l’Unità 12.6.12
Francia, i socialisti puntano alla maggioranza assoluta Ump: no desistenza anti-Le Pen
I dati ufficiali del primo turno delle legislative rassicurano il presidente Hollande: non ci sarà coabitzione
La sinistra è al 46%, il partito di Sarkò al 34
di Umberto De Giovannangeli
Rieletto già al primo turno il premier Ayrault: più voti domenica «per una svolta durevole» ...
Il centrista Bayrou esce di scena. Il Fronte nazionale ago della bilancia in molti collegi
Obiettivo: maggioranza assoluta. Appuntamento: domenica 17 giugno. Il giorno dei ballottaggi.
«La gauche plus fort»: il titolo di Libération fotografa il risultato del primo turno delle legislative francesi. Un successo che potrebbe trasformarsi in trionfo domenica prossima. «La destra mette in guardia contro uno Stato Ps», titola allarmato il conservatore Le Figaro. Presidenziali e legislative hanno dato un segnale certo: la Francia attraversa la crisi europea senza annaspare, le sirene populiste o le scorciatoie tipo «partito dei pirati» non incantano praticamente nessuno, le estreme fanno un gran polverone come è capitato a Marine Le Pen e Jean-Luc Melenchon ma quando si tirano le somme è alla destra e alla sinistra «repubblicane» che guardano gli elettori.
I socialisti hanno conquistato l’Eliseo e hanno rivinto in questo primo turno delle legislative, la destra ha perso di un paio di punti percentuali la presidenza ed è caduta in piedi nelle politiche, dimostrando una discreta tenuta un po’ ovunque dei suoi leader storici. La battaglia, oggi, è soltanto fra chi vuole che la Francia sia governata dal principale partito di sinistra e chi vi si oppone in modo chiaro, con tutte le sue forze. Sparisce quasi certamente il leader del MoDem Francois Bayrou con le sue sfumature centriste, dopo aver fatto il portatore d’acqua (e di voti) ad Hollande senza trovarsi poi ricambiato. Perde ancora Jean-Luc Melenchon con i suoi rifiuti radicali del sistema, e non sfonderà come sperava la Le Pen, che ha aggiunto molti temi sociali alla tradizionale protesta dell’estrema destra.
Il Partito socialista otterrà la maggioranza assoluta al secondo turno delle legislative francesi di domenica prossima, con una forbice che oscilla tra i 293 e i 323 seggi: è quanto ipotizza una proiezione realizzata ieri dall’istituto Opinionway per Le Figaro e LcI. Sempre secondo lo stesso sondaggio, l’Ump, il partito di centrodestra dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, otterrà tra i 218 e i 248 seggi, Europe Ecologie-Les Verts, tra i 15 e i 20 seggi, il Front de Gauche di Jean Luc Melenchon, che nel primo turno è stato eliminato dalla corsa a Henin-Beaumont, tra i 13 e i 18 seggi, il Fronte Nazionale e il partito centrista Modem, tra 0 e 2 seggi. Se queste proiezioni verranno confermate, il rapporto sinistra-destra all’Assembléè Nationale sarà ampiamente favorevole alla gauche, con una forbice di 321-361, contro i 218-250 della destra.
SFIDE INCROCIATE
Dalle proiezioni, ai risultati ufficiali del primo turno: Sinistra (Socialisti, Verdi e Front de Gauche) 46,77%. Destra (Ump e alleati) 34,07%. Fronte nazionale 13,6%. Astenuti: 42,77%.
In vista dei ballottaggi, s’intrecciano gli appelli. Cordone sanitario contro il Fronte Nazionale: il Ps ha lanciato un appello alla destra moderata dell’ex presidente Nicolas Sarkozy (Ump) affinchè si ritiri dalla corsa elettorale quando i suoi candidati si sono piazzati dietro a quelli della gauche e dell’estrema destra, in vista del secondo turno delle legislative del 17 giugno, e ha annunciato che farà lo stesso. «Chiedo all’Ump (destra) di essere chiara. Siamo in una Repubblica, molti ci guardano, in Francia, ma anche in Europa, credo che bisogna essere chiari quando si difendono un certo numero di valori e quando si vuole essere degni del nostro Paese», dichiara la segretaria generale del Ps, Martine Aubry, annunciando il ritiro della candidata socialista da una circoscrizione della Vaucluse (sud). Quest’ultima si è piazzata dietro alla candidata dell’estrema destra, Marion Le Pen-Marèchal (nipote della leader dell’estrema destra Marine Le Pen) e quello della destra. Il ritiro del candidato socialista dovrebbe avvantaggiare il candidato dell’Ump e impedire la vittoria del Fronte Nazionale (Fn). Immediata la risposta dell’Ump.
Il partito di Sarkozy non darà indicazioni di voto in caso di ballottaggio tra un candidato della sinistra e un candidato del Fronte Nazionale nel secondo turno delle legislative francesi di domenica prossima. È quanto riferisce all’agenzia France Presse una fonte del partito, al termine della riunione interna dei principali dirigenti della formazione neo-gollista. «Non chiederemo di votare per il Front national né di votare per il candidato socialista», conferma in serata il segretario generale dell’Ump, Jean-François Copé.
La conquista della Camera Bassa per la prima volta in un decennio sarebbe un trionfo per la sinistra che già controlla il Senato e il 17 maggio è entrata all’Eliseo. «Sta cominciando il cambiamento», sottolinea il premier, Jean Marc Ayrault. «Ma tutto dipende da domenica», ha poi aggiunto cauto. Se i risultati dovessero essere confermati, lo status di Hollande che giovedì incontra a Roma il presidente del Consiglio, Mario Monti uscirà rafforzato in vista del summit del G20, in Messico, il 18 e 19 giugno, e del braccio di ferro con la cancelliera tedesca Angela Merkel per promuovere la crescita nell’Eurozona.
l’Unità 12.6.12
Esodati, la bugia di Fornero: sono 390mila
Scandaloso balletto di cifre
di Pietro Spataro
Il documento è stato protocollato in uscita dall’Inps il 22 maggio. Ed era quindi a conoscenza di Elsa Fornero alla firma del decreto interministeriale sui 65mila che è stato firmato dalla ministra il 23 maggio
QUESTA VOLTA ELSA FORNERO HA SUPERATO SE STESSA: HA MENTITO AL PAESE. E ha mentito su un argomento che brucia sulla pelle di tanti lavoratori, stravolge la loro vita e sconvolge la serenità del loro futuro. Un ministro che tiene chiuso in un cassetto un dossier scottante come quello sugli «esodati» e che, pur conoscendo le cifre ufficiali certificate dall'Inps, continua a insistere su un numero di gran lunga più basso, compie sicuramente un atto grave.
Che incrina il rapporto di fiducia e di rispetto che deve esserci sia con le parti sociali che con i partiti che compongono la «strana maggioranza» che sostiene il governo. In questo modo, insomma, si compromette seriamente il patto di lealtà politica.
Il caso degli esodati è uno degli effetti collaterali più iniqui della riforma del sistema pensionistico approvata dal governo di Mario Monti. Stiamo parlando di lavoratori che avevano concordato un percorso verso la pensione (concordato, si badi bene, con le aziende e con l’Inps) sulla base di una normativa vigente e che, all’improvviso, si sono ritrovati in mezzo al guado: senza più lavoro e senza possibilità di assegno pensionistico. L’allungamento dell’età, infatti, li ha ricacciati in una sorta di terra di nessuno senza alcun diritto e senza alcun sostegno. Non si tratta di "furbetti", ma di persone che erano al lavoro e hanno accettato la cassa integrazione, la mobilità, hanno subito il licenziamento oppure hanno firmato accordi di fuoriuscita che gli consentivano di pagarsi i contributi volontari per arrivare alla pensione. In molti casi lo hanno fatto convinti da aziende in stato di crisi, che in questo modo hanno alleggerito i loro organici. Quel patto tra lavoratore, Stato e imprenditore è stato stracciato con una leggerezza impressionante.
Ma più impressionante ancora è il modo in cui il ministro Fornero ha gestito una vicenda umana delicatissima. I sindacati, il Pd e il centrosinistra sin dall’inizio avevano lanciato l’allarme sulle reali dimensioni della platea interessata a quel drastico taglio. Di fronte alla cifra di 330-350 mila lavoratori indicata da Cgil, Cisl e Uil e che oggi appare persino drammaticamente sottostimata il ministro ha sempre scrollato le spalle. Accusò addirittura, appena un mese fa, «chi ironizza» sui ritardi nel calcolo esatto degli aventi diritto: «Vengano a vedere le difficoltà degli screening che stiamo facendo», disse con tono perentorio. Quali fossero questi screening non è dato sapere. Sappiamo, invece, che alla vigilia dell’approvazione del decreto nella sede di via Veneto è arrivato il dossier dell’Inps con quel numero drammatico (390.200) e che il ministro lo ha tenuto segreto, prevedendo una copertura solo per 65 mila lavoratori. Una grave, persino irresponsabile, scorrettezza. Avremmo preferito un discorso di verità: non ci sono i soldi per tutti, per il momento salviamo quelli che possiamo, nei prossimi mesi faremo di tutto anche per gli altri. Si è adottato invece un escamotage che non ha niente di tecnico e che finiva per lasciare il conto al prossimo governo. Che sarebbe stato costretto a intervenire, magari subendo anche l’accusa di aumentare la spesa pubblica da parte di qualche solerte commentatore di fede liberista.
Ma ora il dossier uscito dagli uffici dell’Inps mette fine all’indecente balletto dei numeri. Che ormai diventa di scarso interesse di fronte a un decreto già fortemente restrittivo e che contiene un grave errore di impostazione: partire dalle risorse per definire i numeri. Un percorso tanto più ingiusto se si pensa che il taglio alle pensioni è stato il più drastico tra quelli operati dal governo Monti. E allora, qualunque sia la cifra reale degli esodati, il governo deve assicurare subito che a tutti sarà garantito il diritto sacrosanto di andare in pensione. In Parlamento sono depositate proposte di legge che vanno in questa direzione e che il ministro potrà facilmente consultare. Non ci sono le risorse? Si devono trovare: usando, per esempio, i risparmi della spending review, una più efficace lotta all’evasione fiscale oppure mirate dismissioni. Quel che non si può accettare è che ci sia anche un solo lavoratore che alla fine resti senza salario e senza pensione. Perchè questo non è soltanto eticamente disdicevole o pesantemente iniquo ma è un colpo grave alla credibilità dello Stato.
l’Unità 12.6.12
Susanna Camusso:«Responsabilità anche di Monti, deve trovare i soldi»
Il segretario Cgil: lo avevamo detto, ma non siamo stati ascoltati. Ora mettano rimedio con una norma generale che valga per tutti
di Laura Matteucci
«Al di là del gioco di conferme e smentite, che gli esodati siano molti di più dei 65mila indicati dal decreto e finora salvaguardati, lo sappiamo da lungo tempo. Infatti, di quel decreto abbiamo dato subito un giudizio di totale insufficienza. Lo dicemmo chiaro anche alla prima manifestazione organizzata a favore degli esodati». La segretaria Cgil Susanna Camusso non entra nel merito dell’ultimo grottesco balletto dei numeri degli esodati: l’Ansa sostiene di avere in mano la relazione dell’Inps che, già a maggio, parlava di 390.200 persone, l’Inps smentisce, l’agenzia di stampa conferma. E il ministro Elsa Fornero tace, per poi però convocare in tutta fretta i vertici dell’Inps. «Nei passati confronti col governo, abbiamo sempre avuto il sospetto che avesse in mano numeri ben diversi da quelli che annunciava ufficialmente. Ma il punto dice Camusso è un altro».
Come si interviene? Ci vuole una misura emergenziale?
«Posto che la logica dei numeri non ci porta da nessuna parte, e che l’unica strada è partire dalla realtà, bisogna dire con chiarezza che tutte le persone che hanno sottoscritto, a vario titolo, accordi a norma di legge prima che questa legge gli venisse cambiata sotto gli occhi, hanno il diritto di andare in pensione con i criteri ante-riforma. A prescindere dal numero. Si parla di un arco temporale che va da qui al 2017, quindi c’è la possibilità di diluire meccanismi e risorse. Ma serve una norma generale, che valga per tutti e che ovviamente comprenda il fabbisogno necessario per finanziarla».
Ecco, appunto: dove si trovano i soldi? Dalla riforma delle pensioni, come consiglia Bonanni, visto che farà risparmiare 40 miliardi in 10 anni?
«Li trovino dalla riforma delle pensioni, da una patrimoniale, dai capitali scudati, da quelli che potrebbero tornare dalla Svizzera, li trovino dove vogliono. Di sicuro, non è pensabile continuare ad agire su pensionati e dipendenti. Il tema non è che mancano le risorse, ma che questo governo ha deciso di andare avanti solo sui tagli. Di investimenti non se ne vedono, sanno solo tagliare, nell’idea che si possa continuare tartassando i lavoratori dipendenti».
Dopo il decreto per i 65mila, dissolvenza: degli esodati Fornero non ha più parlato. Non è che sperano di scaricare il problema sulla prossima legislatura? «Fornero pensa di aver esaurito la questione. È chiaro che la cosa più civile sarebbe che riaprisse subito il confronto. Di sicuro, la norma di cui parlavo prima la deve fare questo governo». La manifestazione Cgil, Cisl e Uil di sabato prossimo sui temi del welfare e del fisco a questo punto viene reimpostata? «Resta su welfare e fisco, ma certamente ci saranno anche gli esodati. L’appuntamento è per tutti».
Secondo lei, errori così clamorosi potrebbero motivare le dimissioni di Fornero?
«Non è utile personalizzare, questa è una vicenda di cui è responsabile l’intero governo. Perché le politiche economiche sono una scelta collettiva, non certo di un singolo ministro. Comunque, sul tema esodati Fornero aveva pur ammesso di avere sbagliato. Sarebbe bene ne traesse le conseguenze, e trovasse finalmente una soluzione definitiva. Per tutti».
Da un lato il lavoro che fa fatica, tra esodati, disoccupati, rassegnati, e dall’altro il decreto sviluppo che ancora arranca: il governo è all’impasse?
«Tutto ruota intorno a questi temi, e al fatto che il governo non fa politiche di crescita per il Paese. Si occupa e preoccupa solo della riduzione del debito, ma le operazioni per raggiungerla determinano un aumento progressivo della recessione, che ormai nemmeno la politica dei tagli riesce più a frenare. Non c’è più tempo, le politiche del governo devono cambiare direzione immediatamente».
Il sindaco di Milano Pisapia si è dimesso da commissario straordinario dell’Expo 2015, anche lui in polemica con la mancanza di investimento, operativo e finanziario, da parte del governo.
«Il senso di questa protesta va assunto in modo positivo. Pisapia ha ragione, il Paese non si può permettere di perdere una opportunità di crescita come quella rappresentata da Expo, tanto più dopo averla voluta e cercata. Anche su questo tema, però, c’è un governo che sceglie la logica del non rispondere e del non fare».
La Stampa 12.6.12
Intervista
“Situazione iniqua e ingestibile, il governo deve rimediare”
Damiano: sui numeri io credo all’Inps
di R. Gi
Posso ben dire che io l’avevo detto». Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, Pd, sul numero degli «esodati» chiede al governo di riferire in Parlamento, «viste queste indiscrezioni su una relazione dell’Inps, consegnata prima dell’emanazione del decreto, che parla di 390.200 persone senza lavoro e pensione».
Che è un numero attendibile...
«Se l’Inps dice 390.000, noi ovviamente crediamo all’Inps. E alla sua formidabile banca dati. È da dicembre che abbiamo sollevato il problema, perché era evidente che la riforma delle pensioni conteneva l’errore di abolire in un colpo solo le «quote di anzianità», che avevo introdotto da ministro nel 2007. Così centinaia di migliaia di persone hanno visto allontanarsi la pensione di cinque o sei anni, restando senza retribuzione, senza ammortizzatori sociali e senza pensione. Una cosa socialmente iniqua e ingestibile. Avevamo avvertito il governo, e dopo una dura battaglia parlamentare abbiamo ottenuto una risposta almeno per 65.000 persone, ma non basta».
Ma perché solo 65.000?
«Perché sono partiti dalle risorse disponibili, e le hanno tradotte in numeri.
E così un diritto che c’è o non c’è è stato forzato, e legato alle risorse che c’erano. Risultato, il decreto è assolutamente restrittivo: stabilisce che per avere le vecchie regole pensionistiche i lavoratori dovevano essere già in mobilità, producendo una vera e propria decimazione. Faccio presente che accordi come quello di Termini Imerese, per citare un caso che riguarda 650 persone, e molti altri simili saranno esclusi nonostante siano stati stipulati precisi accordi in sede ministeriale. Un controsenso inaccettabile».
Si era parlato di un disegno di legge per rimediare. A che punto è?
«Come Pd abbiamo presentato ordini del giorno, approvati da governo e Parlamento. Li abbiamo tradotti in emendamenti al Milleproroghe, e abbiamo risolto per i 65000. Ora c’è una proposta di legge per spostare la data per la stipula degli accordi di mobilità dal 4 al 31 dicembre 2011, e per fissare un’interpretazione più favorevole ai lavoratori per la maturazione del diritto alla pensione entro i due anni che vanno dal 6 dicembre 2011 al 6 dicembre 2013. Questa proposta di legge, di cui sono primo firmatario, ora è promossa da tutti i partiti di maggioranza; inoltre Lega e Idv hanno presentato progetti analogi. Stiamo verificando ora, con loro e con i sindacati, eventuali correttivi al nostro ddl, per poi approvarlo in Parlamento rapidamente. È chiaro che il nodo fondamentale resta quello delle coperture finanziarie».
Serviranno tantissimi soldi. Per i 65.000 ci vogliono 5 miliardi per i prossimi sette anni. Dove troverete risorse per 390.000 persone?
«Noi facciamo riferimento ai conti della Ragioneria, formulati quando fu varata la riforma. Si calcolò che abolendo le quote di anzianità si sarebbero prodotti risparmi a regime (dal 2017) per 4 miliardi l’anno, ma zero risparmi per il 2012 e 300 milioni per il 2013. Le cifre sono queste. Resta il fatto che nonostante questa girandola di dati, di conferme e di smentite, il presidente del Consiglio Monti ha detto che “nessuno sarà lasciato solo”. Il ministro Fornero lo ha ammesso: “abbiamo sbagliato”. Il ministro Giarda ha confermato in Aula che il governo intende affrontare e risolvere il problema. Lo aspettiamo alla prova dei fatti. È una priorità del paese: si faccia tutti uno sforzo per risolvere la questione».
Corriere 12.6.12
Una vicenda dolorosa che tocca un governo esposto su altri fronti
di Massimo Franco
I calcoli dell'Inps sul numero dei cosiddetti «esodati», le persone ultracinquantenni espulse dal mercato dal lavoro e non ancora mandate in pensione perché la riforma non ha previsto il loro caso, sono un monito pesante. Rimettono il governo dei tecnici sotto riflettori accecanti. E gettano una luce negativa sul modo in cui soprattutto il ministro del Welfare, Elsa Fornero, ha preparato la riforma che finora è stata considerata il maggior risultato ottenuto dall'esecutivo. Finora si era finto che il problema riguardasse 65 mila persone. Ieri è spuntata la cifra di 390 mila 200 «potenziali esodati», fornita dall'Istituto nazionale per la previdenza sociale.
La novità pone a Palazzo Chigi non solo il problema di sanare questa anomalia ingiusta. Lo costringe a fronteggiare le proteste di opposizioni e alleati, che vedono in quanto accade la conferma dei propri dubbi. Si tratta di una questione spinosa, sulla quale finora nessuno è stato in grado di offrire certezze. Fra l'altro, le polemiche accentuano le riserve sulla competenza della categoria dei «tecnici»; e le resistenze sia a cambiare i vertici della Rai, col Pd defilato, che i rapporti fra politica e magistratura, col Pdl in tensione.
Oltre tutto, la notizia arriva nel giorno in cui la stampa statunitense si aggiunge a quella anglosassone, spargendo pessimismo sulla possibilità del premier di risolvere la crisi italiana; e mentre lo spread, la differenza fra titoli di Stato italiani e tedeschi, ricresce fino a 474 punti. Il risultato è un'altalena tra i riconoscimenti al premier degli interlocutori europei; e le diffidenze che accompagnano l'azione del suo governo mentre è in atto, avverte il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, un attacco all'Europa. «La dura sfida cui è sottoposta la moneta unica è una sfida all'intera Ue. Ne abbiamo avuto ancora prova». La bocciatura in Borsa del salvataggio delle banche spagnole dice che la speculazione finanziaria non darà tregua.
Questo sfondo internazionale moltiplica le resistenze che Monti incontra sul piano interno. L'accordo di ieri con i Comuni prevede che dal 2013 l'Imu, la tassa sugli immobili che ha sostituito l'Ici, tornerà per intero di competenza degli enti locali. Si tratta di un fattore di chiarezza, che responsabilizza i sindaci. Ma dopo il pagamento della prima rata di Imu bisognerà capire come cambierà la legge in concreto. Insomma, cresce il rischio di una confusione generale. L'ultima tegola sono le dimissioni del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, da commissario per l'Expo universale del 2015. «Auspico un opportuno ripensamento», gli dice il premier. Ma sembra di assistere a una fuga dalle responsabilità.
il Fatto 12.6.12
Il Fatto è stato il primo giornale ad accorgersi degli “esodati”
Sei mesi di guerra sui numeri dei “senza lavoro e senza pensione”
Il Fatto è stato il primo giornale ad accorgersi degli “esodati”. Nel dicembre del 2011, a riforma pensioni ancora calda, erano già evidenti le “vittime” della manovra, “dimessi dall'azienda e ora senza pensione”. Non c'erano numeri allora, solo testimonianze: l'allarme cade nel vuoto. Solo il 19 marzo del 2012, a un convegno del Sole 24 Ore, il ministro Fornero “ammette” che il numero dei lavoratori “usciti dalle aziende in vista di un traguardo previdenziale che si è allontanato con la riforma di Natale è molto superiore a quello preventivato”. Fonti non ufficiali ma attendibili dell'Inps iniziano a far circolare la cifra di 350 mila lavoratori coinvolti dalle nuove norme ma il governo insiste nel dire che non si va oltre i 50 mila, generando proteste e anche una partecipata manifestazione sindacale il 13 aprile. Due giorni prima, l'11 aprile, il direttore generale dell'Inps, Mauro Nori, intervenendo alla Camera parla di 130 mila, escludendo coloro che versano i contributi volontariamente. Il ministero del Lavoro lo costringe a una rettifica così come ha fatto ieri sera dopo che è stato diffuso il documento Inps che dà l'ultima cifra: 390.200 lavoratori rimasti nel limbo della riforma pensionistica.
il Fatto 12.6.12
Il governo sapeva: 390mila esodati, ma ne ha salvato solo 65mila
Nuovo scontro tra i dirigenti Inps e la Fornero
di Salvatore Cannavò
Il caos nel governo si riflette anche nei numeri degli “esodati”. Ieri l'Ansa ha rivelato un documento inviato dall'Inps al ministero del Lavoro a fine maggio, quindi prima del decreto ministeriale, in cui l'istituto previdenziale faceva le proprie stime sui lavoratori che avrebbero diritto ad andare in pensione con le vecchie regole previdenziali: 390.200 persone mentre il governo ne “salvaguarda” solo 65 mila. L’estensore del documento, il direttore generale dell'Inps Mauro Nori, cerca di smussare smentendo di aver fornito una stima diversa da quella del ministero del Lavoro. Ma senza limitare i danni di immagine, tanto che il ministero convoca d'urgenza in serata i vertici dell'Inps, presidente e direttore generale, per chiarire la situazione.
I numeri reali sono quelli diffusi dall'agenzia di stampa e se il governo può individuare numeri più bassi è solo grazie ai “criteri restrittivi nell'interpretazione delle norme”, messi a punto dalla Ragioneria dello Stato e “imposti” al ministero del Lavoro il quale, su questa base, ha definito la platea dei lavoratori da salvare. Sapendo di sacrificarne centinaia di migliaia.
A FAR LIEVITARE i numeri, si legge nella relazione pubblicata dall'Ansa, ci sono 133 mila posizioni autorizzate a versare contributi volontari con ultimo contributo antedecente alla data del 6 dicembre 2011 (decreto Salva Italia). Poi ci sono i “cessati”, cioè coloro che sono usciti dall'attività per dimissioni, licenziamento o altre cause, tra il 2009 e il 2011, hanno più di 53 anni e che non si sono rioccupati (180 mila). Il governo, invece, per queste categorie ha previsto, rispettivamente 10.250 e 6.890 “salvaguardati”.
Ma secondo l'Inps i numeri sono molto più consistenti di quelli del ministero anche per la mobilità (45 mila invece di 29.050), per i fondi di solidarietà (26.200 contro 17.710) e per i beneficiari del congedo straordinario per l'assistenza ai figli gravemente disabili (3.330 contro 150). Per quanto riguarda la mobilità la differenza dipende se si sceglie come data che fa scattare il diritto il 4 dicembre 2011 (come prevede il governo) oppure il 31 dicembre.
Mauro Nori, che ha precisato di non aver “fornito numeri diversi” da quelli del governo, è lo stesso che a metà aprile aveva tenuto, come direttore generale dell'Inps, un'audizione parlamentare in cui forniva la cifra di 130 mila lavoratori da tutelare, escludendo quelli soggetti a regime di contribuzione volontaria (stimati in 200 mila). Ora le cifre mutano ancora, ma non di molto. E i numeri dell’Inps stridono sempre di più con quelli di Elsa Fornero. Che ha già ammesso qualche settimana fa di aver sbagliato: “Tutti sbagliamo ma quando siamo stati chiamati al governo il Paese era sull'orlo del baratro”. E quindi non si poteva sottilizzare.
PREVEDIBILE, quindi, in questo contesto, l'allarme dei sindacati che chiedono, come fa la Cgil, di “non giocare con i numeri” e, come esige la Cisl, “di essere convocati immediatamente”. Mentre i distinguo politici non si esaurisono solo a quelli dell'Idv che, con Antonio Di Pietro e Maurizo Zipponi, definisce “irresponsabile e antisociale” l'azione del governo Monti” ma provengono anche dal Pd che, con Cesare Damiano, ex ministro del governo Prodi, giudica “sconcertante che la cifra di 390 mila lavoratori che rimangono senza stipendio e senza pensione fosse a conoscenza del governo prima della emanazione del decreto interministeriale”. Con il decreto Sviluppo bloccato e con lo scontro interno all'esecutivo sembra difficile che le risorse vengano reperite. Circola anche il sospetto che su questi numeri si stia consumando quella partita di potere tra governo e alta burocrazia ministeriale esplicitata nel botta e risposta su Repubblica tra Eugenio Scalfari e Mario Monti. Con il premier costretto a difendere, ma senza esagerare, anche il vertice della Ragioneria dello Stato, Mario Canzio. Resta un dato: il governo “tecnico”, che avrebbe dovuto fare faville proprio sui numeri, si dimostra incapace di gestire una difficoltà che a questo punto è tutta politica. E sociale.
il Fatto 12.6.12
Eutanasia di un governo
di Stefano Feltri
Mentre l'Italia torna in cima alla lista delle prossime vittime dell'euro, come a novembre 2011, il governo Monti sperimenta una caotica immobilità. Abbandonate le grandi riforme, quasi esaurita la mediazione europea sulla crescita, l'esecutivo oscilla tra vittimismo e forzature. Il premier denuncia l'abbandono dei poteri forti, ma si sentono assai più soli i lavoratori esodati. L'Inps aveva scritto a Elsa Fornero che le vittime della riforma, senza lavoro e senza pensione, sono 390 mila. Il ministro conosce il problema da mesi, ma insiste: i soldi ci saranno solo per 65 mila persone, ribattezzate quindi “salvaguardati”. Per la Fornero gli altri sono poco più di un errore statistico. Se ne potrebbe occupare il premier, magari chiedendo le dimissioni del ministro delLavoroodelpresidentedell'Inps Mastrapasqua, dopo aver verificato i numeri. Invece Monti ha altre priorità. Sfida i partiti imponendo una riforma di fatto della Rai, tecnici esterni ai vertici che gestiscono i soldi senza rispondere al cda e ai partiti, poi si confronta con il vero potere forte che finoralohasostenuto,laburocrazia ministeriale incarnata dal sottosegretario Antonio Catricalà. Eugenio Scalfari su Repubblica gli chiede conto della “paralisi governati-va” dovuta ai burocrati, dal ragioniere dello Stato Mario Canzio che blocca il decreto sviluppo di Corrado Passera al capo di gabinetto del Tesoro Vincenzo Fortunato, per non parlare dello stesso Catricalà che tenta a sorpresa riforme berlusconiane del Csm e riesce a piazzare il chiacchierato Pasquale De Lise, all'autorità dei Trasporti. Monti risponde che quei tre li ha ereditati dal governo precedente (quota Gianni Letta) e che se esagerano può cacciarli. Il sociologo Emile Durkheim introdusse la categoria del suicidio egoistico per chi si toglie la vita schiacciato dal proprio fallimento. Gli ultimi giorni potrebbero perfino suggerire che Monti stia cercando il suicidio politico. Magari per essere risarcito in una vita futura, ma non lontana, nel paradiso del Quirinale.
Corriere 12.6.12
La corsa della spesa pubblica: cresce di 40.000 euro al minuto
Gli sprechi: al Sud tutti i lavoratori agricoli con indennità da disoccupati
di Sergio Rizzo
ROMA — Più lenti in tutto fra i Paesi europei, siamo invece imbattibili per velocità quando si tratta di spendere denari dei contribuenti. Dice la Commissione europea che fra il 2000 e il 2012 la spesa pubblica è aumentata di 250,7 miliardi. Al ritmo, calcola la Confartigianato, di 2 milioni 384.808 euro l'ora. Ovvero, 39.747 euro al minuto, 662 ogni secondo che passa.
Tutto questo, ovviamente, compresi gli interessi che l'Italia paga sul terzo debito pubblico al mondo. Ma che influiscono fino a un certo punto. Tanto è vero che togliendo quella voce il ritmo di crescita si riduce di una manciata di monete, calando appena a 38.420 euro al minuto.
Se il peso della spesa pubblica totale sul Prodotto interno lordo è salito in dodici anni del 5,5%, quella al netto degli interessi è lievitata del 5,1%, contro il 3,5% della media dell'eurozona. In Germania, per fare un paragone, è addirittura diminuito dello 0,6%. Da questi semplici dati si capisce l'urgenza di ridimensionare un fardello diventato ormai insostenibile.
Ci rendiamo conto che non è facile, se il governo di Mario Monti conta realisticamente di tagliare, grazie all'aiuto della spending review, non più di 4,2 miliardi su 809: lo 0,5%. Non è facile, ma resta il fatto che lo strato di adipe accumulatosi in questi anni è davvero imponente. Troppo. Basta dire che ogni anno si spendono più di 168 miliardi di euro in acquisti di beni e servizi. Una cifra lievitata del 35,1% fra il 2001 e il 2011, arrivando a toccare il 10,8 per cento del Pil.
E il bello è che il grasso in eccesso si annida anche dove sembra il contrario. L'Italia, per esempio, è uno dei Paesi europei meno generosi con chi ha perduto il lavoro, ma riesce a sprecare una bella fetta dei pochi soldi stanziati per dare sostegno a quanti si trovano in questa triste condizione. Succede con l'indennità di disoccupazione in agricoltura, che funziona con meccanismi tali da scoraggiare il lavoro regolare, incentivando il lavoro nero e le truffe. Ne hanno diritto, con parametri che arrivano fino a un massimo del 66% della retribuzione, coloro che risultano aver lavorato almeno 51, 101 o 151 giorni. Negli ultimi otto anni questo capitolo è costato un miliardo 680 milioni, a fronte di 7 miliardi 476 milioni che hanno rappresentato i sussidi totali ai senza lavoro. Con il 3,7% di tutti gli occupati italiani, l'agricoltura assorbe il 22,5% della spesa per indennità di disoccupazione. E quasi tutta al Sud. Sapete quanti sono i beneficiari di un trattamento di disoccupazione agricola nelle Regioni meridionali? Lo scorso anno erano 412.288, cioè il 79,6% del totale nazionale (518.132). Ossia 23 volte più che nel Nord Ovest (17.426), otto più che nel Nord Est (51.141) e undici più che nel Centro Italia (37.277).
Il fenomeno che racconta un dettagliato rapporto della Confartigianato messo a punto in vista dell'assemblea dell'organizzazione prevista per oggi, è semplicemente pazzesco: su 100 occupati nel settore agricolo, 60,9 hanno un trattamento di disoccupazione. Nel Sud ce ne sono addirittura 97,5. Il che significa che pressoché tutti i lavoratori agricoli del Mezzogiorno percepiscono un sussidio spettante a chi resta senza lavoro.
E ad alzare la media sono soprattutto le disoccupate. Se nelle Regioni meridionali ci sono 67,8 disoccupati maschi, i sussidi erogati alle donne sono addirittura 164 ogni 100 lavoratrici. Centosessantaquattro. Misteri della statistica: forse non si fa riferimento a persone in carne e ossa ma a unità di lavoro teoriche occupate tutto l'anno. Ma questo è un problema che riguarda, sia pure con differenti intensità, l'intero Paese. La media italiana è di 104,7 trattamenti di disoccupazione per ogni cento donne impegnate in agricoltura. Risultato, ogni lavoratore agricolo produce in Italia un disavanzo fra contributi versati per sostenere tale ammortizzatore sociale e prestazioni erogate, pari a 1.841 euro. Venti volte maggiore che negli altri settori economici, dove è di 89 euro.
Qui qualcosa decisamente non va. Lo sanno tutti e lo sanno da tempo. L'hanno svelato le inchieste giudiziarie sulle cosche mafiose, sulle truffe all'Inps, sui lavoratori e le lavoratrici fantasma che coltivavano terreni fantasma. Il rapporto della Confartigianato non a caso cita una relazione di quattro anni fa del ministero del Lavoro, nella quale si parla apertamente di «distorsioni e comportamenti collusivi, tali da ingenerare una abnorme concentrazione delle giornate di lavoro dichiarate intorno alle fatidiche cifre». Cioè 51, 101 e 151. Magari ci sarà stato pure qualcuno che se li è giocati al lotto quei numeri. Mentre evidentemente, se i dati sono ancora questi, nessuno ha provveduto a cambiare in profondità regole che consentono abusi del genere.
Certo parliamo di somme ridicole, confrontate al volume, enorme, della spesa pubblica. Per avere un'idea, i soldi spesi in otto anni per la disoccupazione agricola in Italia nemmeno bastano a pagare gli stipendi dei dipendenti della Regione siciliana. Vi chiederete: che cosa c'entrano quei sussidi con le buste paga regionali? C'entrano eccome. Diciamo che pure in alcune Regioni il confine fra la busta paga pubblica e l'assistenzialismo è piuttosto labile. Per non dire inesistente.
Pochi sanno, per esempio, che oltre ai suoi circa 20 mila dipendenti la Regione siciliana retribuisce anche 27 mila fra precari e persone impegnate in «progetti di pubblica utilità» prevalentemente presso i Comuni. Di fatto, si tratta di sussidi di disoccupazione mascherati, come ha fatto chiaramente capire la Corte dei conti in una recentissima relazione. E anche sulla pletora di impiegati regionali ci sarebbe da discutere. La Sicilia è una Regione a statuto speciale, vero: ma questo basta a giustificare una spesa di 346 euro a carico di ogni siciliano per mantenere i dipendenti di quell'ente, contro i 66 euro di due Regioni non certo considerate fra le più virtuose d'Italia, come la Calabria e la Campania? E non parliamo del confronto con la Lombardia, dove i dipendenti regionali costano 23 euro procapite. Stando ai dati del rapporto della Confartigianato, la Regione siciliana spende per stipendi il 75% di tutte le quindici Regioni a statuto ordinario messe insieme: un miliardo 748 milioni contro 2 miliardi 316 milioni.
Corriere 12.6.12
Crescono gli euroscettici, sono arrivati a quota 65%
di Renato Mannheimer
Tutta l'Europa — ma, in particolare, gli Stati del Sud del continente — è preoccupata per la crisi dell'Euro. La nostra moneta unica vive, come si sa, gravi difficoltà e sono in molti ad ipotizzare come possibile lo scenario più disastroso: il crollo dell'euro o l'uscita dalla moneta unica di uno o più Paesi. Per quel che ci riguarda più direttamente, la gran parte degli italiani è ancora fiduciosa: l'80% ritiene improbabile che l'Italia finisca (o venga costretta) con l'abbandonare l'euro. Ma più di un cittadino su dieci già vede come molto probabile questa prospettiva.
Ciononostante, a causa delle vicende di questi mesi (e nella previsione dei momenti più difficili che si intravedono nelle prossime settimane) la fiducia dei nostri concittadini nella moneta unica è letteralmente crollata. Già poco più di una settimana fa, alla fine di maggio, il 55% degli italiani manifestava poco affidamento nella moneta unica. Oggi questa percentuale si è elevata sino al 71%. Insomma, la netta maggioranza della popolazione non ha più fiducia nella moneta che circola nel nostro Paese. Sono particolarmente scettiche le persone appartenenti ai ceti meno centrali socialmente: gli anziani, le casalinghe, i possessori di titoli di studio meno elevati, i residenti al Sud. E, non a caso, i più sfiduciati dalla politica e tentati (o decisi) dall'astensione.
Parallelamente si è venuta, già da diversi mesi, comprimendo la fiducia verso l'Ue. Da una nazione euroentusiasta, come eravamo al momento del varo dell'Unione, siamo progressivamente diventati in questi ultimi tempi, un popolo euroscettico. Oggi circa il 65% degli italiani esprime perplessità verso l'UE e, richiesti sull'opportunità di un'eventuale uscita dell'Italia da quest'ultima, ben il 35% si dichiara molto o abbastanza favorevole (questo e altri dati qui riportati sono tratti dall'Osservatorio ISPO-Genertel sugli atteggiamenti degli italiani verso l'Euro). Tutto ciò non significa che siamo necessariamente pentiti dell'adesione, compiuta faticosamente a suo tempo, alla moneta unica: secondo sei italiani su dieci «il passaggio all'euro andava fatto e non si deve tornare indietro». Ma il restante 40% non è d'accordo e manifesta la propria scontentezza per l'introduzione della moneta unica. Facendo un bilancio di tutta l'esperienza dell'euro sono ancora di più coloro che concludono con un giudizio negativo: quasi il 70% arriva ad affermare (secondo l'opinione di chi scrive, sbagliando gravemente) che «l'introduzione dell'euro ha portato più svantaggi che vantaggi per l'economia italiana».
Che fare, allora? Sono in molti coloro che attribuiscono all'esistenza della moneta unica (e, in particolare, al conseguente stretto legame con le altre nazioni europee e, specificatamente, con la Germania) molte responsabilità per l'attuale crisi economica. Tanto che una percentuale non irrilevante di italiani, quasi uno su tre, è del parere che «sarebbe meglio tornare alle vecchie lire». Un'ipotesi che, come sappiamo, ci porterebbe ad una situazione ancora peggiore. Gli italiani ne sono consapevoli: per il 70% abbandonare l'euro avrebbe conseguenze molto negative. Ciononostante, come si è visto, questa ipotesi viene caldeggiata da una parte significativa della popolazione, con una accentuazione, ancora una volta, tra i ceti più deboli e meno informati.
Nel loro insieme, questi dati mostrano come anche nel nostro Paese si vada diffondendo un pericoloso atteggiamento euroscettico, se non, addirittura, ostile alla moneta unica e all'Unione Europea. È, come è evidente, uno degli effetti della crisi e dello smarrimento di valori che questa comporta. Ne è prova, peraltro, l'accrescersi costante (anche in quest'ultima settimana) dei consensi verso Grillo, dovuta anche alla percezione di una assenza propositiva da parte delle forze politiche tradizionali.
Repubblica 12.6.12
Come evitare lo sciopero elettorale
di Andrea Mezzella
La crisi istituzionale da evitare è quella prevista per le prossime elezioni politiche. È la crisi dello sciopero elettorale. Potrebbe essere impedita da tre iniziative di persuasione, in grado di essere facilmente capite come vere svolte dalla pubblica opinione: nazionale e internazionale. E di motivare perciò i cittadini ad andare a votare.
La prima iniziativa è quella di cambiare, com’è ormai convinzione comune e popolare, la legge elettorale. Ci sono in Parlamento proposte convergenti perché questo cambiamento concilii due caratteristiche. Da un lato, gli elettori devono conoscere le “facce”, i “mestieri” e le “qualità” di coloro a cui daranno il voto nel proprio collegio. Dall’altro lato, la necessità che vi sia un raccordo nazionale delle candidature locali per escludere uno sparpagliamento in Parlamento, senza capo né coda, di quelli che la Costituzione chiama, appunto, “rappresentanti della Nazione”.
La seconda iniziativa è quella di assicurare ai cittadini elettori la comprensibilità delle leggi che saranno approvate e la certezza dei tempi in cui i provvedimenti necessari alla vita di tutti (individui, famiglie, imprese) dovranno diventare leggi. Da un lato, dunque, un enorme bisogno che il nuovo Parlamento sia in grado di controllare la qualità della legislazione, la sua trasparenza. Dall’altro lato, un bisogno ugualmente grande, che la “politica generale del governo” abbia un ritmo di svolgimento assicurato.
La terza iniziativa è quella di garantire ai cittadini elettori che qualsiasi maggioranza esca dalle urne, non potrà mai trasformarsi in autoritarismo. Perché ci saranno sempre efficaci poteri costituzionali di contenimento: non per impedire il libero svolgimento delle scelte politiche di maggioranza, ma per bloccare ogni possibile esondazione contro la Costituzione.
Così ponendosi dalla parte degli interessi del cittadino elettore, la domanda è: il “pacchetto” di riforme che sta per affrontare il Parlamento, risponde o no a queste esigenze, diciamo,
di base?
Primo. Per la legge elettorale, si è detto, il lavoro svolto sembra arrivato ad un buon punto. Non per la “liberazione” ad ogni costo dall’attuale sistema (perché i “costi” in questa materia vanno attentamente valutati, a scanso di “padelle “ e “braci”): ma perché la meditata italianizzazione di modelli stranieri più volte collaudati dovrebbe dare risultati senza rischi. Il dubbio è nella giuntura tra riforma elettorale e riforma istituzionale. Questa dovrebbe farsi infatti avendo in mente il finale di quella. Manca ora questa consapevolezza: che si dovrebbe invece dichiarare e persino propagandare pubblicamente, prima che sia troppo tardi. Sembra quasi che ognuno si tenga la proprie carte coperte come se giocasse ad un improbabile ruba- mazzetto: mentre è lo stesso tavolo di gioco che rischia di scomparire.
E come in ogni gioco, vi è ora lo spariglio: la proposta di repubblica semipresidenziale. Convenendo che la Francia non è un regime autoritario, vi
è però da dire che anche De Gaulle (che era De Gaulle) non giunse in 15 giorni a quella decisione. Ci mise tre anni e un referendum. D’altra parte, la salvaguardia di una dimensione nazionale nel progetto elettorale e la “personalizzazione” dei poteri del presidente del Consiglio (sviluppo naturale dell’art. 95 della Costituzione che gli attribuisce la “direzione” della politica generale del governo) sono già elementi sufficienti per assicurare quella “governabilità del governo” che è motivazione della proposta. Il di più, e soprattutto l’espropriazione di poteri
attuali del presidente della Repubblica, è cosa che va contro ogni dato e ogni cautela fondati sulla nostra esperienza costituzionale.
Secondo. Per la questione legislativa, è bene che Parlamento e governo abbiano chiari poteri razionalizzati dalla Costituzione. Da un lato vi è una “politica generale del governo” (l’economia, l’amministrazione, la questione europea) legittimata dalle elezioni, che deve avere termini certi di realizzazione. Dall’altro, vi è una “politica nazionale” (quella che riguarda i diritti fondamentali, la bioetica, i codici civili e penali) che richiede maggioranze più larghe, e tempi non contratti, per andare avanti.
Nel progetto manca una distinzione chiara su questo punto. Vi è il lodevole intento di evitare le forzature di governo normativo (decreti-legge, fiducie tecniche, maxiemendamenti: per ricordare solo le principali). Ma non è accompagnato dalle necessarie compensazioni di controlli di qualità sulle proposte legislative e, soprattutto,
da sbarramenti espliciti contro l’avvio, su corsie di scorrimento determinate dal governo, di proposte che devono avere invece un percorso sostanzialmente “costituzionale”.
Nel progetto, inoltre, vi è, affastellato, un tentativo di semplificazione del nostro ormai indifendibile bicameralismo “perfetto”. Ma è un approccio privo di senso: perché evita di affrontare seriamente il problema della rappresentanza, al centro del sistema costituzionale, delle nostre realtà regionali. Senza una profonda trasformazione elettorale e funzionale dell’attuale Senato, ogni riformismo in materia è inutile. La Camera delle Regioni, insomma. Qui, davvero il tempo non c’è più. Rimandando ancora il problema alla ormai prossima nuova legislatura, si dovrebbe però studiare un qualche vincolo di normativa provvisoria che “obblighi” alla riforma.
Terzo. Porre gli elettori al riparo da qualsiasi avventura autoritaria popu-lista dovrebbe essere il primo obiettivo di una riforma istituzionale democratica. L’equilibrio istituzionale tra maggioranza e opposizione non è una assurda pretesa di non-governo: è la condizione stessa della democrazia. Nel progetto questo equilibrio non c’è. C’è di più: una presa in giro. Si dice, infatti, che dovrebbero essere i regolamenti parlamentari a garantire “i diritti della opposizione in ogni fase dell’attività parlamentare”. Mentre per le “prerogative e i poteri del governo e delle maggioranze” (si noti la diversa, sontuosa formula) vi è oltre a questa protezione “regolamentare”,
quella, in assoluto preponderante, della copertura “costituzionale”.
È questa asimmetria che fa allibire. Si guarda a Spagna e Germania per il modello elettorale. Si pretende addirittura di guardare alla Francia per la forma di governo. E nel progetto della commissione nessuno è riuscito a fare affacciare quello che è il contrappeso di bilanciamento in tutti quei modelli: la possibilità per le opposizioni parlamentari del ricorso diretto ai tribunali costituzionali per violazioni di diritti e procedure della Carta. Questa omissione squilibra l’intero progetto. Vi è ora, all’ultimo momento presentato in Aula, un emendamento del Pdl che propone un controllo successivo secondo questo modello. Se non è vincolato alla concomitante proposta di semi-presidenzialismo, se è una garanzia comunque correlata all’accrescimento dei poteri del governo in Parlamento, si tratta di un fatto nuovo assai positivo.
Nessuno sa chi vincerà le prossime elezioni: non si tratta di difendere questo o quel partito preso. La questione è tutelare la Repubblica contro le derive autoritarie; alzare le difese al livello del rischio. E non, invece, abbassarle come sarebbe trasferire, contro ogni nostro vissuto costituzionale, il potere di sciogliere le Camere, dal presidente della Repubblica, garanzia per tutti, al presidente del Consiglio, legittimamente fiduciato solo da una parte, maggioritaria, delle Camere.
Il Parlamento, questo Parlamento – che sostiene un governo di ripresa nazionale – è pienamente legittimato a costruire per i cittadini le garanzie per elezioni non inutili. Sono le stesse garanzie che valgono per i partiti (quelli che “ci sono” e quelli che “non ci sono”): per impedire il dilagare di uno sciopero elettorale, questo sì veramente delegittimante. Ma è necessario che, per dare vere sicurezze agli elettori, la riforma del nostro sistema politico sia ben diversa (con “stralci” e con ”aggiunte”) da quella che si prospetta.
l’Unità 12.6.12
Bersani: primarie, si può introdurre il doppio turno
Il segretario Pd: quando rimetteremo mano allo statuto faremo come in Francia
Sulla crisi in Europa: «Ancora non si vede un gesto forte per fermare la speculazione»
di Maria Zegarelli
Nel giorno in cui dall’Inps filtrano numeri da brivido sugli esodati e il ministro Elsa Fornero finisce sulla graticola Pier Luigi Bersani, ribadendo il sostegno al governo «con lealtà, mettendoci tutto l’impegno di cui siamo capaci», aggiunge anche che se si fosse accettata la proposta del suo partito, «il problema non ci sarebbe». E ora quel problema è là, grande come una montagna, bisogna risolverlo, «cominciando dai 65 mila e poi andare avanti». E quanto sia «faticoso» sostenere l’esecutivo, «garantire la governabilità senza governare», «alcuni editorialisti» che dicono «che i partiti non lo sostengono abbastanza» lo capirebbero meglio se dice il segretario Pd andassero con lui «in giro».
L’EUROPA
L’altra montagna che se non si puntella rischia di franare è l’Europa e Bersani quello che pensa lo ripete ospite di Lilli Gruber a otto e mezzo insieme al presidente di Rcs libri, Paolo Mieli. «Se il meccanismo non cambia dice è quello dei dieci piccoli indiani: dall’austerità, alla recessione, all’ingovernabilità. I paesi europei diventano prede nella savana. Prima la Grecia, poi la Spagna, quindi l’Italia. Sarà così se l’Europa non dice basta e se la Germania continua a fare dei passettini andiamo a finire nei guai. Ancora non si vede un gesto forte per convincere la speculazione finanziaria a fermarsi».
LE PRIMARIE E IL DOPPIO TURNO
Ma è evidente che dopo la direzione di venerdì scorso durante la quale il segretario ha annunciato la sua candidatura alle primarie è questo il tema del giorno. Aperte a chi? Chiede Lilli Gruber. «Ad uno schieramento di centrosinistra, che sigla un documento di intenti e si impegna a cedere un pezzo di sovranità» e che poi si impegna a stare «insieme in coalizione». Ed è probabile, anzi «sensato», che quando sarà il momento di rimettere mano al regolamento (lo Statuto prevede che in primarie di coalizione il candidato Pd sia il segretario) si introduca il doppio turno, come «hanno fatto i francesi che sono venuti da noi a copiare le primarie». Ed è difficile immaginare che Beppe Grillo possa partecipare alla grande consultazione, perché i contenuti del Movimento 5 Stelle non sono propriamente incompatibili con quelli del Pd e con quello si immagina sia il documento che i partiti si impegneranno a siglare. «Credo che quel documento spiega Bersani sia piuttosto antitetico all’idea che propone Grillo, per un paio di buoni motivi. Non si può diventare il coacervo di tutte le proteste, ho sentito Grillo dire che bisogna andare fuori dall’euro». E se Grillo non potrà tentare la scalata per la premiership del centrosinistra, «perché non si fa politica chiusi nei box o con un burqa» Bersani si augura che siano altri a farle. «Chi pensava che mi sarei nascosto dietro lo Statuto non mi conosce», dice aggiungendo che, soprattutto in una situazione come questa, «il leader non lo può decidere il notaio».
Due (per ora) candidati alla sfida ci sarebbero: Nichi Vendola, che ha anche aperto ad una possibile fusione tra Pd e Sel dopo le elezioni, e Matteo Renzi che si dice pronto a tornare a fare il sindaco e ad appoggiare il vincitore se dovesse perdere. Quanto a Di Pietro e all’Idv i rapporti sono così tesi che, anche in questo caso, o cambia il vento o sarà difficile immaginare un futuro Patto. «Io non ho mai detto una parola contro l’Idv e Di Pietro e non accetto che ogni volta che non votiamo un emendamento veniamo insultati. Sono contro tutti i monopolisti, a cominciare da quelli della morale».
Incalzato però sulle nomine alle Authority, ultimo cavallo di battaglia dell’Idv e non solo contro il Pd Bersani risponde che intanto il suo partito non parteciperà alle nomine del Cda Rai, quanto agli organi di garanzia per i quali sono scoppiate le polemiche risponde che va cambiato il meccanismo che le regola.
LA CRISI
Alla domanda sulla fase due del governo, quella che all’austrità e al rigore dovrebbe affiancare la crescita, Bersani risponde che «non tira aria di parole a cui non seguano fatti, se in questo momento dici un mese devi provvedere entro 15 giorni», quindi le misure annunciate da Passera, «che sono giuste devono venire fuori. Venerdì si deve chiudere». Una fase due è però sicuramente iniziata: non si fanno più gli incontri tra i segretari a palazzo Chigi, dove tra l’altro, spiega «non si fumava affatto il sigaro», perché il governo non è sostenuto da una vera maggioranza. Ma, spiega, adesso sono in ballo «alcune questioni» per le quali potrebbe essere necessario un incontro tra i tre segretari di partito e il premier.
il Fatto 12.6.12
Il sondaggio: Bersani al 31%, Vendola al 23
Ormai appare certo: il Pd convocherà le primarie per scegliere il candidato premier del 2013. Non sono ancora chiare le modalità di voto, ma probabilmente si tratterà di primarie aperte a tutti i simpatizzanti del centrosinistra e non solo agli iscritti Pd (“Primarie d’area” sono state definite). Ma quali percentuali di voti si potrebbero aggiudicare i candidati finora annunciati, ovvero Pierluigi Bersani, Nichi Vendola e Matteo Renzi? Il sito “ilretroscena.it ” ha pubblicato ieri un sondaggio realizzato dalla società Digis che dà indicazioni a riguardo e sonda il campo anche su un eventuale gradimento di Antonio Di Pietro – che per ora sembra fuori dalla “foto di Vasto”.
Per il sondaggio, tra gli elettori di centrosinistra in generale, il segretario Bersani porterebbe a casa il 31 per cento dei voti e risulterebbe quindi primo (anche se con una percentuale ben lontana dal 50 per cento); segue Nichi Vendola con il 23 per cento e Matteo Renzi con il 19; Antonio Di Pietro, invece, si fermerebbe al 16 per cento. Diverso lo scenario se il regolamento prevedesse il voto solo per gli iscritti al Pd. In questo scenario, Bersani, sempre primo, salirebbe al 42 per cento, ma un balzo in avanti si registrerebbe anche per Matto Renzi che potrebbe conquistare il 28 per cento dei voti mentre Nichi Vendola si fermerebbe al 16 e Antonio Di Pietro all’8. Naturalmente, come tutti i sondaggi, questi dati vanno presi con le molle, anche perchè mancano ancora alcuni mesi al voto e tutto, tra candidature, regolamenti e contesto politico, può ancora succedere.
l’Unità 12.6.12
L’utile lezione della Fiom
di Mario Tronti
Caro direttore, vorrei tornare sull’iniziativa che ha visto, sabato scorso, un appassionato confronto tra la Fiom e i rappresentanti della sinistra politica. È stato un evento importante.
SI È PARLATO DI CONTENUTI DI UN POSSIBILE PROGRAMMA DI GOVERNO, CHE È IL VERO PUNTO DA METTERE ALL’ORDINE DEL GIORNO, senza inseguire il vizietto mediatico di raccontare l’ultima uscita polemica di questo o quel leader. Il sindacato dei metalmeccanici ha avuto la sensibilità di cogliere l’urgenza di questo problema, chiamando a raccolta politici, intellettuali, esperienze associative, il miglior impegno civico che c’è in giro: e tutto questo, devo dire, nelle migliori tradizioni della sinistra italiana. Il dialogo, il confronto, se è necessario, lo scontro tra forze sociali e forze politiche, sui problemi veri delle persone che lavorano, è il terreno da cui ripartire, in questa confusa fase della vicenda nazionale.
Il segretario Landini ha messo con forza sul tappeto l’agenda delle decisioni da prendere sui seguenti temi: la necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale, le iniziative da prendere per la cancellazione dell’articolo 8, i nuovi livelli di conflitto che apre questa riforma del mercato del lavoro, il destino degli ammortizzatori sociali, il discorso sul reddito di cittadinanza, la revisione dell’ultima riforma delle pensioni, il riequilibrio fiscale, il dramma dell’occupazione, giovanile e adulta, lo squilibrio sempre più accentuato dei salari operai, come le statistiche del giorno dopo hanno ancora evidenziato, e poi nuovo modello di sviluppo, politica industriale, vedi Fiat, vedi Finmeccanica, e ancora, riforma della scuola, e ancora, e non certo da ultimo, Europa. Sono temi, nazionale e sovranazionali, intrecciati al decorso di una crisi, che non si risolve, che si aggrava. Bersani, Vendola, Ferrero, Diliberto, lo stesso Di Pietro, a modo suo, si sono misurati, non si sono sottratti, hanno discusso, alcuni assumendo in toto il pacchetto Fiom, altri distinguendo, dicendo dei si, dei no, dei forse. Ma meno male! Non c’era sul tavolo il giochetto delle primarie: chi scende in campo, con chi, contro chi. E cioè, come si dice, non si guardava il dito, invece che la luna.
Con la Fiom si può essere d’accordo, o no, sulle singole proposte. Ma quando si definisce, come ha fatto Airaudo subito all’inizio, un sindacato autonomo dai partiti, non indifferente alla politica, non si può che ammirare. Un sindacato non ha bisogno di farsi partito per fare politica, come qualcuno ingenuamente gli propone, fa politica, la migliore che si possa fare, facendo bene il sindacato, cioè difendendo gli interessi dei lavoratori. Lo slogan dell’incontro era molto bello: «Il lavoro prende la parola: è ora di scegliere». Sono convinto di una cosa: che rimettere il lavoro al centro è oggi il modo più efficace per rimettere al centro la politica. Sono le due dimensioni altamente umane che hanno perso di dignità. Riconsegnargliela, questa dignità: ecco la base di un programma di governo.
l’Unità 12.6.12
Di Pietro: «Non sarò la costola del Pd. Se vuole, può farlo Vendola»
intervista di Claudia Fusani
«Al convegno Fiom solo io ho risposto alle domande di Landini: Bersani e Vendola parlavano d’altro. C’è uno scarto tra l’elettorato del Pd e il gruppo dirigente». Dopo lo scambio di accuse di sabato con il segretario Pd, il leader dell’Idv torna sui rapporti tra i due partiti e a l’Unità dice: «Non posso dire se facciamo ancora parte della coalizione di centrosinistra». E ancora: «Vendola vuole fare la costola del Pd? Faccia pure, noi in quel ruolo non ci stiamo».
Di Pietro, dopo lo scambio di cortesie di sabato tra lei e Bersani, si può parlare ancora di coalizione tra Idv e Pd?
«Non posso dire se l’Idv fa ancora parte della coalizione di centrosinistra. Sia chiaro però che il Pd sta cercando supinamente un accordo con Casini che porta avanti un programma diverso. Faccio anche una previsione: alla fine il Pd tornerà nell’area programmatica di centrosinistra, ma solo dopo essersi reso conto che di là aveva trovato una donna di facili costumi che all’ultimo minuto si offrirà al miglior offerente. In ogni caso, rispondo così: avverto una difficoltà di sintonia tra la classe dirigente del Pd e il suo popolo».
Detto questo, che c’entrava sabato, sul palco della Fiom convocato per parlare di temi legati al lavoro, evocare gli “inciuci” sul disegno di legge contro la corruzione?
«Se è per questo ci sono stati inciuci anche sulle nomine nelle Authority. Invito tutti a ricercare sul web il mio intervento. Io non ho provocato nè diffamato nessuno. Sabato siamo stati invitati lì, Bersani, io e Vendola, dal maggiore sindacato metalmeccanico italiano perché volevano sapere da noi le politiche che intendiamo portare avanti sui diritti dei lavoratori. Quando è stato il mio turno ho spiegato cosa ha fatto e cosa intende fare l’Idv. Ho ricordato quello che dice sempre mia sorella Concetta: “Faccio quel che dico e dico quel che faccio”, cioè che tra il dire e il fare ci deve essere corrispondenza. E ho spiegato che Fiom non si deve accontentare delle belle parole nei convegni ma guardare ai comportamenti. Quelli dell’Idv sono agli atti parlamentari, a cominciare dai voti contrari alle modifiche dell’articolo 18 o sulla rappresentanza sindacale. Mi aspettavo, a quel punto, che Bersani e Vendola intervenissero per fare quadrato intorno alle richieste della Fiom. Prendo atto che invece hanno parlato d’altro, a cominciare da Bersani».
Ha mai pensato che il suo può essere un troppo facile populismo e che il sostegno al governo Monti da parte del Pd nasce soprattutto da una necessità di salute nazionale?
«Non si può accettare ad occhi chiusi la politica ragionieristica e disfattista di Monti a cui riconosco il grande merito di averci ridato una dignità di Paese. Però non si può morire di inedia. Quello che io trovo irresponsabile adesso è non avere un governo politico. Aver votato la fiducia al provvedimento che ha coperto solo 65 mila esodati invece che 390 mila è, da parte del Pd, una grave responsabilità politica».
Poi torniamo sul tema delle responsabilità istituzionali. Soffermiamoci su quanto è accaduto sabato. Perchè ha voluto tirare in ballo questioni come giustizia e authority quando il tema era il lavoro?
«Landini ha chiesto, a noi segretari dei partiti del centrosinistra, se siamo in grado di fare una coalizione per difendere i loro diritti perché loro devono decidere a chi affidare il loro voto. A quel punto mi sono permesso di dire, attenzione non accontentatevi di quello vi diciamo qua, valutate i programmi. Perché in concreto il Pd sta portando avanti un programma in linea con il Pdl, su articolo 18, su Agcom, sulla finta lotta alla corruzione, sulla legge elettorale. È il programma politico del Pd con una “elle”. Ecco perché in questo momento è più corretto chiedersi se il Pd fa parte della coalizione di centro sinistra. Non sono uscito fuori tema. È Bersani che non c’è mai entrato». Perchè accusa il Pd di inciucio sulla corruzione? La capogruppo Ferranti ha ottenuto di alzare le pene per mettere a riparo alcuni processi...
«Lasciamo perdere le pene. Sono state fatte le uniche due cose che favoriscono la corruzione: restano gli arbitrati, la fonte di maggior inquinamento durante la verifica degli appalti, e si cancella il reato di concussione per induzione che è stato il reato tipico di Tangentopoli. In natura non esiste la concussione per violenza, esiste l’estorsione per violenza. Il pubblico ufficiale usa l’induzione, la telefonata in cui dice: “Sono il presidente del Consiglio, caro questore, guarda che Ruby è la nipote di Mubarak...”. Oppure: “Sono il presidente della Provincia, ti segnalo un amico...”. Basta questo, non serve altro, si chiamano fatti concludenti. Per combattere veramente la corruzione, la concussione andava lasciata così com’era. E si doveva introdurre di nuovo il falso in bilancio. Sta accadendo il contrario».
Non teme che Vendola, con questi suoi attacchi al Pd, possa alla fine scegliere Bersani invece che voi?
«Il punto è il programma. Senza, non si può cominciare neppure a ragionare. Le primarie si fanno sui programmi, non sulle persone. Bersani vuole allearsi con l’Udc? Ci dice prima su quale programma? Guardate in queste ore cosa stanno dicendo sulle unioni civili: esattamente il contrario. E veniamo a Vendola. Anche Sel non può stare a guardare. Il governatore della Puglia dice che parteciperà alle primarie. Ancora una volta: su quale programma? A meno che non voglia fare la costola del Pd. Noi in quel ruolo non ci stiamo. Non faremo mai la costola del Pd».
Alleanza di centrosinistra. Non crede ci sia il rischio, meglio dire l’incubo, di una nuova Unione?
«No, se c’è un programma chiaro, definito prima, in punti salienti. Non 110 pagine». Ok, il programma. Però anche valori e comportamenti hanno il loro peso. L’Idv è un partito che un giorno sì e l’altro no prende a sberle il Quirinale. Sulle celebrazioni del 2 giugno, ad esempio.... Quale può essere la cifra comune con il Pd?
«Io mi sento in linea totale con modello riformista legalitario e di giustizia sociale dei padri costituenti dell’area democratica. Io voglio interloquire sempre di più con il popolo democratico che mi auguro riesca a trovare gli interlocutori giusti. L’Idv ha massimo rispetto per le istituzioni e per i cittadini, dal Quirinale alla magistratura passando per il Parlamento. Il nostro valore fondante è la Carta costituzionale. Solo che talvolta le persone che occupano quelle istituzioni non sono all’altezza del loro ruolo. È mio, nostro dovere dirlo. Come fa la moglie severa. Ma leale».
l’Unità 12.6.12
Il senso del Pd per la ricostruzione
di Alfredo Reichlin
Speriamo che non sia troppo tardi. Ma, finalmente, il Pd ha cambiato passo. Non è partito da sé, dalle sue beghe interne, ma dalla enorme novità dello scenario reale che sfida la politica (e ben più della politica, sfida tutti: i vecchi giochi di potere come l’eterno trasformismo e qualunquismo italiano). Siamo in presenza di una cosa che riguarda il futuro del mondo nei secoli. Una cosa talmente inedita per cui fino a ieri non se ne poteva nemmeno parlare. Stiamo assistendo al fallimento dell’ordine economico mondiale in base al quale l’oligarchia dominante (la destra americana, e non solo) pensò di governare la mondializzazione consegnando un potere enorme ai cosiddetti mercati finanziari resi liberi di far circolare i capitali senza alcun controllo.
Lasciandoli così liberi di decidere, in larga misura, dell’uso e dell’allocazione delle ricchezze mondiali. Il dato di fondo è questo. Non è la partitocrazia, pur con tutte le sue colpe come ci vogliono far credere. La chiacchiera politica fa ridere. Noi stiamo assistendo al fallimento dei gruppi dominanti e a un gigantesco dramma storico. Il mondo è stato governato da loro. È chiaro? Ed è stato inondato di debiti e di moneta fittizia. Le ingiustizie sono diventate tali che sembra sia tornato il Medioevo. La figura storica di antichi Stati come la Grecia o la Spagna viene giocata ai dadi dalle banche. E nessuno capisce più dove va il mondo.
Ecco perché è così profonda la crisi della politica. I suoi errori e anche i suoi delitti sono innegabili ma al fondo se la politica sembra che non serva più a niente la ragione è che essa si muove in un vecchio orizzonte e non capisce che la scena è occupata da nuovi attori. Si è creata, nella crisi, una nuova umanità che esprime nuove domande di senso e di rispetto per la propria vita e che non si sente più rappresentata dal vecchio sistema politico.
Io credo che sia questo il banco di prova del rinnovamento del Pd. Le chiacchiere giovanilistiche alla Matteo Renzi non mi convincono. Vedremo. Allo stato, costui non mi sembra il nuovo ma «il vecchio che avanza». Capisco molto meglio le cose se leggo l’analisi del vecchio cancelliere tedesco Helmut Schmidt che, senza tanti giri di parole, ci avverte che «per la prima volta nella storia della Ue stiamo assistendo a uno smantellamento della democrazia». E che ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcune migliaia di grandi speculatori americani ed europei e qualche agenzia di “rating” hanno preso in ostaggio i governi in Europa.
Ecco il terreno dello scontro. Ed è questo che mi spinge a riflettere su cosa sono ormai le alternative. Io non riesco più a pensare l’alternativa (e quindi il futuro quadro elettorale) come nel passato, come cioè la semplice scelta tra questo o quel partito nel vecchio quadro democratico e istituzionale quando era chiaro dove stava la sovranità. Non posso non pensare a uno schieramento più ampio dove la centralità del Pd dipende dalle capacità di dar voce ai nuovi attori dei conflitti reali che si sono aperti. Chi sono questi attori? È vero, i partiti di destra si sono spappolati. Ma l’Italia si carica ogni giorno di più di disperazione, di sempre più cattivi umori, di spinte alle rivolte qualunquiste. Ed è su questo che stanno facendo leva con un cinismo impressionante molta parte delle vecchie classi dirigenti con le loro televisioni e i loro giornali che attendono solo di esaltare nuove avventure populistiche. La battaglia sarà durissima, richiede coraggio e capacità di innovazione. Perciò ho trovato giusta la scelta di Bersani di andare oltre i confini del Pd, per fare del Pd un partito più aperto, una casa comune per altre forze progressiste.
Io sono un vecchio comunista e non accetto affatto di negare la lunga e gloriosa storia della sinistra. Anzi, sono molto indignato quando vedo che anche giornali come la Repubblica o l’Espresso non hanno il coraggio di dire per quale ragione profonda che riguarda la storia civile l’Emilia risponde alla sciagura del terremoto mostrando quel volto straordinario. Quelle facce così coraggiose e dignitose che esprimono un così alto senso civico. E dopo tanta esaltazione del “grillismo” nessuno nota che tutti quei sindaci straordinari sono del Pd. Ma stiano tranquilli i miei compagni. Noi non vogliamo recidere affatto le nostre radici ma le esaltiamo ponendo la forza organizzata del Pd e il suo legame con la sinistra europea al servizio di un arco molto vasto di forze democratiche, sia progressiste che moderate.
Parliamo da anni di “riforma” dei partiti. Facciamola. Cominciamo a pensare il soggetto politico-partitico non più nella forma di un blocco compatto tenuto insieme da una stessa ideologia, ma come una rete capace di collegare necessità e richieste che vengono da segmenti sociali anche diversi, per cui ciò che si chiama partito diventa anche uno strumento che porta alla rappresentanza un mosaico complesso di soggettività sociale.
È così che io penso la crisi ma è anche così che avverto l’enorme minaccia che pesa sulla democrazia italiana. È con questo sentimento che mi prendo il diritto di chiedere ai tanti amici intellettuali, spesso giustamente critici, nonché ai movimenti di protesta e a quelli in difesa dei beni pubblici se si rendono conto del punto a cui siamo giunti. Non facciamoci illusioni. Come dice l’ex ministro degli Esteri tedesco Fischer: «Se l’euro dovesse andare in pezzi andrebbe in pezzi anche l’Unione Europea (l’economia più grande del pianeta), innescando una crisi economica globale di proporzioni tali che quasi nessuno tra quelli oggi in vita ha mai sperimentato. L’Europa concludeva è sull’orlo dell’abisso».
Anche l’Italia lo è (non c’è bisogno di aggiungerlo). È in questi mesi che si decide. Stiamo attenti a non sbagliare. Con tutto il rispetto per i tecnici, io penso che il salto che dobbiamo fare è totalmente politico. Non è soltanto economico. Si deve decidere se riorganizzare le forze democratiche italiane intorno a un idea nuova di Ricostruzione. Ricostruzione non solo dell’economia ma della democrazia europea, della civiltà del lavoro, della libertà degli uomini di tornare a contare in quanto persone, non definibili solo in base al denaro. L’economia non è il denaro fatto col denaro. E infatti non si uscirà mai dalla crisi economica attuale ripetendo gli schemi di questo modello finanziario. Come negli anni ’30 occorre una iniziativa politica, un «new deal», che offra alle energie economiche una nuova frontiera. Questo accadde in America con Roosevelt. Purtroppo in Italia, per colpa anche del settarismo della sinistra venne Mussolini.
La Stampa 12.6.12
Ior, nuovo affondo dei giudici
La procura di Trapani prepara un’altra rogatoria sui conti sospetti. E anche Roma vuole chiarimenti
di Guido Ruotolo
Al Vaticano aspettano una seconda rogatoria proveniente dalla procura di Trapani
La Sala Stampa del Vaticano fa sapere che i magistrati della Santa Sede stanno analizzando la richiesta di Trapani. Non è un semaforo verde alla rogatoria inoltrata dalla Procura, è un tentativo di rompere l’accerchiamento, di alleggerire il carico, la pressione sul Vaticano.
Come se non bastassero i «corvi» e i «maggiordomi». E poi i guai dell’ex numero uno dello Ior, il professor Gotti Tedeschi, il 4 giugno, veicola un’email di cui è venuto in possesso e che lo riguarda. Un’email in cui è scritto: «Quello che puoi fare è creare un consenso perché si chieda a gran voce una commissione d’inchiesta (o un commissario) sul caso Gotti Tedeschi».
I veri titolari
Ecco, come se non bastasse tutto questo, come se già l’aria non fosse carica di complotti, ci voleva pure Trapani, con i suoi ammanchi di milioni di euro dalle casse della Curia. Senza parlare dei conti milionari aperti dai trapanesi allo Ior, con il fondato sospetto che i veri titolari siano uomini di Cosa nostra. Anche il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che si occupa di riciclaggio alla banca vaticana, ha chiesto chiarimenti a Trapani, manifestando disponibilità a collaborare all’inchiesta siciliana (Trapani gli ha mandato la sua rogatoria). E potrebbe non essere l’unica. Le indagini trapanesi si stanno arricchendo di acquisizioni processuali tali che la Procura sta valutando in queste ore di procedere a un’ulteriore rogatoria da inoltrare alla Santa Sede.
Il conti di don Ninni
Afa da Ferragosto, e siamo solo a giugno. La tensione in città si taglia a fette. Perché qui, a Trapani, il clima non è diverso da quello che si vive nelle Sacre Stanze. Un vescovo defenestrato dopo un processo sommario non è da tutti i giorni. Soprattutto se è vero che l’indagato eccellente per la storia degli ammanchi nelle casse della Curia è un prete, don Ninni Treppiedi, di quelli che frequentano i salotti buoni della città. Un sacerdote molto legato a quell’ex sottosegretario berlusconiano, Antonio D’Alì, finito sotto processo per concorso esterno alla mafia. Un uomo della dinastia dei banchieri D’Alì che avevano terre dove ha prestato servizio come campiere anche Francesco Messina Denaro, padre del boss Matteo, l’ultimo degli Stati Maggiori stragisti di Cosa nostra, ancora latitante.
Terra di banche e di riciclaggio d’alta mafia, il Trapanese. Addirittura nella vicina Castellammare del Golfo, Giovanni Falcone si avvicinò alle raffinerie di «polvere bianca» di Cosa nostra. Ma terra anche di massoneria, con la sua loggia spuria, la Loggia Scontrino, dove mafiosi e borghesia andavano a braccetto.
La vicinanza a Cosa nostra
La Chiesa di Trapani, quando lo Stato reagì alle stragi di Falcone e Borsellino con il 41 bis, divenne punto di riferimento delle famiglie mafiose che protestavano contro il carcere disumano.
Ecco, i contrasti attuali nella Chiesa di Trapani nascono in questo contesto. Il vescovo Micciché è stato defenestrato per aver collaborato alle indagini della magistratura italiana? O perché don Ninni Treppiedi ha messo a verbale davanti a un pm che il vescovo aveva conti milionari (dollari) allo Ior?
Che storiaccia, l’inchiesta siciliana. Don Ninni si era specializzato in firme false, quella del vescovo Micciché gli riusciva benissimo, diventando per grazia ricevuta amministratore ed erede universale di beni ecclesiastici e complessi storici come il convento di Alcamo «Angelo Custodia».
Il «saccheggio»
Dalla lettura delle carte della Procura, questo è il giudizio che si trae su don Ninni e i suoi complici: «Il contesto nel quale operano è quello di un vero e proprio saccheggio di beni di titolarità della diocesi trapanese e delle varie parrocchie “frequentate” dal Treppiedi, da ultimo quelle alcamesi».
Il sospetto degli inquirenti è che il giro d’affari di don Treppiedi sia stato intorno a una decina di milioni di euro, che dovrebbero essere transitati su conti Ior. Il legale del sacerdote, l’avvocato Galluffo, però precisa che il suo assistito aveva un solo conto corrente alla banca vaticana, per un importo complessivo di 16.000 euro (il conto è stato chiuso), frutto degli stipendi per il lavoro svolto all’università «Lumsa». E nessun altro. Lasciando così intendere, l’avvocato di din Ninni, che conti milionari allo Ior ci sono e sono riconducibili ad altri.
La Stampa 12.6.12
Gli strani affari del don “Ha fatto sparire un milione di euro”
L’economo nel mirino dei magistrati
di Giacomo Galeazzi
All’apparenza è un intrigo di potere locale, in realtà è uno scontro nel cuore del potere vaticano. Con tanto di maggiorenti Cei e cardinali di Curia schierati per l’una o per l’altra parte. Nella devastante faida di Trapani tra il vescovo defenestrato Micciché e l’economo ribelle don Treppiedi entrano in campo fazioni ecclesiastiche e santi in paradiso. Nel decreto in cui si stabilisce la «sospensione dal sacro ministero», il 20 febbraio, la Congregazione per il clero ritiene provata la responsabilità di don Antonino Treppiedi per il «mancato rendiconto» di gestione con «particolare riferimento a due assegni bancari di 97mila e 50mila euro». Per la Santa Sede «l’ostinata contumacia del reo» e la «speciale gravità della violazione» esige «l’urgente necessità di riparare lo scandalo dei fedeli».
Ma don Treppiedi non accetta la sanzione e così è lo stesso ministro del Clero, cardinale Mauro Piacenza a scrivere il 31 maggio al sostituto di Micciché, l’arcivescovo Plotti, per ribadirgli che «la censura della sospensione al sacerdote è immediatamente esecutiva ed efficace». Malgrado ciò l’avvocato di don Treppiedi sostiene ancora che il provvedimento sia congelato da un ricorso. Intanto le carte vaticane (dove si evidenzia un ammanco di oltre un milione di euro) e quelle dei magistrati di Trapani descrivono un vortice infernale di rogiti, mutui, operazioni finanziarie. Più che una diocesi, quella di Trapani sembra un’agenzia immobiliare. Una sequela di vendite, passaggi di mano, trasferimenti, come la cessione a prezzi stracciati della canonica della parrocchia del Rosario. Secondo la procura, Micciché era sempre all’oscuro di tutto, persino che don Treppiedi avesse svenduto la canonica a un suo fedelissimo. Tutto alle spalle del vescovo. Anche il convento di Alcamo affidato dalle suore al sacerdote. L’inchiesta della procura, che aveva prima innescato il 7 giugno 2011 l’invio del «visitatore apostolico» Mogavero e a metà maggio la rimozione del vescovo Micciché, riguarda ufficialmente un ammanco di denaro nella fase di incorporazione da parte della fondazione «Auxilium» di un’altra fondazione gestita dalla Curia, la «Campanile». Sullo sfondo come nella tradizione dei «pupari» siciliani si muovono, però, ingombranti padrini. Micciché deve molto della sua carriera al discusso arcivescovo Cassisa, sotto la cui guida la diocesi di Monreale divenne epicentro di veleni e bufere di mafia. Treppiedi da parte sua ha parentele e amicizie influenti tra porporati e politici. In Sicilia come a Roma è guerra di nervi e di calunnie. Malaffare, scandali sessuali, nepotismi, sodalizi con «uomini d’onore». Ogni arma è buona pur di danneggiarsi. Qui la Chiesa conta ancora tanto: nelle urne, nei cda delle banche, tra la gente che affolla il porto e i paesi barocchi. Non è un caso che per «pacificare» quest’angolo indocile della Sicilia la Santa Sede abbia speso l’influenza della Cei delegando l’ex vicepresidente (Plotti) e l’ex sottosegretario (Mogavero). Malgrado ciò, la guerra è tutt’altro che terminata.
Corriere 12.6.12
Ior, la mail di Gotti Tedeschi: ora una commissione d'inchiesta
Un appello riservato. Ma una copia è finita in Vaticano
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — «Ricevo questo suggerimento che mi pare sensato: quello che puoi fare è creare un consenso perché si chieda a gran voce una commissione di inchiesta (o un commissario) sul caso Gotti Tedeschi». È il testo di una mail fatta circolare nell'entourage del banchiere il 4 giugno scorso, due giorni dopo la ratifica del licenziamento da presidente dello Ior. La missiva — che lo stesso Gotti ha a sua volta spedito per cercare consenso all'iniziativa — è allegata agli atti sequestrati per ordine della magistratura di Napoli e in parte trasmessi ai colleghi della capitale. E dimostra a quale livello sia arrivato lo scontro sulla gestione dell'Istituto opere religiose. Anche perché qualcuno dei destinatari avrebbe girato copia della mail alle alte gerarchie ecclesiastiche contribuendo a infuocare ulteriormente la battaglia esplosa con la destituzione di Gotti avvenuta il 24 maggio, lo stesso giorno dell'arresto del maggiordomo del Papa Paolo Gabriele.
Non si placa la polemica per quanto sta accadendo all'interno delle mura vaticane e nuovi sviluppi arriveranno nei prossimi giorni, quando i magistrati potrebbero interrogare nuovamente il banchiere che ha già mostrato la propria volontà di collaborare. Ma soprattutto quando sarà fatto l'inventario dei 47 faldoni sottoposti a sequestro durante la perquisizione disposta dai pubblici ministeri partenopei. La documentazione è stata sigillata e sarà visionata alla presenza del banchiere e del suo legale Fabio Palazzo. Poi si deciderà quali atti allegare al fascicolo di inchiesta, anche tenendo conto della presa di posizione delle autorità vaticane che venerdì scorso, con una nota ufficiale, hanno sottolineato di «riporre nell'autorità giudiziaria italiana la massima fiducia che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate». Una sorta di altolà per evidenziare come per l'utilizzo di ogni documento che riguardi lo Ior sia necessario presentare richiesta di rogatoria.
L'indagine dei magistrati romani è concentrata su presunti episodi di riciclaggio compiuti facendo transitare flussi di denaro di provenienza illecita su conti dello Ior intestati a preti e suore. Le verifiche affidate al nucleo Valutario della Guardia di finanza riguardano oltre dieci «operazioni sospette» segnalate dall'Uif, l'Ufficio di informazione finanziaria della banca d'Italia. E proprio ieri il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha preso contatto con il collega di Trapani Marcello Viola, titolare di un'inchiesta che riguarda ammanchi dalle casse delle Curia cittadina e movimentazioni di soldi sui due conti dello Ior intestati a don Ninni Treppiede, che per anni ha gestito il settore finanziario. Proprio qualche giorno fa è arrivata una richiesta di rogatoria in Vaticano per poter accedere ai depositi e adesso si attende la risposta delle autorità ecclesiastiche.
Su tutto questo la testimonianza di Ettore Gotti Tedeschi potrebbe rivelarsi preziosa. Nel memoriale che gli è stato sequestrato la scorsa settimana il banchiere sottolinea i timori per la propria vita e soprattutto ricostruisce con mail, lettere e altri documenti lo scontro interno allo Ior dichiarando di essere stato osteggiato quando ha cominciato a manifestare la propria volontà di rendere trasparenti le procedure e soprattutto quando ha mostrato interesse per i conti intestati a personalità laiche, dunque politici, funzionari, faccendieri. Una versione categoricamente smentita dal direttore generale Paolo Cipriani. E tanto basta per capire che questa storia è soltanto all'inizio.
Corriere 12.6.12
Il Papa: no alla cultura della calunnia
CITTÀ DEL VATICANO — Nel giorno in cui padre Lombardi precisa che Paolo Gabriele «non è un capro espiatorio» — l'indagine non si ferma al maggiordomo: presto i magistrati vaticani potrebbero sentire gli italiani cui sono arrivate le carte riservate —, Benedetto XVI lancia messaggi trasparenti dentro e fuori la Curia. Parla della «fedeltà» al Papa e alla Chiesa che è fondata sulla fede e rappresenta una «grave responsabilità» per coloro che «operano presso la Santa Sede». E la sera, pur senza citare Vatileaks, parla a braccio del male, la «pompa del diavolo», e scandisce: «Conosciamo anche oggi un tipo di cultura dove non conta la verità, anche se apparentemente la si vuole mostrare, ma conta solo lo spirito di calunnia, il cui moralismo è maschera per confondere e creare confusione, e dove la menzogna si presenta nella veste della verità e della informazione». I legali di Gabriele ne hanno chiesto la scarcerazione: un terzo interrogatorio «non è imminente» né è confermata la voce del suo trasferimento alla Domus Santa Marta, ma presto potrebbe tornare a casa. La «fonte» per gli inquirenti è «una»: Gabriele. Ora ci si concentra su appoggi interni e contatti esterni. Ieri Gianluigi Nuzzi, autore del libro Sua Santità, ha scritto su Twitter: «Chi è il giornalista che teneva i documenti nei cassetti — e perché? — e che ora il Vaticano vuol sentire?». Come a dire che «il giornalista» di cui si parla non è lui. Di certo i «referenti» esterni potranno evitare la rogatoria alla giustizia italiana se accetteranno di farsi sentire, in questi giorni, dal tribunale vaticano.
Repubblica 12.6.12
Benedetto XVI parla di “menzogna sotto veste di informazione”, e pensa a cambiamenti tra i suoi collaboratori più stretti. In tempi brevi
Vatileaks, l’ira del Papa contro la stampa e la Curia
di Marco Ansaldo
CITTÀ DEL VATICANO — Un Papa arrabbiato: con la stampa, ma anche con alcuni dei suoi collaboratori, e soprattutto con la situazione creatasi in Vaticano per la vicenda delle lettere interne diffuse sui media. «È nero dall’ira», lo descrivono all’interno con qualche timore. E così, venuta la sera, il Pontefice si scatena quando a Roma parla nella Basilica di San Giovanni in Laterano: «No a un tipo di cultura dove non conta la verità, dove conta solo la sensazione, lo spirito di calunnia e di distruzione», e «dove la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione».
Sceglie bene le parole Joseph Ratzinger. E le scandisce forte, quando lancia all’esterno il suo attacco per le rivelazioni sui giornali. Parla, è chiaro, pur senza nominarlo, del caso Vatileaks. «Lascio a ognuno di voi riflettere sulla pompa del Diavolo e su questa cultura a cui diciamo no, per emanciparci e liberarci». Si sofferma sull’espressione inusuale, sull’origine del termine «pompa del diavolo». E spiega che l’immagine è rivolta al passato, a «grandi spettacoli cruenti» in cui il diavolo si presentava «con apparente bellezza» ma «con tutta sua crudeltà». E’ più duro Benedetto XVI rispetto al mattino quando, con un discorso alla Pontificia accademia ecclesiastica aveva parlato con gratitudine della «lealtà che si vive nella Chiesa e nella Santa Sede», lealtà che non è mai «cieca». Riferimenti, questi riguardanti i collaboratori e la loro fedeltà, al suo braccio destro, il cardinale Tarcisio Bertone, accusato di guidare con un’eccessiva disinvoltura la Segreteria di Stato, e al suo segretario particolare, monsignor Georg Gaenswein. All’esterno Ratzinger li difende a spada tratta. Ma poi c’è il fronte interno. E qui il Papa appare determinato, in pochi giorni, a cambiare qualche assetto. È così concentrato, Benedetto, che sembra voler fare questa volta tutto da sé, senza parlarne nemmeno con padre Georg. L’altro giorno, poi, il Pontefice ha avuto parole piuttosto ferme con altri collaboratori, che sul fronte della stampa hanno permesso dichiarazioni e interviste sui problemi interni allo Ior, rivelatesi al dunque dei boomerang. Ma è molto preoccupato, Ratzinger, sull’attività della Segreteria di Stato. Il braccio operativo della Santa Sede appare troppo preso dal caso Vatileaks. «Ad esempio — si spiega — c’è stata una strage orribile in Nigeria, con i cristiani letteralmente massacrati. E non si fa niente, al di là delle dichiarazioni ufficiali di dolore». Sul fronte delle indagini, ieri il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa per ora unico arrestato, non è un «capro espiatorio». E ha commentato come «non piacevole» il parere psichiatrico stilato da un medico su Ettore Gotti Tedeschi, presidente sfiduciato dal board della banca vaticana, come rivelato da Il Fatto.
Repubblica 12.6.12
Ora la suora arriva con l’aereo in Italia 7 su 10 sono straniere
di Jenner Meletti
I conventi femminili stanno vivendo una grande rivoluzione: le novizie vengono da Asia e Filippine Per far fronte alla carenza di vocazioni si attinge a quei paesi dove un tempo si fondavano le missioni
I muri antichi, qui nella Casa generalizia delle suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, tengono lontano ogni rumore. «I numeri? Lei vuole sapere quante suore ci sono ancora in Italia e soprattutto quante sono le straniere… Ma un dono dello Spirito non si racconta con la statistica. Lo Spirito suscita le vocazione dove, come e quando vuole». Madre Viviana Ballarin, presidente dell’Usmi (Unione delle Superiore maggiori d’Italia) prima protesta con molto garbo poi apre il suo computer. «Ecco il dato che racconta come stiano cambiando i conventi femminili in Italia: in questo momento abbiamo 967 novizie: solo 288 sono italiane, 679 sono arrivate da altri Paesi. Dalle Filippine, dall’Asia, dall’America latina… ». Sette suore su dieci arrivano dunque da quelle parti di mondo verso le quali fino a pochi anni fa partivano le missionarie italiane. E secondo i dati del Cum di Verona (Centro unitario per la Cooperazione missionaria tra le Chiese) le consacrate non italiane che svolgono servizio pastorale in Italia sono più numerose (8.736) delle religiose italiane (8.030) impegnate nelle missioni oltre confine.
Le aspiranti novizie, un tempo, si presentavano al convento all’alba, accompagnate dalla madre che le consegnava alla Superiora, dopo un abbraccio che era quasi un addio. Adesso le aspiranti suore arrivano in aereo, voli Non Shengen, per cercare di riempire conventi e monasteri sempre più deserti. Nel 1988 le religiose italiane erano 121.183, nel 2001 era scese a 81.916. «Adesso — racconta madre Viviana Ballarin, che è la coordinatrice di tutte le suore italiane — nelle conferenze io dico sempre che siamo circa 70.000, ma forse sono un po’ ottimista ». Contare le suore è come contare le rondini, difficilissimo avere numeri certi. Ma secondo la “Congregazione degli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica” della Santa Sede, le suore italiane sarebbero oggi 34.240 e arriverebbero a 42.976 contando anche le straniere impegnate nel nostro Paese. Non sempre le giovani sorelle arrivate da lontano trovano ciò che cercano. Suore partite dal Ghana per entrare in un monastero di clausura sono invece state impegnate come badanti di suore anziane, novizie chiamate per motivi di studio sono diventate assistenti e infermiere in una casa di riposo. Tre suore missionarie di Santa Gemma — racconta l’agenzia Adista — inviate nel 2007 nella diocesi di Albano per essere impegnate nella catechesi e nella pastorale giovanile sono state mandate via dal vescovo per non avere accettato di fare le colf a due anziani sacerdoti. Stipendio promesso: 800 euro al mese, da dividere in tre. E la sorella che rinuncia ai voti, in un attimo — è successo a Torino — si ritrova clandestina. Il permesso per culto, una volta lasciato il convento, non è valido per il lavoro. La polemica sulle suore straniere ha radici lontane. Già nel 1994 i vescovi delle Filippine hanno denunciato “l’invasione italiana”: 87 congregazioni straniere femminili e 32 maschili, in gran parte italiane, avevano aperto filiali a Manila per “reclutare nuove leve”. Ora che l’Italia è diventata a sua volta terra di missione, la discussione fra le Congregazioni (erano 645 nel 1988, oggi quelle iscritte all’Usmi sono 545) certo non manca. «Lo ripeto, è Dio — dice madre Viviana Ballarin — che decide dove fare nascere le vocazioni. Nel secolo scorso le “chiamate” arrivavano nella nostra terra, e le religiose italiane hanno costruito il welfare italiano. Ora le vocazioni nascono in Asia, Africa, nell’America Latina, non ancora distrutte dal modernismo. Noi pensiamo che prima di aprire la nostra porta a chi bussa sia necessario accertare l’autenticità della vocazione, perché non può essere la povertà a spingere verso i conventi. E come Usmi diciamo che le novizie possono venire in Italia per consolidare la loro formazione ma poi debbono prestare servizio nel loro Paese». Qualcosa sta cambiando, nel mondo delle suore. Ad Assisi, la superiore generale delle suore del Giglio arriva dallo Zambia, le Domenicane della beata Imelda sono guidate da una brasiliana. Ma in tante cliniche, scuole materne o case di riposo la “manodopera” arriva da altri continenti. «Se non si hanno le forze per mantenere aperte le opere di assistenza — dice madre Ballarin — vanno chiuse. Fare venire le sorelle da altri Paesi non piace a Dio. Tornino là dove c’è bisogno. Se nelle nostre congregazioni c’è bisogno di maestre, assistenti e infermieri si assumano persone non consacrate, così si dà anche una mano contro la crisi. Ho detto a una madre generale: se avete vocazioni nelle Filippine, aprite là le vostre opere. E lei mi ha risposto: e io in Italia come vado avanti? ». Si chiudono scuole e ospedali, ma si aprono nuove comunità: le suore sono impegnate nell’incontro con gli immigrati, nelle carceri, nella case famiglia. «Se femminismo significa essere se stesse, noi siamo femministe. E dobbiamo smetterla di metterci, da sole, un gradino sotto il clero. Basta con “reverendo padre”, “reverendo monsignore”… Se chiudi un asilo o una scuola, i preti e i vescovi protestano. Se non hai più le forze per tenere aperta una casa di riposo per suore invalide, nessuno si interessa. Alle mie sorelle dico: siete laureate, teologhe, psicologhe. Fatevi avanti, fatevi sentire». Il Cottolengo di Torino è forse l’emblema della crisi delle sorelle con il velo. Negli anni ‘50 nella congregazione suore S. G. B. Cottolengo, nata nel 1830, c’erano 7.000 sorelle, tutte italiane. Ora sono 1.500 e 600 di loro sono nell’istituto torinese. «Ma 400 su 600 — dice suor Elda Pizzuto, vicaria della madre generale — sono troppo anziane o ammalate. In servizio attivo siamo solo 200. Per fortuna ci sono i volontari laici e anche cooperative di dipendenti. Da noi le sorelle straniere, di cui avremmo bisogno come del pane, vengono per la formazione, poi tornano nei loro Paesi. E così ogni anno chiudiamo sei o sette case in Italia e ne apriamo tre o quattro in Africa o Asia. Non hanno bisogno di prendere un aereo, le sorelle dei Paesi poveri, per trovare i bisognosi, i ma-lati, i deboli, cui fare del bene».
l’Unità 12.6.12
Diaz, «no al reato di tortura per i poliziotti»
di Pino Stoppon
Nessuna applicazione della convenzione dei diritti dell’uomo in materia di tortura. È il parere del sostituto procuratore generale della Cassazione, Pietro Gaeta, nella sua requisitoria in corso davanti alla Quinta sezione per il processo agli uomini delle forze dell’ordine condannati per il pestaggio dei No Global alla scuola Diaz. Citando precedenti giurisprudenziali, Gaeta ha osservato che sulla questione «c’è una riserva di legge». Per il pg, che sta trattando in udienza le questioni preliminari, non vanno «messe in discussione» le attenuanti concesse agli imputati.
Inoltre il sostituto procuratore ha anche ribadito la sua contrarietà alla riapertura del processo al fine di ascoltare di nuovo svariati testimoni. Secondo Gaeta sono inammissibili i motivi contenuti in numerosi ricorsi delle difese, basati, in particolare, su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del luglio 2011. Quella pronuncia, ha rilevato il pg, riguardava infatti un caso di condanna basato su un’unica testimonianza: caso, dunque, diverso dal processo che si è aperto ieri in Cassazione.
L’irruzione alla scuola Diaz avvenne il 22 luglio 2001. Nella vicenda furono oltre 60 le persone ferite e 93 gli arrestati per i disordini in città, poi prosciolti. In quella circostanza furono sequestrate due bottiglie molotov che furono portate all’interno della scuola per giustificare gli arresti. In primo grado vi furono 13 condanne e 16 assoluzioni. Il 18 maggio 2010 la Corte d’appello di Genova ribaltò la sentenza condannando anche i vertici della polizia di Stato. In tutto 25 persone (più un’assoluzione e due proscioglimenti per prescrizione. Tra i vertici di polizia che erano stati assolti in primo grado e poi condannati in appello, figurano il capo del Dipartimento centrale anticrimine Francesco Gratteri (4 anni nel processo di secondo grado), l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (4 anni), il capo del Servizio Centrale Operativo Gilberto Caldarozzi che allora era vice dello stesso Servizio (3 anni e 8 mesi), Spartaco Mortola, ex dirigente della Digos di Genova (3 anni e 8 mesi), Massimo Mazzoni, ex ispettore capo Sco (3 anni e 8 mesi). Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto Mobile di Roma, fu condannato a quattro anni in primo grado e a cinque in appello.
Ieri a Roma è atterrato anche l’ex giornalista inglese Mark Covell l’unica delle parti civili presenti in Cassazione. Covell ha pagato il prezzo più alto per il pestaggio. Porta nel corpo tutti i segni delle violenze subite: a malapena apre la bocca con i denti, i pochi che sono rimasti, completamente spezzati e scheggiati. Anche la schiena è stata danneggiata ed è sottoposto a continue cure ed accertamenti medici. Il welfare inglese gli ha riconosciuto l’invalidità civile e gli corrisponde un assegno di mantenimento. «Ho piena fiducia nei giudici della Suprema Corte. Se dovesse andare male e finisse con le assoluzioni dei poliziotti sarebbe preoccupante per il futuro democratico dell’Italia».
il Fatto 12.6.12
Acea privatizzata a suon di cazzotti
Sulla società dell’acqua rissa con feriti in Campidoglio
di Andrea Managò
Finisce in rissa l’iter per l’approvazione della vendita del 21 per cento di Acea, ricca municipalizzata romana dei settori acqua, energia ed ambiente, di cui il comune detiene oggi il 51 per cento. Orfani della boxe per la mancata candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020, ieri i consiglieri comunali hanno trasformato l’assemblea capitolina in un ring a suon di botte, spintoni e urla. Non solo. Nella migliore tradizione da stadio alla contesa ha partecipato anche il pubblico, con rappresentanti dei comitati per l’acqua pubblica venuti a contatto con i consiglieri Pdl. A farne le spese il capogruppo Pd, Umberto Marroni, che ha riportato una ferita a una mano e una contusione su un avambraccio.
DA SETTIMANE i lavori dell’aula Giulio Cesare sono in stallo sulla delibera 32, che prevede la creazione della Holding Roma Capitale, nella quale riunire in un unico soggetto 12 controllate del Campidoglio, e la vendita del 21% del pacchetto azionario di Acea. Per contrastare questa operazione, l’opposizione di centrosinistra ha scelto la strada dell’ostruzionismo presentando circa 150 mila tra ordini del giorno ed emendamenti. Ma la maggioranza del sindaco Gianni Alemanno ha fretta di chiudere la partita legata alla multiutility, perché la delibera 32 è collegata al bilancio, che per legge va approvato entro il 30 giugno pena il commissariamento dell’ente. La tensione in aula era salita già nella seduta di venerdì scorso, quando i capogruppo di Roma in Action e La Destra avevano rovesciato il tavolo degli stenografi del consiglio.
Ieri mattina la maggioranza prova a forzare la mano. Il presidente dell’assemblea Marco Pomarici mette in votazione una pregiudiziale presentata dal Pdl, che chiedeva di differire la discussione degli ordini del giorno su Acea dopo il voto di bilancio. A quel punto scoppia la bagarre. I consiglieri del Pd, contestando la legittimità della pregiudiziale, occupano gli scranni riservati alla giunta, a ridosso della presidenza, esponendo lo striscione “No alla svendita di Acea”. Si aprono le votazioni e nel capannello formatosi attorno alla presidenza volano i primi spintoni.
“Ho aperto la votazione, anche se a due consiglieri così come a me è stato sottratto il badge due volte, la delibera ha ha ottenuto 30 voti a favore ed è valida”, spiega Pomarici. Ma l’opposizione insorge per la procedura e durante il voto scatta una rissa di proporzioni mai viste in Campidoglio. Il Pd denuncia che i video girati in aula ritraggono “il consigliere Federico Mollicone che strattona con violenza il nostro capogruppo causandogli il ferimento del braccio sinistro”. Proprio Marroni sottolinea: “Stavamo protestando in modo pacifico quando siamo stati aggrediti fisicamente dai colleghi della maggioranza. Mollicone mi ha prima strattonato e poi spinto giù”. Poi aggiunge: “Il voto va annullato, sono in consiglio dal 1997 e questa è la pagina più nera che abbia visto, Alemanno si scusi con i romani”.
LA COLLUTTAZIONE prosegue, anche gli esponenti dei comitati per l’acqua pubblica presenti in aula per assistere ai lavori corrono verso lo scranno della presidenza. Ne nasce un nuovo parapiglia, protagonisti soprattutto i consiglieri Fabrizio Santori (Pdl), ironia della sorte presidente della Commissione Sicurezza, e Andrea Alzetta, espressione dei movimenti di lotta per la casa. I comitati denunciano anche che Antonio Lucarelli, capo della segreteria del sindaco, avrebbe “fatto uno sgambetto ad una nostra militante facendola finire faccia in terra”. Alcune foto invece lo ritraggono intento a tirare per un braccio un giovane di origine africana per farlo scendere da un tavolo.
Quando torna la calma la seduta viene sospesa e l’aula occupata dai movimenti al grido di “buffoni” e “dimissioni”. Parte una raffica di accuse reciproche. L’opposizione parla di “squadrismo” da parte del Pdl, che rispedisce le accuse al mittente sostenendo gli sia stato “impedito di esercitare il nostro dovere bloccando le votazioni”. Mercoledì è in programma la ripresa dei lavori, sempre che non si trasformi in un secondo round.
il Fatto 12.6.12
Gli interessi in gioco
Alemanno vende Caltagirone guarda
di Giorgio Meletti
Sulla rissa, ennesima, che si è consumata ieri mattina tra i consiglieri comunali di Roma si sono intrecciati per tutto il pomeriggio commenti infuocati dei leader politici nazionali, dal segretario Pd Pier Luigi Bersani ai capi romani del Pdl come Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri. La posta in gioco è molto alta, e non solo perché l’Acea gestisce l’acquedotto e la rete di distribuzione elettrica della capitale, ed è anche socio industriale “privato” di numerose società idriche in giro per l’Italia. All’orizzonte ci sono anche le elezioni comunali del 2013, con le quali il centro-sinistra punta a riconquistare la poltrona simbolo del Campidoglio da quattro anni occupata dal postfascista Gianni Alemanno. C’è anche una partita di potere economico, con in palio il controllo dell’Acea, una società quotata in Borsa con un giro d’affari di 3,2 miliardi di euro. Alemanno vuole vendere il 21 per cento dell’Acea, di cui il comune di Roma detiene attualmente il 51 per cento. Incasserebbe circa 150-180 milioni di euro, vitali per rimpolpare il bilancio assai scassato del comune e per consentire al sindaco uscente di giocarsi la rielezione con qualche cartuccia in più per quelle spese elettorali che aiutano non poco.
La parziale privatizzazione dell’Acea serve anche, nell’immediato, a far quadrare il bilancio 2012 che deve essere approvato entro il 30 giugno. L’ostruzionismo del centro-sinistra è mirato a impedire il voto sul bilancio in tempo utile, aprendo così la strada al commissariamento e quindi all’uscita di scena di Alemanno prima del tempo.
Gli esegeti del pensiero del sindaco sono divisi. C’è chi lo descrive tentato dall’idea\ di farsi commissariare, per liberarsi di un fardello impegnativo: Alemanno sarebbe pronto a lasciare il Campidoglio facendo la vittima e a riproporsi sulla scena nazionale in vista delle politiche 2013. C’è invece chi, al contrario, descrive Alemanno convinto di poter rivincere nel 2013, sulla scorta di sondaggi e sensazioni fornite dal suo consigliere più ascoltato, l’ex sondaggista di Berlusconi Luigi Crespi.
Il destino dell’Acea è anche legato alle polemiche sulla privatizzazione dell’acqua, contro la quale si è espresso il referendum della primavera 2011. In realtà la multiutility capitolina è soggetta a obblighi di legge in conflitto tra loro. È ancora valido il decreto Ronchi che obbliga a privatizzare, perché in caso contrario l’Acea perderebbe la concessione per l’illuminazione pubblica della Capitale (ma sono solo 70 milioni di fatturato). Dall’altra parte il presidente della Provincia di Roma, il Pd Nicola Zingaretti, candidato sindaco per il centro-sinistra nel 2013, sostiene che, se Alemanno privatizza, l’Acea rischia di perdere l’affidamento del sistema idrico integrato della provincia di Roma. Questioni giuridiche complicatissime che nascondono un po’ goffamente una semplice contesa sul potere.
A proposito di potere, se Alemanno privatizza, poi chi comanda? Dopo il comune di Roma, i due maggiori azionisti sono il costruttore romano Francesco Gaetano Caltagirone, con il 15 per cento, e la multinazionale francese Gdf-Suez con l’11,5 per cento. Alemanno punta a vendere le azioni in piccole quote, in modo da impedire ai due soci di minoranza di fare man bassa e prendersi la società. In realtà nulla impedisce, una volta venduto il pacchetto del Comune, che qualcuno rastrelli le azioni e conquisti il controllo dell’Acea. Ma Caltagirone non ha bisogno di spendere altri soldi. Già oggi, anche grazie agli ottimi rapporti con Alemanno, all’Acea è difficile fare qualcosa contro la sua volontà. L’amministratore delegato, Marco Staderini, è sua espressione. E quando il sindaco ha cercato di far assumere all’Acea il suo portavoce Simone Turbolente, il potente e irascibile Caltagirone ha detto no.
Repubblica 12.6.12
Quel colosso da tre miliardi di euro che fa gola a imprese e multinazionali
Alemanno nel mirino: “Vuole far cassa prima delle elezioni”
di Fabio Tonacci
ROMA — È una decisione che, se alla fine verrà presa, va in direzione ostinata e contraria a quello che volevano 27 milioni di italiani. I cittadini che il 12 e 13 luglio 2011 hanno votato sì (95,35 per cento) al referendum sulla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Insomma, perché l’acqua sia gestita non da privati ma da società pubbliche senza l’obbligo di profitto. Ma il futuro elettorale del sindaco di Roma Gianni Alemanno passa anche dal futuro di Acea, o meglio dai soldi che l’amministrazione incasserà dalla vendita del 21 per cento di azioni del colosso multiservizi.
Il Gruppo Acea è il principale operatore nazionale nel settore idrico, con un bacino di utenza di oltre 8 milioni di abitanti. Con le sue società controllate gestisce acquedotti, fognature, impianti di depurazione non solo a Roma e Frosinone, ma anche a Pisa, Firenze, Perugia, Arezzo, Siena. La quota di maggioranza del capitale, il 51 per cento, è in mano a Roma Capitale. Ad essa si affiancano due privati di peso, l’azienda francese Gdf Suez con l’11,5 per cento e l’imprenditore italiano Francesco Gaetano Caltagirone con il 15 per cento. Negli anni d’oro dal 2004 al 2008 Acea ha pompato utili nelle casse del comune per più di 400 milioni di euro. Oggi, con la crisi, gli utili complessivi si sono ridotti a circa 60 milioni. Perché perderne il controllo, dunque?
Con un testo di appena 6 righe, la famigerata delibera 32 che l’opposizione ha definito «incostituzionale » perché usurpatrice di prerogative consiliari, Alemanno vuole imporre al consiglio comunale la cessione in borsa di parte della quota, attestandosi al 30 per cento. Nei piani di Alemanno c’è l’intenzione di vendere il 21 per cento alla Cassa depositi e prestiti e ricavare 200 milioni di euro, scesi però nelle ultime settimane a circa 170 milioni a causa del crollo del titolo in borsa (oggi è intorno a 4 euro ad azione, negli anni scorsi era arrivato a 16). Soldi che al Campidoglio hanno già indirizzato: 160 milioni finanzieranno lavori di ampliamento della metropolitana, 40 sono destinati alla ordinaria manutenzione urbana, come il rifacimento delle strade. «E come si fa a non vedere un fine puramente pre-elettorale? — ragiona il deputato romano del Pd Marco Causi — Alemanno ora svende la quota in Acea per racimolare quei milioni che gli serviranno per tirare la volata elettorale del prossimo anno. Un suicidio per le casse del Campidoglio». Inoltre, se come sembra non sarà scorporato il servizio idrico, i sindaci che hanno contratti con Acea potrebbero anche avviarsi alla rescissione, trovandosi davanti un’azienda dal “dna” societario ribaltato rispetto al momento dell’affidamento.
La giunta romana sostiene di essere obbligata a ridurre la propria partecipazione al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e al 30 entro il 2015 in base a una interpretazione del decreto 138 del governo Berlusconi, emanato il 13 agosto scorso. Ma il sottosegretario allo Sviluppo Claudio De Vicenti ha sconfessato quella lettura: «L’unico obbligo che ha il comune di Roma è di mettere a gara il servizio di illuminazione pubblica ». Un contratto che al momento vale 50 milioni fino al 2027. Opportunità economica a parte, qui chi ne esce con le ossa frantumante è ancora una volta l’esito del referendum del giugno scorso. A un anno dal voto solo l’Ato di Belluno ha effettivamente tolto dalla bolletta quel ricarico del 7 per cento a remunerazione del capitale investito, come imponeva il secondo quesito. E solo a Napoli si è passati da una spa pubblica a un ente di diritto pubblico senza obblighi di profitto. In tutto il resto della penisola niente si è mosso, le tariffe sono anzi aumentate. «Se anche Acea diventerà una spa a maggioranza privata — spiega Paolo Carsetti, del forum italiano dei Movimenti per l’Acqua — il referendum sarà tradito. A Cremona è stata tentata un’operazione simile ad Acea. Non solo. All’Autorità per l’Energia e il gas, a cui è stato dato il mandato per riformare il sistema tariffario dell’acqua, c’è allo studio un documento che reintroduce un “costo di immobilizzazione sul capitale” per le società. In pratica si reintroduce quel margine di profitto abrogato dal referendum ». Abrogato solo in teoria.
Corriere 12.6.12
I cinque bimbi bocciati in prima elementare
di Marco Gasperetti
Due bambini italiani, uno dei quali disabile, e tre extracomunitari bocciati in prima elementare all'istituto «Giulio Tifoni» di Pontremoli (Massa Carrara). Scontro tra insegnanti e genitori che faranno ricorso al ministero per annullare i provvedimenti e chiederanno risarcimenti.
PONTREMOLI (Massa Carrara) — Cinque bocciati in prima elementare. Tre sono extracomunitari, due sono italiani. E di quest'ultimi uno è disabile. «È un provvedimento adottato all'unanimità dal collegio dei docenti nel rispetto della normativa ministeriale e per tutelare questi alunni», spiega Angelo Frediani, il dirigente scolastico, l'istituto comprensivo Giulio Tifoni di Pontremoli. «Un atto di gravità inaudita che potrebbe segnare non solo la vita scolastica di questi alunni sfortunati», replicano alcuni politici, pedagogisti e sociologi. Perché, come scriveva don Milani dalla sua scuola toscana di Barbiana, «bocciare è come sparare su un cespuglio, forse era una lepre o forse era un ragazzo». Ma c'è anche chi giudica legittima e auspicabile una maggiore selettività nella scuola primaria «per essere realmente in Europa, competitivi e preparati».
Così, tra mille polemiche, arrabbiature dei genitori, lacrime e rossori dei piccoli esclusi, il caso della scuola toscana diventa nazionale con due interrogazioni «bipartisan» al ministro Profumo: la prima firmata dal Pd chiede l'invio di ispettori nella scuola toscana e, soprattutto, in quelle due prime classi delle bocciature-scandalo definite «pollaio» con 30 e 29 bambini. La seconda del Pdl con la «solidarietà ai genitori degli scolari» colpiti dal provvedimento iperselettivo.
Il Miur si è attivato immediatamente. «Abbiamo chiesto al direttore scolastico regionale una relazione sui fatti — spiegano al ministero — senza intenti inquisitori ma solo per appurare la realtà dei fatti. Poi valuteremo l'invio degli ispettori nel rispetto dell'autonomia della scuole e della professionalità degli insegnanti».
Intanto i genitori dei bambini minacciano una class action. Avevano già vinto pochi mesi fa al Tar un ricorso per le classi troppo numerose ma senza avere poi risultati concreti. Adesso si sono rivolti all'avvocato Giuseppe Romeo, responsabile del Codacons di Massa Carrara. Che conferma: «Da una prima indagine interna sappiamo che, al di là dei bocciati, la maggior parte dei bambini non ha raggiunto gli obiettivi minimi del programma ministeriale. La colpa è soprattutto del sovraffollamento delle classi: stiamo valutando un ipotesi di risarcimento».
Il dibattito è aperto anche se sul fronte politico Pd e Pdl si trovano d'accordo sull'importanza di studiare il «caso Pontremoli». «La vicenda va approfondita — sottolinea il deputato Lucio Barani, firmatario dell'interrogazione Pdl — perché esula dalla prassi e probabilmente dal buonsenso, coinvolgendo dei bambini».
Più critico Francesco Puglisi, responsabile scuola del Pd, anche lui autore di un'interrogazione al ministro. «Il rifiuto, l'esclusione in quella tenera età, lascia impronte profonde nell'anima — sostiene Puglisi —. Manifestiamo tutto il nostro sdegno per quel che è successo e continueremo a combattere. Nelle indicazioni della scuola del Primo ciclo, si dice che l'attenzione massima deve essere posta a quell'essere unico e irripetibile che si ha in classe. Straordinariamente diversi e irripetibili sono senz'altro i cinque piccoli bocciati, meritevoli di continuare a stare con i loro compagni di classe, perché importanti anche per i promossi».
Ma è proprio vero che una bocciatura in tenera età può essere un trauma? «Non esageriamo — risponde Anna Oliverio Ferraris, professore di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma —. Certo, se si evita, soprattutto in prima elementare, è meglio, magari valutando se allungare il periodo della materna. Non tutti i bambino hanno uno sviluppo identico, c'è chi cresce prima, chi più lentamente. In Finlandia s'inizia a sette anni. Però non sono tollerabili classi con 30 alunni. Non si può insegnare in queste condizioni».
Il sindaco di Pontremoli e dirigente scolastico di due istituti compresivi, Lucia Baracchini (lista civica centrodestra) difende il provvedimento delle colleghe. «Giudico inopportuna la richiesta dell'invio degli ispettori — spiega —. L'istituzione scolastica ha per fortuna l'autonomia nella valutazione formativa e anche questa volta lo ha fatto valutando la complessità dei casi anche con il ricorso di un gruppo di lavoro di esperti dell'Asl».
La Stampa 12.6.12
“Il burqa è legale se lo si indossa per fede religiosa”
Archiviata la denuncia contro un’egiziana
La normativa anti terrorismo fu introdotta contro l’uso di caschi o altri «mascheramenti» durante manifestazioni di piazza: non è il caso della donna
di Alberto Gaino
Il giudice: «Nessuna violazione Sulla carta d’identità il viso è scoperto»
Una donna egiziana di fede musulmana camminava per strada, a Chivasso, celando il viso nel burqa, il velo che lascia intravedere solo gli occhi di chi lo indossa. Un cittadino l’ha denunciata. Il procuratore aggiunto Paolo Borgna ha accertato che F. G.S. ha sollevato il velo ogni volta che le è stato richiesto, che si trattasse di controlli sanitari all’Asl o di accertamentidei carabinieri.
Lo stesso cittadino l’aveva già denunciata per violazione della legge Reale e questa volta vi ha aggiunto la segnalazione che il Comune di Chivasso ha rilasciato alla donna carta d’identità con la fotografia che la ritrae a viso scoperto e il capo velato. Il cittadino si è procurato «chissà come» il cartellino depositato all’anagrafe e parla di «bacucchina che le nasconde la faccia». La «bacucchina» sarebbe il burqa.
Per mettersi al passo il cittadino ha richiesto analogo documento presentando una sua foto con un casco da cantiere calato sul viso che lo nasconde alla vista. Respinto con perdite: «Non aveva una giustificazione religiosa». Il magistrato completa il ragionamento dell’ufficio comunale: «La signora va normalmente per strada con il velo, il cittadino non cammina abitualmente con il casco calato sulla faccia». E puntualizza: «Nella carta d’identità la signora compare con l’ovale del viso perfettamente riconoscibile e non con il burqa integrale. Una circolare del ministero dell’Interno conforta la correttezza dell’Anagrafe di Chivasso nel rilasciare quel documento d’identità alla signora egiziana».
Le agenzie di stampa hanno «lanciato» la notizia con la necessaria sinteticità e il centrodestra con Motta e Marrone, Pdl, e Carossa, Lega protesta vivacemente. La richiesta di archiviazione al presidente della sezione Gip del tribunale affronta in modo articolato una questione complessa. Scrive Borgna: «La legge Reale punisce, con una contravvenzione, due diverse condotte: quella di chi usa caschi protettivi o “qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. E poi si punisce la condotta di chi, in ogni caso (dunque senza possibilità di giustificato motivo) usa i predetti copricapo o indumenti “in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico”».
Aggiunge il magistrato: «E’ noto che la norma fu introdotta nel 1975 a tutela dell’ordine pubblico, per fronteggiare il diffuso fenomeno dell’utilizzo di caschi che mascheravano completamente il volto durante manifestazioni di piazza. Di tale genesi storica conviene, come sempre, tenere conto per una corretta interpretazione, anche sistematica, del divieto da essa imposto».
Borgna dà atto che «la signora F. G.S. indossa il burqa il ossequio ai suoi principi religiosi, rispettati dall’articolo 8 della Costituzione italiana. Che al 19 riconosce e protegge il diritto per chiunque di manifestare “in qualsiasi forma” (e dunque anche attraverso la propria immagine esteriore) fede e appartenenza religiosa. L’unico limite che la Costituzione frappone è quello del buon costume, qui palesemente rispettato».
Per il procuratore aggiunto ogni magistrato è tenuto ad applicare la legge «ed è la struttura stessa della “Reale” a motivare la richiesta di archiviazione: perché, al di fuori delle condizioni potenzialmente in grado di mettere a rischio l’ordine pubblico, il legislatore ha totalmente affidato al prudente apprezzamento del magistrato la verifica sull’eventuale giustificazione della condotta incriminata».
Borgna dice anche: «Ci rendiamo conto che di fronte a comportamenti di massa, e non isolati come in questo caso, la questione potrebbe assumere un altro rilievo. Ma deve essere eventualmente il Parlamento ad affrontarla».
La Stampa 12.6.12
Così papà Cameron si scordò la figlia al pub
È successo due mesi fa: lui e la moglie erano su auto diverse
di Andrea Malaguti
I quindici minuti della vergogna. Quelli in cui David e Samantha Cameron, coppia da mulino bianco, bandiera candida della solidità coniugale, immagine simbolo della dolce coesione che solo l’amore vero e la Big Society possono consegnare, si dimenticano un pezzo di famiglia nel bagno di un pub. Per la precisione la piccola Nancy di otto anni. «Quando se ne sono accorti erano distrutti», spiega uno sgangherato comunicato di Downing Street.
La notizia, tenuta nascosta per due mesi, dilaga in modo virale, invade i quotidiani e i dibattiti televisivi, mentre la BBC dedica alla vicenda un programma radiofonico e i siti dei giornali sono tempestati dai messaggi degli stupitissimi sudditi. E il rigore della destra? La sacralità della famiglia? L’amore per i bimbi? Brutto colpo per i pilastri del conservatorismo aristocratico. Il tormentone, surreale, è reso ancora più sgradevole per Cameron da un sondaggio di YouGov che segnala come la sua popolarità non sia mai stata tanto bassa. Il premier ha perso il tocco magico. O forse non l’ha mai avuto? «Anch’io ho scordato mio figlio fuori da un negozio. Lo sono andato a riprendere dopo mezzora. Il giorno dopo sono arrivati i servizi sociali. Sono andati anche da David e Samantha? », scrive David G. sul Times. Il Numero dieci è costretto a rispondere con un secco e imbarazzatissimo: «No. È ovvio che l’episodio non si ripeterà più».
Ma che cosa ha scatenato il marasma? Seconda domenica di aprile, la famiglia Cameron si riposa ai Chequers, la residenza di campagna del primo ministro. David propone un passaggio al Plough Pub, il suo preferito, vicino a Cadsden, nel Buckinghamshire, assieme a un gruppo di amici. Ci sono un sacco di bambini. Si beve, si mangia, si canta e si beve vino. Il paradiso del chillaxing, una sorta di siesta britannica in cui il premier come svela una biografia diventata per lui una croce è imbattibile. Dopo tre ore David dice: «Torniamo a casa». Le guardie del corpo preparano il corteo di auto. Samantha prende per mano il piccolo Arthur, 6 anni, e spinge la carrozzina di Florence, 22 mesi. «Ero convinto che Nancy fosse con Sam», sosterrà il premier. «Ero certa che la piccola fosse con Dave», sussurrerà Sam. E invece Nancy è andata educatamente a lavarsi le mani.
Velo pietoso sulle guardie del corpo che si perdono il conto del numero di famigliari da proteggere. «Non hanno nessuna colpa», concedono generosi i Cameron. Il corteo parte, marito e moglie sono su due auto diverse. Non sempre una persona si rende conto di commettere un atto imperdonabile, ma qualcosa in lei lo sa. Così, entrato in casa il premier guarda la moglie. «Nancy è con te? ». Silenzio. Una specie di panico li assale. Telefonata al pub. Nancy è lì. «Sta giocando».
Cameron corre a prenderla, i tabloid lo seppelliscono, un anonimo cameriere dice al Sun: «Fa un po’ paura pensare che il primo ministro si possa dimenticare qualcosa di così importante come la figlia». Sipario? Forse. Ma sono mille i modi in cui un popolo con la pancia vuota perde fiducia nel proprio comandante.
La Stampa 12.6.12
Ma non è un crimine mostruoso
di Elena Loewenthal
Umanamente parlando, è la più efferata della colpe. Guardandola sul profilo del Dna, nello spettro di quell’elica che contiene il dettato stesso della vita – conservarsi e moltiplicarsi – è la cosa più innaturale, aberrante che si possa commettere. Dimenticarsi un figlio è, nell’accezione comune di verbo e complemento oggetto, un’autentica vergogna. Lasciarsi per strada quanto abbiamo (teoricamente) di più caro è uno spreco inenarrabile. Se poi, come nel caso di David Cameron, first daddy d’Inghilterra – il figlio – anzi l’innocente pargoletta appena ottenne – è stata abbandonata nientemeno che in un pub, allora la faccenda si fa davvero grave. Peggio ancora, sommamente imbarazzante per un premier contegnoso come lui, anche se, precisa Downing Street in tono rassicurante, l’increscioso episodio risale a due mesi fa ma solo ora viene alla luce. Nel frattempo, comunque, la piccola è stata recuperata e gode di ottima salute. Ci mancava solo.
Chissà che cosa ha passato la povera Nancy, in quegli interminabili quindici minuti di oblio genitoriale, nascosta nella toilette di quel luogo di perdizione (nel vero senso della parola!). Ora che per lei la paura è passata, il suo papino la sta pagando cara, in termini di immagine e credibilità: tutto il mondo è contro di lui. Anche se… ad essere sinceri e senza nulla togliere alla gravità dell’accaduto, a chi non è mai capitato? Scagli la prima pietra, insomma, chi non s’è mai scordato di prelevare il figlio a scuola, magari durante una di quelle gimcane di porta uno a basket, prendi l’altra al corso di ceramica, deposita i gemelli a tiro con l’arco. Chi non ha mai lasciato l’infante silenziosamente dormiente sul seggiolino posteriore dell’auto, anche solo per andare a comprare le sigarette? Chi non è mai allegramente uscito per la scampagnata domenicale, dimenticandosene uno in casa, davanti alla televisione, in bagno, sotto le coperte? Insomma, se errare è umano, scordarsi saltuariamente, provvisoriamente e colpevolmente un figlio lo è ancor di più. David, sei tutti/e noi.
Repubblica 12.6.12
Egitto ultima speranza
di Thomas L. Friedman
I giovani hanno distrutto il regime, ma non basta per ricostruire l’Egitto
Dalla piazza alla politica il campo di battaglia della generazione Facebook
SUBITO dopo la conclusione di una tavola rotonda sulla Turchia e la primavera araba a cui ho partecipato a Istanbul, una giovane egiziana si è avvicinata a me chiedendomi: «Signor Friedman, potrei farle una domanda? Per chi dovrei votare?».
Ho pensato: «Perché questa donna mi domanda di Obama e Romney?». No, no, ha spiegato lei. La sua richiesta si riferiva alle elezioni in Egitto. Avrebbe dovuto dare il suo voto a Mohamed Morsi, il candidato dei Fratelli Musulmani, o ad Ahmed Shafiq, un generale in pensione, già primo ministro di Hosni Mubarak, che si presenta come rappresentante del potere secolare? Ho provato un senso di compassione nei suoi riguardi. Come dicono gli attivisti democratici giapponesi, è come dover scegliere tra due malanni. È davvero triste che a 18 mesi dalla rivoluzione democratica, gli egiziani debbano scegliere tra un candidato che è rimasto fermo al 1952, anno in cui l’esercito militare prese il potere, e uno che vive ancora nel 622, quando il Profeta Maometto fondò l’Islam.
Che ne è stato della “Rivoluzione via Facebook”? A dire il vero, questa settimana il social network non se la sta passando molto bene, tanto nel mercato azionario che in quello delle idee. Come ha osservato un mio amico egiziano di vedute liberali: «Facebook ha aiutato moltissimo le persone a comunicare, ma non a collaborare».
Indubbiamente ha contribuito a far conoscere la rivoluzione di piazza Tahrir a una certa classe di egiziani colti. E altrettanto è accaduto con Twitter. In definitiva però, la politica si riduce sempre a due fattori antichissimi: la leadership e la capacità di ottenere dei risultati. E da questo punto di vista tanto l’esercito egiziano che i Fratelli musulmani si sono dimostrati decisamente più efficaci della generazione Facebook, formata da progressisti secolari e islamisti moderati. I candidati di questa fazione infatti, pur ottenendo nel primo turno più voti di quelli ricevuti complessivamente da Morsi e Shafik, non sono riusciti ad arrivare al ballottaggio perché in concorrenza gli uni con gli altri e incapaci ad aggregarsi attorno a una linea comune.
Facebook, Twitter e i blog sono degli strumenti di comunicazione ed espressione assolutamente rivoluzionari, e si sono dimostrati capaci di portare alla luce tante voci nuove e convincenti. Nel migliore deicasi,possonotrasformare la natura stessa della comunicazione e del giornalismo politico. Nel peggiore, rischiano di diventare degli accattivanti sostituti per l’azione vera e propria. Quanto spesso avete sentito dire, di recente: «Oh, ho twittato di questo». Oppure «L’ho postato su Facebook». Davvero? Nella maggior parte dei casi, twittando e postando si ottengono risultati paragonabili a quelli prodotti dal lancio di una granata contro la Via Lattea. Se non chiudete Facebook e non vi parate di fronte a qualcuno, non potete nemmeno affermare di aver agito. Inoltre, come ci ricorda il vittorioso regime siriano, il “bang bang” è immancabilmente più efficace del “tweet tweet”.
A proposito dei coraggiosissimi ribelli egiziani della generazione Facebook, il politologo Frank Fukuyama ha scritto: «Sanno organizzare proteste e manifestazioni, e sfidano il vecchio regime con un coraggio spesso temerario. Ma non sono riusciti a unirsi attorno a un unico candidato e dedicarsi alla lenta, tediosa, logorante opera di organizzare un partito politico che potesse battersi alle elezioni distretto per distretto… Si direbbe che Facebook sappia produrre dei lampi intensi e sfolgoranti, ma non sia in grado di generare un calore capace di protrarsi per un periodo di tempo sufficiente a riscaldare la casa».
Siamo giusti: i giovani di piazza Tahrir si sono battuti contro due istituzioni ben radicate senza avere il tempo sufficiente a mettere in piedi, in un Paese esteso quanto l’Egitto,unaconsolidataretediattivismo. Detto questo, però, avrebbero potuto imparare l’importanza della leadership e dell’ottenere risultati prendendo esempio dal partito islamico Akp (Partito turco per la Giustizia e lo sviluppo), il quale — al potere dal 2002 — ha vinto le elezioni tre volte consecutive.
Persino i più convinti detrattori dell’Akp sono pronti ad ammettere che in 10 anni di governo il partito è riuscito a trasformare la Turchia, rendendola una potenza economica il cui tasso di crescita è secondo solo a quello della Cina.
Esiste tuttavia un problema: Recep Tayyip Erdogan non è solo riuscito a edificare ponti, ma anche a fare piazza pulita della magistratura indipendente e a intimidire la stampa nazionale — al punto da eliminare qualsiasi procedura volta a impedire alle istituzioni statali di commettere abusi. Con il declino economico dell’Unione Europea, il fallimento dei tentativi della Turchia di entrare a far parte dell’Ue e l’esigenza Usa di avere la Turchia al proprio fianco nella gestione dell’Iraq, del-l’Iran e della Siria, l’autoritarismo dell’Akp è rimasto anche privo di un sistema di controllo esterno. Le mie conversazioni con i turchi si concludono spesso con il mio interlocutore che afferma: «Non fare il mio nome. Lui sa essere molto vendicativo». È come in Cina.
Così non va bene. Se la “sultanizzazione” della Turchia messa in atto da Erdogan dovesse continuare indisturbata, comprometterà i significativi risultati ottenuti dal suo partito e finirà per danneggiare la democrazia turca. Ma avrà anche delle ripercussioni negative sull’intera regione, perché quando chi vincerà le elezioni in Egitto si metterà alla ricerca di un modello da seguire, si troverà di fronte una Ue immersa nel caos, l’amministrazione Obama pronta a perdonare ad Erdogan qualsiasi misfatto e la Turchia che prospera in un sistema che sembra dire. Purché al popolo sia permesso crescere, è possibile limitare gradualmente le istituzioni democratiche e imporre sempre più la religione.
(Copyright New York Times -La Repubblica. Traduzione di Marzia Porta)
La Stampa 12.6.12
Il tribunale sospetta che il figlio dell’ex raiss venga torturato
Libia, la corte dell’Aja va in galera
Arrestati gli ispettori che volevano verificare le condizioni di Saif Gheddafi
di Giordano Stabile
Ce lo ricordiamo nel suo caftano color cammello, gli occhi sbarrati dietro gli occhialini da vista, lo smarrimento di chi ancora non ha ben realizzato di aver perso tutto. Era il 19 novembre 2011 e Saif al-Islam Gheddafi, «la spada dell’Islam», veniva catturato nel deserto, mentre cercava di fuggire in Niger travestito da beduino. Pendeva sulla sua testa il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale dell’Aja per crimini di guerra. Il tribunale lo aveva designato come «braccio esecutivo» degli ordini criminali del padre nella repressione feroce della rivoluzione di febbraio a Bengasi, Misurata, Tripoli, Zintan.
Zintan, a un centinaio di chilometri a Sud-Ovest della capitale, era stata fra le prime a ribellarsi, nel febbraio 2011. Schiacciata e poi di nuovo insorta, dopo l’intervento della Nato e il collasso del regime durante l’estate. La brigata Zintan era stata fra le prime a entrare a Tripoli ad agosto. Poi in prima linea nella caccia ai papaveri del regime, con unità speciali che battevano il deserto. Gli uomini della Zintan hanno preso Saif e non lo vogliono più mollare, in barba al diritto internazionale e a quello, teorico, della nuova Libia.
Di processo all’Aja non si parla più. E nemmeno a Tripoli. Il Cnt lo ha chiesto mille volte. Quelli dell’Aja pure e giovedì scorso hanno mandato a Zintan una delegazione, un’avvocato australiano, Melinda Taylor, e tre assistenti, per verificare le condizioni del detenuto, dopo le voci su percosse, umiliazioni. Ma è finita male. Tutti e quattro agli arresti, «per aver minacciato la sicurezza nazionale». Da cinque giorni l’Aja non riesce a contattarli. Sarebbero in una guesthouse, «guardati a vista da uomini armati», riferisce il quotidiano Quryna di Bengasi.
Il comandante della Brigata, Ajmi al-Atiri, accusa l’avvocato Taylor di aver cercato di far avere al prigioniero «documenti pericolosi», inviati a Saif dal suo ex braccio destro, Mohammed Ismail. Ma da Zintan raccontano un’altra storia. E cioè che la Taylor abbia portato con sé una traduttrice per il colloquio con Saif. Gli uomini di guardia l’hanno perquisita e le hanno trovato una piccola videocamera. Ed è scattato l’arresto. Filmare il prigioniero è ritenuto dalla Brigata Zintan pericoloso, probabilmente perché porta su di sé i segni dei maltrattamenti.
Domenica è intervenuto il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil, per far rilasciare i quattro dell’Aja. Senza successo. Un incidente diplomatico era l’ultima cosa che gli serviva, con le elezioni che sono state rinviate al 7 luglio, se tutto va bene, nel bel mezzo di scontri etnici, 14 morti a Kufra, e agguati, come quello di ieri all’ambasciatore inglese a Bengasi.
Ora sono le «qatiba», le brigate, la vera forza militare. Che non depongono le armi, vogliono la loro fetta dei proventi del petrolio e gestiscono in proprio la giustizia «locale», vale a dire «almeno diecimila prigionieri» secondo il rapporto di Amnesty International dello scorso aprile. In gran parte aguzzini del vecchio regime che ricevono la loro razione quotidiana di torture. Ma anche molte innocenti. E tutti senza uno straccio di diritto. Compreso Saif.
La Stampa 12.6.12
Il regime spara con gli elicotteri Su Homs un razzo al minuto
Siria, le telecamere riprendono le immagini dei bombardamenti sulla città
Offensiva delle forze armate di Damasco, che ricorre anche ai droni per stroncare i ribelli
di Francesca Paci
Spirali di fumo nero danzano sulle raffiche, ta-ta-ta-ta. «Dov’è Kofi Annan? ». Un’esplosione potente rimbomba nel microfono. «Allah uakbar» (Allah è grande). Silenzio. Colpi secchi, ripetuti, fiamme alte tra le antenne paraboliche di un palazzo bersagliato. «La Siria muore». La voce del cameraman senza volto spezza sporadicamente il rumore sinistro e magnetico della guerra sotto casa. Di tanto in tanto un uccello attraversa l’inquadratura.
Quando ieri è apparso in Rete il video del bombardamento in diretta di Homs (o dovremmo dire il presunto video giacché, come al solito, la verifica è affidata a testimonianze incrociate e a loro volta non di prima mano), non c’erano ancora informazioni certe su cosa stesse accadendo in una delle città simbolo della rivolta contro il regime siriano. Trasmesse in tempo reale da qualcuno posizionato in cima a un edificio di media altezza, le immagini del vecchio centro martellato dai mortai sono arrivate prima che gli osservatori dell’Onu confermassero la notizia dei civili intrappolati sotto il tiro degli elicotteri dell’aviazione di Damasco. Mentre l’inviato della «Bbc» Paul Danahar contava un razzo ogni minuto e riferiva dell’uso di droni da parte dell’esercito governativo, lo spettacolo live dell’assedio di Homs, rilanciato dalla «Cnn» ad «Al Jazeera» al circuito di Twitter, faceva il giro del mondo. Impossibile staccare lo sguardo.
Nel giro di poche settimane la crisi siriana è lievitata. Il numero dei morti è arrivato a 14 mila, la frequenza dei massacri è diventata pressoché quotidiana, le organizzazioni umanitarie internazionali parlano ormai di un milione e mezzo di persone (il 7% della popolazione) bisognose di aiuto urgente, il presidente Assad è sempre più determinato nell’attribuire la responsabilità a «terroristi stranieri» e l’opposizione appare definitivamente spaccata tra chi continua a manifestare a mani nude (ci sono decine di video) e chi, capitanato dal Libero Esercito Siriano, è deciso ad abbattere il regime anche a costo di farsi sponsorizzare dal Golfo (o da chiunque offra armi e intelligence).
Il bombardamento in tempo reale di Homs sembra la metafora del tracollo del Paese davanti agli occhi del mondo, la cronaca visiva di una morte annunciata che, come metteva lucidamente a fuoco l’ultimo libro di Susan Sontag «Regarding the Pain of Others» (Guardando il dolore degli altri), può suscitare al tempo stesso dissenso, rabbia violenta, apatia.
«Avevo vent’anni nell’82; sebbene Hama si trovi ad appena un’ottantina di chilometri da qui seppi della carneficina solo molto tempo dopo, Assad padre poté contare sull’assenza di testimoni» ci raccontava poco più di un anno fa l’ingegnere Hassan nella Homs ancora parzialmente sfiorata dalla rivolta. Il suo telefono squilla a vuoto da settimane, un suono di spaventosa normalità come le raffiche in sottofondo nel video che immortala l’interruzione della vita nei palazzi e sotto i minareti della moschea Khaled ibn Alwalid.
«A questo punto qualcosa deve succedere, Assad non colpisce più per spaventare l’opposizione che ormai è oltre la soglia della paura ma per serrare i ranghi dei suoi» ci dice al telefono un attivista di Damasco. Qualcosa succederà. Washington ripete d’essere «profondamente allarmata» e denuncia il rischio di un nuovo massacro nella roccaforte ribelle al Haffa, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu prepara le consultazioni per una nuova risoluzione, il capo della diplomazia russa Lavrov è diretto a Teheran intenzionato a discutere di nucleare ma soprattutto di Assad.
Tramonta il sole sulla Siria ferita e il numero delle vittime quotidiane è già a quota 74. A Homs le ombre della sera si confondo con il fumo dei bombardamenti. L’uomo della telecamera filma ancora: non teme di diventare complice del delitto per il solo fatto di riprenderlo in diretta come nel film di Rémy Belvaux «Il cameraman e l’assassino», quel rischio, suggerisce tenendo fisso l’obiettivo, lo corriamo noi.
La Stampa 12.6.12
Intervista
Landis: bombe sui civili per sedare la rivolta
«Assad segue l’esempio di Milosevic in Kosovo»
«Damasco scommette che la Ue distratta dalla crisi dell’euro non si butterà in una guerra»
di Maurizio Molinari
La scelta di Assad di bombardare i civili ricorda quella compiuta da Milosevic in Kosovo»: Joshua Landis, direttore del Centro di studi mediorientali dell’Università dell’Oklahoma e autore della newsletter «Syria Comment» traccia un parallelo fra i due dittatori per spiegare l’escalation di violenza di Damasco.
Perché Assad ha deciso di usare gli elicotteri contro i civili?
«L’artiglieria non gli basta più. Sono troppe le città sunnite in rivolta. Ha bisogno di intervenire più rapidamente, in più luoghi e l’arma che ritiene più efficiente sono gli elicotteri».
Cosa vuole ottenere?
«Vuole convincere queste città a non consegnarsi ai ribelli. Vuole impedire ai rivoltosi di impossessarsi di ampie zone urbane».
Il risultato sono attacchi militari dal cielo contro i civili come facevano le forze di Slobodan Milosevic in Kosovo...
«Esatto, se Assad segue questa strada è perché scommette sul fatto che l’Europa è troppo distratta e preoccupata dalla crisi del debito per gettarsi in un intervento militare simile a quelli condotti nel Balcani negli Anni Novanta».
C’è un collegamento fra la crisi dell’euro e l’escalation della vicenda siriana?
«Sono i fatti a suggerirlo. Assad ha accelerato l’uso di mezzi pesanti in coincidenza con la crisi spagnola. Ritiene che la minaccia di un crac di un grande Paese come la Spagna immobilizza l’Europa e senza gli europei l’America non interverrà da sola».
Perché l’esercito subisce un crescente numero di perdite?
«Per la crescente forza dei ribelli. Dispongono di ingenti quantitativi di armi e dimostrano una notevole capacità tattica di azione».
Da dove arrivano le armi?
«Strategicamente è il lungo confine turco che consente di far avere rifornimenti ai ribelli ma le armi probabilmente arrivano dai Paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita. Un’altra ipotesi è che i sauditi, o altri Paesi arabi, paghino le armi turche che poi Ankara fa arrivare ai ribelli».
Cosa pensa del nuovo leader curdo del Consiglio nazionale siriano?
«Sono due gli aspetti importanti. Anzitutto è un curdo e dunque lascia intendere la volontà di coinvolgere nella rivolta la più numerosa minoranza siriana, finora rimasta alla finestra. In secondo luogo Abdelbasset Seida non ha alcun tipo di potere e questo giova ai Fratelli musulmani, che sono la forza politica più organizzata dell’opposizione».
Dunque il cambio della guardia avvenuto alla guida dell’opposizione favorisce i Fratelli musulmani?
«L’assenza di un leader forte alla testa del Consiglio nazionale siriano è il migliore risultato possibile per i Fratelli musulmani, che sapevano di non poter ambire a quel posto».
Che legame c’è fra i Fratelli musulmani siriani ed egiziani?
«Sono entità diverse perché si separarono a causa di una scissione ma ideologicamente hanno una matrice comune. Non c’è un’unica cabina di comando che distribuisce gli ordini a tutti ma vi sono piattaforme e idee comuni».
l’Unità 12.6.12
Manifestazione oggi a Mosca Blitz all’alba nelle case
degli oppositori
di Ma. M.
«Salve 1937». È la traccia che su Twitter spiega cosa sta succedendo a Mosca, nel turbinio di perquisizioni, interrogatori e arresti che precedono la manifestazione dell’opposizione anti-Putin, prevista per oggi. Il ’37, neanche a dirlo, è l’anno peggiore delle purghe staliniane, alle quali viene paragonata la vendetta che il rieletto presidente Putin ha covato per mesi. Ieri decine di uomini armati e a volto coperto hanno fatto irruzione nelle case dei leader della protesta. «Notevole, hanno quasi segato la porta di casa», ha immediatamente twittato il blogger anti-corruzione Alexei Navalni, notando che la perquisizione è risultata proficua: «Sembravano contenti, hanno portato via i dischi con le foto dei miei figli», dopo aver frugato anche tra i giocattoli e aver sequestrato una t-shirt con uno slogan anti-Putin. Perquisite anche le abitazioni di capo del Fronte di Sinistra Sergei Udaltsov, del leader di Solidarnost Ilia Iashin e dell’attivista ecologista Evghenia Cirikova e le sedi dei loro gruppi. Stesso trattamento anche per la vedette tv Ksnenia Sobciak: gli agenti le hanno sequestrato valuta straniera per 1,5 milioni di euro, lei che ne guadagna due all’anno ha rivendicato il diritto di fare ciò che crede del denaro, anche tenerlo in casa. Tutti sono stati convocati oggi per un interrogatorio, malgrado sia una giornata di festa il Giorno della Russia. Per una coincidenza tutt’altro che casuale, dovranno presentarsi un’ora prima dell’inizio del corteo di protesta. Devono rispondere sugli incidenti verificatisi alla manifestazione del 6 maggio scorso, alla vigilia del ritorno di Putin al Cremlino. Finora ci sono stati una quindicina di arresti.
Il giro di vite era annunciato. Venerdì scorso Putin ha firmato la controversa legge anti-manifestazioni promossa da Russia Unita. La nuova normativa prevede multe salatefino a 25.000 euro per gli organizzatori di cortei non autorizzati e il presidente russo ha anche preteso che sia stata ispirata a leggi in vigore in Europa. La manifestazione di oggi è stata autorizzata ma fino ad un massimo di 50.000 persone: la multa scatta anche se i partecipanti saranno di più. Spiccioli per Navalni, che rischia anche di dover pagare una multa milionaria per aver definito Russia Unita «il partito dei ladri e dei truffatori». Un grande ritorno al passato.
Corriere 12.6.12
Perquisizioni nelle case dei dissidenti
MOSCA — Alla vigilia della nuova manifestazione di piazza a Mosca, autorizzata dal Comune fino a un massimo di 50 mila persone, agenti delle forze speciali del ministero dell'Interno armati e con il volto coperto da passamontagna hanno perquisito all'alba case e uffici dei principali leader dell'opposizione: dal popolare blogger Alexei Navalny al capo del Fronte di Sinistra Sergei Udaltsov, dal leader di Solidarnost Ilia Iashin alla paladina ecologista Ievghenia Cirikova che ha evocato il 1937, l'anno nero delle purghe staliniane. Non è stata risparmiata la stella tv Ksenia Sobciak (la «Paris Hilton russa» figlia dell'ex sindaco di San Pietroburgo Anatoli Sobciak). Tutti convocati per un interrogatorio oggi, un'ora prima del corteo di protesta che da piazza Pushkin arriverà a corso Sakharov.
Corriere 12.6.12
Le pillole per essere i primi della classe Gli esami «dopati» nei licei americani
Uno studente su quattro ricorre ai farmaci, ricette facili per procurarseli
di Massimo Gaggi
NEW YORK — Studenti che, oltre a consegnare il telefonino prima dell'esame, alla fine si sottopongono a un controllo antidoping, come i calciatori a fine partita? Impensabile, certo. Eppure in America c'è chi si sta convincendo che, senza misure radicali come un test delle urine, sia ormai impossibile arginare il crescente ricorso degli studenti, soprattutto liceali, alle anfetamine e ad altri farmaci capaci di migliorare il rendimento scolastico.
Nelle scuole li chiamano il «biglietto d'oro» (golden ticket): il passaporto per entrare nelle università più esclusive d'America dopo aver superato brillantemente gli esami. Non è un fenomeno nuovo, né solo americano: è dagli Anni 80 che i medici si chiedono se prescrivere queste pillole a ragazzi con qualche problema di apprendimento ma non affetti da forme gravi di ADHD, la sindrome da deficit d'attenzione e iperattività. E, dal Ritalin all'Adderall, i farmaci sotto accusa esistono da molto tempo. Ora, però, alcune inchieste dimostrano che la diffusione del fenomeno sta diventando impressionante: 21 milioni di ricette nei soli Stati Uniti dove in molti istituti più di un quarto degli studenti ricorre saltuariamente alle pillole stimolanti. Nelle scuole più competitive a farne uso è addirittura la maggioranza dei ragazzi, impegnati allo spasimo per conquistare i voti che aprono le porte delle accademie della Ivy League: quelle che, in teoria, ti mettono in «pole position» per un lavoro ben retribuito.
Un'indagine a campione condotta di recente dal Cnr stima che in Italia siano 150 mila, il 6 per cento circa, gli studenti di 15-19 anni che fanno uso di tranquillanti e stimolanti. E in Cina, come ha raccontato un mese fa sul Corriere Marco Del Corona, è diventato uno scandalo nazionale il caso della scuola più competitiva nella quale gli studenti non si limitavano a impasticcarsi ma, addirittura, studiavano in classe con un ago piantato in vena e la flebo di amminoacidi appesa sulla testa.
In America non si vede nulla di così estremo, ma il mix di assuefazione culturale, pressione sui medici, sottovalutazione dei rischi clinici, nuovi ritrovati farmaceutici, crea una situazione assai preoccupante.
Ad esempio gli stimolanti, che prima dovevano essere assunti di continuo, anche in classe, con relativi imbarazzi, ora sono disponibili in formulazioni a rilascio graduale: una pillola prima di uscire di casa è si rimane lucidissimi per tutto il giorno. Come procurarsela? Da medici compiacenti, si sa. Ma c'è anche un fiorente commercio scolastico: un'inchiesta del New York Times racconta le storie di studenti affetti da sindrome ADHD (o che dichiarano di averne i sintomi solo per farsi prescrivere i farmaci) che vendono tutte o parte delle loro pillole ai compagni. È un reato, non diverso dallo spaccio di droga, ma nessuno sembra accorgersene. Decine di studenti hanno risposto senza problemi al sondaggio del quotidiano, chiedendo solo di non essere identificati col loro vero nome.
A volte i genitori, che hanno investito tutte le loro risorse negli studi dei figli e li vogliono vedere a tutti i costi in un'accademia di rango, sono consapevoli che la partita viene giocata «con le carte truccate». Altre volte ignorano tutto: i ragazzi scoprono da soli, grazie a un amico, che basta una pillolina per ottenere un risultato brillante agli esami senza doversi dannare l'anima sui libri.
Questi «turbostudenti» falsano il sistema meritocratico sul quale si basano le selezioni nelle scuole Usa e si espongono a gravi rischi per la loro salute. I ragazzi del «fai da te» (la maggioranza, stando ai sondaggi) aumentano le dosi quando vedono che l'efficacia del farmaco comincia a ridursi. Si espongono così a crisi di insonnia, inappetenza, comportamenti aggressivi. A volte si arriva alla crisi cardiaca.
Sembra di rileggere storie di doping nello sport fatte di ignoranza, calcoli sbagliati, timore di essere superato dal ciclista più dopato di te. E non si tratta solo di sport: in una società nella quale molti musicisti usano i betabloccanti per avere più sprint nei concerti, e c'è sempre una pillola per stare svegli, per dormire, per divertirsi, per fare sesso, è difficile convincere i giovani a tenere lo studio fuori da questo meccanismo infermale: «Per un medico che prescrive il Viagra certificando disfunzioni erettili inesistenti, è poi difficile rifiutare un farmaco della concentrazione a uno studente in difficoltà» avverte sull'Huffington Post Lawrence Diller, docente di pediatria comportamentale della University of California.
E il fenomeno, dicono gli esperti interpellati dal Los Angeles Times, diventerà ancor più pericoloso col diffondersi dei farmaci di nuova generazione contro la demenza senile, ancor più potenti di quelli per l'ADHD.
Corriere 12.6.12
Anche da noi dobbiamo correre ai ripari
di Federica Mormando
Non solo in America, anche qui. L'uso di psicofarmaci dilaga fra i ragazzi, in particolare prima degli esami. Ansiolitici per non aver paura, anfetaminici per star vigili. Procurarseli non è difficile, basta Internet. Ricerche epidemiologiche mostrano come l'uso ne divenga poi abituale: prima di qualunque prova. Poco a poco diventa prova qualunque occasione particolare: un concerto o una dichiarazione d'amore. Diamo un'occhiata alle cause. L'educazione alla dipendenza è stata globale. Il consumismo richiede il continuo bisogno di cose. Il benessere rende deboli, disabitua alle grandi fatiche. La scuola da anni fugge bocciature e premi. I giochi insegnano che per vincere devi essere un supereroe, non una persona. Il business farmaceutico ha assuefatto a considerare ogni sensazione sgradevole, ogni giusta tristezza o smarrimento, patologia, coltivando l'illusione della pillola. Molti genitori hanno arsenali di farmaci al posto della capacità di autoregolarsi. Il messaggio è chiaro: dall'esterno qualcosa deve anestetizzare l'anima e sostituire la volontà, la stima e la coscienza di sé. Che fare? Ricominciare! L'opera non è facile né veloce. Bisogna permettere e dare l'esperienza d'essere capaci di uno sforzo superiore a quello che si credeva, raggiungendo un buon risultato. Allenare quotidianamente a una disciplina non punitiva, che dia la coscienza di comandar se stessi, e quindi di potersene fidare. Gli esami sono un'occasione. Se i ragazzi han paura, accompagnamoli: un amico vale più di 10 gocce, la dipendenza dai farmaci origina anche dal dover sostituire persone che ti amino. Se dormono invece di studiare, teniamoli svegli. Se hanno paura, incoraggiamoli anche sgridandoli con un po' di humour. Se sono bocciati, ringraziamo chi ha dato il senso delle conseguenze e partiamo per un anno diverso.
Corriere 12.6.12
Intellettuali reticenti sul dissenso in Urss
La sinistra italiana e il processo Sinjavskij-Daniel
di Paolo Mieli
I funerali di Boris Pasternak, ai primi di giugno del 1960, furono il momento in cui la vecchia generazione del dissenso sovietico passò idealmente il testimone a scrittori più giovani. Il divieto di pubblicazione del Dottor Zivago in Unione Sovietica aveva messo fine alle illusioni generate dal disgelo, cioè quel breve periodo in cui, dopo le rivelazioni di Nikita Krusciov sui crimini di Stalin al XX Congresso del Pcus (1956), gli intellettuali russi avevano sperato di poter praticare qualche forma di libera espressione. Adesso, mentre Svjatoslav Richter suonava al pianoforte verticale nella dacia di Peredelkino, in molti venivano a rendere onore a Pasternak e ai sogni di quella stagione. C'è una foto che ritrae la veglia funebre: in primo piano, vicini alla bara, si riconoscono Andrej Sinjavskij e Julij Daniel, destinati a diventare, di lì a breve, gli uomini simbolo della nuova dissidenza.
Sinjavskij aveva all'epoca 35 anni, era stato soldato semplice nella Seconda guerra mondiale e si era poi laureato all'Università di Mosca con una tesi su Maksim Gorkij. Qualche anno dopo la morte di Stalin (1953), si era fatto conoscere per una serie di articoli sulla rivista letteraria «Novyj Mir», nei quali aveva elogiato la Achmatova, Babel, Esenin e lo stesso Pasternak (prendendo, invece, di mira poeti conformisti dell'età staliniana, quali Sofronov e Dolmatov). Dopodiché, nei primi anni Sessanta, avrebbe dovuto fare i conti con la censura, per aggirare la quale aveva assunto il nome di Abram Terz (ebreo di Odessa, noto borsaiolo, reso celebre da una canzone della mala) e aveva fatto pubblicare i suoi testi all'estero. Impresa per la quale gli avrebbe dato una mano, come traduttore, Julij Daniel, che si era camuffato dietro il nome di Nikolaj Arzak.
Già dal gennaio del 1962 apparvero sulla stampa dell'Urss articoli che puntavano il dito contro i «falsi antisovietici» contenuti in alcuni scritti di «un certo Abram Terz», «falsi» voluti dai «soliti mestatori della Guerra fredda». Segno che da almeno tre anni le autorità sovietiche erano sulle tracce dei due. Quando furono certe della loro identità, su denuncia di alcuni amici di Sofronov e Dolmatov, presero a pretesto un pamphlet di Sinjavskij contro il realismo socialista e lo trascinarono in giudizio assieme a Daniel, che lo aveva tradotto. L'accusa sosteneva che i due erano «rei di aver contrabbandato all'estero, pubblicandoli presso case editrici ostili, i propri scritti diffamatori del sistema politico e sociale del loro Paese»; di conseguenza erano da considerarsi «doppiogiochisti, rinnegati e traditori della Patria». I due imputati ammisero la paternità degli scritti, ma ne rivendicarono la liceità dal momento che pubblicare all'estero non era di per sé un reato; le opere in questione — sostenevano poi — erano creazioni letterarie e non potevano in alcun modo rientrare nella categoria della propaganda antisovietica.
Strano dibattimento. Stalin era scomparso da 13 anni, da due era stato deposto anche Krusciov, si entrava nell'era di Leonid Brežnev e però per questo genere di processi in Urss poco era cambiato. Certo, venti o trent'anni prima i dissidenti sarebbero andati direttamente al patibolo, mentre adesso si finiva «soltanto» nel gulag. Ma in quel febbraio del 1966 accadde qualcosa di veramente insolito: per la prima volta (con l'eccezione, forse, di quel che era accaduto nel 1964 a Leningrado, dove il poeta e futuro premio Nobel Josif Brodskij, accusato di «parassitismo», non aveva collaborato con i giudici), gli imputati respinsero le accuse con energia e tennero in aula un atteggiamento combattivo. Questo nonostante prima del dibattimento, proprio al fine di piegarli, fossero stati segregati nel carcere della Lubjanka per ben cinque mesi, dal settembre del 1965 al febbraio dell'anno successivo.
Scriverà di loro Varlam Šalamov, l'autore de I racconti di Kolyma: «Fosse successo vent'anni fa sarebbero stati fucilati in qualche sotterraneo della polizia segreta o sarebbero stati sottoposti all'istruttoria stile "catena di montaggio", quando gli inquisitori si danno il cambio mentre l'accusato è costretto nella stessa posizione per molte ore, per molti giorni, finché la sua volontà è spezzata e la psiche non lo regge più; oppure li avrebbero uccisi addirittura in corridoio». Invece, sempre secondo Šalamov, «sono stati i primi ad accettare la lotta, dopo quasi cinquant'anni di silenzio; il loro esempio è grande, il loro eroismo indiscutibile… hanno rotto con l'obbrobriosa tradizione dei pentimenti e delle confessioni».
La principale accusatrice fu una loro collega mandata in aula dall'Unione degli scrittori: Zoja Kedrina, che li aveva già denunciati in più di un articolo sulla «Literaturnaja Gazeta». Victor Dmitrievic Duvakin, che era stato professore di Sinjavskij, volle testimoniare a favore dell'allievo, con il risultato di perdere la cattedra e di ritrovarsi a fare l'aiuto bibliotecario. L'accusa convocò poi come teste a carico lo studioso d'arte Igor Golomstok, ma lui rifiutò di fare i nomi di chi gli aveva dato da leggere le «opere proibite» di Sinjavskij e dovette subire, per questo, qualche mese di prigione. Andrej Mensutin, che con Sinjavskij aveva curato un libro sulla poesia nei primi anni successivi alla rivoluzione d'Ottobre, fu licenziato dall'Istituto di letteratura mondiale per essersi comportato come Golomstok. Dina Kamiskaja, indicata da Daniel come proprio avvocato, dovrà rinunciare perché le autorità le impediranno financo di mettere piede nelle vicinanze del tribunale. Ma sarà lei a rendere nota la determinazione dei due scrittori, decisi a difendere le proprie convinzioni e il diritto ad esprimerle; determinazione che aveva costretto molte persone a riconsiderare il proprio punto di vista circa l'atteggiamento morale da tenere in circostanze del genere.
Il processo durò quattro giorni, dal 10 al 14 febbraio del 1966. Il 15 febbraio, la sentenza: sette anni di lavoro forzato a Sinjavskij e cinque a Daniel. Il regime cui vennero sottoposti i due letterati era tra i più severi. Prevedeva la possibilità di scrivere solo due volte al mese ed esclusivamente ai parenti stretti; un incontro l'anno con un congiunto e altre tre volte, nell'arco degli stessi dodici mesi, brevi colloqui alla presenza dei secondini. Nient'altro. Scrisse la «Pravda» che il responso dei giudici era stato accolto «dagli applausi del pubblico presente». Quella sera, però, un centinaio di persone tra le quali Aleksandr, figlio del poeta Sergej Esenin, e Vladimir Bukovskij si riunirono ai piedi del monumento a Puškin per solidarizzare con i due condannati. E anche questa fu una novità.
Sul caso fu redatto da Aleksandr Ginzburg, con grande rapidità, un Libro bianco che la Jaca Book pubblicò in Italia già nel 1967. Ginzburg fu trascinato, a sua volta, a processo nel gennaio del 1968 assieme ad altri tre suoi compagni, tutti e quattro detenuti illegalmente per un anno: Jurij Galanskov, Aleksej Dobrovolskij (che si piegherà e accuserà i compagni), Vera Laskova (incriminata per aver battuto a macchina il Libro bianco). Nuove condanne e nuove proteste. Stavolta le guida Andrej Sacharov, assieme a Larisa Bogoraz e Pavel Litvinov. Nell'aprile del 1968 inizia a uscire come samizdat (stampato in proprio) il periodico «Cronache degli avvenimenti correnti», che dà voce al dissenso. È il 1968: purtroppo in Europa occidentale, tranne qualche rara eccezione, il movimento degli studenti non mostra grande sensibilità nei confronti di questi temi.
Scontata la prigionia, Daniel riprese a fare il traduttore, ma con il nome Petrov, stavolta per imposizione delle autorità sovietiche che pretesero di far sparire lui o quantomeno il suo nome dalla storia della letteratura del Paese. Morì nel 1988, pochi mesi prima del crollo del Muro di Berlino. Sinjavskij fu più «fortunato»: condannato ancora ad altri anni di gulag, nel 1973 fu scambiato con due spie sovietiche e poté espatriare prima negli Stati Uniti, poi in Francia; sopravvisse alla fine del comunismo, si stabilì definitivamente a Parigi dove insegnò alla Sorbona e ottenne — negli ultimi vent'anni di vita, prima della scomparsa (1997) — i riconoscimenti che meritava. E fu ancora al centro di un caso letterario per via del libro che aveva scritto nei primi mesi di prigionia, Passeggiate con Puškin, che adesso Jaca Book pubblica con un'avvincente postfazione di Sergio Rapetti. Lo stesso Rapetti che sul caso Sinjavskij-Daniel aveva scritto un saggio magistrale, L'altra contestazione: la resistenza all'arbitrio e alla menzogna nel mondo del dissenso russo, pubblicato sempre da Jaca Book nel ricco volume curato da Pier Paolo Poggio L'Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico.
Ma torniamo al caso del 1966. Il Pen Club promosse una manifesto internazionale a favore dei due scrittori. Lo firmarono in Gran Bretagna Cyril Connolly, E.M. Forster, Rosamond Lehmann, Angus Wilson, negli Stati Uniti W. H. Auden, Saul Bellow, Mary MacCarthy, Edward Albee, Lewis Mumford, J.R. Lowell, Arthur Miller, Robert Penn Warren, Dwight MacDonald, Norman Mailer; in Francia Jean Cassou, Pierre Emmanuel, François Mauriac, Alain Robbe-Grillet, ma nessun intellettuale vicino al Partito comunista francese.
Può apparire strano ma, come ha fatto notare Mario Margiocco in Stati Uniti e Pci (Laterza), il Partito comunista che in Europa si mostrò più sensibile al caso Sinjavskij-Daniel fu quello spagnolo, guidato da Santiago Carrillo. Un partito che si batteva in clandestinità contro la dittatura di Francisco Franco e che colse l'occasione per manifestare il proprio dissenso dall'Unione Sovietica, la quale già da due anni aveva avviato una politica di distensione con il regime di Madrid. I comunisti spagnoli furono dunque paradossalmente i più decisi a prendere le parti dei due scrittori sovietici, ma le loro posizioni furono poco conosciute e restarono agli atti esclusivamente come primo seme di quello che dieci anni dopo avrebbe preso il nome di «eurocomunismo».
In Italia invece il Pci si barcamenò: espresse «preoccupata riserva», ma, si affrettò a specificare, «senza una facile dissociazione di responsabilità». Ed enfatizzò la circostanza che il processo non si fosse svolto a porte chiuse: «No, il pubblico c'era anche se selezionato», scrisse «l'Unità». All'appello del Pen Club aderirono, tra gli intellettuali italiani, Libero Bigiaretti, Diego Fabbri, Ignazio Silone, Giancarlo Vigorelli e, tra quelli (relativamente) più vicini al Pci, Alberto Moravia e Italo Calvino.
Particolarmente impegnato a favore di Sinjavskij e Daniel fu un articolo di Arrigo Benedetti sull'«Espresso». Al quale rispose con toni sprezzanti il direttore dell'«Unità» Mario Alicata, accusando Benedetti di essersi associato ad uno dei «soliti tentativi di speculazione» contro l'Urss. Perché, si chiedeva Alicata, se «in Italia Benedetti, che è repubblicano, ha il diritto di invocare giustamente le leggi contro le attività antirepubblicane», in Urss non si dovrebbe avere il diritto di «invocare la legge contro le attività antisovietiche?». Poi, tornando ai «tentativi di speculazione», Alicata si rivolge a Benedetti con queste parole: «Lasci questo triste mestiere a chi — come Silone, per esempio — è da tempo professionista in questo campo. E dorme sonni beati quando — e capita tutti i giorni — gli Stati "liberali" e "democratici" (come l'America e il Belgio, per esempio), ammazzano a man salva, a casa propria e fuori, chi si azzarda a contestare il sistema». La replica di Benedetti è sferzante: «Noi tutti — compreso Mario Alicata — viviamo in un Paese libero», nel quale si possono discutere le leggi quando sono inique e liberticide e criticare i giudici quando sono ingiusti o «diventano comici»: «Che hanno di diverso i giudici russi? Sono unti da una recondita divinità verso cui non si può sollevare lo sguardo senza tremare?».
Alicata, ha fatto notare Nello Ajello in Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 edito da Laterza, scomparve poco dopo il caso Sinjavskij-Daniel: «Certi toni scomposti non sono più obbligatori. La prudenza reticente prevale sull'aggressività missionaria. E tuttavia una qualsiasi condanna della burocrazia culturale sovietica, forse la più ottusa della storia, si fa ancora attendere mentre, con Berlinguer, una nuova generazione arriva al vertice del partito. L'intellighenzia comunista italiana rischia perfino di venir sopravanzata da quella centrale di conformismo che è sempre stato il Partito comunista francese. Lì il poeta Louis Aragon, direttore delle "Lettres françaises", a chi nel 1969 gli domandava se Aleksandr Solzhenitsyn e il suo dissenso non diffamassero l'Urss, rispondeva ruvidamente di non capire come, in Unione Sovietica, si potessero proibire al pubblico "libri che testimoniano, con tanta elevatezza, del nostro secolo". E aggiungeva: "Occorre dire ai nostri amici sovietici che diffamante per il loro Paese è piuttosto il trattamento inflitto a quello scrittore". Occorrerebbe questo rovesciamento di responsabilità (non è indecoroso criticare un regime, è indegno censurare le critiche) per segnare il vero distacco da un cerimoniale invecchiato».
Due mesi dopo il processo a Sinjavskij e Daniel, nel corso del congresso del Pcus che si tiene a Mosca, uno dei più grandi scrittori «ufficiali» sovietici, Michail Šolochov, definisce «scribacchini» i due artisti mandati al Gulag. Stavolta interviene, sempre sull'«Espresso», Alberto Moravia che così si indirizza a Šolochov: «La tua idea dell'arte rappresenta un pericolo non soltanto per l'arte dell'Unione Sovietica, ma del mondo intero».
Renato Guttuso, invece, secondo Ajello, «si sforza con qualche pena di distinguere», nella prassi giudiziaria in vigore a Mosca, fra «critica» e «calunnia» ed esprime la sua speranza in «riforme che modifichino le leggi repressive». Incalzato, sull'«Espresso», da Paolo Milano e Manlio Cancogni, Guttuso dice: «La posizione di "preoccupata riserva" è quella di comunisti che parlano di altri comunisti e quindi li debbono criticare con un linguaggio diverso, respingendo la speculazione che è stata fatta sul caso, montata artificiosamente e in modo veramente mostruoso». Se c'è qualcosa di mostruoso, protesta dunque il pittore, è la speculazione che si è fatta sul caso Sinjavskij-Daniel. Guttuso insiste sul tema della consanguineità tra comunisti italiani e sovietici: «Il nostro dissenso è la critica di persone che si sentono corresponsabili perché militano nello stesso partito e che perseguono stessi obiettivi». Per poi concludere con argomenti al limite del credibile: «Sappiamo che Sinjavskij ha pubblicato in Urss su riviste sovietiche saggi che, a detta di chi li conosce, sono perfettamente conformi alle linee generali del partito. E questa non è una cosa che deponga a favore di Sinjavskij, il quale all'interno scriveva in un modo mentre all'estero… Non sono io che ho fatto le leggi sovietiche, tuttavia un artista non deve fare il doppio gioco, ma difendere le sue idee senza ricorrere a sotterfugi».
La rivista del Pci, «Rinascita», stronca i due scrittori appena condannati a Mosca con un velenoso articolo di Gian Carlo Pajetta. «Il processo», scrive Pajetta, «ha suscitato una ripresa di antisovietismo fazioso e interessato: dobbiamo condannare queste manifestazioni e lo facciamo con convinzione e anche con sprezzo». Il processo, dice Pajetta, «si è svolto nel rispetto formale della legge e delle procedure vigenti» e solo «osservatori ostili all'Unione Sovietica» possono negare questa circostanza. Ma coraggiosamente esce allo scoperto un giovane comunista esperto di letteratura russa, Vittorio Strada. Strada fa osservare: «È certo che alla propaganda antisovietica giova di più una sentenza come quella emessa contro Daniel e Sinjavskij che non tutti i libri pubblicati da questi ultimi all'estero». Però a merito di «Rinascita» va detto che la rivista fondata da Palmiro Togliatti apre sul tema un dibattito tra i lettori dove si affacciano — nella proporzione di una a dieci — opinioni, come quella di Giuseppe Baglio, favorevoli ai due scrittori condannati. Anche Umberto Terracini è, pur tra molte cautele, in dissenso con l'opinione prevalente nel suo partito e lo scrive in un articolo pubblicato sull'«Unità» il 19 febbraio di quel 1966.
Ma il caso più clamoroso è quello che investe Leonardo Sciascia. Nel giugno del 1966 Vsevolod Kocetov, direttore della rivista russa «Oktjabr», viene in Italia accompagnato da una dirigente della commissione esteri dell'Unione degli scrittori sovietici, Irina Ogorodnikova. Tornato in Unione Sovietica, Kocetov scriverà un articolo sul settimanale «Ogonëk» in cui racconterà di aver incontrato alcuni romanzieri italiani che gli avevano dato giudizi negativi su Sinjavskij e Daniel. Tra questi Leonardo Sciascia che gli avrebbe detto: «Prima di tutto l'azione dei vostri letterati in incognito non suscita qui da noi nessuna simpatia. Se un uomo onesto non è d'accordo con qualche cosa, lo dica apertamente. E se si permette di avere due facce, non è più un uomo onesto. In secondo luogo non ho letto i loro libretti tanto strombazzati. I libri attorno ai quali incomincia il chiasso politico, io non li leggo… possibile che nelle decine di libri sovietici editi in questi ultimi anni in traduzione italiana, non si vedano "gli aspetti singolari di quel mondo"?». Come dire: bisognava aspettare quei due per sapere qualcosa di vero dell'Urss?
Di nuovo scendeva in campo Vittorio Strada che, in un articolo su «Rinascita», evitava di attaccare Sciascia ma non risparmiava Kocetov. Sullo stesso numero di «Rinascita» compariva una precisazione di Sciascia: «Io parlavo in italiano, Kocetov in russo, l'interprete che lo accompagnava in francese e in russo… quel che volevo dire è che ritenevo non si avesse il diritto all'indignazione in un Paese come il nostro, dove esiste un articolo di legge simile a quello per cui i due scrittori erano stati condannati in Russia e dove l'obiezione di coscienza viene duramente punita». E, aggiungeva, «trovo che spesso si traduca velocemente qualche mediocre opera, purché esprima dissenso» In sostanza Sciascia ammetteva di aver detto a Kocetov le cose che questi aveva riportato. Solo dieci anni dopo, in coincidenza con il suo allontanamento dal Pci (dopo una polemica con Renato Guttuso ai tempi del sequestro e dell'uccisione di Aldo Moro) e con il suo ingresso nel Partito radicale, Sciascia avrebbe rivisto quei giudizi.
Ciò che stupisce di queste vicende è che si siano svolte non già nell'Urss staliniana e nei partiti comunisti (o tra gli scrittori, i pittori, i cineasti che per essi simpatizzavano) nell'età in cui l'Europa doveva fare i conti con il fascismo, il nazismo, la guerra. No, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, da oltre un decennio sono state rivelate al mondo le nefandezze di Stalin, si vive una stagione di modernizzazione senza precedenti, eppure l'attenzione alle parole d'ordine provenienti dall'Urss per tanti (quasi tutti gli intellettuali d'area Pci) viene prima dell'evidenza dei fatti. E i nomi di Sinjavskij e Daniel non verranno nemmeno presi in considerazione per entrare nel Pantheon della nascente nuova sinistra.
Le cose andarono quasi meglio in Unione Sovietica. Pochi giorni dopo la condanna, 62 membri dell'Unione degli scrittori dell'Urss indirizzarono una lettera al Presidium del XXIII Congresso del Partito comunista e ai Soviet supremi di Urss e Repubblica russa per chiedere un «atto saggio e umanitario»: quello di rimettere in libertà i condannati sotto la responsabilità dei firmatari.
Invece nell'intellighenzia dell'emigrazione russa si ebbe una singolare controversia su Sinjavskij. Nel 1975, quando uscì la prima edizione di Passeggiate con Puškin, molti esponenti del dissenso in esilio — tra i quali Aleksandr Solzhenitsyn — mossero critiche, che Rapetti definisce «sbrigative e spesso ingiustificate» al libro, accusandolo di non aveva tenuto nel debito conto le «più recenti» opere di esegesi su Puškin. Sinjavskij se ne ebbe a male in primo luogo, disse, perché era evidente fin dalle pagine iniziali di Passeggiate con Puškin che la sua voleva essere un'opera letteraria e non saggistica. Poi perché, anche se avesse voluto scrivere un saggio critico, sarebbe stato difficile ottenere di poter consultare quei «recenti» volumi su Puškin nel campo in cui era rinchiuso: «Dietro al filo spinato avrei dovuto trovarli!». E, dietro il pretesto che Sinjavskij era stato criticato anche dai dissidenti, molti di quelli che anni prima lo avevano denigrato a tutela del loro rapporto con il Partito comunista, poterono esimersi dal rivedere, come invece fece Sciascia, quei loro antichi giudizi.
Corriere 12.6.12
Comunismo in Russia e Cina. Stessa fede sistemi diversi
risponde Sergio Romano
A proposito della sua analisi sulle conseguenze del comunismo nella Russia moderna, qual è la differenza con la Cina, il cui sviluppo economico è ben diverso da quello che sta vivendo la Russia, ma che con la Russia condivide il passato comunista?
Giorgio Frappa
Caro Frappa,
La perestrojka cinese cominciò poco meno di dieci anni prima di quella russa ed ebbe una certa influenza sulla politica di Gorbaciov. Quando visitò Pechino, nella primavera del 1989, il leader sovietico voleva ricucire gli strappi degli anni precedenti, ma anche verificare di persona i risultati di un sistema che era apparentemente riuscito a conciliare l'autorità del partito con l'economia di mercato. Quella visita, tra l'altro, ebbe l'effetto di generare un interessante paradosso. Agli occhi dei giovani studenti delle università di Pechino, Gorbaciov incarnava il riformatore democratico e fu accolto con dimostrazioni entusiaste in cui era facile leggere una implicita protesta contro i metodi polizieschi della Repubblica popolare. Il regime cinese attese pazientemente che l'ospite se ne andasse e liquidò il dissenso, nei giorni seguenti, con la sanguinosa repressione di piazza Tienanmen.
Molti pensarono allora che quel bagno di sangue avrebbe chiuso il capitolo delle riforme di Deng e che il fiore della democrazia sarebbe sbocciato più facilmente a Mosca che a Pechino. Le cose, come sappiamo, andarono assai diversamente. Deng represse il dissenso, ma approfittò dell'autorità riconquistata per imprimere una maggiore accelerazione alla riforma della economia cinese; mentre Gorbaciov non riuscì a riformare né l'economia né il partito. Da quel momento i due Paesi imboccarono strade diverse. La Russia, dopo l'avvento al potere di Boris Eltsin, divenne, almeno formalmente, molto più democratica della Cina popolare; ma buona parte della sua economia passò dalle mani dello Stato a quelle avide e spregiudicate di alcuni corsari degli affari chiamati oligarchi. La Cina ha ancora un regime autoritario e repressivo, ma la sua spettacolare crescita economica ha creato una nuova borghesia a cui sono concesse libertà, fra cui quella di viaggiare, che negli anni di Mao e della rivoluzione culturale sarebbero state inimmaginabili. Forse all'origine di questa differenza vi è un importante fattore culturale. La Cina aveva, prima della rivoluzione comunista, una vivace società mercantile, molto attiva e intraprendente soprattutto lungo le coste meridionali del continente asiatico. La Russia è stata per molti secoli un Paese di nobili, proprietari terrieri, soldati e contadini.
Fra i due Paesi esiste tuttavia un interessante dato comune: la corruzione. Insieme ad altri Paesi dell'ex blocco sovietico, Russia e Cina sembrano dimostrare che la morte del comunismo provoca una sfrenata corsa al denaro soprattutto in quelle fasce sociali — poliziotti e pubblici funzionari — a cui, in passato, spettava il compito di applicare la legge, mantenere l'ordine, soffocare il dissenso. Evidentemente il comunismo non è riuscito a realizzare ciò che aveva più insistentemente promesso: l'uomo nuovo.
Corriere 12.6.12
Di Vittorio e il Piano del lavoro, storia di un sogno mai realizzato
di Antonio Carioti
Il Piano del lavoro lanciato nel 1949 da Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil, era una proposta originale e politicamente accorta, ma condannata in partenza a rimanere sulla carta. Troppo alta era la tensione tra la sinistra egemonizzata dal Pci e la coalizione moderata, nella fase più acuta della Guerra fredda, perché fosse possibile instaurare una collaborazione costruttiva per dare una prospettiva mirata allo sviluppo economico. Il governo, nonostante l'interesse manifestato da alcuni suoi esponenti, lasciò cadere l'iniziativa e anche la dirigenza comunista, Palmiro Togliatti in testa, la interpretò soprattutto in chiave propagandistica.
Il guaio è che anche gli altri tentativi di incentivare e guidare la crescita economica attraverso intese tra governo e parti sociali, esperiti in epoche a più bassa temperatura ideologica, dagli anni Sessanta ai Novanta, si sono risolti in altrettanti insuccessi. Tanto che, nella prefazione al volume Crisi, rinascita, ricostruzione (Donzelli, pp. 125, € 25), che raccoglie, a cura di Silvia Berti, gli atti di un convegno su Di Vittorio e il Piano del lavoro, l'attuale ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca segnala, sulla base di queste esperienze poco incoraggianti, la persistente difficoltà delle classi dirigenti italiane «ad amministrare con un metodo e una prospettiva di medio-lungo termine».
Poco male, si potrebbe pensare. In fondo programmare lo sviluppo è un'ambizione piuttosto intellettualistica, perché la realtà molecolare degli operatori economici sul mercato non si lascia facilmente indirizzare. Specie in un Paese d'individualisti come l'Italia, meglio affidarsi alle dinamiche spontanee, da cui è derivata per molto tempo un'espansione sorprendente, che ha elevato in modo enorme il tenore di vita medio.
Purtroppo però ci si accorge spesso, in particolare nei momenti difficili, che la crescita italiana, peraltro ormai anemica da parecchi anni, poggia su fondamenta alquanto fragili: mancano le infrastrutture, l'energia si paga a caro prezzo, il sistema formativo è scollegato dal mondo del lavoro, i costi dell'imprevidenza (si pensi al rischio sismico) diventano esorbitanti. E il divario tra Nord e Sud tende ad accentuarsi, fino a mettere in discussione l'unità nazionale.
Appare evidente, leggendo i testi del grande sindacalista pugliese riportati in appendice al volume, che Di Vittorio parlava a una società ben distante da quella attuale: si pensi solo che all'epoca gli italiani emigravano in massa, mentre oggi il nostro Paese ospita milioni di lavoratori stranieri. Non si tratta allora di attribuire al leader della Cgil doti profetiche che non aveva, ma di capire se il problema di fondo posto dal Piano del lavoro, l'opportunità di un intervento pubblico volto a correggere gli squilibri socio-economici, sia tuttora rilevante. A occhio e croce, parrebbe di sì. Ma servono idee nuove e poche se ne vedono in giro.
l’Unità 12.6.12
I miei 90 anni tra le stelle
di Margherita Hack
Ho vissuto gli anni bui del fascismo ma poi l’Italia è rinata dopo la guerra
Mi ricordo le leggi razziali: la mia professoressa di Scienze, Enrica Calabresi, venne allontanata perché ebrea e si suicidò in carcere. Però, dopo 20 anni da incubo, il Paese si è rialzato. Ai giovani dico: affrontate la vita come una gara
OGGI COMPIO NOVANT’ANNI. SI PUÒ DIRE CHE HO VISSUTO QUASI UN INTERO SECOLO. Anzi, se mi guardo indietro e torno con la memoria fino ai racconti che mi faceva il babbo quando ero piccolina, mi sembra di aver vissuto più d’un secolo.
Il babbo mi raccontava della miseria che c’era nel nostro Paese dopo la prima guerra mondiale, dei tanti disordini e degli scioperi continui che resero possibile l’avvento del fascismo. Tutta la mia infanzia l’ho vissuta sotto il fascismo, per la verità senza capire molto di quello che accadeva. Ricordo le ultime elezioni del ’29: un nostro conoscente ci raccontava che le schede erano semitrasparenti, quelle a favore del fascismo avevano un tricolore disegnato sopra, quelle contrarie erano bianche, cosicché anche quando erano chiuse si vedeva in trasparenza per chi avevi votato. Ricordo i quaderni di scuola con le frasi del duce: «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende», «Credere, obbedire, combattere», «L’impero è tornato a risplendere sui colli fatali di Roma». E ricordo i temi che ci chiedevano di fare, quasi tutti improntati all’esaltazione della patria fascista. Il sabato si andava a scuola in divisa e si doveva marciare, per noi era un divertimento: meglio marciare che stare seduti sui banchi.
Cosa fosse il fascismo l’ho capito solo nel ’38 con la promulgazione delle Leggi Razziali. All’epoca andavo al liceo e avevo una professoressa di scienze che si chiamava Enrica Calabresi. La vidi sparire da un giorno all’altro, era stata cacciata dalla scuola perché ebrea. Avevamo anche compagni, amici ebrei che da quel momento furono costretti a nascondersi. Cominciai così a capire la pazzia di quel regime sotto il quale i cittadini erano trasformati in sudditi senza nessun diritto. Chi fosse veramente la professoressa Calabresi e che fine avesse fatto l’ho capito solo molti anni dopo. Stavamo registrando una trasmissione tv assieme a Piero Angela alla Specola di Firenze e lì incontrai due studiose che avevano condotto una ricerca. Scoprii così che Enrica Calabresi era una brava ricercatrice che aveva pubblicato già all’epoca una cinquantina di lavori originali di entomologia e che aveva ottenuto il titolo di libero docente, equivalente all’attuale dottorato di ricerca. Poi la lettera in cui si diceva che l’incarico di docenza decadeva in quanto la professoressa era di razza ebraica. Un titolo guadagnato con l’impegno veniva tolto perché si era di un’altra religione. La professoressa Calabresi venne arrestata nel 1943 e si suicidò dopo 20 giorni di carcere.
I GIORNI DEI BOMBARDAMENTI
Ricordo gli ultimi tempi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e la speranza che Mussolini ci ripensasse. Poi ricordo la guerra: l’oscuramento, i bombardamenti, le tessere per prendere qualsiasi cosa. Ricordo le grandi ristrettezze in cui vivevamo, si ascoltava Radio Londra per sapere davvero come stavano andando le cose e si tenevano sempre le finestre ben chiuse. Finalmente ho visto il dopoguerra. Il 1945 fu un periodo di grande entusiasmo e di curiosità. C’erano capannelli nelle strade con la gente che discuteva, alcuni ci raccontavano i programmi dei partiti che allora ci sembravano tutti uguali. Ricordo i giorni del Referendum per scegliere tra repubblica e monarchia: andavamo a fare sondaggi nei seggi per capire come fosse andata. E ricordo quando arrivarono finalmente i risultati: la monarchia, complice del fascismo, se ne andava. Cominciava un periodo di grandi iniziative, di voglia di lavorare e ricostruire. Era un’Italia molto viva. Bisognerebbe ritrovare l’energia di allora per cavarcela anche oggi.
Ho assistito a grandi cambiamenti di costume nel corso della mia vita. Quand’ero giovane c’era una grande differenza tra le classi sociali e si vedeva. Basti pensare che le signore borghesi, anche piccolo borghesi, non uscivano mai senza cappello. Senza cappello andavano le operaie e le donne di servizio. Ricordo che anche mia madre, che pure non era molto attenta a queste formalità, il cappello lo portava sempre. Io, però, non l’ho mai portato.
Negli anni successivi, sotto l’azione di due grandi forze democratiche, il Pci e la Dc, l’Italia avanzò in molti campi. A cominciare dall’istruzione: la scuola media diventò uguale per tutti. Era una cosa importante perché permetteva di scegliere cosa fare da grandi a 13-14 anni e non a 10 come prima. Tutti avevano diritto all’istruzione fino a 13 anni e questo riduceva le differenze di classe. Anche il diritto di famiglia è cambiato radicalmente. Ricordo quando nel passato era il marito a scegliere la residenza e la moglie lo doveva seguire. Esisteva il delitto d’onore e la donna veniva punita diversamente dall’uomo e con maggiore severità in caso di adulterio.
E poi in questi ultimi anni ho assistito a enormi cambiamenti tecnologici. Sembra poco tempo fa quando negli anni Settanta avevo una collaborazione con il dipartimento di astronomia di Princeton nel New Jersey e ci si scambiava per posta i nastri magnetici. Ci mettevano settimane per viaggiare sull’Oceano e ci dovevamo raccomandare che non venissero fatti passare nello scanner. Oggi si comunica in tempo reale con Internet, si parla e ci si vede in tempo reale. Le distanze sono state quasi eliminate. Per non parlare dei grandi progressi che sono stati fatti nel campo della strumentazione, non solo nell’astrofisica.
Insomma, quello che ho visto è stato un secolo estremamente vivace, con cambiamenti più grandi di quelli avvenuti nei 2.000 anni precedenti. Ora guardo al futuro e sono ottimista. L’Italia ne ha viste tante e si è sempre tirata fuori. Certo, negli ultimi anni abbiamo assistito alla finanza allegra, alla mancanza di rispetto per le leggi e per lo stato, ma io credo che ce la caveremo ancora una volta.
Ai giovani vorrei dare un consiglio: scegliere la professione che interessa di più. Quando dovrete decidere cosa studiare, non pensate solo a cosa vi permette di trovare lavoro, ma a quello che vi piace veramente. Poi fatelo seriamente. Alle ragazze, in particolare, consiglio di avere più fiducia in se stesse e pretendere che i loro diritti vengano rispettati. E, da ex sportiva, voglio dare un ultimo consiglio a tutti: affrontate la vita come s’affronta una gara. Con la voglia di vincere.
Corriere 12.6.12
Novant’anni a rimirar le stelle
di Giovanni Caprara
Il cielo brilla sempre negli occhi di Margherita Hack. A volte nel ricordo lontano di una ricerca, altre per lo stupore che ancora nasce davanti al buio di una notte stellata. Tuttavia c'è sempre il disincanto, il razionale piacere, mai la cieca passione che snatura le cose. Oggi Margherita, «Marghe» per gli amici, compie novant'anni e la sua lunga storia (Nove vite come i gatti, Rizzoli, pp. 133, 16), affidata alla lieve penna di Federico Taddia, appassiona soprattutto perché dalle pagine esce una «scienza della vita» come da lei interpretata e vissuta.
Bambina a Firenze, dai genitori raccoglie principi di correttezza, la scelta vegetariana per amore degli animali ma non lesina un giudizio di stranezza per le loro idee teosofiche. Nelle letture non è attratta dalla fantascienza e all'astronomia ci arriva per caso. Iscritta a Lettere, alla prima lezione ascoltava Giuseppe De Robertis: «Un professorone che scriveva sempre sulla terza pagina del "Corriere della Sera". Parlò per un'ora di Pesci rossi, una raccolta di scritti di Emilio Cecchi. Mi annoiai a morte e capii subito di aver fatto un errore madornale». E ricordandosi della scienza in cui riusciva bene al liceo, studiava fisica. Le stelle caddero sui libri solo alla tesi, quando interessata a una ricerca sulla nascente elettronica si vedeva ordinare un'indagine sulla vecchia, polverosa e ottocentesca elettrostatica. «L'argomento non mi interessa» comunicò al relatore senza lasciargli possibilità di replica.
Così incidentalmente dal momento che «non sono mai stata una di quelle ragazze che si squagliavano di romanticherie sotto il firmamento, preferivo alzare il naso per aria e dare una possibilità a una scienza che fino allora non aveva avuto particolare importanza nella mia vita». Era attratta dalle «splendide anomalie» ed esplorava i segreti delle stelle Cefeidi, orologi cosmici nel loro regolarissimo brillare. Ricorda il professor Abetti, una «mosca bianca tra i baroni» che all'osservatorio di Arcetri le chiedeva con umiltà di spiegargli che cosa stesse studiando. E gli incoraggiamenti a compiere esperienze straniere. Volerà a Parigi e poi lascerà Arcetri lanciando una frecciata al successore di Abetti, Guglielmo Righini «innamorato del dio Sole».
Con Aldo, il compagno di giochi infantili diventato il compagno della vita, si trasferirà all'osservatorio di Merate dove un «barone vero», di cui non scrive neanche il nome, vorrebbe impedirle di compiere nuove esperienze in altri Paesi. Però Margherita va, inesorabilmente. Prima in Olanda, poi negli Stati Uniti, a Berkeley. Qui stringe amicizia con l'astronomo russo Otto Struve fuggito in America dove il suo nome era già noto, durante la rivoluzione bolscevica. Ed è lì che raggiunge la sua scoperta sulla stella Epsilon Aurigae, anomala perché ogni 27 anni dimezzava la luce. Lei ne capirà il perché ma dovrà attendere quasi trent'anni prima che l'intuizione venisse confermata dai satelliti.
La sua seconda impresa è la rinascita dell'Osservatorio di Trieste dopo l'arrivo nel 1964 e «distrutto da un altro vero barone». Da allora il golfo e il mare diventeranno il suo mondo. Un mondo nel quale emergono, al di là del cielo, «la responsabilità sociale delle persone di scienza» e la necessità del raccontare: «Divulgare ha una profonda valenza democratica, poiché prima di tutto vuol dire condividere». Ed è quello che farà con ogni mezzo, articoli, libri, radio, conferenze, senza sosta come se il tempo non passasse. Unico rammarico la forzata rinuncia agli sport amati.
Ma nelle ultime pagine non risparmia una critica nemmeno al presidente Mario Monti sulla monotonia del posto fisso: «Perché ci siamo fatti convincere che la chiave del futuro risiede nella mobilità sfrenata?». E dopo i novant'anni? «Proseguirò il lavoro, parlando di scienza e della mia vita in tutti i suoi aspetti. Non ho paura della morte».
Repubblica 12.6.12
Renzi zucchina, Bersani un carciofo ecco i politici secondo la Hack
FIRENZE — Margherita Hack che oggi compie oggi 90 anni - in un’intervista sul
Corriere fiorentino ha paragonato i politici italiani alle verdure. «Matteo Renzi? È uno zucchino lesso senza condimento» ha detto l’astrofisica. Monti è un asparago bianco: tutto gentile con le sue mossettine. Berlusconi una patata andata a male che è diventata tutta nera. E puzza. Bersani? Una verdura un po’ più rozza, diciamo un carciofo». E ha concluso: «L’Italia? Frutta marcia, con il bel Formigoni o lo schifo del calcio».
Corriere Fiorentino 10.6.12
«Politica e verdura», il gioco di Margherita. Novant'anni al verde
di Edoardo Semmola
Alle primarie vedremo battersi, in un pinzimonio all'ultima goccia d'olio, un zucchino lesso fiorentino e un carciofo piacentino. E se essere governati da un asparago bocconiano è meglio di una patata annerita, bisogna stare attenti alle verdure politiche furbastre.
«Formigoni, per esempio, non lo vedete che ‘‘cavolo'' di personaggio è? — si chiede Margherita Hack — Uno di quelli che si spacciano per cavolfiori, poi vai a vedere dentro e il fiore non c'è. Così è lui: pio, tutto Gesù e Maria, e poi in realtà s'è visto cosa combina».
Non è un delirio da mercato ortofrutticolo. È un gioco — che si potrebbe chiamare la politica vista dall'orto — che l'astrofisica più famosa d'Italia, la fiorentina con il sorriso guascone sempre pronto, si concede per il suo compleanno. Auguri professoressa Hack: martedì compirà 90 anni tondi.
E nel suo libro Perché sono vegetariana (edizioni Altana, già 10 mila copie vendute) spiega che si può godere di buona salute fino a tarda età grazie allo sport e, appunto, a una alimentazione vegetariana.
Margherita Hack, 90 anni e non sognarsi nemmeno di ritirarsi a vita privata...
«Il lavoro è il mio divertimento. E ho ancora molti libri da scrivere, tanta scienza da divulgare, e poi mi chiamano da tutte le parti: se anche è sempre più faticoso, non posso tirarmi indietro».
Troppo facile dire ‘‘mens sana in corpore sano''...
«Sono nata da genitori vegetariani e non ho mai mangiato carne. È una scelta (loro) che però ho mantenuto per amore degli animali. D'altra parte mangiare carne vuol dire mangiare cadaveri, anzi cadaveri malati, basta guardare come sono tenuti gli allevamenti per accorgersene».
Di 90 anni, quale è stato il più bello?
«Tutta la mia vita è stata bella. Perché la famiglia mi ha lasciato libera, il mio compagno mi ama dal 1943, ho fatto un lavoro che adoro e ho avuto successo. Come faccio a scegliere? Forse potrei scegliere il 1964, l'anno in cui ho vinto la cattedra».
@OREDROB: #ESEMMOLA %@%@BORDERO: #ESEMMOLA %@%E il peggiore?
«Quando ho lasciato Arcetri e mi sono trasferita in Brianza. Era il 1954: l'impatto fu tremendo. Da un ambiente liberale e democratico, da un istituto dove si discuteva di qualunque cose, sono arrivata in un luogo dove sono stata accolta male. Nessuno faceva nulla e io che volevo lavorare ero considerata una rompiscatole. Ricordo che i primi tempi mi sgonfiavano anche le gomme della Giardinetta, tutte le mattine».
Come se la cava in cucina?
«Malissimo. Se devo cucinare io vi accontentate di un uovo fritto, un'insalata. Se va bene una pastasciutta».
Se dovesse immaginare Firenze a forma di verdura, come la vedrebbe?
«Come un peperone. Bello a vedersi, ma indigesto. Noi fiorentini si piglia in giro tutti, e si rimane indigesti».
E l'Italia?
«Una frutta marcia, ma marcia di brutto, più di prima. Quando vedo il pio Formigoni o il calcio che è diventato uno schifo, e quel popò di privilegi che hanno i politici. Che c'è rimasto di buono?»
Monti che verdura è?
«Un asparago bianco: tutto gentile con le sue mossettine, delicato come un asparago, con quei capelli bianchi».
Berlusconi?
«Una patata talmente andata a male che è diventata tutta nera. E puzza».
E Matteo Renzi?
«Uno zucchino lesso, senza condimento però. No, dai, forse unn'è così tanto male. È forse un po' troppo ‘‘bravo Pierino'', troppo scolarino a modo, per i miei gusti. Ma a Firenze non sta governando male. Se sfida Bersani alle primarie del Pd fa bene. Vediamo se i giovani si comportano meglio dei vecchi».
Già, Bersani. Lui che verdura è?
«Una verdura un po' più rozza. Un carciofo».
Sarà una sfida zucchino lesso contro carciofo crudo, dunque. Vinca il più saporito?
«Quello dela politica è un minestrone così insipido, che c'è ben poco da sperare. Se quello di Berlusconi era un minestrone marcio, quello di oggi sa di poco. Per rendere il tutto più gustoso bisognerebbe ritornare alle vecchie ideologie, farebbero tornare a crescere la fiducia in un certo modo di governare. Le due ideologie storicamente a confronto, quella cristiana e quella comunista, hanno fatto progredire il paese».
l’Unità 12.6.12
La morale dei robot
Come l’uso delle macchine ci deresponsabilizza
di Pippo Russo
Cosa dobbiamo augurarci dal punto di vista etico in caso di intelligenze artificiali con «emozioni» ...
Il cyborg dovrebbe ridurre la complessità dei rapporti con il mondo. Ma fino a che punto? E in quale modo?
Demandiamo alla tecnologia un numero sempre più sofisticato di operazioni
Non è solo ansia di futuro. Tema aperto da Economist
QUANTO DOBBIAMO FIDARCI DELLE MACCHINE? E FINO A CHE PUNTO POSSIAMO CHIEDERE LORO DI SOSTITUIRE L’OPERATO UMANO SENZA COMPROMETTERE L’EQUILIBRIO DI RESPONSABILITÀ MORALE SU CUI SI FONDANO LE NOSTRE SCELTE? Quesiti tanto affascinanti quanto stringenti, ai quali bisognerà dare una risposta in tempi rapidi. Di tale urgenza avvertiva la copertina del penultimo numero dell’Economist, il cui titolo recitava: «Moral and the machine. Teaching robot right from wrong».
Con questa formula il settimanale preannunciava un fascicolo che dedicava al tema non soltanto il commento principale, ma anche una parte rilevante della sezione Technology Quarterly e un articolo sulla crescente importanza delle tecnologie dell’automatizzazione nella sanità. In quelle pagine veniva descritta un’espansione talmente pronunciata da far approssimare una soglia, oltre la quale entrerà in ballo una questione qualitativa e non più soltanto quantitativa. Ovvero: dato che affidiamo alle macchine un numero crescente di operazioni un tempo riservate all’attività umana, ci troveremo al punto in cui dovremo delegare loro anche le decisioni? E dunque, avremo necessità di programmare moralmente le macchine affinché siano in grado di prendere quelle decisioni seguendo criteri di giustizia e equità?
La storia di copertina dell’Economist prende a riferimento un campo ben preciso, e certo il più controverso possibile fra quelli in cui vengono impiegate le macchine lasciando loro ampio grado d’autonomia: il campo bellico. L’utilizzo dei droni, sempre più frequente nelle operazioni belliche, ha già posto la questione. Esso minimizza i rischi per la parte militare che porta l’attacco, ma massimizza l’eventualità di danni collaterali.
IL CHIP E LA GUERRA
La macchina, infatti, è programmata per portare a termine la missione d’offesa ma non per valutare l’effettiva situazione sul campo; elemento, quest’ultimo, che rimane prerogativa dell’intelligenza umana. Cioè di una più sofisticata facoltà di acquisire e processare informazioni contestuali, e successivamente d’assumere decisioni e/o correggere quelle programmate facendo appello non soltanto a criteri d’efficienza e efficacia, ma anche d’ordine morale. Sarà possibile? E, ancor più importante, è una cosa che dobbiamo augurarci da un punto di vista etico?
Rispetto a questi interrogativi, l’editoriale che l’Economist ha dedicato al tema prende una posizione di cauta e ragionata fiducia. Mantenendo il discorso sull’esempio dell’utilizzo di macchine autonome in operazioni belliche, vi si sostiene che un robot non commetterebbe mai stupri, né darebbe fuoco a villaggi, né si lascerebbe vincere da furia improvvisa sfogandola con atti disumani. Tesi certo affascinante, ma immediatamente confutabile. Perché se è vero che la macchina non è esposta alle emozioni umane e alle loro conseguenze nefaste, è altrettanto vero che nulla impedisce siano programmate per agire con crudeltà. E anche quella, nella situazione, è una scelta dettata da una (cattiva) morale che si mantiene esterna alla macchina.
Proprio qui sta il punto. Nel fatto che la macchina, di per sé, non è in grado di elaborare una morale rispetto alla situazione in cui si trova. Piuttosto, risponde a una programmazione che può anche prevedere un numero molto elevato di variabili, ma che in ultima analisi costituisce una gamma finita di possibilità e disposta lungo un criterio ordinale di priorità.
STRUTTURE SOFISTICATE
E dunque, è effettiva scelta quella che verrà compiuta dalla macchina, anche la più sofisticata? Diremmo proprio di no. E forse il tema da mettere al centro della riflessione non è tanto quello della possibile «moralizzazione» delle macchine, quanto dell’ansia di deresponsabilizzazione degli umani. Che sviluppano tecnologia come strumento di riduzione di complessità nel rapporto col mondo, ma via via pretendono che sia la tecnologia stessa a ridurre di propria iniziativa la complessità. Invece la tecnologia ha il compito di mediarla, quella complessità. L’operazione di ridurla rimane sempre demandata alle scelte umane, per mezzo delle quali viene fissata la direzione verso la quale muovere. Pensare che si possa delegare anche questo alle macchine significa manifestare un’ansia di deresponsabilizzazione umana. E questo è il dato davvero preoccupante.
Corriere 12.6.12
Non avrai altro dio fuori del web
La rete telematica, paradossale surrogato della religione
di Carlo Formenti
Nel Novecento filosofi, storici e sociologi si sono a lungo confrontati sulla categoria di secolarizzazione, con la quale si cercava di spiegare come e perché i valori religiosi sopravvivano all'indebolimento della fede, influenzando pratiche e comportamenti sociali anche dopo la loro trasformazione in regole etiche (apparentemente) prive di connotati religiosi. Vedi, in proposito, la tesi di Max Weber che identificava nell'etica dei Paesi a tradizione calvinista il motore dello sviluppo capitalistico.
Nell'epoca attuale, che si vuole postmoderna e pratica il relativismo etico, il concetto si è ristretto, riducendosi banalmente a evocare lo scetticismo (occidentale) nei confronti dei dogmi religiosi. Contro le tesi che attribuiscono alla nostra civiltà un grado elevato e irreversibile di secolarizzazione, c'è però chi sostiene che essa è al contrario inconsapevolmente immersa in uno stato di entusiasmo mistico, «posseduta» da una nuova fede generata dalla tecnica, cioè proprio dalla forza che viene indicata come il più potente agente della secolarizzazione.
Si tratta d'una religione che non ha nome né chiese, ma alla quale non mancano sacerdoti e masse di fedeli. I primi sono quei «profeti» della rivoluzione digitale – ingegneri e informatici, ma anche economisti e sociologi – che da un ventennio predicano l'avvento di una economia «immateriale» in grado di sovvertire il principio di scarsità e generare una prosperità illimitata, di un mondo senza Stati e gerarchie in cui i «cittadini della rete» saranno in grado di autogovernarsi dal basso, di un salto evolutivo verso un'identità «post umana», che consentirà ai nostri discendenti di emanciparsi dai vecchi limiti fisici e mentali: una mutazione destinata a scaturire dalla ibridazione progressiva fra uomini e macchine e dalla loro integrazione in un nuovo tipo di coscienza collettiva.
A rilanciare la riflessione nei confronti di questo credo sono due libri appena usciti: L'ultimo Dio, di Paolo Ercolani (con prefazione di Umberto Galimberti, editore Dedalo, pagine 240, 16), e Homo immortalis, firmato dalla divulgatrice scientifica Nunzia Bonifati e dal teorico dell'informazione Giuseppe O. Longo (editore Springer, pagine XII-283, 24 ).
Il primo analizza il lavoro paradossale di una tecnica che, da un lato, «erode il trono di Dio» appiattendo sul presente la nostra esperienza (e quindi neutralizzando la prospettiva escatologica), dall'altro, si appropria del ruolo della produzione di senso, impedendo all'umanità di divenire soggetto e non più oggetto della storia.
Il secondo si concentra sulla fascinazione di un discorso tecnologico che promette — grazie al «miglioramento» eugenetico della specie e alle pratiche di ibridazione uomo-macchina — di realizzare in questo mondo il grande annuncio che la religione proiettava nell'al di là, e cioè la definitiva sconfitta della morte.
Anche chi condivida questi argomenti, tuttavia, non può esimersi dal sollevare un dubbio: non rischiamo di attribuire dignità di religione a un'ideologia che, in fondo, riguarda un pugno di «visionari» tecnofili? E se di religione si tratta, dove sono le masse di fedeli evocate poco sopra? Eppure non è difficile rispondere: come altro definire le centinaia di milioni di utenti di Facebook, Twitter, iTunes e altri social network che accettano di sottostare agli editti di Zuckerberg e altri «sommi sacerdoti», che detengono il potere di cambiare le loro vite modificando pochi parametri? Il Gruppo Ippolita, un collettivo libertario autore dell'ebook Nell'acquario di Facebook (fra qualche mese verrà pubblicato anche in cartaceo), lo chiama default power, e aggiunge un altro convincente argomento: come non definire religiosa la fede cieca, comune ad anarco-capitalisti e hacker, cyberliberisti di destra, come Zuckerberg, e di sinistra, come Assange, nella bontà dell'informazione come dispensatrice di verità e libertà, in barba a tutte le prove che dimostrano come ci troviamo piuttosto di fronte a nuovi strumenti di manipolazione di massa?
In conclusione: non è difficile capire perché intellettuali cattolici di punta come il direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, si impegnino a riflettere sulle implicazioni teologiche di Internet: non è semplice curiosità intellettuale, ma lotta per contrastare l'ascesa di un rivale che, almeno in Occidente, potrebbe rivelarsi più pericoloso dell'islam.
Corriere 12.6.12
Don Campbell e l'effetto Mozart: la musica per guarire le malattie
Lo scrittore statunitense Don Campbell, autore del bestseller L'effetto Mozart, che ha divulgato presso il grande pubblico la nozione degli effetti benefici della musica su corpo e psiche, è morto in Colorado a 65 anni. La definizione di «effetto Mozart» fu coniata nel 1991 in California da Alfred A. Tomatis, otorinolaringoiatra che creò una corrente di medicina alternativa. Tomatis iniziò a sottoporre alcuni pazienti all'ascolto di brani di Mozart, ritenendo che la musica classica potesse aiutare nella cura di disfunzioni dell'orecchio e del cervello. Nel 1997 Campbell pubblicò L'effetto Mozart (Baldini Castoldi Dalai), dove l'autore analizza il benefico effetto della musica sul corpo, sulla mente e sulle capacità creative. Campbell ha quindi scritto tre anni più tardi «L'effetto Mozart per i bambini». Per anni aveva raccolto le esperienze di medici e sciamani, musicisti e ricercatori.
Repubblica 12.6.12
Olivetti
Un brano inedito di un’intervista del 1960 in cui racconta la sua filosofia
L’imprenditore utopista: “Educhiamoci alla bellezza”
di Emilio Garroni
Adriano Olivetti Morì il 27 febbraio 1960
L’intervista a Olivetti di cui offriamo qui alcuni passaggi è stata realizzata per la Rai nel febbraio del 1960 da , poco prima che Olivetti morisse. È un documento raro, mai apparso in trascrizione su un giornale. Una parte verrà proiettata domani al convegno sulla Fabbrica ai tempi di Adriano Olivetti ideato da Caterina Bottari Lattes e Paolo Mauri, con la Fondazione Olivetti. Il convegno, a Torino al Teatro Vittoria (dalle 9.30), verrà aperto dal sindaco Fassino, con interventi di Gallino, Cerrato, Lupo, Laura Olivetti (figlia di Adriano) e Loccioni, coordinati da Quaranta.
Nel pomeriggio Mauri con Gotor, Bevilacqua, Castronovo e Colombo
Questo non è un vero e proprio documentario ma un incontro con Olivetti vivo, anzi, direi nel pieno della sua attività sempre volta al futuro. I suoi più vicini collaboratori dicono che a Olivetti quasi non interessa il passato, quasi non interessava il passato; interessava solo o soprattutto il futuro. La personalità di Adriano Olivetti è così complessa che non è facile coglierne tutti gli aspetti: industriale, uomo di cultura, scrittore, politico, ideologo e soprattutto suscitatore di un’infinità di iniziative ardite e intelligenti. Dalla creazione di comunità alla capacità di portare la tecnica a misura d’uomo.
Così bisogna sottolineare i suoi sforzi per far sì che il prodotto industriale, nato come qualcosa di semplicemente utile, diventasse anche qualcosa di bello. «La bellezza – dice – è un momento essenziale dello spirito. Senza la bellezza, senza l'esperienza della bellezza, un uomo non sarebbe completo. Ora, anche una macchina da scrivere può essere bella». Ed ecco che nella progettazione dello stupendo nido per i figli dei dipendenti, questa preoccupazione estetica è ancora presente: non basta accogliere i bambini, bisogna educarli alla bellezza, farli vivere in ambienti belli, farli esprimere liberamente, nei giochi, nei disegni. E farli entrare in contatto con i libri.
Quella dell’azienda, è una biblioteca importante, di quanti volumi si compone, Ingegnere?
«Qui è divisa in tre sezioni: c’è una sezione culturale, una sezione scientifica e sociale, e una sezione ricreativa. Tutte le tre sezioni comprendono oltre 50.000 volumi ormai».
Ma vengono qui a leggere gli operai?
«Vengono moltissimo. Questa biblioteca non è mica solo una collezione di libri. Fa parte di un organismo più complesso che è un centro culturale con un insieme di corsi: corsi per giovani, corsi per adulti, corsi complementari, mostre e conferenze. Si tratta in sostanza di educare i giovani alla comprensione dei valori della cultura ».
La biblioteca è dunque molto di più di una biblioteca aziendale; infatti è aperta a tutti, è una vera e propria biblioteca pubblica. E c’è anche la sezione riviste, naturalmente.
«Le riviste tecniche e scientifiche sono ben 400. Ma ancora più importante è il numero delle riviste culturali, più di 350 titoli: insomma, tutte le riviste italiane e straniere più importanti».
Una capacità di lettura notevolissima.
«Ci porta a una situazione superiore a quella così pregevole, così simpatica, dei paesi scandinavi».
Ci sono riviste di architettura?
«Sì, qui c’è una larga rappresentanza delle riviste, non solo di architettura, ma anche di disegno industriale. L’architettura è la forma in cui si esprime una certa società».
La qualifica, questa società?
«Esattamente. Le altre arti invece sono un’espressione libera, una manifestazione dello spirito umano e quindi indipendenti dal tempo e dal luogo».
È vero che a lei capita di venire qui in fabbrica più spesso di domenica che non nei giorni feriali, quando ci sono operai e tecnici al lavoro?
«È vero. La ragione si richiama a certe esperienze molto vecchie. Quando avevo 13 anni mio padre mi mandò a lavorare in un reparto dei trapani, nell’estate del ’14, e ho faticato molto a lavorare nella fabbrica. Ho faticato perché il lavoro di queste macchine non mi attraeva, soprattutto non fissava la mia attenzione. La mente poteva vagare, si stancava».
Lo guardava con un certo sospetto questo lavoro manuale?
«Mah, non era un sospetto, una specie di ritegno, difficoltà veramente a capire come si potesse stare delle ore alla stessa macchina senza imprigionare lo spirito».
Forse lei preferisce vederla tutta ferma, la macchina?
«No, quando la fabbrica è ferma i problemi della tecnica, le macchine, spariscono. Il problema fondamentale dell’uomo diventa più chiaro. E quello è il problema che mi prende quando sono nella fabbrica chiusa, nella fabbrica ferma».
Senta, Ingegnere, lei mi parlava delle sue esperienze quasi infantili, direi, nella fabbrica… vuole continuare a raccontarle?
«Per molti anni questo problema di conciliare l’uomo alla macchina, così, mi ha affaticato. Mi sono persuaso che non esiste una ricetta, non esiste un ordine assoluto. Dovremmo così cercare di capire la questione fondamentale che è quella del rapporto dell’uomo dentro la fabbrica e fuori dalla fabbrica».
Si ricorda quando nacque la prima macchina da scrivere Olivetti?
«Mi ricordo che mio padre espose il primo campione all’Esposizione di Torino nel 1911, proprio oggi l’Italia sta celebrando i cento anni del Risorgimento, ripete l’esperienza del cinquantennio di Torino. Ecco, quella volta là, la prima macchina uscita da questa fabbrica venne esposta con molto interesse».
Come mai suo padre si decise a produrre proprio macchine da scrivere?
«Io credo perché, prima di fare macchine da scrivere, produceva strumenti di misura, soprattutto contatori elettrici, i quali erano offerti in massa alle grandi compagnie di distribuzione dell’energia elettrica che sono i consumatori dei contatori. E quindi mio padre pensava che questo tipo di rapporto non lo rendesse abbastanza indipendente. Era un rapporto di collaborazione, ma anche di dipendenza, e volle produrre qualcosa come una macchina che si vende una per una a tante persone diverse, e questa varietà di distribuzione creava la sua indipendenza a cui teneva moltissimo. Come tutti i pionieri dell’altro secolo era un grande individualista».
Repubblica 12.6.12
Bologna 14-17 giugno
Il futuro dell’uomo non è solo nella scienza
di Vito Mancuso
NON guardo con sfavore al progresso scientifico, dei cui benefici godo come essere umano e le cui acquisizioni teoretiche cerco di introdurre nella mia modalità di vedere il mondo (filosofia e teologia) e di coltivare la dimensione contemplativa della vita (spiritualità). Però diffido della scienza e della tecnologia quando manifestano un complesso di superiorità culminante in una sorta di gelosa autarchia che si può riassumere così: gli scienziati hanno il potere di intervenire sulla natura umana, l’umanità si deve fidare perché grazie a loro la vita sarà migliore. Ho fatto questa riflessione leggendo l’articolo di Umberto Veronesi che parlava del futuro che ci aspetta. Egli riconosce che di fronte agli scenari aperti dalla scienza e dalla tecnologia “oggi siamo per lo più spiazzati eticamente e giuridicamente”, ma fa capire che ormai non è più possibile tornare indietro, e afferma: “L’incertezza è soltanto quando e come, e la sfida è fare in modo che sia realizzata a puro vantaggio dell’uomo”. Ritornerò poi su cosa vuol dire, e che conseguenze teoretiche comporta questo “ a puro vantaggio dell’uomo”.
Non è così scontato come sembra. Prima è opportuno vedere cosa ci aspetta, e cioè quella che Veronesi definisce la società nanoscientifica. Prendete un millimetro e immaginate di dividerlo un milione di volte. La vostra mente non ci riesce ma la tecnologia sì. Da qui alcune delle meraviglie di cui presto potremo disporre: vernici ripiene di invisibili pannelli solari con cui dipingere le case, microspie diffuse negli ambienti con un semplice colpo di spray, microorganuli nel sangue per “correre tre ore senza respirare”. Sono solo alcuni esempi: non c’è luogo del nostro corpo in cui non poter inserire nanocellule che megapotenziano le prestazioni. Evviva, gridano tutti a questo punto, e che altro si può dire visto che tutto è “a puro vantaggio dell’uomo”? Ma la domanda è: qual è il puro vantaggio dell’uomo e chi lo stabilisce? Correre tre ore “senza respirare” è un vantaggio? In realtà da un uomo che corre senza respirare, a un uomo che parla senza pensare, a un uomo che vive senza amare, il passo non è poi così lungo. Einstein scriveva nel testamento spirituale: “Dobbiamo imparare a pensare in una nuova maniera: dobbiamo imparare a chiederci non quali passi possono essere compiuti… ma quali passi possono essere compiuti per impedire una competizione militare il cui esito sarebbe disastroso per tutte le parti”. Einstein si riferiva alla guerra atomica, ma quello che conta è la sua visione generale di una ricerca scientifica guidata dall’etica, del tutto opposta rispetto al teorema secondo cui “se qualcosa è scientificamente ipotizzabile, prima o poi qualcuno la realizzerà”. In realtà non è per nulla così, oggi la scienza è un’impresa collettiva che abbisogna di immensi finanziamenti pubblici e quindi di supporto politico, così che la comunità umana può decidere che qualcosa di scientificamente ipotizzabile non per questo debba essere realizzato. L’ottimismo scientista non era condiviso da Einstein, secondo il quale “coloro che più sanno sono i più pessimisti”. Non si tratta ovviamente di coltivare il pessimismo fine a se stesso né tanto meno la sfiducia nell’intelligenza umana, si tratta solo di avere una lucida consapevolezza dell’enorme posta che è in gioco e del fatto che non potrà mai essere la sola scienza a stabilire il “puro vantaggio dell’uomo”. Quale sarebbe infatti questo puro vantaggio? Siamo sicuri che esso consista solo in uno standard predefinito di salute fisica e mentale che è l’unico parametro che può essere offerto dalla scienza? Dico ciò senza il minimo dubbio dell’importanza della salute fisica e mentale, ho insegnato per sette anni al San Raffaele di Milano dove (nonostante tutto quello che poi è emerso) la stella polare era sempre data dall’unità di corpo, psiche e spirito. Non posso non vedere però il pericolo di una “società nanoscientifica” che imponga a ogni individuo uno standard di salute fisica e mentale predefinito invadendolo fin da piccolo di microorganuli, uno standard in base a cui Michelangelo e Leopardi sarebbero stati sempre di buonumore, Nietzsche non sarebbe impazzito, Van Gogh non si sarebbe tagliato l’orecchio, Tolstoj sarebbe morto tra le linde lenzuola di casa, e tutti avrebbero fatto jogging ogni mattina dopo una colazione a base di cereali americani rigorosamente ogm. Veronesi apriva l’articolo scrivendo che di fronte all’avanzata trionfale della tecnologia “le religioni resisteranno”, evidentemente perché per lui esiste un conflitto strutturale tra ricerca scientifica e religiosità. Però voglio ricorrere ancora una volta a Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Non sono certo pochi i grandi scienziati pronti a riconoscere i limiti della scienza e la necessità di un dialogo costruttivo con le sapienze spirituali dell’umanità. Che poi il nostro tempo avrebbe bisogno di uomini di fede in grado di condurre veramente questo dialogo, mentre al contrario la struttura della Chiesa attuale è fatta in modo tale da emarginare pensatori profetici come Raimon Panikkar e Hans Küng e da promuovere desolanti yes-men pronti a trasformarsi in corvi, è tutto un altro doloroso discorso.
Repubblica 12.6.12
Il Nobel taglia il premio, perderà il 20% del valore
STOCCOLMA — I vincitori del premio Nobel per il 2012 riceveranno il 20 per cento in meno dei premiati dell’anno scorso. Lo ha ufficializzato ieri la Fondazione per il Nobel, specificando che ogni riconoscimento varrà 8 milioni di corone svedesi (circa 1,1 milioni di dollari) contro i dieci del 2011. La Fondazione ha spiegato di aver ridotto la somma per assicurare che «vi sia il potenziale per ottenere un buon reddito dal capitale investito dalla fondazione, aggiustato all’inflazione, per i prossimi anni». L’istituzione amministra il lascito dell’industriale Alfred Nobel, inventore della dinamite, per premiare ogni anno chi si è distinto in letteratura, medicina, fisica, chimica, economia e difesa della pace.