli attacchi governativi in diverse località. Fra queste, come riferiscono i Comitati locali di coordinamento dell’opposizione, 11 sono state uccise a Jbeibleh, nella provincia orientale di Deir Ezzor. Le truppe siriane hanno bombardato diverse aree del Paese, tra cui al-Haffa, dove si teme un nuovo massacro. Gli osservatori Onu che ieri hanno cercato di raggiungere al-Haffa «hanno affrontato una folla inferocita, che ha circondato il convoglio, impedendo di proseguire. La folla, in apparenza residenti dell’area, ha lanciato pietre e sbarre di metallo contro i veicoli. Siamo tornati indietro».
Repubblica 13.6.12
Spero in un futuro senza più violenza
di Shirin Ebadi
UN FUTURO senza timore di violenza e di terrorismo è l’obiettivo al quale aspirano tutti gli attivisti sociali. Vivere nel terrore, accanto alle persone che non vanno d’accordo tra di loro, lavorare per individui che ci odiano, frequentare individui della cui amicizia non si ha certezza non è cosa facile. Non dobbiamo permettere che si vengano a creare tali condizioni nella società. Sono ormai anni che il mondo punisce i terroristi per liberarsi dal terrorismo, ma vi chiedo, il terrorismo? Non basta soltanto punire, bisogna combattere il terrorismo dalle fondamenta, seccare e distruggere le sue radici. Sono fanatismo e ingiustizia a spingere alcuni individui a ribellarsi, ad appiccare il fuoco che brucia gli altri e loro stessi. Le radici del terrorismo affondano infatti in questi due fattori. Il fanatismo nasce dall’ignoranza. Senza dubbio, conoscere diverse culture e religioni può aprire la strada verso una pace sostenibile. Specialmente oggi siamo testimoni di un crescente flusso di emigrati provenienti da diverse culture extraeuropee versol’Europa. Bisognerebbeconoscerle per poterle rispettare e, a questo scopo, oltre le istituzioni civili, anche i municipi e gli istituzioni statali dovrebbero provvedere a misure efficaci. Un antico racconto narra così: Dio in cielo tiene in mano uno specchio che rappresenta la verità. Improvvisamente, lo specchio cade sulla terra rompendosi in migliaia di pezzi e ogni pezzo va a finire in una casa e nelle mani di una persona. Quindi ogni persona possiede un pezzo dello specchio e quindi un frammento di verità – il mio pensiero è tanto giusto quanto il vostro e voi avete tanta ragione quanta ne ho io – Questo è lo spirito che bisogna diffondere tra la gente, cosicché opinioni diverse comincino a rispettarsi, eliminando in questo modo le radici di molte discordie ed inimicizie. L’ingiustizia è un altro fattore che alimenta il terrorismo. Persone che hanno vissuto al di sotto della soglia di povertà per generazioni, o che hanno dovuto interrompere i loro studi per disagi economici, o ancora quelli che sono stati discriminati per il colore della loro pelle o per le loro opinioni; ebbene queste persone, quando vedono che a nessuno importa del loro destino, possono ribellarsi, perdendo la ragione per disperazione, e compiere atti violenti. Come possiamo sperare di vivere in un mondo di pace e di tranquillità mentre l’ottanta percento di tutte le ricchezze del mondo appartengono all’un percento dei suoi abitanti? Come possiamo sperare che il nostro paese, la nostra città, rimangano tranquilli mentre i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Cresce il divario tra ricchi e poveri, sia su scala nazionale che internazionale. Riducendo la spesa militare si potrebbe migliorare il livello di istruzione e della sanità a favore dei cittadini. Combattendo la corruzione potremmo diminuire le disuguaglianze. Ci sono molti modi per ridurre il livello di povertà, e noi dobbiamo credere nello sradicamento della povertà a qualsiasi costo. Sarà allora che potremo dormire sonni tranquilli, senza il timore di violenza e di terrorismo, quando potremo sorridere a qualsiasi estraneo dandogli il benvenuto.
Traduzione Ella Mohammadì
l’Unità 13.6.12
In centomila sfidano Putin
Intimidazioni ai leader della protesta
di Ma. M.
L’attacco preventivo di Putin non è bastato a disinnescare la protesta. Decine di migliaia di persone 50.000, forse 100.000, per qualcuno addirittura 200.000 hanno invaso le strade di Mosca nella prima grande manifestazione dopo l’insediamento del presidente al Cremlino. Mancavano i leader dell’opposizione, con poche eccezioni, convocati nelle stesse ore del corteo dagli investigatori, per rispondere dei disordini verificatisi il 6 maggio scorso.
Molti slogan contro il Cremlino, Putin di cartapesta con la divisa a strisce esibiti dietro alle sbarre, la richiesta a gran voce di nuove elezioni. Mancavano i nomi di spicco della protesta, il blogger Navalni, rilasciato solo a tarda sera dagli uffici della Procura, una vicenda che la piazza ha vissuto come una vera e propria provocazione. E non è stata la sola. L’atmosfera in strada è stata piuttosto tesa e ha rischiato di esplodere, quando sul palco è salito un agente di polizia a notificare a Boris Nemtsov ex vice premier e leader del movimento Solidarnost e Serghiei Udaltsov, leader del Fronte di sinistra, la convocazione del Comitato investigativo per un interrogatorio, previsto per ieri sera. Sono partite raffiche di «vergogna, vergogna», ma è finita lì. Se qualcuno voleva lo scontro non è riuscito nell’intento, ad aprire la manifestazione decine di donne vestite di bianco che porgevano fiori agli agenti schierati in piazza in segno di pace.
Dopo l’ondata di arresti, perquisizioni presso le abitazioni dei leader dell’opposizione e dei loro movimenti e gli interrogatori ad orologeria, dopo la legge che limita il diritto di assemblea e manifestazione, Putin ieri ha parlato nella necessità del dialogo, cogliendo l’occasione nel discorso per la celebrazione della Giornata della Russia. «Un’agenda positiva e creativa», questa la proposta del presidente russo che ha definito «inaccettabile qualsiasi decisione o passo capace di portare a sconvolgimenti economici e sociali».
Non è chiaro se il giro di vite contro l’opposizione faccia parte dell’«agenda creativa» di Putin, ma di certo gli ha attirato le critiche di Stati Uniti e Osce, che hanno richiamato Mosca al rispetto dei diritti dell’opposizione. La Ue, tramite Catherine Ashton, si è detta preoccupata per i tentativi di «intimidire i leader delle proteste impedendo loro di partecipare alle dimostrazioni».
il Fatto 13.6.12
Putin e il nuovo “terrore” di Mosca
Manifestazione e repressione, “come ai tempi di Stalin”
di Micol Sarfatti
Mosca Non è bastata l'approvazione della legge che impone multe dai 7 mila ai 300 mila euro per chi organizza manifestazioni antigovernative. Non hanno fatto paura le perquisizioni e gli interrogatori che lunedì hanno riguardato i leader dell’opposizione Alexey Navalny, Xenia Sobchak, Serghei Udaltsov, Ilyia Yashin e nel recente passato anche l’ex vicepremier di Eltsin, Boris Nemtsov. Nonostante il giro di vite con pugno di ferro voluto dal governo, il popolo degli anti-Putin è sceso di nuovo in piazza. Lo ha fatto ieri, nel giorno della Russia, festa della rinascita post-sovietica.
ERA LA PRIMA marcia dopo gli scontri del 6 maggio, la data spartiacque tra le proteste pacifiche pre-elezioni e i 400 arresti concomitanti all’insediamento ufficiale di Putin al Cremlino. Secondo gli organizzatori al corteo, cominciato in piazza Pushkin e finito in prospettiva Sakharov, avrebbero partecipato 150 mila persone, 100 mila secondo le agenzie di stampa e 20 mila secondo la polizia. A guidare gli oppositori c’era Serghei Udaltsov, unico tra i leader a non essersi presentato in tribunale per gli interrogatori imposti dopo le perquisizioni. Una serie di irruzioni nelle case dei volti noti del dissenso russo. “Mi hanno umiliato – ha detto, ovviamente via web, Xenia Sobchak, figlia dell’ex potente sindaco di San Pietroburgo accanto al quale proprio Putin iniziò la carriera politica come suo vice, dopo aver lasciato i servizi segreti – hanno letto le mie lettere private”.
Peggio è andata alla dissidente Maria Baronova, a cui sono state sequestrate persino le ecografie di gravidanza.
Ironico come sempre, invece, il blogger Alexey Navalny che ha fatto sapere: “Si portano via il cd con tutte le foto dei miei figli al mare. Sembrano soddisfatti”.
Ma al di là delle singole reazioni, il blitz ha ricordato a molti il “grande terrore staliniano” del 1937, il periodo delle purghe e della repressione. Non a caso, subito dopo le perquisizioni, l’hashtag #ciao37 era in testa ai trend del Twitter russo. E ancora una volta, durante la manifestazione di ieri, sono stati oscurati i siti dei media di opposizione come la Novaya Gazeta e Radio Eco di Mosca. Il corteo si è comunque svolto senza incidenti. Tra i partecipanti molti esponenti del Fronte di Sinistra, nazionalisti e, per la prima volta, il movimento universitario. Dal palco hanno parlato attivisti e deputati, ma anche un ricercatore, emblema della svolta sociale, e non più solo politica, della protesta. Serghei Udaltsov ha invitato i sostenitori a riorganizzare i campi Occupy dello scorso maggio.
VLADIMIR Putin, intanto, ha detto che “le discussioni accese sono parte della democrazia, ma è inaccettabile dividere il paese”. Due settimane fa il suo portavoce Dimitri Peskhov aveva, meno diplomaticamente, fatto sapere che “il fegato dei manifestanti andrebbe spalmato sui marciapiedi”.
Sempre più defilata e poco incisiva, invece, la posizione del premier Dmitri Medvedev: nelle ore della protesta, ha scelto di inviare via Twitter i suoi auguri per il giorno della Russia, accompagnati dalla foto di un bosco.
Corriere 13.6.12
I russi sfidano la repressione A migliaia in piazza a Mosca
La manifestazione il giorno dopo i raid contro gli oppositori
di Fabrizio Dragosei
MOSCA — Hanno messo in atto tutte le misure possibili per rendere più difficile la vita agli indignati russi che ieri sono scesi in piazza in decine di migliaia per protestare contro quello che definiscono «il regime». Perquisizioni, convocazioni dei leader alla procura, super-multe per chiunque agisca al di fuori delle regole stabilite. Ma se ieri ci si attendevano meno giovani (oggi ci sono anche gli esami all'università di Mosca) e meno professionisti scontenti, se si prevedevano azioni non autorizzate per scatenare la repressione, qualcuno è rimasto deluso.
La folla ha sfilato per le vie della capitale in maniera tranquilla e ordinata, semplicemente scandendo gli slogan previsti: «Putin in prigione» e «Russia senza Putin». Anche se magari un po' imbarazzati dalla vicinanza degli ultra-nazionalisti (bandiere giallo, bianco e nero e uniformi simil-naziste), gli indignati si sono attenuti al programma e non hanno «accettato provocazioni», come si diceva una volta. Alla fine del comizio uno dei leader della protesta, Sergej Udaltsov, ha incitato i manifestanti a proseguire con una marcia non autorizzata fino alla sede della procura. Ma la gente non ha accolto l'invito e tutto è finito pacificamente in Prospekt Sakharova, il viale che, sintomaticamente, porta il nome del fisico Andrej Sakharov, dissidente ai tempi dell'Urss. E per tutta la giornata l'hashtag più utilizzato su Twitter (il social network di messaggi brevi) in Russia è stato «bentornati al 1937», l'anno in cui iniziarono le grandi repressioni staliniane.
Vladimir Putin, che ieri ha celebrato la giornata della nascita della Russia nel 1990, quando le leggi della Repubblica federativa furono dichiarate superiori a quelle dell'Urss (l'anno dopo l'Unione Sovietica venne sciolta) ha detto di apprezzare il dibattito tra persone che la pensano diversamente. Ma ha subito aggiunto di ritenere «inaccettabile tutto ciò che indebolisce il Paese e divide la società».
E proprio il terrore di una possibile rivoluzione di tipo ucraino o di manifestazioni alla «Occupy Wall Street» che potessero portare a caos e disordini, sembra essere il movente delle azioni del presidente, insediatosi per la terza volta un mese fa.
Così la settimana scorsa è arrivata la firma della legge che inasprisce sensibilmente le multe per chi organizza o semplicemente partecipa a manifestazioni non autorizzate. In alcuni casi si tratta di aumenti di cento volte rispetto alle norme precedenti: un semplice partecipante può arrivare a dover sborsare novemila euro, l'equivalente per alcuni di un anno di paga. Una misura che è stata stigmatizzata dalla responsabile della politica estera europea Catherine Ashton che ha anche criticato «i tentativi di intimidazione» messi in atto nelle ultime ore.
Sì, perché proprio poco prima dell'inizio della manifestazione, i principali esponenti dell'opposizione sono stati convocati in procura. Il blogger Aleksej Navalny, la star televisiva Ksenya Sobchak. Udaltsov che aveva «declinato» l'invito sostenendo che, essendo tra gli organizzatori, doveva per legge essere presente alla marcia, ha ricevuto una nuova convocazione mentre era sul palco, assieme all'altro leader Boris Nemtsov, che ieri non era stato rintracciato.
Ventiquattro ore prima c'erano state le perquisizioni, con il sequestro di computer e telefoni, alla ricerca di «prove» sul coinvolgimento nei disordini di maggio. Con grande enfasi, la procura ha reso noto che a casa della Sobchak sono stati trovati un milione e duecentocinquantamila euro e 480 mila dollari in contanti. Risparmi tenuti in casa per la scarsa fiducia nelle banche russe (che più volte in passato sono saltate), secondo la donna. Ma forse le autorità sosterranno nei prossimi giorni che si tratta di finanziamenti illegali al movimento anti-Putin.
Corriere 13.6.12
Il Dragone cinese ha corso troppo. Prepariamoci alla frenata
di Fareed Zakaria
Si sono rincorse molte voci, nelle ultime settimane, sulle lotte politiche in Cina, a seguito dell'estromissione di Bo Xilai, l'ingombrante capo del partito comunista a Chongqing, che non si è fatto scrupolo di ricorrere a populismo, denaro e intrighi per arrivare al potere. Se non fosse stato rovesciato quest'anno — per una serie di errori, rivelazioni e sfortunati imprevisti — Bo avrebbe inflitto non pochi scossoni al sistema tecnocratico e autoritario che regge il Paese. La Cina sarà certamente in grado di superare la sua crisi politica, ma già si profila una sfida ben più immediata: la crisi economica.
Ogni anno, per gli ultimi due decenni, gli esperti non hanno fatto altro che ripetere che l'economia cinese era sull'orlo dell'abisso, minata dal suo interno da enormi squilibri e da scelte politiche sbagliate. Puntavano il dito su prestiti a rischio, pessime banche, aziende inefficienti di proprietà dello Stato e svariate bolle immobiliari. In qualche modo, però, nessuno di questi difetti è riuscito a far deragliare la crescita cinese, che ha registrato in media un sorprendente 9,5 percento annuale per trent'anni.
Ruchir Sharma, a capo del Fondo per i mercati emergenti della Morgan Stanley, adotta un'ottica diversa, e più convincente, nel suo nuovo libro Breakout Nations, spostando l'attenzione non sui fallimenti della Cina, bensì sui suoi successi: «La Cina sta per affrontare una fase naturale di rallentamento che cambierà l'equilibrio del potere globale, dalla finanza alla politica, togliendo il vento dalle vele di molte economie che navigano nella sua scia». E già si accumulano le prove a sostegno di questa teoria.
Se la crescita cinese appare straordinaria, esistono tuttavia dei precedenti storici. Giappone, Corea del Sud e Taiwan erano cresciuti tutti intorno al 9 percento annuale per circa vent'anni, per poi rallentare. Molti pensano che la Cina seguirà le orme del Giappone, la cui economia entrò in crisi negli anni Novanta per poi raffreddarsi notevolmente, e da allora è in attesa di una rinascita. Lo scenario più realistico, tuttavia, è quello del Giappone degli anni Settanta, quando la crescita economica della prima tigre asiatica rallentò dal 9 al 6 percento circa. La Corea e Taiwan seguirono la medesima traiettoria.
Quale fu la causa di questi rallentamenti? Il successo. Diventa sempre più difficile continuare a crescere a tutta velocità quando l'economia si espande, favorendo lo sviluppo della classe media.
Calcoli alla mano, Sharma conferma: «Nel 1998, per poter far crescere del 10 percento la sua economia, all'epoca equivalente a un trilione di dollari, la Cina dovette allargare le sue attività economiche di 100 miliardi di dollari e accaparrarsi il 10 percento delle risorse industriali mondiali — vale a dire tutte le materie prime, dal petrolio al rame, all'acciaio. Nel 2011, per far crescere alla medesima velocità la sua economia stimata attorno ai 5 trilioni di dollari, la Cina ha dovuto allargare le sue attività di 600 miliardi di dollari all'anno, risucchiando più del 30 per cento della produzione globale di materie prime».
Oggi, tutti i fattori che hanno sospinto l'economia cinese in avanti cominciano a dar segno di contrazione. L'anno scorso la Cina è diventata una nazione urbanizzata, poiché la maggioranza della sua popolazione vive nelle metropoli. Il tasso di migrazione urbana si è ridotto a 5 milioni di persone all'anno. Ciò significa che il famoso «surplus di manodopera» cinese ben presto si esaurirà. Nel decennio corrente, solo 5 milioni di persone si aggiungeranno alla forza lavoro attiva, un calo brusco dai 90 milioni del decennio precedente. E grazie alla politica del figlio unico, ci sono oggi meno cinesi pronti a prendere il posto dei lavoratori pensionati.
Il quadro tratteggiato da Sharma è condiviso in larga misura dal governo cinese. Da anni la leadership di Pechino si prepara al rallentamento dell'economia. Il primo ministro Wen Jiabao sosteneva nel 2007 che l'economia cinese era «squilibrata, scoordinata, instabile e insostenibile». Questa settimana ha ripetuto il suo monito, invocando un'azione di stimolo da parte del governo.
Sotto alcuni aspetti, la Cina ha ancora molte frecce al suo arco. La banca centrale può abbassare i tassi di interesse e il governo è in grado di spendere. Ma le frecce sono ormai numerate. Sharma afferma che sulla carta il debito cinese, per rapporto al Pil, tocca un modesto 30 percento, ma quando si vanno a sommare i debiti delle grandi imprese cinesi, molte delle quali di proprietà statale, i numeri si fanno allarmanti. Il governo è pronto a spendere di più per le infrastrutture, ma questi investimenti produrranno profitti decrescenti. I consumatori cinesi spendono di più, è vero, ma in un Paese senza ammortizzatori sociali, e con una popolazione sempre più vecchia, il tasso di risparmio resterà elevato. Sharma prevede tempi difficili per quei Paesi che si sono agganciati alla crescita cinese — dall'Australia al Brasile — quando la domanda di materie prime comincerà a calare. L'analista annuncia inoltre una riduzione nel prezzo del greggio, che giunge proprio al momento di massima espansione dell'estrazione da sabbie bituminose e che metterà in difficoltà gli Stati produttori di petrolio in tutto il mondo. Per la Cina, Sharma suggerisce che un tasso di crescita attorno al 6 percento non dovrebbe impensierire più di tanto i cinesi, si tratta sempre di un risultato invidiabile. Il Paese oggi è più ricco, pertanto un rallentamento della crescita appare accettabile. Ma non dimentichiamo che il regime autoritario cinese trova legittimazione nella crescita vertiginosa, e in mancanza di quella, i problemi economici della Cina potrebbero trasformarsi in problemi politici.
Corriere 13.6.12
Gramsci, commissione sui «Quaderni»
La Fondazione Istituto Gramsci ha accolto la proposta, avanzata da Franco Lo Piparo in un articolo sul «Corriere» del 6 giugno, di costituire una commissione per esaminare gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (nella foto) in modo da verificare i dubbi circa eventuali anomalie e l'ipotizzata scomparsa di un quaderno.
Corriere 13.6.12
Se la gente d'Europa reclama il ritorno della politica
La vittoria di Hollande fa vacillare il modello Merkel
di Giuseppe Sarcina
La sera del 6 maggio 2010 i banchieri della Bce stavano cenando con le mogli nel ristorante del cinquecentesco Palazzo di Bacalhoa a Lisbona. Di colpo i loro BlackBerry cominciarono a vibrare simultaneamente: Wall Street stava andando a fondo, accusando la perdita giornaliera più forte della storia (il flash crash). Il presidente della Banca centrale, Jean-Claude Trichet, chiese immediatamente ai commensali di spostarsi nella cantina dei vini per tenere un improvvisato e drammatico gabinetto d'emergenza. Fu in quella occasione, tra bottiglie di Porto e di Madeira, che il presidente della Bundesbank Axel Weber infranse il canone dell'ortodossia rigorista tedesca, esclamando: «La Bce deve comprare i titoli di Stato emessi dai governi europei!».
Forse non è un caso se i passaggi più drammatici della crisi dell'euro si siano consumati in luoghi lontani dalle istituzioni europee, a Bruxelles o Strasburgo. Vertici all'Eliseo, nella Cancelleria di Berlino, a Deauville o Cannes. Ovunque capiti. Anche in un camerino dell'Alte Oper di Francoforte, ai margini del concerto per il passaggio di consegne tra Trichet e Mario Draghi. Quattro anni aspri, duri, perfino spietati, come racconta Carlo Bastasin, editorialista del «Sole 24 Ore», nel libro Saving Europe, scritto in inglese e pubblicato dalla Brookings Institution Press, la casa editrice dell'importante centro di ricerca politica di Washington (pp. 354, $ 34,95). La Germania e la Francia, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. E poi Silvio Berlusconi, George Papandreou, Jean-Claude Juncker, Josè Manuel Durao Barroso, Trichet e Mario Draghi. Ci sono tutti, protagonisti e comparse, vincitori e sconfitti.
Una ricostruzione che può essere considerata definitiva, in cui si incrociano retroscena riportati con penna felice, analisi economiche senza esoterismi e in più la giusta dose di realismo per arrivare alla sostanza politica: How national politics nearly destroyed the euro, avverte il sottotitolo, cioè come le politiche nazionali hanno quasi distrutto la moneta unica. Bastasin ripercorre la storia di una corsa affannosa e dal risultato incerto, ma con un filo conduttore paradossale: non si è mai vista così poca Europa, proprio mentre si cercava di salvarla. Oggi la nuova formula di riferimento è la «vera unione fiscale», che dovrà necessariamente appoggiarsi a una sempre maggiore integrazione politica tra i 17 Paesi della zona euro (per gli altri si vedrà). Ma è davvero un obiettivo plausibile? Dal 2008 in poi la ventennale architettura fondata sul trattato di Maastricht si è come afflosciata sotto il carico del dissesto bancario e finanziario mondiale. Il punto è che le infrastrutture più federali erano già state manomesse prima, in nome e per conto degli interessi nazionali. Basta citare i parametri del Patto di stabilità devitalizzati nel 2003 da Francia e Germania con la copertura dell'Italia.
Quando è arrivata la crisi, l'Europa comunitaria ha rivelato la sua inadeguatezza, accentuata, come giustamente nota Bastasin, dall'evanescenza della Commissione europea, con il presidente Barroso impegnato più a compiacere tedeschi e francesi, in vista di una riconferma personale, che a far valere il ruolo di Bruxelles. Tuttavia la catena degli avvenimenti a cui siamo ancora legati si può leggere con una doppia chiave. La crescente centralità, nel bene e nel male, di Angela Merkel, implica la simmetrica inutilità delle istituzioni europee. Ma nello stesso tempo lo strapotere tedesco, imponendo misure economiche insostenibili e soprattutto irrealizzabili nel breve termine, finirebbe per distruggere la moneta unica e cancellare 55 anni di integrazione europea.
Berlino, più per inerzia degli avvenimenti che per lucido disegno, si trova ora nella condizione di imporre una finta scelta agli altri partner: o l'Unione Europea «si germanizza» o non ha futuro. Detto in altre parole, l'inaffidabilità della Grecia (politica prima ancora che economica), il rischio costante rappresentato dalle banche spagnole e dal debito pubblico italiano sono (forse) addomesticabili solo in un quadro di nuove regole alla tedesca. Oggi si chiama fiscal compact, il trattato sui vincoli di bilancio, domani sarà «coordinamento delle politiche economiche», o qualcosa del genere. In questo quadro, e nel lavoro di Bastasin emerge con chiarezza, il ruolo della Bce (sia nella versione Trichet che in quella Draghi) è, e sicuramente continuerà a essere, fondamentale. La lettera prescrittiva inviata nell'agosto 2011 dai due banchieri a Berlusconi non è un passaggio emergenziale, ma forse il punto di partenza di un nuovo equilibrio che ora dovrà consolidarsi in assetti istituzionali. Bastasin osserva che «il contagio finanziario» ha di fatto già aperto l'epoca dell'interdipendenza, che ora potrebbe portare a una stagione di «mutualità» e anche di «solidarietà» fra i Paesi europei. Non solo: «Di fatto — scrive Bastasin — il tradizionale confronto tra destra e sinistra a livello nazionale diventa meno significativo rispetto alle indicazioni dettate dall'interdipendenza europea. E prima o poi una dimensione non nazionale basata sulla contrapposizione destra-sinistra emergerà per rivitalizzare le nostre concezioni della politica».
L'esito della lunga crisi, dunque, potrebbe essere quello di una mutazione genetica dell'Unione Europea. Bisogna capire, allora, se e come può cambiare lo scenario attuale. Dal trattato di Roma (1957) fino a quello di Lisbona (2007) si è venuto sviluppando un modello atipico, a cominciare dalla classica divisione dei poteri. Oggi Berlino (e la Bce) spingono per rafforzare la funzione esecutiva, di coordinamento e controllo. Si sta pensando a una Commissione europea più forte, magari con il presidente eletto dal Parlamento europeo? C'è da dubitarne. Ancora una volta, più per la spinta dei fatti che per spirito riformatore, la Germania e i suoi alleati cercheranno di costituzionalizzare il ruolo guida assunto negli ultimi anni dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo. Ma a quel punto si aprirebbe una rischiosa contraddizione. Nella storia dell'Europa i principi «orizzontali», cioè come dare voce ai cittadini, sono stati fondamentali. L'europarlamento è via via cresciuto e appare l'unica istanza in grado di assimilare per via democratica la domanda di rappresentatività che sta crescendo in modo tumultuoso e talvolta in forme inedite nelle società europee (dai «pirati» tedeschi ai grillini italiani). Inoltre il piano di tagli imposto da Berlino alla Grecia ha diviso ancora di più un Paese già minato da profonde diseguaglianze. E segnali simili arrivano da Spagna, Portogallo e anche Italia e Francia. Negli ultimi mesi l'emergenza ha imposto la sospensione del confronto-scontro tra diversi blocchi e interessi sociali. Ora, specie dopo la vittoria del socialista Hollande in Francia, bisogna capire se la politica sia pronta a uscire dall'anestesia. Se sarà così la gabbia politico-istituzionale, rigorista e verticale, progettata da Angela Merkel potrebbe risultare inadeguata.
La Stampa 13.6.12
Cultura, arte, spettacolo. C’è un’Italia che cresce
Presentati ieri a Roma i dati sui consumi culturali nazionali nel 2011 Il bilancio è positivo: rinunciamo a tutto, ma non a mostre e teatro
di Flavia Amabile
ROMA Con i tempi che corrono, trovare un pezzo di economia in crescita non è facile. Eppure ne esistono, e ne esiste uno in particolare: la cultura.
Considerata per anni un pozzo senza fondo di spese, maltrattata ai tempi di Giulio Tremonti, ministro dai superpoteri sui conti pubblici, che sosteneva che con la cultura non si mangia, ora i dati del rapporto annuale di Federculture sostengono proprio il contrario.
Sono in aumento i visitatori alle mostre (+14%) e nei musei (+7,5%). Successo costante per eventi e Festival (+10% il Festivaletteratura di Mantova. Gli italiani hanno le tasche vuote, hanno tagliato le spese in vestiti ma non quelle sulla cultura. La spesa delle famiglie nel 2011 ha sfiorato i 71 miliardi di euro con un +2,6% rispetto al 2010.
Tutto andrebbe a meraviglia se oltre agli italiani, che come consumatori e come sponsor non hanno mai smesso di crederci, anche i governi si impegnassero con politiche di sviluppo. Di fronte all’indifferenza e alla noncuranza pubblica gli sponsor stanno scappando: sono calati dell’8,3% rispetto al 2010, in caduta libera (-38,3%) se si guarda al 2008.
Come sottolinea Federculture, diminuiscono le sponsorizzazioni, perchè le imprese hanno meno soldi ma anche per «lo scenario di incertezza per il calo dell’intervento pubblico che scoraggia l’intervento dei privati». Secondo l’associazione, quindi, è necessaria «una politica pubblica» per la cultura ed invece negli ultimi dieci anni il bilancio del ministero della cultura è diminuito del 36,4%, arrivando nel 2012 a 1.425 milioni di euro contro i 2.120 del 2001. Per il settore lo Stato investe solo lo 0,19% del suo bilancio.
Da questo punto di vista, c’è da invidiare i bei tempi del Dopoguerra: nel 1955, quando ancora non si immaginava il boom che sarebbe arrivato di lì a poco, l’Italia investiva in cultura lo 0,8% della sua spesa totale, il quadruplo di oggi. E non è solo una miopia ministeriale, anche i comuni hanno tagliato: gli investimenti per la cultura scendono al 2,6%.
Contraddizioni e amarezze anche per quel che riguarda l’export italiano di beni creativi che aumenta dell’11,3%. L’Italia per il design è il primo paese esportatore, tra le economie del G8. Anche in questo caso però, fa notare Roberto Grossi, presidente di Federculture, manca all’appello la politica: «Il settore delle industrie culturali e creative, oggi stimato valere il 4,5% del Pil europeo e il 3,8% degli occupati totali, sarà nei prossimi anni in grande espansione. Ma mentre gli altri Paesi, nostri concorrenti, hanno già fatto delle scelte, noi non abbiamo ancora cominciato a discutere».
In Italia esiste anche un’emergenza educativa: «Nell’ultimo anno sono crollate le immatricolazioni negli atenei» e nessun istituto del nostro Paese rientra nella classifica internazionale delle migliori Università (Bologna, che è la prima, si ferma alla posizione numero 183).
Il nostro Paese «è a un bivio», avverte Grossi che chiede «non soldi che sappiamo non ci sono, ma politiche coraggiose».
«Il coraggio? - risponde il ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi - È una grande virtù, di questi tempi necessaria, ma che va misurata poi con la realtà. E questo vuol dire cercare le risorse quando non ci sono, adoperare bene quelle che ci sono ed essere convinti che la cultura richiede anche quella antica virtù che è il realismo».
Unica promessa che si riesce a strappargli: la defiscalizzazione degli investimenti in cultura.
Corriere 13.6.12
Il viaggio in Italia di Vermeer
A Roma da ottobre nove capolavori del genio olandese
di Edoardo Sassi
S olo quattro, dal Secondo dopoguerra a oggi, le mostre nel mondo con almeno otto quadri esposti di colui che da molti è considerato il pittore dei pittori, l'olandese Johannes Vermeer (1632-1675). E ad allestirle, queste mostre, erano stati inevitabilmente i templi della museologia internazionale, partiti quasi sempre avvantaggiati dal possedere alcuni capolavori del genio di Delft in collezione permanente.
Nel 1966, in una grande retrospettiva, Vermeer si era visto al Mauritshuis dell'Aia, il «suo» museo. Nel 1995 alla National Gallery di Washington, mostra poi trasferita, ancora, nella città olandese. Si arriva poi al 2001, con il patto tra i due colossi, Metropolitan di New York e National di Londra. Infine, 2003, il Prado di Madrid, che pur non avendo alcuna opera dell'artista in collezione, forte di una politica di prestiti e di scambi in contropartita, era riuscito a mostrarne nove nella mostra «Vermeer y el interior holandés». Poi più nulla, a parte qualche quadro qua e là: uno, due, tre al massimo.
Numeri che possono apparire esigui, ma che non lo sono considerando la scarsissima produzione dell'artista — solo 35 i quadri certi dipinti da lui, qualcuno sostiene siano 37, altri arrivano ad annoverarne 45 — e considerando dunque la difficoltà di ottenere prestiti da parte di privati o musei che ne posseggono uno, due, quattro al massimo. Tutte le sue opere sono dislocate in sole 18 collezioni. Nessuna si trova in Italia. E i quadri considerati non inamovibili sono 26. Cifre che dicono quindi della difficoltà di organizzare una mostra su questo pittore, tanto più in Italia, culla dei beni culturali sì, ma appunto priva di opere del maestro.
Eppure una mostra di Vermeer, come anticipato dal «Corriere» lo scorso marzo, ci sarà, a Roma, dal prossimo ottobre e fino a gennaio 2013, nello spazio delle Scuderie del Quirinale, organizzata dall'Azienda speciale Palaexpo e coprodotta con Mondomostre. Titolo della rassegna: «Vermeer e il secolo d'oro dell'arte olandese», a cura di Arthur K. Wheelock, responsabile del settore Northern Baroque Paintings della National Gallery of Art di Washington; di Walter Liedtke, curatore del comparto European Paintings del Metropolitan di New York; e di Sandrina Bandera, Soprintendente per il patrimonio storico artistico di Milano, città dove in un primo momento si era pensato di organizzare l'esposizione.
Artista-mito da almeno un secolo, dopo esser stato relegato a lungo in un cono d'ombra, con una biografia di cui si sa ancora pochissimo — lavorò solo su commissione e non dipinse mai più di due o tre opere l'anno, il necessario per mantenere moglie e undici figli — Vermeer, che Marcel Proust considerava il più grande pittore di tutti i tempi, sarà presente nella capitale con otto quadri che quasi certamente diventeranno nove (una delicata trattativa diplomatica è ancora in corso in queste ore per avere «La stradina di Delft» dal Rijksmuseum di Amsterdam). E gli organizzatori non escludono sorprese dell'ultima ora (nessuno infatti lo dice, ma la sfida ideale e numerica con il museo di Madrid sta accendendo gli animi), puntando a ottenere anche l'«Astronomo» del Louvre.
Di certo saranno esposti anche la «Fanciulla con cappello rosso» (National Gallery of Art, Washington), la meravigliosa «Donna in piedi alla spinetta» (National Gallery, Londra), la «Suonatrice di liuto» e l'«Allegoria della fede», entrambi del Metropolitan, la «Fanciulla con bicchiere di vino» dall'Herzog Anton Ulrich Museum di Brunswick, e due opere che potrebbero far discutere e sulle quali la critica non è concorde quanto ad autografia, benché da tempo inserite nelle interpretazioni più estensive del catalogo del maestro. Si tratta della «Giovane donna seduta alla spinetta» (National Gallery, Londra), la cui attribuzione risale a una ventina di anni fa, e la nota versione della «Santa Prassede» della Barbara Piasecka Johnson Collection, probabile copia ispirata dal pittore barocco italiano Felice Ficherelli, il cui lavoro sarà affiancato in mostra all'opera presunta dell'olandese.
In tutto, le opere esposte alle Scuderie del Quirinale saranno oltre cinquanta. Come avvenne al Prado, anche a Roma la rassegna sarà infatti un'occasione per ammirare alcuni capolavori di maestri straordinari del secolo d'oro olandese, artisti di culto la cui raffinatezza esecutiva non è inferiore a quella di Vermeer, ma i cui nomi sono meno noti al grande pubblico. Tra minuziosi interni borghesi, tipici dell'arte fiamminga, paesaggi, ritratti intimisti e magie di luce, spiccano i nomi di Gabriel Metsu (in particolare «Uomo che scrive una lettera» e «Donna che legge», entrambi già visti al Prado e prestati da Dublino), di Emanuel de Witte, Nicolaes Maes, Gerard Dou, Jan van der Heyden, Cornelis de Man, del maestro di Vermeer, Carel Fabritius, e del grandissimo Pieter de Hooch (presente con cinque opere), il cui «Giocatori di carte in un interno», della Royal Collection di Buckingham Palace, è uno dei prestiti per la mostra concessi dalla regina Elisabetta II, che ha però tenuto per sé la «Lezione di musica» di Vermeer.
Le prevendite e le prenotazioni alla mostra sono già possibili al numero di telefono 06.39967500 e sul sito internet www.scuderiequirinale.it.
Repubblica 13.6.12
L’anticipazione
Un brano del libro del sociologo e della moglie che spiega i nuovi modi di stare insieme
La rivoluzione sentimentale delle relazioni senza frontiere
di Ulrich Beck e Elisabeth Beck-Gernsheim
L’amore a distanza è caratterizzato dalla lontananza geografica: gli innamorati vivono separati, a molti chilometri uno dall’altro, in Paesi o addirittura in continenti diversi. Oggi la scelta amorosa è caratterizzata da un aumento enorme delle possibilità. In termini più precisi: il mondo che poneva barriere all’amore si è trasformato in un mondo che offre opportunità d’amore. Anzitutto i confini sociali sono diventati più permeabili e i controlli sociali si sono indeboliti. Un tempo era l’unità famigliare che regolava la scelta del partner e la orientava sui binari giusti, adeguati allo status patrimoniale e sociale. Oggi questa unità – benché ancora sussista – ha perso gran parte della sua influenza. Perfino l’istituzione della dama di compagnia è sparita senza lasciar tracce: un tempo le veniva affidato il compito di vigilare sul rispetto del decoro e dello status. La conoscenza reciproca si è liberata inoltre delle regole d’ammissione nella cosiddetta «buona società» e le liste d’invitati degli strati elevati non sono più selezionate esclusivamente sulla base dell’origine. Sono sorti altri luoghi d’incontro (per esempio il mondo del lavoro, l’associazionismo, le palestre ecc.) che, dal punto di vista sociale, sono molto più mescolati. Analogamente perdono importanza le prerogative geografiche. Mentre in passato montagne e gole complicavano parecchio le comunicazioni tra un paese e quello vicino, e la vita si svolgeva prevalentemente nella cornice vicinale, ora il mondo vitale si è notevolmente ampliato. Per corsi di lingua, missioni di lavoro o vacanza, la mobilità da un luogo all’altro, da un Paese all’altro, è ormai parte integrante della nostra quotidianità. In conformità a questo processo, si allarga anche lo spazio destinato alle possibilità d’incontro e ai potenziali innamoramenti. Recentemente si è aggiunto poi un nuovo spazio d’incontro, nel quale la scelta del partner aumenta rapidamente d’importanza: lo spazio virtuale, Internet. Il motore di ricerca mette a disposizione, direttamente a casa propria o sul computer portatile, un’offerta globale che si rinnova ogni minuto. Con Internet le tentazioni si moltiplicano all’infinito. Si dischiude il paradiso delle possibilità illimitate... e il terrore delle possibilità illimitate. Il motore di ricerca è «insieme causa, strumento e risultato della ricerca, di una ricerca che accresce se stessa». L’ottimizzazione è l’imperativo immanente di questa ricerca del desiderio. Quanto più ampia la scelta, tanto più forte la tentazione. Forse il prossimo click del mouse porterà il candidato ideale. Quindi: avanti, cliccate! Bisogna trovare il partner migliore, ma non lo si trova mai. «Devo sempre stare in guardia, magari ne arriva una nuova, carina, interessante, anche solo per farci due chiacchiere. Si può controllare ogni giorno. Quale vita potrebbe essermi riservata oggi? », confessa il romantico del massimalismo e realista del virtuale. «Ti amo» significa: «Per te scarico la posta elettronica». Una promessa, come tante altre cose in amore, è facile da pronunciare, ma difficile da mantenere. Dove troviamo chi cerca amore? «Soprattutto sul posto di lavoro, poi nella cerchia di amici, infine in Internet. Al terzo posto, prima del club, della discoteca, delle vacanze o del salumiere. Uno studio recente mostra che, per gli individui d’età compresa tra i 30 e i 50 anni, un terzo di tutti i contatti che portano a una relazione di coppia avviene su Internet. Tendenza in aumento». L’amore è stato ed è tuttora amore immaginato. Come ben sappiamo, si svolge essenzialmente nella testa. La particolarità dell’amore su Internet è che si svolge solamente nella testa. La rete disarticola l’amore. Consente anzitutto la non-presenza fisica dei partecipanti e in secondo luogo l’anonimato del contatto. Così, in terzo luogo, viene scatenata la fantasia e in quarto luogo può affermarsi l’imperativo dell’ottimizzazione: fare attenzione che chi è unito per l’eternità non si trovi qualcosa di meglio. L’incorporeità dell’amore a distanza e l’anonimato, garantiti da Internet in quanto luogo d’incontro, possono incrementare il romanticismo delle operazioni di ricerca, ma anche generare disinibizione.
Repubblica 13.6.12
La famiglia e la nuova geografia degli affetti
di Concita De Gregorio
L’amore a distanza. Coppie che vivono separate, nonni e nipoti che si parlano online. Così la globalizzazione ha modificato i confini della famiglia
BISOGNA immaginarsi l’allegra colorata e disordinata festa di nozze della ragazza inglese laureata alla London School of Economics che sposa il collega indiano, accademico come lei. Non sarà difficile, commedie recenti di grande successo aiutano. La musica i cibi le danze: l’esotismo di una famiglia indiana e l’allegria stupita e grata di una giovane londinese. Poi la notte nella grande casa di lui, poi il risveglio nel disordine. Ecco: la prima inquadratura della nuova storia comincia qui. Quando il cognato, fratello maggiore dello sposo, si rivolge brusco e imperativo alla donna appena scesa a fare colazione: «Guarda che casino, pulisci subito!». Lei non capisce, è ancora assonnata. Poi arriva la cognata maggiore e le strilla: mettiti al lavoro. Poi compare la suocera, la matriarca, tutti tacciono. Sarà bene che tu pulisca tutto molto rapidamente, scandisce. La nuova gerarchia della casa si è organizzata nella notte. La suocera, la donna più anziana della famiglia, decide i destini di ciascuno.
Il vincolo del matrimonio ha stabilito in modo definitivo il ruolo che spetta alla giovane neosposa: entra nella graduatoria domestica all’ultimo posto. Si tratta di un amore a distanza, scrive con la penna intinta nell’ironia e nel rigore scientifico Ulrich Beck: distanza culturale, in questo caso. È un saggio sorprendente, questo, (in uscita per Laterza) che il sociologo scrive con la moglie Elisabeth Beck-Gernsheim. Un’indagine sulla più grande trasformazione dell’amore nel ventunesimo secolo: da amore di prossimità ad amore a distanza, appunto. “Il caos globale degli affetti” che contagia di sé ogni relazione familiare: tra amanti, tra genitori e figli, tra nonni e nipoti, tra coppie virtuali protagoniste di un amore immaginato e coppie fisicamente e contemporaneamente presenti nello stesso luogo che incarnano, appunto in modo letterale, quali siano i prodotti della globalizzazione nell’ordine familiare e sociale.
Una carrellata che con sguardo attento e segretamente divertito passa in rassegna una moltitudine di possibilità ciascuna delle quali in qualche modo ci riguarda, perché tutti conosciamo una bambinaia che ha lasciato a casa i suoi figli per venire ad accudire i nostri, una coppia di nonni che dialoga su Skype coi nipoti, dei genitori adottivi di bambini arrivati da un altro continente, una coppia di diverso colore, religione, emisfero. Tutti conosciamo l’amore al tempo di internet, l’anonima intimità che consente, la disinibizione che suscita, le conseguenze che provoca. Un saggio sull’amore com’è diventato: come crediamo di sapere che sia e invece guarda che sorpresa, ancora non sappiamo nulla o quasi nulla, ancora non possiamo neppure immaginare come diventerà. Quando nel 2064 le due commissioni di studio in favore dell’amore di prossimità, l’una, e di distanza, l’altra, si contenderanno la palma del modello migliore. Un esilarante epilogo. Si parte dall’osservazione della Standard North American Family: genitori eterosessuali di figli biologici, famiglie in cui il padre procaccia il cibo e che vivono sotto lo stesso tetto. Delle quattro caratteristiche della famiglia standard occidentale del secolo scorso la quarta è stata l’ultima a cadere. I genitori possono essere omosessuali, i figli non biologici, le madri procacciare il cibo a padri e figli dipendenti da loro. Che si possa essere famiglia senza convivere fisicamente è l’ultima novità, la più grande delle trasformazioni recenti. Accade in principio, per esempio, quando l’amore e l’assistenza diventano una merce. Quando le donne che lavorano hanno bisogno di altre donne che si occupino della loro famiglia: accudimento delegato, importato ed esportato. Insegnanti filippine ben istruite che fanno le bambinaie a Parigi: servizi familiari globalizzati che diventano l’oro dei poveri del mondo. Tutti conosciamo l’angoscia che provoca sapere che la bambinaia che si occupa di nostro figlio di tre anni ha lasciato il suo dall’altra parte del mondo. Quello che ora sappiamo, dalle pagine dei Beck, è cosa pensino i figli delle madri che sono partite. Che cosa dicono una volte divenuti adulti. Un campione, uno studio. Dicono, i ragazzi, che avrebbero preferito avere la madre. Vivere in miseria, forse, ma con lei. Della madre avrebbero preferito l’amore di prossimità. Allo stesso modo i nonni di Salonicco che dialogano ogni giorno mezz’ora su Skype col nipote Alex a Cambridge sono tristemente lieti che la tecnologia lo consenta, se non ci fosse Skype non lo vedrebbero neppure sullo schermo, ma non c’è dubbio che preferirebbero toccarlo con le mani. Un altro punto in favore dell’amore di prossimità. E però risale nelle quotazioni l’amore a distanza se lei è francese ed è in Germania per un tirocinio, se lui è svizzero ed è in Kenya per un progetto. Internet consente di mantenere viva la relazione, certo. Ma viva come, con quali esiti. Ecco che fioriscono, nate sul web o dal web tenute in vita, storie d’amore fra individui diversissimi e lontanissimi. Si tratta di un amore immaginato, in cui il corpo sonoro della voce si sostituisce alla carne. L’amore senza sesso. Con una serie di benefici, giacché consente di separare l’amore dalla quotidianità: ciascuno sa come l’eccesso di prossimità possa distruggere l’amore. Devi starmi lontano per restare vicino. Tuttavia arriva un momento in cui la relazione si incarna. Le coppie si incontrano, anche brevemente: convivono. Alla distanza fisica si sostituisce la distanza culturale, etnica, religiosa. La galleria dei casi presi in esame è implacabile. Nel paragrafo dedicato all’alimentazione — “L’amore prende allo stomaco” — si racconta dell’iniziale tolleranza e della successiva indifferenza e poi del reciproco fastidio per le abitudini alimentari tra una tedesca e un ragazzo del Ghana. Per lui stare a tavola non è mai stata un abitudine, si ciba in silenzio e in vari luoghi, in vari momenti del giorno. Per lei cucinare è un piacere che ha molto a che vedere col piacere della carne e della convivenza: godere dello stesso cibo è un tratto essenziale della vita comune. Nel linguaggio domestico valgono le stesse regole: in una coppia turco-tedesca in lite un insulto pronunciato da lui può risultare intollerabile per lei, e viceversa. A partire da diverse regole culturali di base si apprende dunque l’arte della decodifica e della tolleranza, dell’accoglienza. Non è detto, però, che sia per sempre. Piuttosto frequente, anzi, è la “svolta biografica improvvisa”. Il ritorno alle origini di uno dei due, fino a quel momento imprevisto. L’adesione a un credo religioso familiare fino ad allora non praticato, a una tradizione identitaria della quale fino a ieri si sorrideva divertiti pensando a quanto fossero stravaganti i nonni. Da un momento all’altro si è lì, nel luogo dei nonni, per lo sconcerto dell’altro. Di solito accade quando nascono i figli: quando una delle due tradizioni deve prendere il sopravvento per essere tramandata. Il Natale in una coppia ebreo-cattolica. L’educazione della figlia femmina in un incontro fra oriente e occidente. Si osservano – statisticamente rilevati – fenomeni di immediata e intuitiva comprensione. Uno studio sulle unioni tra danesi e giapponesi mostra come la combinazione “marito danese-moglie giapponese” tenda a trascorrere in perfetta armonia mentre l’altra, “marito giapponese-moglie danese”, sia esposta a grandissima turbolenza di medio e lungo periodo. Degli effetti devastanti della matriarca nelle unioni angloindiane abbiamo detto: il regno della suocera è implacabile, e non occorre andare in India per sperimentarlo. In generale esiste un problema della migrazione femminile da Ovest verso Est. Sempre più facile il contrario, essendo la docilità e la sottomissione merci di immediata presa anche nelle culture che formalmente le disconoscono. Interessante poi osservare come le donne iraniane emigrate in Svezia divorzino moltissimo di più delle svedesi. In questo caso vale il principio che assaporare la libertà possibile è inebriante. Al termine di una nutrita casistica di storie di madri indiane in affitto e figli in provetta, unioni omosessuali a distanza di oceani, fratelli messicani divisi negli Stati Uniti da diversi gradienti di legalità, gemelli di madre bianca e padre nero di diverso colore e dunque diversa sorte nell’età adulta, il libro giunge, passando dalla tragedia al sorriso, a una conclusione che lascia intatto il quesito e sposta a un futuro immaginato la sentenza. Il partito dell’amore a distanza mostrerà come l’amore di prossimità mostri un “elevato coefficiente di ottundimento”. Le coppie che convivono più di 15 giorni al mese, si vedrà infatti, mostrano un tasso di divorzio molto più alto rispetto alle coppie che nello stesso arco di tempo praticano l’amore a distanza. L’amore di prossimità, infatti, è noioso e ha effetti vistosi anche sull’amore fisico, inflaccidisce gli organi della riproduzione ed estingue il dialogo. Il partito dell’amore di prossimità mostrerà al contrario come il “coefficiente di estraniazione” dell’amore a distanza sia fino a 107 volte superiore all’altro, paragonerà l’orgasmo reale a quello virtuale ormai possibile su touch screen concludendo la straordinaria superiorità del primo e misurerà il tasso di incidenza sul servizio sanitario pubblico del reciproco accudimento in età avanzata. Fuori dal gioco di cosa accadrà nel 2046, cioè fra poco, resta il fatto che il futuro è già qui. L’amore nell’assenza è il presente: è tutto intorno a noi. Non solo nel mondo globalizzato e non da oggi, direbbe il poeta.Una carrellata che con sguardo attento e segretamente divertito passa in rassegna una moltitudine di possibilità ciascuna delle quali in qualche modo ci riguarda, perché tutti conosciamo una bambinaia che ha lasciato a casa i suoi figli per venire ad accudire i nostri, una coppia di nonni che dialoga su Skype coi nipoti, dei genitori adottivi di bambini arrivati da un altro continente, una coppia di diverso colore, religione, emisfero. Tutti conosciamo l’amore al tempo di internet, l’anonima intimità che consente, la disinibizione che suscita, le conseguenze che provoca. Un saggio sull’amore com’è diventato: come crediamo di sapere che sia e invece guarda che sorpresa, ancora non sappiamo nulla o quasi nulla, ancora non possiamo neppure immaginare come diventerà. Quando nel 2064 le due commissioni di studio in favore dell’amore di prossimità, l’una, e di distanza, l’altra, si contenderanno la palma del modello migliore. Un esilarante epilogo. Si parte dall’osservazione della Standard North American Family: genitori eterosessuali di figli biologici, famiglie in cui il padre procaccia il cibo e che vivono sotto lo stesso tetto. Delle quattro caratteristiche della famiglia standard occidentale del secolo scorso la quarta è stata l’ultima a cadere. I genitori possono essere omosessuali, i figli non biologici, le madri procacciare il cibo a padri e figli dipendenti da loro. Che si possa essere famiglia senza convivere fisicamente è l’ultima novità, la più grande delle trasformazioni recenti. Accade in principio, per esempio, quando l’amore e l’assistenza diventano una merce. Quando le donne che lavorano hanno bisogno di altre donne che si occupino della loro famiglia: accudimento delegato, importato ed esportato. Insegnanti filippine ben istruite che fanno le bambinaie a Parigi: servizi familiari globalizzati che diventano l’oro dei poveri del mondo. Tutti conosciamo l’angoscia che provoca sapere che la bambinaia che si occupa di nostro figlio di tre anni ha lasciato il suo dall’altra parte del mondo. Quello che ora sappiamo, dalle pagine dei Beck, è cosa pensino i figli delle madri che sono partite. Che cosa dicono una volte divenuti adulti. Un campione, uno studio. Dicono, i ragazzi, che avrebbero preferito avere la madre. Vivere in miseria, forse, ma con lei. Della madre avrebbero preferito l’amore di prossimità. Allo stesso modo i nonni di Salonicco che dialogano ogni giorno mezz’ora su Skype col nipote Alex a Cambridge sono tristemente lieti che la tecnologia lo consenta, se non ci fosse Skype non lo vedrebbero neppure sullo schermo, ma non c’è dubbio che preferirebbero toccarlo con le mani. Un altro punto in favore dell’amore di prossimità. E però risale nelle quotazioni l’amore a distanza se lei è francese ed è in Germania per un tirocinio, se lui è svizzero ed è in Kenya per un progetto. Internet consente di mantenere viva la relazione, certo. Ma viva come, con quali esiti. Ecco che fioriscono, nate sul web o dal web tenute in vita, storie d’amore fra individui diversissimi e lontanissimi. Si tratta di un amore immaginato, in cui il corpo sonoro della voce si sostituisce alla carne. L’amore senza sesso. Con una serie di benefici, giacché consente di separare l’amore dalla quotidianità: ciascuno sa come l’eccesso di prossimità possa distruggere l’amore. Devi starmi lontano per restare vicino. Tuttavia arriva un momento in cui la relazione si incarna. Le coppie si incontrano, anche brevemente: convivono. Alla distanza fisica si sostituisce la distanza culturale, etnica, religiosa. La galleria dei casi presi in esame è implacabile. Nel paragrafo dedicato all’alimentazione — “L’amore prende allo stomaco” — si racconta dell’iniziale tolleranza e della successiva indifferenza e poi del reciproco fastidio per le abitudini alimentari tra una tedesca e un ragazzo del Ghana. Per lui stare a tavola non è mai stata un abitudine, si ciba in silenzio e in vari luoghi, in vari momenti del giorno. Per lei cucinare è un piacere che ha molto a che vedere col piacere della carne e della convivenza: godere dello stesso cibo è un tratto essenziale della vita comune. Nel linguaggio domestico valgono le stesse regole: in una coppia turco-tedesca in lite un insulto pronunciato da lui può risultare intollerabile per lei, e viceversa. A partire da diverse regole culturali di base si apprende dunque l’arte della decodifica e della tolleranza, dell’accoglienza. Non è detto, però, che sia per sempre. Piuttosto frequente, anzi, è la “svolta biografica improvvisa”. Il ritorno alle origini di uno dei due, fino a quel momento imprevisto. L’adesione a un credo religioso familiare fino ad allora non praticato, a una tradizione identitaria della quale fino a ieri si sorrideva divertiti pensando a quanto fossero stravaganti i nonni. Da un momento all’altro si è lì, nel luogo dei nonni, per lo sconcerto dell’altro. Di solito accade quando nascono i figli: quando una delle due tradizioni deve prendere il sopravvento per essere tramandata. Il Natale in una coppia ebreo-cattolica. L’educazione della figlia femmina in un incontro fra oriente e occidente. Si osservano – statisticamente rilevati – fenomeni di immediata e intuitiva comprensione. Uno studio sulle unioni tra danesi e giapponesi mostra come la combinazione “marito danese-moglie giapponese” tenda a trascorrere in perfetta armonia mentre l’altra, “marito giapponese-moglie danese”, sia esposta a grandissima turbolenza di medio e lungo periodo. Degli effetti devastanti della matriarca nelle unioni angloindiane abbiamo detto: il regno della suocera è implacabile, e non occorre andare in India per sperimentarlo. In generale esiste un problema della migrazione femminile da Ovest verso Est. Sempre più facile il contrario, essendo la docilità e la sottomissione merci di immediata presa anche nelle culture che formalmente le disconoscono. Interessante poi osservare come le donne iraniane emigrate in Svezia divorzino moltissimo di più delle svedesi. In questo caso vale il principio che assaporare la libertà possibile è inebriante. Al termine di una nutrita casistica di storie di madri indiane in affitto e figli in provetta, unioni omosessuali a distanza di oceani, fratelli messicani divisi negli Stati Uniti da diversi gradienti di legalità, gemelli di madre bianca e padre nero di diverso colore e dunque diversa sorte nell’età adulta, il libro giunge, passando dalla tragedia al sorriso, a una conclusione che lascia intatto il quesito e sposta a un futuro immaginato la sentenza. Il partito dell’amore a distanza mostrerà come l’amore di prossimità mostri un “elevato coefficiente di ottundimento”. Le coppie che convivono più di 15 giorni al mese, si vedrà infatti, mostrano un tasso di divorzio molto più alto rispetto alle coppie che nello stesso arco di tempo praticano l’amore a distanza. L’amore di prossimità, infatti, è noioso e ha effetti vistosi anche sull’amore fisico, inflaccidisce gli organi della riproduzione ed estingue il dialogo. Il partito dell’amore di prossimità mostrerà al contrario come il “coefficiente di estraniazione” dell’amore a distanza sia fino a 107 volte superiore all’altro, paragonerà l’orgasmo reale a quello virtuale ormai possibile su touch screen concludendo la straordinaria superiorità del primo e misurerà il tasso di incidenza sul servizio sanitario pubblico del reciproco accudimento in età avanzata. Fuori dal gioco di cosa accadrà nel 2046, cioè fra poco, resta il fatto che il futuro è già qui. L’amore nell’assenza è il presente: è tutto intorno a noi. Non solo nel mondo globalizzato e non da oggi, direbbe il poeta.