Giovedì 14 Giugno, 2012
Il racconto di Apuleio sul destino dell'anima
Amore e Psiche: mistero, magia e passione
di Frranco Manzoni
U n autore dalla personalità polimorfa, complessa e contraddittoria. Le fonti lo tramandano mago, alchimista, avvocato, scienziato. E ancora filosofo platonico, sacerdote del dio Asclepio e di culti misterici, appassionato di occulto, esoterismo e riti iniziatici come quelli di Eleusi, Mitra, Iside. Nato verso il 125 d.C. a Madauro, nell'odierna Algeria, da famiglia benestante, Apuleio studiò a Cartagine e ad Atene. Si vantava di conoscere a fondo ogni artificio retorico e di padroneggiare con virtuosismo il greco e il latino. Per il resto poche e incerte sono le notizie sulla vita di uno scrittore che fu il personaggio più poliedrico dell'età degli Antonini. Di lui più nulla sappiamo dopo il 170.
Apuleio esercitò un naturale fascino sull'ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. La sua opera maggiore, le Metamorfosi, divisa in undici libri, è l'unica testimonianza pervenuta intera di un romanzo antico in lingua latina, la cui diffusione si deve a Boccaccio, che ritrovò il codice e ne fece una trascrizione. Il titolo nei manoscritti è Metamorphoseon libri XI, ma l'opera è conosciuta anche come Asinus aureus, così indicata da sant'Agostino nel De civitate Dei (XVIII 18). La storia delle eccezionali avventure di un uomo trasformatosi in asino non è un'invenzione di Apuleio. La trama deriva da un modello greco di Lucio di Patre, opera che non ci è giunta, ripresa in modo sintetico da Luciano di Samòsata, poligrafo coevo di Apuleio, che scrisse in greco Lucio o l'asino.
L'originalità dell'autore latino consiste nel fatto di essere riuscito a rielaborare materiali preesistenti, assegnando significati mistici, metafisici e simbolici autoctoni, che cambiano radicalmente la struttura e gli intenti della narrazione. Non solo puro intrattenimento. Vi è sottesa una progettualità geniale, che riesce a unificare una folla di racconti popolareschi, passionali, erotici, iniziatici. Sullo sfondo dell'odissea di un uomo-asino, Apuleio crea il libro nel libro, mettendo al centro dell'opera la celebre Favola di Amore e Psiche, una narrazione interna in forma di apologo, che occupa i libri IV, V e VI e rispecchia fedelmente l'andamento del romanzo. È il testo in edicola con il «Corriere» ed è la chiave di lettura che permette di comprendere la trama generale in un gioco di parallelismi a specchio.
Il mito, che unisce l'amore e l'anima, viene ascoltato dall'uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l'uomo più brutto della terra. Ma Amore s'innamora di Psiche. La trasporta nel suo palazzo, dove ogni notte il dio, invisibile al buio, a lei si unisce. Vedere il viso del misterioso amante, però, romperebbe l'incantesimo. Spinta dalla curiositas, la stessa che nella trama generale delle Metamorfosi «costringe» Lucio a provare l'unguento magico che invece lo trasforma in asino, Psiche decide di conoscere Amore, illuminandolo con una lucerna. Si punge con una saetta presa dalla faretra del dio e, perciò, s'innamora perdutamente. Tuttavia, una stilla d'olio cade sul corpo di Amore, svegliandolo. L'incantesimo è finito, il dio fugge e Psiche, disperata, si mette alla sua ricerca. Seguono peripezie e terribili prove da superare, congeniate dalla gelosissima Venere. Alla fine Amore sposa Psiche, ottenendo per lei da Giove l'immortalità. Dalla loro unione nasce la figlia Voluttà.
La storia dell'interpretazione allegorica è plurisecolare. Il racconto ha un iter travagliato: una sequela di cadute, riscatti, dolori, piaceri spirituali dell'Anima umana. Giace sotto ogni evento il pensiero platonico, nella favola come nell'intero romanzo. La vicenda di Amore e Psiche, così ben colta nel capolavoro scultoreo neoclassico di Canova, è incentrata sul destino dell'Anima, che, per aver commesso il peccato di hybris, vale a dire «tracotanza», tentando di penetrare un mistero che non le era consentito svelare, è costretta a scontare la propria colpa con umiliazioni e affanni di ogni genere, prima di essere degna di ricongiungersi al dio. Lo stile di Apuleio è denso di frequenti neologismi, rarità lessicali, giochi di parole, arcaismi, di toni ironici, patetici, delicati, di estrema tenerezza come nell'episodio della deflorazione di Psiche.
Corriere 14.6.12
Una curiosità troppo umana
Il trentunesimo volume della collana propone in edicola la Favola di Amore e Psiche di Apuleio, con la prefazione inedita di Daniele Piccini. Si tratta di uno dei brani più noti e belli delle Metamorfosi del poeta latino. È la storia di una fanciulla, Psiche, visitata ogni notte da uno sposo di cui non può conoscere il volto, pena l'abbandono. Mossa dalla curiosità e soprattutto istigata dalle sorelle, Psiche viola il patto — più un ordine che un accordo paritario — e riconosce Amore, che subito diserta il talamo.
Tuttavia, attraverso dure prove, l'umana si renderà di nuovo degna del dio. Piccini nota che si tratta di «un racconto che in cifra tratteggia il rapporto dell'anima umana con l'elemento divino»: se gli elementi religiosi e filosofici implicati nella favola sono molteplici, anche dal punto di vista narrativo la vicenda di Amore e Psiche è godibile e avvincente (la curiosità umana di Psiche, la gelosia delle sorelle, il rapporto con le dee cui Psiche chiede aiuto per riconquistare lo sposo). Una delle più affascinanti storie giunte a noi dall'antichità. (i.b.)
l’Unità 14.6.12
Hollande a Roma: patto mediterraneo
di Umberto De Giovannangeli
Sbarca oggi a Palazzo Chigi il presidente francese. A Monti presenterà un’agenda
e proposte da condividere che l’Unità anticipa
Un patto «euromediterraneo» per riequilibrare l’«asse del Nord». Un vertice per rassicurare Roma in piena sintonia con quanto affermato nei giorni scorsi da Giorgio Napolitano che l’Ue non è un’affaire franco-tedesco. Alleato e non “pontiere”. Alleato per quella Operazione crescita che non può più essere rinviata. È con questi propositi che Francois Hollande sbarca oggi a Roma per la sua prima visita ufficiale in Italia da capo dell’Eliseo. Rafforzare l’alleanza con il nostro Paese in vista degli appuntamenti cruciali di fine giugno: il quadrilaterale Italia-Francia-GermaniaSpagna del 22 giugno a Roma e il vertice Ue di Bruxelles del 28-29 giugno.
SEGNALI DISTENSIVI
«Gli ultimi segnali che giungono da Berlino indicano un ammorbidimento della Germania sull’individuazione di una road map per la crescita», dice a l’Unità una fonte vicina al presidente francese. E in questa chiave, Parigi riconosce un ruolo attivo, «intelligentemente di parte», svolto negli ultimi tempi da Mario Monti. «Hollande ha una grande stima del premier italiano rimarca ancora la fonte francese e ritiene che possa giocare un ruolo da protagonista negli appuntamenti decisivi delle prossime settimane». Appuntamenti che non possono risolversi con una riproposizione di principi: occorre entrare nella fese dell’operatività concordano Parigi e Roma e definire gli strumenti che possano sostanziare l’Operazione crescita evocata ieri da Monti nel suo intervento alla Camera dei Deputati. Di questo Hollande parlerà oggi con il presidente del Consiglio e prim’ancora con «il primo europeista d’Italia»: il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il presidente francese e il capo del governo italiano discuteranno dei metodi per combattere la crisi, e soprattutto degli eurobond, inizialmente presentati come uno strumento per condividere il debito (a livello europeo). Ma secondo Hollande e Mario Monti, che ne hanno già discusso, dovrebbero invece «essere utilizzati per il risanamento che deve garantire la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro», rimarca Bernard Cazeneuve, ministro degli Affari Europei del governo guidato da Jean-Marc Ayrault. Ed è lo stesso primo ministro francese a lanciare messaggi distensivi verso Berlino.
Secondo Ayrault, Germania e Francia sono più vicine ad un accordo sulle misure per stimolare la crescita economica. «Ci sono un certo numero di punti di disaccordo dice ma i punti di vista si stanno ravvicinando sulle iniziative per stimolare la crescita e questo è essenziale». Ayrault ricorda che il presidente Hollande si batterà per le misure di stimolo della crescita al vertice di Bruxelles del 28-29 giugno e assicura che la Francia «non è isolata». «Questo aggiunge sarà anche l’intento del vertice a 4 tra francesi, italiani, tedeschi e spagnoli del 22 giugno a Roma». E sulla «necessità di un approccio equilibrato tra stabilità e crescita, tra responsabilità e solidarietà, ma anche sull’importanza di una crescita ricca in occupazione e socialmente equa», Ayrault incassa il sostegno convinto dei vertici della Spd tedesca. Così come c’è una convergenza di vedute sulla introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie.
FASE OPERATIVA
In vista del quadrilaterale di Roma, Francia e Italia cercano di focalizzare alcuni strumenti che permettano di intervenire sull’emergenza: come come i project bond, visti come un primo passo non ostile a Berlino verso gli eurobond. Altri punti di convergenza sostanziale tra Hollande e Montirimarcano dall’éntourage del capo dell’Eliseo è l’atteso sostegno alla ricapitalizzazione della Banca europea di investimenti, e l’impegno a lavorare sul fondo di riscatto, il Redemption fund. Per quanto riguarda il tema scottante delle banche spagnole, altra voce all’ordine del giorno del vertice di oggi, l’idea di Hollande anticipa il titolare del Quai d’Orsay, Laurent Fabius, sarebbe di «trovare una soluzione alla crisi bancaria spagnola, senza aumentare ulteriormente il deficit di bilancio della quarta economia della zona euro». In una visione prospettica, Parigi e Roma si trovano d’accordo sulla creazione di un’Unione bancaria europea da attuare attraverso un sistema comune di sorveglianza.
Hollande accelera ed è convinto di avere dalla sua parte, «con convinzione», il «professor Monti». Il piano è delineato: Parigi sta spingendo per un «pacchetto di stabilità finanziaria» dell’Eurozona in vista del vertice Ue di fine mese. L’Eliseo proporrà una serie di misure fra cui la sorveglianza bancaria in capo alla Bce e l’uso del fondo di salvataggio Esm per ricapitalizzare direttamente gli istituti di credito. È quanto scrive il Financial Times, ed è quanto risulta anche a l’Unità. La presidenza francese sta aumentando il pressing dopo la fredda accoglienza dell’aiuto promesso a Madrid, e ritiene di poter contare sul sostegno di Italia e Spagna. È il «patto euromeditteranneo», per l’appunto.
Corriere 14.6.12
La breccia di Berlino e il patto con Parigi
L'Europa gioca la carta Hollande Ultimo appello per Frau Merkel
di Franco Venturini
Ai tempi dell'Urss si diceva che l'agricoltura sovietica aveva soltanto quattro problemi: l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno. Con lo stesso metro, se avessimo ancora voglia di ridere, oggi si potrebbe dire che il salvataggio dell'euro ha soltanto due problemi: la Germania e la Francia.
Perché mentre le sirene d'allarme suonano per Grecia e Spagna, e si fanno sentire anche da noi, sarebbe miope non capire che la vera battaglia per l'euro e per l'Europa si combatte altrove.
Come ha giustamente ammonito il governatore della Bce Mario Draghi, questa è l'ora delle leadership politiche. Questo è il momento di definire una visione dell'Europa e una strategia credibile per raggiungerla, sottraendo almeno in parte ai mercati quel potere di vita o di morte che è stato finora la conseguenza inevitabile dell'assenza di una volontà politica coerente. Ecco perché a decidere saranno davvero la Germania e la Francia, ed ecco perché diventa cruciale, in vista del vertice europeo del 28 giugno, la visita che François Hollande compie oggi in Italia.
Sulla Germania di Angela Merkel piovono appelli da tutte le capitali del mondo: da Washington dove Obama si gioca la rielezione, ma anche da Pechino, da Nuova Delhi, da Tokyo, da Brasilia. Ovunque si è convinti che se la cancelliera smettesse di essere più attenta alle sue scadenze elettorali che ai tormenti dell'euro, la crisi potrebbe dirsi avviata a soluzione con benefici per tutti in termini di crescita. Un pregiudizio? In parte sì, ma bisogna riconoscere che per trasformarsi in bersaglio Frau Merkel ha fatto del suo meglio. Non perché la sua Germania difenda a spada tratta un rigore di bilancio che tutti approvano (semmai, Grecia docet, andrebbe meglio valutata la sua sostenibilità sociale), ma piuttosto perché Berlino ha opposto sin qui una serie di nein a tutti gli ulteriori rimedi ipotizzati da altri: un più generoso rafforzamento del fondo salva Stati, gli eurobond, metodi nuovi per sostenere le banche, garanzie europee per i depositi dei risparmiatori, investimenti comuni e sostanziosi per la crescita. È sistematicamente venuto a mancare, insomma, quello scambio di concessioni e di fiducia che avrebbe potuto creare una piattaforma comune europea dalla quale partire per superare l'eurocrisi. E quando Sarkozy ha rinunciato a ogni ambizione tenendo a battesimo il Merkozy, dal male si è passati al peggio.
Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate. Perché in Francia è stato eletto Hollande, dopo che in Italia aveva assunto la guida del governo Mario Monti. Perché il mondo intero ha cominciato a premere su Berlino. Perché tutti hanno capito che la malattia dell'euro stava diventando terminale. E perché Angela Merkel, per la prima volta alle strette, è passata dal nein alla proposta. Una proposta non da poco: la Germania potrà rivedere alcune sue pregiudiziali negative (per esempio sugli eurobond) soltanto in presenza di una integrazione istituzionale, fiscale e politica dell'Europa assai più avanzata di quella attuale. Merkel prende tempo, visto che ci vorrebbero anni e modifiche dei Trattati per giungere a tanto? Oppure prepara «passo dopo passo» i suoi elettori alla necessità di fare qualcosa, con adeguate contropartite che garantiscano a Berlino il buon utilizzo dei propri denari? Nell'attesa di capirlo forse già al vertice europeo del 28 giugno, dal quale potrebbe uscire un calendario di impegni nella direzione indicata dalla cancelliera, un po' ovunque esultano i federalisti e piangono i sovranisti. Senza rendersi conto che il pericolo è proprio qui: negli sguardi che corrono a scrutare un orizzonte pieno di promesse ma ancora lontano, mentre vicino a noi la casa della moneta unica continua a bruciare. Il rischio, sin troppo evidente, è che il potenziale pompiere presenti un magnifico progetto di restauro dell'edificio, ma intanto non spenga le fiamme con la conseguenza di salvare, poi, soltanto le parti rimaste immuni.
Qui entra in scena Hollande, ed entra in scena anche Monti. La Francia non ha mai avuto una forte cultura dell'integrazione. Semmai, è nazionalista e dunque gelosa della sua sovranità. La ricetta Merkel è piena di spine per Parigi, e senza Parigi l'Europa non può esistere. Ma Hollande è un figlioccio politico di Jacques Delors, è un europeista convinto anche se il suo ministro degli Esteri Fabius fece campagna contro il trattato costituzionale — e lo affondò — nel referendum del 2005. C'è il rischio che di referendum in Francia ne possa servire un altro, in futuro. Ma intanto le prime risposte francesi, da verificare durante i colloqui di Roma, sono di puro buon senso: va bene una maggiore integrazione economico-finanziaria, anche su quella politica siamo pronti a parlare, possiamo accettare le due velocità, ma oggi l'euro rischia di affondare e servono misure d'urgenza, nel settore bancario, per la crescita, con l'adozione della tassa sulle transazioni finanziarie, con qualche tipo di bond europeo.
La disponibilità di principio della Francia verso il progetto tedesco non va sprecata. E non va sprecata la breccia che sembra essersi aperta a Berlino verso le esigenze della Francia e di altri, Italia compresa. Tra oggi e il 18 giugno è forse in gioco l'ultima occasione di scambiare qualche pegno di fiducia, di raggiungere almeno le intese indispensabili, in definitiva di salvare l'euro. Mario Monti e Giorgio Napolitano, con Hollande, non organizzeranno certo una congiura contro Angela Merkel. Cercheranno, invece, il modo di arrivare insieme a un salvagente che serve a tutti e che per la prima volta non sembra fuori portata.
il Fatto 14.6.12
L’ultima beffa: condannati ineleggibili, ma dal 2018
Il governo incassa tre fiducie sull’“anticorruzione”. L’incompatibilità dei pregiudicati non vale per le elezioni 2013. Concussione per induzione: pene più basse e prescrizione più breve. Penati e Berlusconi ringraziano
di Eduardo Di Blasi
Ci sono voluti tre voti di fiducia, ma ancora non bastano. E non solo perché la discussione sul ddl anticorruzione, che ieri ha passato a Montecitorio l’esame di una fiducia triplice e inconsueta, continuerà oggi, sempre alla Camera, il proprio cammino parlamentare. I tre tronconi in cui è stato spezzettato il provvedimento, infatti, rischiano di ritrovarsi inutilmente ammonticchiati nel-l’aula del Senato nelle settimane a venire.
Non solo. Le norme sull’incandidabilità dei condannati rischiano di iniziare a valere solo dal 2018, vale a dire dal finire della prossima legislatura. Questo perché nel testo dell’articolo 10 sul quale ieri la Camera ha espresso la sua prima fiducia, viene data la delega al governo di adottare un decreto legislativo che attui quelle misure “entro un anno”. Un tempo giudicato da tutti eccessivo, che rischia per l’appunto di rimandare tutto alle calende greche delle politiche 2018, ma che, inserito nel corpo del provvedimento da un emendamento in Senato a firma del Pdl Lucio Malan, lì è rimasto anche nel delicato passaggio parlamentare.
NON È L’UNICO problema che il ministro Guardasigilli Paola Severino e il suo omologo alla Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi, dovranno affrontare, ma certo è il più visibile. Tanto che, mentre la Camera è riunita, entrambi sono costretti a esternare il proprio ottimismo sul fatto che si farà tutto entro il 2013. La prima, che meglio ha imparato a conoscere gli incerti della navigazione parlamentare, chiarisce: “Se ci saranno le condizioni politiche e generali possiamo approvarla anche prima. Faremo di tutto per mantenere la promessa”. Che non è proprio la dichiarazione di chi conservi una certezza.
Ancora una volta i nodi politici da sciogliere sono ancora tutti lì. Nonostante i tre voti bulgari (461 voti favorevoli sull’emendamento numero 10, 431 sul numero 13 e 430 sul 14), infatti, tra maggioranza e opposizione rimbalzano accuse e recriminazioni. Se sull’emendamento sull’incandidabilità (il 10), Fli si astiene proprio a seguito della tempistica priva di buon senso (la presidente della commissione Giustizia alla Camera constata come “non si può fare che la legge sia uguale per tutti tranne che per i politici”), sulla riscrizione dei reati di corruzione e concussione (l’emendamento votato all’articolo 13 contiene anche il nuovo reato del traffico di influenze), si consuma una battaglia doppia, con l’Idv Antonio Di Pietro che tuona contro una legge che alla fine salva corrotti e concussi, e il Pdl che spara contro il Pd rinfacciandogli come la norma, così come è scritta, faccia un regalo a Filippo Penati, annunciandogli una prescrizione imminente.
IL DISCORSO di Di Pietro è chiaro. Afferma il leader Idv che attraverso l‘utilizzo dei reati di corruzione e concussione, i magistrati del pool di Milano riuscirono a fare Mani Pulite. Adesso, con la modifica dell’articolo 317 del codice penale (la “concussione per induzione”), si finisce per mettere in crisi l’intero sistema. “Lei, con questa proposta - dice Di Pietro dai banchi dell’opposizone - fa sì che, laddove la concussione avviene per induzione, sono tutti e due colpevoli, tutti e due rispondono del fatto commesso (sia chi dà denaro sia chi lo riceve). Lei vuole dire che, ogni volta che la concussione non avviene per violenza o per minaccia ma avviene per induzione, in quel caso non deve rispondere solo più chi induce ma deve rispondere anche chi è indotto. Sfido a leggere milioni di pagine di carte che, in quest’ultimi vent’anni, hanno rappresentato gli atti giudiziari di questo Paese e a trovarmi un solo reato di concussione per violenza”. I pubblici ufficiali, i politici, gli amministratori, continua Di Pietro, non usano violenza per stringere accordi corruttivi. Ma se un imprenditore concusso rischia di finire in carcere così come il corrotto, perchè dovrebbe denunciare il patto? È questa per Di Pietro la norma che rischia di mettere in barca l’intero provvedimento. Non solo. Il Pdl, per bocca di Fabrizio Cicchitto, annuncia che l’emendamento sull’articolo 13 (il traffico di influenze) deve essere riscritto al Senato: “Rischia di dare ai pubblici ministeri una discrezionalità del tutto eccessiva”, afferma.
E IL MINISTRO Severino annota a fine serata: “Quando si tratta di testi così complessi il desiderio di apportare delle migliorie è tanto. Ma a volte mi chiedo se il meglio non sia davvero nemico del bene”.
l’Unità 14.6.12
Condannati via dalle Camere
La regola deve valere subito
di Michele Ciliberto
È UNA NOTIZIA POSITIVA L’APPROVAZIONE ALLA CAMERA DELL’EMENDAMENTO ALL’ARTICOLO 10 DEL DDL ANTICORRUZIONE, che dà all’esecutivo la delega per varare, entro un anno, una norma sull’incandidabilità dei condannati con sentenza definitiva.
È una notizia positiva anche se, come spesso capita, qualcuno cerca di alzare polveroni.
Da un lato si afferma che questa norma rischia di ledere principi fondamentali, dall’altro si dice che si tratta di una sorta di inganno perché essa diventerebbe operativa solo dal 2018, e non riguarderebbe quindi le prossime elezioni che, come si sa, si terranno nel 2013.
Occorre compiere una seria riflessione se si vuole cercare di definire la questione in modo chiaro e preciso. Ma questo esercizio non può essere compiuto se non si tiene conto dell’Italia attuale e della gravissima decadenza dello «spirito pubblico».
È stato osservato molte volte, ma forse conviene ribadirlo con la chiarezza e la durezza necessaria: il distacco, perfino la contrapposizione, tra «governanti» e «governati» non è mai stato così forte ed esteso come oggi nella storia e nell’ethos della Repubblica. Deve essere questa la base del giudizio sulla norma in questione. Sarebbe interessante cercare di svolgere una analisi di questa situazione, e mettere a fuoco le radici da cui essa è germinata. Né, credo, sarebbe possibile farlo senza indicare le immense responsabilità del berlusconismo che, però ed anche questo andrebbe sottolineato è, a sua volta, frutto ed effetto di una crisi più lunga e più profonda, che si e' aperta in Italia negli ultimi decenni del Novecento (una storia ,questa, che è venuto il momento di raccontare con chiarezza e senza pregiudizi di alcun tipo). Un fatto comunque è certo: questa crisi si è espressa, e consolidata, fino a diventare senso comune, in un giudizio assai grave nei confronti della «classe politica», su cui è caduto un giudizio di critica e di condanna che spesso si risolve, oltre che in un distacco, in vero e proprio disprezzo. Anche qui, andrebbe fatta una distinzione tra chi è stato al governo e chi è stato all’opposizione, tra chi ha ridotto il Parlamento a uno strumento nelle mani del potere esecutivo e chi ha cercato di difenderne ruolo e funzioni.
Ma oggi i cittadini italiani non sembrano disponibili a fare queste distinzioni, spinti a ciò, dalla persistenza di una legge elettorale che le forze dell’opposizione devono combattere con tutti i mezzi; dal permanere di classi dirigenti che appaiono impermeabili a qualunque mutamento; dal persistere di diseguaglianze sociali che si sono acutamente approfondite sotto il colpi della crisi.
Ridare credibilità alla politica, e alla rappresentanza politica, in questa situazione è estremamente arduo, come dimostra, del resto, la stessa nascita del governo Monti che della perdita di credibilità della politica è stato un effetto evidente. Recentemente il segretario del Pd cosciente del livello di degrado della situazione e di tutti i rischi che essa comporta ha ritenuto, con un gesto coraggioso, di rilanciare le «primarie»; ma questa è solo l’avvio di un percorso. Occorre sviluppare una seria e rigorosa politica riformatrice in tutti i campi possibili, anche in questo stralcio di legislatura, per invertire la rotta. E bisogna anche sapere che si tratta di un lavoro lungo e difficile che andrà continuato anche nella prossima legislatura .
L’emendamento approvato alla Camera va situato, e apprezzato, in questo quadro senza inutili filisteismi. Sarebbe perciò assai grave se esso diventasse operativo nel 2018. Come ha riconosciuto lo stesso ministro Patroni Griffi deve entrare in vigore fin dalle prossime elezioni, dal 2013. Si può farlo, si deve farlo, in tempi brevissimi perchè in situazioni come questa il tempo è tutto. E va fa fatto senza coltivare eccessive illusioni, anzi sapendo che occorre avviare un’ampia e lungimirante azione riformatrice, se si vuole ricostituire il rapporto, mai così profondamente lacerato, tra «governanti» e «governati», rinsaldando le basi della democrazia italiana. Ma come in ogni cosa, occorre pur cominciare: e questa norma può essere un buon inizio.
Repubblica 14.6.12
Il colpo di spugna
di Gianluigi Pellegrino
PER orientarsi in questo bailamme sull’anticorruzione, basta domandarsi se può mai essere coerente con una riforma che si dice volta a colpire la corruttela, prendere il più odioso e grave dei reati dei pubblici ufficiali, la concussione per induzione, e assestargli
tre colpi quasi mortali.
Ovvero: 1) se ne abbassa radicalmente la pena; 2) conseguentemente si abbrevia e di parecchio la prescrizione; 3) si abolisce la connessa interdizione automatica dai pubblici uffici.
La domanda è tristemente retorica, e pure è esattamente quello che sta avvenendo, con la nuova “indebita induzione”. Al posto del protervo concussore (che resta solo per la rara ipotesi della costrizione) avremo il semplice “induttore indebito”, che si fa fatica anche a pronunciarlo. Certo ci sono anche misure di maggiore rigore su reati minori e l’opportuna introduzione di nuove fattispecie punibili. Ma ciò aggrava l’interrogativo sulla disarticolazione della concussione, al quale il ministro Severino non ha dato risposta nella puntuale intervista di Liana Milella. Dice che il Pd sarebbe d’accordo. Ma con ciò, se fosse vero, si aggiungono solo nuovi interrogativi. Non si danno certo risposte nel merito. Poi afferma, il ministro, che vi sarebbe l’approvazione dei penalisti. Non si ha difficoltà a crederlo visto che vedremo risolti d’incanto e per prescrizione un alto numero di processi in corso. Peraltro qui Severino dice di non aver elementi in proposito e di non averli nemmeno chiesti ai suoi uffici. Restiamo francamente interdetti: lo studio di impatto di ogni novella legislativa, è il fondamento della better regulation. Potevano infischiarsene guardasigilli estemporanei, che non sono mancati negli ultimi anni, ma non certo un autorevole e stimato esponente del governo dei tecnici. In particolare per un provvedimento dettato dalla riconosciuta emergenzacorruzione, dove non si tratta di tracciare il miglior sistema teorico ma mettere in campo strumenti concreti ed efficaci di immediato contrasto. Se il primo effetto è quello di mandare alle ortiche decine, o centinaia, di processi, non sembra davvero un grande servizio. Per non dire poi della singolare norma di delega sulla incandidabilità. Davvero non si capisce perché non si sia optato per una norma compiuta e immediatamente efficace, rimandando invece tutto ad un decreto legislativo che potrebbe pure non essere mai adottato. Il Governo assicura che eviterà tempi lunghi che farebbero slittare tutto al 2018. Lo dimostri sul serio e predisponga il decreto legislativo con procedura di urgenza. In modo da approvarlo il giorno dopo l’entrata in vigore della delega.
Fatto sta che non appena le nuove norme sulla concussione saranno legge dello Stato, imputati eccellenti (da Penati a Berlusconi) ne avranno non pochi vantaggi, processuali o sostanziali: pronta prescrizione e comunque, anche se colpevoli, niente interdizione dai pubblici uffici. Oltre a sicura occasione di espedienti difensivi. Ma quel che è più grave perché riguarda l’intera società, è che sarà un discreto colpetto di spugna sulle migliaia di vicende concussive che ammorbano le amministrazioni di ogni livello, di centrodestra soprattutto. E pensare che bastava ottemperare alle richieste europee con due righe di pena per il concusso in caso di induzione, ed eventualmente, se proprio si voleva, aggravando la pena per il concussore nelle rare ipotesi di costrizione. Si poteva anche agire contestualmente sulla disciplina della prescrizione, rimarginando lo sbrego della Cirielli. Ma niente, nemmeno questo. Diviene chiara allora la tattica del Pdl. Inscenare proteste all’apparenza incomprensibili ma che servono per prevenire ed evitare quei correttivi di cui il testo, così come è, avrebbe assoluta necessità. E magari anche per renderlo al Senato ulteriormente poroso e assolutorio. Del resto, come si sa, al peggio non c’è mai fine.
l’Unità 14.6.12
Esodati, nuovo scontro Fornero-Camusso
Idv e Lega presentano una mozione di sfiducia contro la ministra
«Ha tenuto un comportamento grave tacendo i contenuti del documento Inps»
Lettera durissima di sette parlamentari Pd a Monti
di Massimo Franchi
Saranno settimane di fuoco per Elsa Fornero, chiamata a difendersi per la gestione sciagurata della vicenda esodati. La ministra del Welfare sarà chiamata prima a riferire nell’aula del Senato, martedì 19, e il giorno dopo nell’aula della Camera. Sulla strada è comparso anche un grosso ostacolo: la mozione di sfiducia individuale promossa dall’inedita alleanza Lega-Idv, proposta che ha ricevuto un’ottantina di firme comprese due del Pdl (Alessandra Mussolini e Miserotti). Nel testo si sostiene che «la gestione dei cosiddetti “esodati” da parte del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, con affermazioni sconcertanti, merita disapprovazione e biasimo» e soprattutto che la ministra ha avuto un comportamento «grave» nell’aver «taciuto i contenuti del documento Inps sul numero degli esodati».
La suspense sull’esito del voto è aumentata dal fatto che nemmeno tra le file della maggioranza la difesa della ministra è molto convinta. Le critiche sono fortissime e ieri sette parlamentari del Pd (Stefano Esposito, Antonio Boccuzzi, Giacomo Portas, Giorgio Merlo, Dario Ginefra, Ivano Miglioli e Daniele Marantelli, espressione di diverse anime del partito) hanno preso carta e penna per scrivere a Mario Monti una lettera durissima in cui chiedono al premier «un immediato e fermo intervento nei confronti degli atteggiamenti non più tollerabili (e non certo da oggi) del ministro Elsa Fornero». Anche il responsabile Economia del Pd Stefano Fassina ha definito il “No” alla sfiducia come «portare la croce», «la priorità spiega è che il governo e il ministro Fornero vengano in Parlamento a spiegare bene ed in modo definitivo qual è la situazione per i lavoratori esodati, quale fattispecie vogliamo salvaguardare e quale piano con relative risorse finanziarie per risolvere il problema».
Anche all’interno dello stesso Consiglio dei ministri cominciano i distinguo. Il collega dell’Istruzione Francesco Profumo non ha fatto sconti, nemmemo per le comuni radici torinesi: «Con il ministro Fornero siamo concittadini, veniamo da scuole diverse e spesso abbiamo visioni in contrapposizione tra loro. Bisogna dirlo».
Ieri Fornero era a Ginevra insieme a Susanna Camusso. Le due non si sono risparmiate frecciate dirette. Entrambe ospiti della Conferenza internazionale del lavoro dell'Ilo, il dialogo a distanza è partito quando il segretario generale della Cgil ha accusa il ministro di aver avuto una «reazione intollerabile», «avrebbe dovuto arrabbiarsi perché ci abbiamo messo sette mesi a sapere quanti erano» gli esodati. La replica secca della Fornero è basata sui comportamenti: «Non devo necessariamente copiare i comportamenti altrui, mi sembra di ricordare, anche se io sono un politico tecnico, che un buon comportamento di un politico sia parlare all’estero di cose che riguardano l'economia internazionale e parlare in Italia di cose prevalentemente italiane. Quindi afferma Fornero io sono contenta di seguire una regola che mi pare di corretto comportamento».
La protesta contro la ministra ieri è scesa in piazza. A Roma al Pantheon 500 giovani hanno inscenato una protesta, accampandosi davanti al monumento per far sentire le loro ragioni al grido di «Esodiamo la Fornero».
DECRETO E RIFORMA INPS
Ieri intanto è stata resa pubblica la versione finale del decreto interministeriale che «salvaguarda» i primi 65mila esodati, firmato il 22 maggio dalla Fornero e sottoscritto ad inizio giugno dal viceministro dell’Economia Grilli. In attesa di essere pubblicato in Gazzetta ufficiale, si confermano le anticipazioni e le coperture finanziarie, pari a 5 miliardi e 70 milioni di euro dal 2013 al 2019. Unica sorpresa quella che riguarda una delle premesse al decreto, nella quale si sottolinea come la «congruità» della quota di 65 mila lavoratori esodati è stata verificata dalla «elaborazione effettuata dall’Inps». Un modo per responsabilizzare nuovamente l’ente pensionistico nell’iter del provvedimento.
Tutti i partiti, Pd, Pdl e Udc compresi, chiedono comunque di trovare urgentemente una soluzione. Una via potrebbe essere quella del disegno di legge sulla riforma del lavoro. I sindacati insistono invece per la convocazione immediata di un tavolo con il governo.
Nel frattempo Monti sta accelerando sul progetto di riforma della governance dell’Inps. Il presidente del Consiglio martedì sera nell’incontro con i segretari di maggioranza aveva chiesto direttamente a Alfano, Bersani e Casini il via libera. Un via libera che ha ottenuto con pochi distinguo. Il progetto del premier è molto diverso da quello di Elsa Fornero. Se la ministra del Welfare puntava a liberarsi della diarchia formata dal presidente Antonio Mastrapasqua e dal direttore generale Mauro Nori, il presidente del Consiglio vuole invece ridisegnare poteri e struttura dell’Inps. Come chiesto dalle parti sociali, saranno aumentati i poteri di vigilanza di un Board che accompagnerà il presidente e al quale lo stesso presidente dovrà rispondere.
La Stampa 14.6.12
Il nodo da risolvere
Ci sono 325 mila fantasmi nel pasticcio degli esodati
Il governo parla di 65 mila lavoratori, i sindacati di 390 mila: ecco perché
di Paolo Baroni
Da settimane il sindacato protesta e chiede tutele per tutti i lavoratori impigliati nel limbo degli esodati
Che quello degli esodati fosse un pasticcio lo si era capito subito. E del resto i sindacati sono sei mesi almeno che lo sostengono e pressano il governo. Dalla prima stima, 50 mila persone interessate dalla «tagliola», si è infatti passati a 130mila, poi 350 mila e l’altro giorno a 390.220. Con una avvertenza segnalata da più parti: non si parla di numeri, ma di famiglie in difficoltà, di persone che hanno fatto un accordo per lasciare il lavoro ed ora rischiano di restare senza occupazione e senza pensione a causa dell’età pensionabile dell’ultima riforma Fornero.
I sindacati hanno sempre parlato di 300 mila e più. Il decreto del governo ne garantisce però solo 65 mila. Colpa del ministro che sottovaluta il problema? No. Perché l’esecutivo lo stesso giorno in cui ha presentato il suo decreto, il 5 giugno, ha detto a chiare lettere di essere «consapevole che il provvedimento» sui lavoratori salvaguardati «non esaurisce la platea di persone interessate alla salvaguardia come, in particolare, i lavoratori per i quali sono stati conclusi accordi collettivi di uscita dal mondo del lavoro e che avrebbero avuto accesso al pensionamento in base ai previgenti requisiti - non prima del 2014 - a seguito di periodi di fruizione di ammortizzatori sociali». Semmai una colpa va individuata, la prima di una lunga catena di errori, è quella della Ragioneria dello Stato e del Tesoro, che hanno imposto un limite alla spesa di 5 miliardi. Che tradotto non significa però negare il problema, ma affrontarne solamente un primo pezzo. Il discrimine è quello del 2014: fino a quella data tutti gli esodati sono tutelati. Dal 2014 sino al 2017 ci sono altre 300 mila posizioni da analizzare.
Come nasce il problema Tutto inizia lo scorso autunno con la decisione di innalzare a 62 anni l’età minima per andare in pensione. Peccato che in parallelo, mentre al ministero del Lavoro si fissavano questi nuovi paletti, in un altro palazzo del governo, lo Sviluppo economico, continuavano ad essere firmati accordi di ristrutturazione che contemplavano scivoli, ammortizzatori e piani imperniati sulle vecchie regole.
Cosa fa sballare i conti?
Il «famigerato» documento dell’Inps che fissa quota 390 mila individua due platee precise che fanno lievitare il numero degli esodati: quella di chi prosegue volontariamente (133.000 persone autorizzate ai versamenti volontari nati dopo il 1946 e con un ultimo versamento contributivo antecedente il 6 dicembre 2011) e i cosiddetti «cessati», ovvero quelli che sono usciti dal lavoro per dimissioni, licenziamento o altre cause tra il 2009 e il 2011 che hanno più di 53 anni e che non si sono rioccupati (180.000 secondo l’Inps).
Per queste due categorie, infatti, il decreto del governo prevedeva rispettivamente 10.250 e 6.890 salvaguardati.
La scelta del governo.
Il primo passo deciso dall’esecutivo fissa un paletto al 6 dicembre 2011, data di entrata in vigore del decreto Salva-Italia. È «salvo» chi matura la decorrenza della pensione entro 24 mesi dall’entrata in vigore da questa data e che di fatto, considerate le finestre mobili, matura i requisiti entro maggio 2012 se autonomi e entro novembre 2012 se dipendenti. Per tutti gli altri si deve provvedere con un successivo intervento. La forbice protetti/non protetti non riguarda solo cessati e prosecutori volontari ma anche altre categorie: 45.000 persone tra mobilità ordinaria e quella lunga a fronte dei 29.050 salvaguardati dal decreto, 26.200 che beneficiano di fondi di solidarietà a fronte di 17.710, 3300 beneficiari del congedo straordinario per l’assistenza ai figli gravemente disabili anziché 150.
Il nodo dei costi Se il primo intervento sui 65 mila costa 5 miliardi, salvaguardare la pensione degli altri 300-325 mila può costare, a seconda delle stime 10-12 miliardi, qualcuno dice anche 25. Un cifra certa non c’è. Anche in questo caso, in attesa della nuova «velina» dell’Inps, sembra ripetersi la lotteria dei numeri. «In 10 anni sulla previdenza abbiamo risparmiato 140 miliardi: i soldi vanno presi da lì» dice Raffaele Bonanni (Cisl).
Fornero sapeva?
Il documento dei 390 mila risulta uscito dall’Inps il 22 maggio ma sul tavolo del ministro del Lavoro, sostengono al ministero, non è mai arrivato. Non si esclude un problema «di funzionamento» degli uffici competenti, ma anche l’Inps ci ha messo del suo a fare confusione: richiesto ufficialmente in Parlamento di fornire delle stime il presidente Antonio Mastrapasqua ha detto di non avere numeri a disposizione. Il direttore generale Mauro Nori, in un’altra occasione, ha parlato di 135 mila. Salvo poi in privato confidare a qualche deputato che a suo giudizio gli esodati erano 350 mila. Insomma un po’ l’ente ha retto il gioco dell’esecutivo, che oltre ai 5 miliardi di spesa faceva fatica ad andare, ed un po’ ha giocato a fare da guastatore. Di qui lo sfogo dell’altro ieri del ministro Fornero che ha parlato di «documento parziale e non spiegato», «irresponsabile», «fatto per danneggiare il governo».
Il ruolo dell’Inps In questa partita anche le vicende interne all’Inps hanno un loro peso: lo scontro tra Mastrapasqua e Nori (i due sembra che fino a ieri non si parlassero nemmeno più), e la posizione del presidente, che è sì blindato dal Salva Italia (che lo nomina commissario per la fusione tra Inps, Inpdap ed Enpals sino a tutto il 2014) ma che vede ormai agli sgoccioli la sua carriera di superpresidente. In parlamento una mozione bipartisan ha chiesto al governo di rivedere la governance dell’ente e la stessa Fornero ha insediato una commissione di esperti per studiare la questione. Per lui il conto alla rovescia insomma è già iniziato.
l’Unità 14.6.12
Il problema Fornero
In un Paese normale il ministro non starebbe più al suo posto Monti deve farsene carico
di Pietro Spataro
L’ITALIA È ENTRATA IN «ZONA ROSSA» E L’INTERVENTO DI MARIO MONTI ieri alla Camera è la dimostrazione di questo stato d'emergenza. Sottoposti alla pressione dei mercati e della speculazione, con lo spread che torna a far tremare, possiamo farcela soltanto se c'è coesione, se si fa uno scatto in avanti, se il sostegno del Parlamento al governo è all'altezza della battaglia difficile.
Come non condividere queste parole del premier? Come non essere d’accordo sulla necessità di intensificare gli sforzi di fronte a una «fase cruciale» per il nostro Paese in un’Europa a rischio? Le prossime settimane saranno ad alta tensione e il governo deve garantire la massima determinazione, oltre che un impegno deciso sul fronte della crescita e un equilibrio convincente sui dossier più delicati. Se le cose stanno così e le cose stanno effettivamente così il premier ha però un problema serio in casa, che deve risolvere al più presto: il ministro del Welfare Elsa Fornero. La quale si occupa di uno dei settori più spinosi e finora ha svolto il suo compito in modo dirompente, scegliendo spesso quel che divide
piuttosto che quel che unisce. L’incredibile vicenda degli «esodati» sta lì a dimostrare la pulsione combattente che troppo spesso anima i comportamenti del ministro. In questo caso c’è un sovrappiù davvero intollerabile. Come abbiamo raccontato su l’Unità di ieri l’Inps, su richiesta, aveva recapitato al ministero un dossier dettagliato su quanti lavoratori sarebbero stati estromessi dalla pensione a causa della riforma previdenziale. E il numero, come sappiamo, è molto lontano da quello indicato dalla Fornero: 390 mila contro i 65 mila per i quali è stata prevista la salvaguardia. Sin da gennaio, quando infuriava il balletto di cifre e i sindacati uniti sostenevano che i numeri del ministro erano sballati, Fornero sapeva tutto. Ha mentito, tenendo segreto un rapporto che riguarda la vita di tanti lavoratori e di migliaia di famiglie italiane. Ha mentito, continuando a sostenere che quei 65 mila erano quelli
effettivamente danneggiati. Ha mentito, proseguendo dritta per la sua strada e lasciando sospesi più di trecentomila lavoratori: senza stipendio e senza pensione.
La cosa ancor più grave è che il ministro, di fronte a questa drammatica rivelazione, ha reagito come reagirebbe un bambino scoperto a fare una marachella: ha negato e ha dato la colpa ad altri. In questo caso all’Inps, accusata di diffondere certe notizie che «provocano disagio sociale» e i cui vertici andrebbero licenziati in tronco. Neppure un cenno di autocritica, nemmeno una parola di scuse a quelli che stanno vivendo un pesante dramma sociale, neanche unindizio di provvedimento riparatorio. Seguendo invece la tecnica del difendersi attaccando, ha usato parole dure contro tutti, soprattutto contro i sindacati che sono i legittimi rappresentanti degli interessi di quei lavoratori. Ha confermato, insomma, uno stile di governo che s’addice più al rigido decisionismo di un consiglio di amministrazione che a un esecutivo di impegno nazionale.
Non riusciamo ad immaginare come si possa chiedere ai partiti che sostengono il governo uno scatto in avanti e un’accelerazione sulle misure necessarie in presenza di un ministro inadeguato. Che, oltre alla riforma delle pensioni, è anche titolare di quella sul mercato del lavoro che arriverà tra poco alla Camera e che presenta altre significative criticità come i trattamenti dei collaboratori a progetto e il mancato adeguamento degli ammortizzatori sociali. Ma diciamo la verità: come si può accelerare sul mercato del lavoro se non si risolve prima il problema degli esodati? Monti cercherà di trovare le soluzioni più giuste o lascerà alla Fornero la gestione di una partita così complicata?
Welfare e lavoro sono, in un momento così difficile per l’economia, settori strategici sui quali si gioca la capacità dell’Italia di rimettersi in moto senza lasciare indietro nessuno. Quindi è necessario, su questi temi, un paziente lavoro di tessitura, un dialogo serio con le forze sociali, l’autorevolezza per garantire la coesione. In un Paese normale, perciò, un ministro come Elsa Fornero non starebbe più al suo posto. In questa situazione di pesanti rischi per l’Italia tocca al presidente Monti prendere in mano la situazione, farsi carico personalmente delle questioni cruciali che riguardano il Welfare e disinnescare una mina che rischia di deflagrare quanto prima in modo irreparabile.
l’Unità 14.6.12
Bersani: «Mandato pieno ma ora serve una svolta»
Casini: «Oggi non è facile appoggiare questo governo. Con più rigore uccideremmo il Paese»
Alfano al premier: «La situazione non è facile ma se lo fosse non ci sarebbe lei a Palazzo Chigi»
di Maria Zegarelli
Il dibattito che segue l’informativa del premier Mario Monti dice delle cose in chiaro e ne lascia intuire più o meno esplicitamente molte altre. Ampio mandato dei partiti di maggioranza al presidente del Consiglio, sia in Europa sia in Italia, ma con una premessa che fa il segretario Pd Pier Luigi Bersani e raccoglie l’applauso anche dai banchi di Udc e Fli. «Presidente Monti esordisce il segretario democratico -, lei ha fatto bene a rivendicare le ragioni fondate dell'Italia; garantiamo il pieno sostegno alla sua azione, consapevoli del momento, come è sempre stato in questi mesi; e voglio dire, non a lei, Presidente, ma a qualche facile commentatore fuori di qui, che qui non ci sono palle al piede; qui c'è gente che si sta caricando di una mediazione difficile con il Paese in un passaggio difficile. Se qualche facile commentatore vuole venire a fare un giro con me, forse registra la penna».
IL MANDATO PIENO
Un mandato pieno in Europa, «a battere i pugni» affinché cambi il passo e si dia il via ad una unione politica e non solo monetaria e ad una fase che affianchi al rigore delle misure urgenti per la crescita e per bloccare le speculazione finanziarie che puntano ad affondare l’Euro e con esso l’intera Europa. Ma un mandato pieno anche in Italia dopo una fase di rallentamento dell’azione dell’esecutivo e una palese difficoltà a tenere insieme soprattutto i ministri tra di loro. Tra il non detto esplicitamente anche il messaggio a Monti a non mettere sul piatto della discussione d’autunno lo spettro di un’altra manovra, alla luce di quei 4-5 miliardi di euro che mancherebbero per centrare l’obiettivo del pareggio del bilancio. Senza mai citare la parola «manovra» è proprio Pier Ferdinando Casini, il più appassionato sostenitore del Professore, a dire: «Ancora più rigore ucciderebbe semplicemente il Paese, perché stiamo creando una situazione di sacrifici, recessione, di calo dei consumi che non ci consente nuovi sforzi in senso tradizionale oltre quelli che stiamo facendo». Casini sottolinea che sì, « oggi non è facile appoggiare questo governo», ma aggiunge che «se non ci fosse stato questo Presidente del Consiglio e se non ci fosse stata questa svolta politica forse oggi un altro Paese sarebbe al posto della Spagna». Per questo chiede ai suoi colleghi di maggioranza una mozione unitaria «per chiedere più Europa».
Lo spettro che si aggira a Palazzo Chigi e in Parlamento, infatti, è quello che il prossimo paese a finire sull’orlo del baratro, dopo la Spagna, sia proprio l’Italia. Da qui l’esigenza di una nuova strategia europea e del ruolo che Mario Monti, nel corso dei prossimi appuntamenti, potrà avere insieme ad Hollande, ma non solo a lui, per fare pressione su Angela Merkel.
«Dobbiamo uscire dalla retorica e chiamare le cose con il loro nome dice Bersani . Il dibattito europeo è anche il nostro, il rapporto fra rigore e crescita. Ma è poco ed è un dibattito stucchevole, perché adesso siamo in emergenza». Pericoloso, aggiunge, affidarsi a quanti ritengono che le «crisi sono creative, che ex malo bonum e, quindi, lasciamola andare, perché ripulirà il sistema e ci consentirà di ripartire». «Pensiero criminale, che gioca con la prospettiva di milioni e milioni di persone», lo definisce il segretario Pd. Nè ci si può accontentare della politica dei «piccoli passi», l’unica opzione in campo, dice, è la «discontinuità, in questo mese. Una discontinuità, un cambio di passo netto e urgente, perché se la linea di politica economica europea o eurotedesca non cambia, non si vede francamente come l'euro possa, alla lunga, sopravvivere».
Bisogna «correggere l’errore storico della costruzione dell’euro», insiste Angelino Alfano , e quindi condurre una «battaglia sul mandato della Bce che deve avvicinarsi «al modello della Fed negli Stati Uniti». Certo, la situazione non è facile ma, aggiunge, se lo fosse stata «non ci sarebbe stato lei a capo del nostro governo». Alfano ribadisce l’appoggio al governo, «l’abbiamo sostenuta con lealtà... la macchina l’ha guidata lei», il sostegno assicura non mancherà anche quando ci saranno provvedimenti non condivisi fino in fondo, ma chiede «investimenti subito» per alimentare «la domanda interna». L’altra richiesta che fa è di dire ad «Angela Merkel che se la Germania continua in quella direzione, il Parlamento italiano potrebbe avere reazioni negative a quella politica».
Critico Italo Bocchino, da Fli, che avverte il rischio della politica degli annunci, come sta avvenendo con la spending review o sugli esodati. «Avessi combinato io quello che ha combinato la Fornero con gli annunci sarei stato messo al rogo a Campo de’ fiori». Una relazione «letteralmente imbarazzante» quella di Monti a detta di Massimo Donadi, che parla per l’Idv. Propaganda senza freni quella della Lega che in vertiginoso calo di consensi cita operai, esodati, imprenditori e si scaglia contro Monti che prima «nega i poteri forti, in quest’Aula il 18 novembre 2011» e oggi li chiama in causa per averlo abbandonato.
il Fatto 14.6.12
Rai, la svolta di Bersani: voteremo i candidati della società civile
Arrivati 33 curriculum per un posto nel Cda: c’è di tutto
di Andrea Scanzi
Se non ora, quando? C’è vita a sinistra e, sorpresa, anche nel Pd. Pier Luigi Bersani sulla partita dei consiglieri Rai, fa sentire la sua voce. “Qualora le vostre Associazioni ritenessero di indicare due candidature per il Cda noi siamo pronti a sostenerle per garantire comunque, nella transizione ad una nuova governance dell’Azienda, la voce di liberi protagonisti della società civile”, scrive in una lettera aperta a Libertà e giustizia, Se non ora quando, Libera e Comitato per la libertà e il diritto all’informazione. Sulla linea di queste 4 sigle, che reclamavano un segno tangibile, il segretario del Pd schiererà l’intero partito. Un impegno concreto, frutto di un caos che Bersani si incarica di descrivere lungamente: “La Rai vive il momento più drammatico della sua storia: umiliata da chi l'ha asservita ai capricci della destra, incapace di competere, priva di un chiaro indirizzo industriale. Non è solo un problema di autonomia dell'informazione o di scarso pluralismo, oggi il male è ben più profondo”. Per poi affondare: “Le decisioni che dovrebbero essere guidate da valutazioni esclusivamente aziendali vengono prese sempre più fuori dall'Azienda. Anni di lottizzazione hanno cambiato la Rai, finendo per inaridire la capacità innovativa della più grande industria culturale del Paese”. Sul Piave di Bersani: “Gli ascolti calano, la raccolta pubblicitaria fatica, l'innovazione tecnologica è bloccata, le prospettive industriali sono nel buio: questa oggi è la Rai. Davvero dobbiamo rassegnarci a un triste declino? ”.
C’È FOLLA sull’uscio di Viale Mazzini e vigili nelle strade. Traffico. Spintoni. Trentatré candidati, poco consiglieri e molto aspiranti.
In Rai, infatti, sono arrivati 33 curricula per una poltrona nel Cda. L'ufficio di Presidenza della Commissione di Vigilanza Rai ne dovrà scegliere 7, il prossimo 21 giugno. Fino a qualche giorno fa, molti consiglieri – Vincenzo Vita, Fabrizio Morri, Alessio Butti, Marco Beltrandi – avevano ammesso che, se anche qualche curriculum era loro arrivato, non lo avevano letto. I requisiti per poter entrare a far parte del Cda della Rai sono molteplici: avere lo stesso profilo richiesto per la nomina a giudice costituzionale, essere professori universitari in materie giuridiche (o avvocati da almeno vent'anni), essere persone di riconosciuta notorietà e competenza (e indipendenza). Sulla carta tutto bene. Nella realtà, come sempre, meno. Il curriculum, nell'Italia (e nella Rai) che tutto può definirsi salvo meritocratica, rischia di essere l'aspetto meno rilevante nella scelta di un candidato. Questo, almeno, è lecito pensare – per citare i casi più recenti – dopo le spartizioni Agcom e Privacy. O dopo la scelta, da parte di Mario Monti, dei Direttore Generale e Presidente Rai. In questo senso l’apertura compiuta ieri da Pier Luigi Bersani incassa persino il sostegno di Antonio Di Pietro: “Bene, la proposta di Bersani è comunque il male minore”. Mentre Articolo 21 invita le associazioni ad accogliere positivamente il gesto del segretario Pd. Per ora la galassia dei 33 candidati si rivela sfaccettata. Pure troppo. Si va da Carlo Freccero e Michele Santoro, che avrebbero tutti i requisiti (e per questo non verranno mai scelti), a una selva di docenti di medio e lungo corso: Marco Gambaro, Renato Parascandalo, Armando Lamberti, Franco Rositi, Fabrizio Perretti, Roberto Mastroianni, Sabino Acquaviva. Massimo Liofredi, dopo gli strabilianti risultati ottenuti come ex direttore di Rai-Due, ci riprova. A conferma di una inclinazione verosimilmente sadica. C'è Paolo Sabbatucci, direttore della segreteria dell'attuale Cda Rai; Giampiero Gamaleri, professore ordinario a Roma Tre nonché membro del Cda del Centro Televisivo Vaticano; e Franco Scaglia, attuale presidente di RaiCinema.
LA POLITICA dovrebbe rimanere fuori, quindi è saldamente dentro. Lo confermano le aspirazioni di Umberto Croppi (fedelissimo finiano, ex assessore alla Cultura nel Comune di Roma, nella giunta Alemanno dal 2008 al 2011) ; l'archeologa ed ex senatrice Ds Tana De Zulueta; e il parlamentare Alberto Di Luca, tesoriere di Forza Italia dal 1994 al 2006. Tra i giornalisti, oltre a Santoro, Massimo Pini (biografo di Craxi) ; Giuseppe Signoriello (anche avvocato, componente del Collegio Revisori dei Teatro Stabili di Roma e Napoli) ; Aldo Mantineo (la Gazzetta del Sud, La vita in diretta). E l'ineffabile Federico Guiglia, che i nottambuli avranno notato nel monumentale “Prossima fermata” su La7: un programma con così poco ritmo che, in confronto, i dibattiti moderati da Nuccio Fava sembrano scoppiettanti. Da segnalare i registi Antonio Fugazzotto e Aldo Sarullo (anche scrittore e sceneggiatore, ex consulente artistico del Comune di Palermo). Candidature forti e deboli, pertinenti e no. Almeno due gli intrusi. Salvatore Acanfora, ex capotreno della Ferrovia Roma Lido, nel Guinness dei Primati (da 14 anni) per avere mandato più di 4mila petizioni al Parlamento, Medaglia d'Argento della Marina per avere salvato due pescatori in mare. E Roberto Menegon. Un comune cittadino che ha mandato la candidatura in anticipo. Molto anticipo: marzo 2009. “Non soggetta a tempi di scadenza”. Ha le idee chiare, o crede di averle: “Voglio una tivù pubblica con una più vasta impronta didattica”. Sognatore.
il Fatto 14.6.12
Il caso Ior, i verbali
Gotti Tedeschi: “Tarantola mi mostra le lettere che manda”
di Francesca Biagiotti
Un documento in lingua inglese firmato dalla società di consulenza Deloitte che boccia il Vaticano sulle “criticità” nell’applicazione delle nuove procedure antiriciclaggio. Ettore Gotti Tedeschi lo ha consegnato ai magistrati romani che lo hanno interrogato martedì scorso. Il banchiere ha descritto la sua battaglia per imporre la trasparenza allo IOR. In questo contesto ha ripercorso le vicende già tratteggiate in un precedente verbale del settembre del 2010 quando ai pm Nello Rossi e Stefano Fava aveva raccontato anche i suoi rapporti confidenziali con Anna Maria Tarantola, ex numero due della Vigilanza Banca d’Italia e prossimo presidente Rai: “mi fa sempre vedere le lettere che manda” (alle banche italiane sulla questione Ior, ndr).
Gotti, nell’interrogatorio di martedì scorso, condotto stavolta anche dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha spiegato il ruolo avuto dalla società di consulenza Deloitte e ha raccontato il clima di caccia alle streghe del quale a suo dire sarebbe rimasto vittima. L’ex presidente dello Ior ha detto di essere stato sottoposto in Vaticano a un vero e proprio interrogatorio; nelle vesti di pm l’avvocato americano Jeffrey Lena, il superconsulente della Segreteria di Stato per le questioni legali. Gotti era sospettato di avere passato soffiate ai giornalisti come la notizia, imbarazzante per il Vaticano, della chiusura da parte della Jp Morgan di un conto Ior a Milano. Il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Fava stanno studiando il documento della Deloitte che si aggiunge a quelli sequestrati dal reparto operativo del NOE dei Carabinieri, guidato dal capitano Pietro Raiola Pescarini. La società di consulenza aveva ricevuto due compiti da Gotti nel 2010: certificare il bilancio vaticano e valutare le procedure della banca in materia di antiriciclaggio. Il risultato di questo lavoro fu trasmesso allo IOR e all’AIF (l’agenzia vaticana antiriciclaggio) a giugno. Già nel 2010 Gotti Tedeschi aveva parlato con i pm della consulenza Deloitte ma si era rifiutato di consegnare il rapporto: “queste sono cose interne”, aveva detto ai pm allora. Interrogato martedì, dopo essere stato rimosso, ha cambiato atteggiamento consegnando un secondo rapporto Deloitte del luglio 2011 dove sono descritte le “criticità” anche nelle nuove procedure antiriciclaggio della banca. Forse un parere poco gradito visto che, con la motivazione del costo eccessivo, Deloitte non è stata riconfermata nel suo incarico.
QUEL VECCHIO interrogatorio del 30 settembre 2010 non finisce però di dare spunti. Gotti allora ammetteva l’esistenza di operazioni cifrate: “fino a un anno fa c’erano numeri di codice per gli ordini dei bonifici a nome IOR e io ho detto mai più. Questo è intollerabile... I rapporti con le istituzioni erano attraverso codici cifrati, non dichiaravano chi era l’ente”. Paolo Cipriani, il direttore amministrativo rimasto oggi nella banca vaticana, operava sui conti, lui non sapeva nemmeno chi fossero gli intestatari reali. Poi aveva proseguito così: “ci sono dei conti “laici esterni”, alcuni privilegi concessi nel passato. Da quando c’è il nuovo segretario di Stato non si aprono più e c’è l’invito a estinguerli”. Diceva che in Vaticano non era amato per quello che stava facendo ma forse non immaginava quanto. Interessanti le parole di Gotti di allora anche sul ruolo di Anna Maria Tarantola nel-l’accompagnare lo Ior nel difficile percorso per entrare nella white list degli stati più affidabili per l’organismo europeo Moneyval. La dottoressa Tarantola, all’epoca direttore generale della vigilanza di Banca d’Italia, era un punto di riferimento della banca vaticana. “Vado tutte le settimane in Banca d’Italia, vado da Mario Draghi e dalla dottoressa Tarantola con una continuità”, spiegava ai pm Gotti, “la Banca d’Italia dice alle banche italiane: ‘nei confronti dello Ior adottate queste procedure’ e siccome i miei rapporti personali sono eccellenti io ho avuto una comunicazione continua con loro. Mi dicono: ‘guarda Ettore che abbiamo chiesto alle banche italiane e ti facciamo leggere prima le lettere che escono’”. Poi il banchiere del Vaticano, interrogato dai pm aggiungeva: “certo il suggerimento se siamo in due, è più facile averlo”. A questo punto il pm Fava, probabilmente un po’ sorpreso per quanto Gotti raccontava chiedeva conferma del fatto che le lettere erano mostrate al presidente IOR prima del loro invio e Gotti Tedeschi rispondeva: “il Direttore Generale della Vigilanza, la Dottoressa Tarantola, mi fa sempre vedere le lettere che manda, me lo avrà detto sicuramente. Io in Banca D'Italia vado quasi tutte le settimane”. Anna Maria Tarantola non replica ma fonti della Banca d’Italia sostengono che “gli esponenti della banca vaticana sono sempre stati ricevuti in maniera formale”. Quanto alle lettere mostrate all’allora presidente dello Ior, si fa notare che “le lettere potevano essere talvolta commentate dopo l’invio alle banche e mai prima. Questo per far capire quale erano i comportamenti che lo Ior doveva tenere per poter continuare ad avere rapporti con le banche italiane”.
Repubblica 14.6.12
Irreperibile da giorni il super esperto informatico che si occupa della sicurezza telematica della Santa Sede
Vaticano, il mistero dell’hacker scomparso “È l’ingegnere del Papa, chiave di ogni segreto”
di Marco Ansaldo
CITTÀ DEL VATICANO — Si definisce «l’ingegnere del Papa ». Ha in mano i codici per entrare nel sistema informatico del Vaticano. È il detentore di una serie di segreti, compresi quelli delle ultime scottanti vicende sulla diffusione di documenti interni. Ma è sparito da qualche giorno, senza lasciare traccia.
Il giovane ex hacker di 36 anni, che ha creato un sistema Firewall per proteggere l’avanzatissima e delicata centrale computerizzata pontificia posta nei sotterranei del Palazzo apostolico, è irreperibile.
La Santa Sede sa che si tratta dell’unica persona che, volendo, potrebbe essere eventualmente in grado di violare il sistema e di impadronirsi dei preziosissimi dati. Che cosa gli è successo? Perché, ora, non si trova più questo personaggio, la cui identità e il cui profilo sono ignoti ai più, anche all’interno delle Sacre Mura?
La sua storia è uno dei segreti più protetti e meglio conservati in Vaticano. Perché quello che oggi è diventato un ingegnere informatico, specializzato in automazione industriale, solo alcuni anni fa era un semplice hacker capace di entrare nei meccanismi della rete pontificia e di scardinarne la chiave. Quest’anno, ad esempio, per ben due volte il sistema computerizzato della Santa Sede è andato in tilt a causa di attacchi esterni.
E, in entrambi i casi, ci sono voluti alcuni giorni di lavoro per ripristinare i collegamenti e tornare alla normalità. Di questi piccoli, ma ricorrenti danni, ne hanno parlato in breve sia i giornali sia le agenzie di stampa.
In passato era accaduto lo stesso, ma ad opera di questo giovane genio dell’informatica. Il Vaticano lo aveva individuato subito ma, invece di punirlo, con una magnanimità pari all’astuzia, la decisione fu invece quella di assoldarlo. E con un’intesa fra la Segreteria di Stato e la Gendarmeria, cioè l’organo che sovrintende alla sicurezza dentro alle Mura leonine, con il tempo gli affidarono il delicatissimo compito di proteggere il sistema computerizzato situato nei tunnel sotterranei.
Una rete che, dicono gli esperti, è pari se non superiore a quella dei servizi segreti americani a Langley, in Virginia, sede della Cia.
Perché venne scelto il ragazzo? «Perché era il migliore sulla piazza, il più bravo in assoluto », è la risposta che proviene da una fonte informatissima sulla vicenda. Il giovane, in più, ebbe il fiuto di non farsi assumere come interno alla Santa Sede, mantenendosi le mani libere in modo da poter eventualmente lavorare in altri ambiti e Paesi, fungendo così per il Vaticano da superconsulente esterno.
Si è poi specializzato in “homeland security”, cioè nei sistemi di protezione da attività terroristiche adottati da alcuni Stati dopo l’11 settembre.
Oggi il giovane ingegnere è il solo a sapere come entrare nella rete vaticana, possedendo la password di ingresso nel “data base” che ha creato, ritenuto inespugnabile. Quello
pontificio è infatti considerato dagli esperti come uno dei sistemi più “incraccabili”, cioè non corrompibili, a prova di bomba.
L’ex hacker è dunque la persona che, in teoria, conosce tutti i contatti e le e-mail interne alla Santa Sede, i codici cifrati dello Ior, e forse anche i segreti sui cosiddetti “corvi”, le persone che hanno diffuso le lettere vaticane.
Ma perché oggi l’uomo non si trova più? Al di là delle ipotesi peggiori, la pista che viene seguita da chi lo conosce sufficientemente è che l’ingegnere, che si considera un fedelissimo del Papa, da quando è scoppiato il caso Vatileaks, non si fidi di chi lo aveva incaricato di occuparsi dell’informatica vaticana e voglia tenersi ben a distanza da un problema che con il passare del tempo pare sempre più allargarsi. Un giallo, questo, che si assomma ai tanti misteri di una vicenda per niente conclusa.
Corriere 14.6.12
«Cattolici, è ora di un nuovo soggetto politico» Carlo Costalli: «No all'uso dei valori come steccati È finita l'epoca del leader demiurgo calato dall'alto»
di G. G. V.
ROMA — «Guardi, alla fine i miei amici nel mondo cattolico e nella Chiesa — quelli pragmatici, e ce ne sono tanti — si pongono e ci pongono una domanda molto semplice: scendiamo in campo per partecipare alla gestione della cosa pubblica in modo tale che tutta la prossima legislazione possa esserne influenzata in modo positivo, oppure facciamo i grillini di centro, ci chiudiamo nelle sagrestie e lasciamo che alle leggi ci pensino, con tutto il rispetto, Vendola e Bonino?».
Carlo Costalli è il presidente del Movimento cristiano lavoratori, 345 mila iscritti, nonché tra gli artefici di quel «forum di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro» che riunisce sette associazioni (Acli, Cdo, Cisl, Coldiretti, Confartigianato e Confcooperative, oltre al Mcl) e ha animato il convegno di Todi a ottobre e il manifesto di «Todi 2» presentato due settimane fa.
Domani, spiega, parlerà al consiglio nazionale del suo movimento. Problema: che farà il forum da grande? «Siamo in tanti, dentro e fuori, a pensarlo: è il momento di rendere indispensabile la creazione di un nuovo movimento politico». Un partito? Costalli sorride, «mi hanno detto di non parlare di partito, diciamo un movimento capace di parlare un linguaggio nuovo, di verità: va creato consenso anche sulle questioni scomode». Ecco, appunto. Il «manifesto» di «Todi 2» elenca una serie di punti, modifica del sistema fiscale, sostegno alle imprese, centralità della famiglia, pluralità di scuole, welfare moderno e sussidiario, nuova legge elettorale con preferenze e così via. Ma come la mettiamo con i temi etici, i «valori non negoziabili», quelli per cui se Bersani apre a una «legge per le unioni civili» Fioroni s'inalbera in nome del «no ai matrimoni gay» e finiscono per dividersi gli stessi cattolici come ai tempi dei Dico? «Non c'è dubbio che i temi legati ai valori siano quelli che ci stanno più a cuore. Però noi guardiamo a un movimento che sia identitario, ma non confessionale. Vorrei fosse ben chiaro: io non penso al partitino cattolico integralista. Dentro e fuori il forum, sono in tanti a vederla come me: pensiamo a una grande area moderata e riformista, aperta ai laici e nella quale sia forte la presenza del movimento cattolico».
Sì, ma sul riconoscimento dei diritti alle coppie di fatto, gay o etero, come si fa, ad esempio? «L'essenziale è evitare lo scontro frontale. È chiaro che se si arrivasse a questo punto, o di qua o di là, io starei piuttosto con Fioroni che con Bersani. Per un cattolico la famiglia è fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ce lo ha ricordato il Papa a Milano», ribatte Costalli. «Però se la domanda è sui principi non negoziabili, allora dico che sono i fondamenti per un discorso più ampio. Quei principi non sono temi dogmatici da innalzare a mo' di steccati, come fa il Pdl. Non si fa così. Siamo sempre disponibili a discutere, a confrontarci. Certo non approverò mai l'eutanasia. Ma sulle coppie di fatto, per dire, una regolamentazione laica va data. Non parliamo di matrimonio, distinguiamo bene, definiamole laicamente in altro modo e si potrà trovare una soluzione senza barriere né scontri».
Resta il problema del leader: perché non fare nomi? «Io veramente ne farò. Quello che abbiamo detto è che è finita l'epoca del leader demiurgo, calato dall'alto. Come Berlusconi». E Montezemolo? «Risponde allo stesso prototipo». Quindi? «La cosa fondamentale è la discontinuità nei progetti. Di persone che si possano assumere questa responsabilità ce ne sono, nel governo come nel sindacato, da Raffaele Bonanni a Corrado Passera a Lorenzo Ornaghi...».
il "partito" di Repubblica a congresso da oggi a Bologna
Repubblica 14.6.12
La speranza oltre la crisi
Scrivere il futuro a Bologna Oggi la Repubblica delle idee
di Ezio Mauro
UN GIORNALE, una città, il Paese. È questo che va in scena nelle strade, nelle sale civiche e nelle strade di Bologna, da oggi a domenica. La “Repubblica delle idee” chiama insieme le sue firme e i suoi lettori per un incontro culturale d’amicizia e di confronto, una discussione aperta sui grandi temi della vicenda contemporanea in Italia e nel mondo, dominata dalla crisi. Non abbiamo chiesto alla politica di darci le risposte: lo deve fare istituzionalmente, ogni giorno, è il suo compito e il suo ambito obbligato e sovrano. Chiediamo alla cultura di aiutarci a pensare e a capire, a re-immaginare il futuro, a cercare il fondamento di una nuova speranza, a rendere possibile il cambiamento.
Le idee sono oggi ciò che più serve ad un Paese che cerca se stesso, che deve ricostruirsi, che tenta di trovare una strada dentro un’Europa in difficoltà, col rischio di perdersi rinunciando ad ogni ambizione. Crediamo nell’Europa perché crediamo nell’Italia e nel suo domani. Vorremmo che questa fiducia, condivisa da molti cittadini, trovasse nelle scelte dei partiti, delle istituzioni, dei governi e della classe dirigente del Paese ragioni concrete per giustificarsi e per crescere giorno dopo giorno.
A noi, a tutti noi, resta uno spazio importantissimo: quello della partecipazione, da cittadini, e della discussione. Un giornale, in fondo, è proprio questo. Uno spazio di cittadinanza, attraverso l’informazione consapevole, e uno strumento per entrare da soggetti attivi dentro il discorso pubblico. Ecco perché abbiamo scelto come slogan di queste giornate “scrivere il futuro”: perché ci riguarda tutti, giornalisti e cittadini, in quanto tocca ad ognuno di noi elaborare idee per il futuro, nostro e dei nostri figli. E perché ci costringe a inseguire la speranza del domani, oltre la crisi. Il futuro, le idee, una speranza.
Buona discussione, con “Repubblica” a Bologna.
Repubblica 14.6.12
Noi e l’Italia che verrà. Il sogno del futuro
di Ilvo Diamanti
GLI italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Così il sondaggio CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni incerte.
Cosa si aspettano gli italiani. Ecco i risultati del sondaggio Demos presentato alla “Repubblica delle Idee”, che prende il via oggi a Bologna
Gli italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Come e chi. “Come” cambierà il Paese. “Come” cambierà la società. E ancor più: “chi” sia in grado di produrre e guidare il cambiamento. Così il sondaggio CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni incerte. Come incerto, d’altronde, è il domani. Così gli italiani si dividono equamente, quasi a metà, fra chi pensa che il Paese tra cinque anni sarà cambiato profondamente (52%) e chi ritiene, invece, che non avverranno mutamenti di rilievo. La grande maggioranza di coloro che credono nel cambiamento (62%) immagina, peraltro, che il futuro ci riservi un Paese migliore. E poco meno di metà degli intervistati (49%) azzarda che, tra dieci anni, saremo più “felici”.
In altri termini, gli italiani, nell’incertezza, preferiscono guardare il prossimo futuro con un atteggiamento di cauto ottimismo. Senza esagerare, visti i tempi.
Tra gli attori del cambiamento, gli italiani investono, soprattutto nei giovani (46%), fra i soggetti sociali. E credono nell’Unione Europea (24%), fra le istituzioni. Minore, ma comunque rilevante l’importanza attribuita alla scuola, agli imprenditori, alle donne. Inoltre, agli organismi finanziari — le banche, le borse. Ma anche allo Stato e agli attori politici.
Sorprende, invece, il limitato rilievo riconosciuto alla Chiesa. Che, secondo il 54%
degli intervistati, in futuro è destinata a contare meno nelle vicende nazionali.
Peraltro, tre italiani su quattro scommettono che, fra dieci anni, l’euro ci sarà ancora. E che in Italia avremo un presidente della Repubblica o almeno un premier “donna”. I giovani, le donne, l’Europa: i fattori e gli attori del cambiamento immaginato ma, soprattutto, auspicato. Perché non vi sono molte ragioni per credere che i giovani e le donne troveranno più spazio, rispetto a oggi, nei centri di governo. Mentre l’Unione europea
e l’euro attraversano grandi difficoltà. Tuttavia, l’Europa e la sua moneta continuano ad essere percepite come riferimenti importanti, in tempi di crisi. Forse perché è diffusa la percezione della nostra fragilità sul piano internazionale, rispetto a Paesi vicini e lontani. Infatti, oltre 8 persone su 10 ritengono che fra dieci anni la Cina eserciterà sulla nostra economia e sulla nostra società un’influenza superiore rispetto a oggi. La stessa opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati (intorno al 60%) relativamente alla Germania, l’India, i Paesi Arabi, gli Stati Uniti. È un segno dell’importanza del “sentimento
globale”, accentuato dalla consapevolezza di quanto la nostra economia e la nostra stessa vita dipendano dalle scelte e dagli avvenimenti che si realizzano “altrove”. Dove noi, personalmente, non riusciamo e non possiamo arrivare. Mentre gli “altri”, le persone di Paesi “lontani”, arrivano da noi, sempre più numerosi. Nei confronti degli immigrati, peraltro, non emergono “paure” eccessive. Quasi 2 persone su 3 ritengono che gli stranieri si confermeranno una risorsa, più che un problema. Mentre quasi il 60% degli italiani non teme l’impatto futuro della religione islamica. Ciò significa che, parallelamente, quasi 4 persone su 10 guardano gli stranieri e le altre religioni (le religioni degli altri) con inquietudine. Ma, almeno per ora, la “paura del mondo” non pare aver prodotto la sindrome dell’invasione. E non ha, peraltro, alimentato le divisioni interne al Paese. Il localismo delle
piccole patrie. Visto che quasi 9 persone su 10 si dicono certe che, fra dieci anni, l’Italia sarà ancora unita. Mentre solo il 16% pensa possibile l’indipendenza del Nord (che non necessariamente vuol dire secessione).
Il segno della globalizzazione: è marcato anche dall’importanza attribuita, come fattori di innovazione, alle nuove tecnologie della comunicazione. Alla rete, ai pc, ai social network. Che promuovono e moltiplicano le relazioni aterritoriali. A distanza anche notevole. Il loro peso cresce sensibilmente fra i più giovani, con meno di trent’anni. Appare, invece, molto più limitato il ruolo attribuito, nel futuro, ai media tradizionali. Le tivù e i giornali (che non a caso hanno sviluppato connessioni sempre più strette con la Rete).
Insomma, gli italiani, descritti dal sondaggio CambItalia di Demos, guardano il futuro con prudenza e un po’ di apprensione. Sanno che le cose sono destinate a cambiare in fretta e profondamente. E che i cambiamenti dipenderanno dagli “altri” più che da noi. Da ciò che avverrà in altri Paesi, lontani. E vicini (come la Germania). Per questo continuano a scommettere sull’Europa e sull’euro. E sull’unità del Paese. Perché divisi e soli è più difficile andare lontano. Peraltro, vorrebbero affidarsi ai soggetti che finora sono stati esclusi dai luoghi del governo e del potere. I giovani e le donne. Perché è difficile cambiare con una classe dirigente sempre più vecchia. Tuttavia, quando si tratta di indicare gli attori del cambiamento, tornano gli stessi nomi di oggi e di ieri. Per primi: Monti e Grillo. Il Grillo-Montismo, Giano bifronte del post-berlusconismo. Seguono, a distanza, con un numero ridotto di segnalazioni: Napolitano, Berlusconi, papa Benedetto XVI e Bersani. Un’età media superiore a 70 anni. Protagonisti del presente e del passato.
La voglia di cambiamento è, dunque, tanta. Ma la ricerca di figure nuove non è ancora cominciata.
Repubblica 14.6.12
Poteri forti
Quelle oligarchie invisibili fantasmi della democrazia
di Carlo Galli
La questione si può anche declinare come la continuità nelle diverse forme storiche dell’eterna influenza delle élites o della legge del più forte
Possono anche essere un comodo alibi con il quale alcuni leader deboli coprono i propri insuccessi senza assumersi responsabilità
Quando la locuzione “poteri forti” fu coniata, nei primi anni della Seconda Repubblica, si riferiva a Confindustria, a parti della magistratura, ai servizi segreti, alla massoneria, e anche ai potentati economici internazionali. Insomma, a istituzioni pubbliche e private molto diverse tra loro, e unite solo dal non avere natura rappresentativa, cioè dall’essere esterne, o a volte ostili, all’esercizio trasparente del potere, alla sua fonte originaria di legittimità (il popolo), e ai suoi canali d’espressione politica (i partiti) e istituzionale (il parlamento e il governo). Davanti a questi poteri (recentemente evocati da Mario Monti perché il suo governo avrebbe perso il loro appoggio), la democrazia rappresentativa è debole proprio in quanto potere pubblico, sfidato da forze che sono di volta in volta elitarie, segrete, nascoste, private, illegali. In quest’ottica, è il popolo a esercitare un potere fittizio, universale, artificiale, a cui si contrappongono poteri reali, opachi, ristretti, “naturali” perché fondati sull’antichissima base del privilegio. Poteri, inoltre, che non accettano il rischio dell’esercizio diretto, fosse anche nella forma dell’oligarchia; e che assumono la veste del potere indiretto, di un potere, cioè, che si cela, oppure che nega di essere potere, per non sottostare a regole comuni e per non rispondere della propria azione. All’origine della filosofia politica moderna il potere indiretto era quello esercitato sulle coscienze dalla Chiesa cattolica (non menzionata nell’elenco consueto dei poteri forti, benché lo sia, con ogni evidenza), a cui le élites laiche rispondevano con il potere dello Stato, con la costruzione della sovranità, col potere invincibile di tutti.
Una questione seria, dunque, quella dei poteri forti. Una questione che un tempo si declinava da destra in termini di plutocrazia (per di più, “giudaica”) opposta alla sana forza collettiva delle nazioni, mentre da sinistra si istituiva l’antitesi fra la prassi popolare e il complotto – le “forze oscure della reazione in agguato”, secondo il lessico dei primi anni del dopoguerra; ma le leggende (non infondate) sulla Commissione Trilaterale o sul gruppo Bilderberg sono giunte fino agli anni Ottanta, insieme al mito dell’onnipotenza della Cia, del Kgb, o delle multinazionali. Una questione che è anche declinabile come la continuità, nelle diverse forme storiche, dell’eterno potere delle élites, o della legge del più forte, che la democrazia cerca di spezzare, istituendo una discontinuità: che consiste o in una strategia monistica, facendo nascere un nuovo potere dal popolo, un potere forte appunto perché non di una parte ma anzi perché di tutti, o con una sensibilità pluralistica, spingendo le classi dirigenti a competere apertamente per il consenso dei cittadini. O, anche, costruendo e organizzando poteri più forti dei poteri forti; contropoteri di lotta e di governo (come si diceva un tempo).
Con poteri forti si intende quindi la rocciosa permanenza delle diverse forme del potere di sempre – parziali, egoiste, autointeressate – all’interno degli spazi istituzionali democratici; la loro occhiuta e lungimirante vigilanza perché nulla cambi veramente; la loro capacità di influenzare invisibilmente o indirettamente la politica visibile; di contrapporre la propria permanenza e la propria stabilità all’accidentalità, alla casualità e alla fugacità dei poteri costituiti. Si intende insomma l’impossibilità che la vita associata sia governata dalla ragione pubblica senza alcun elemento di segreto, o che sia indenne da corpose e incoercibili ragioni private – ad esempio, il “complesso militare-industriale” di cui parlava un presidente repubblicano come Eisenhower –. I poteri forti sono quindi un segno di una debolezza strutturale della politica democratica, di un limite oggettivo al suo potere, con cui è realistico accettare di dover fare i conti, senza sottomettervisi. Ma spesso sono anche un comodo alibi, un nome generico, buono a tutti gli usi, col quale una politica debole per sua colpa o imprevidenza soggettiva copre insuccessi e fallimenti di cui non si vuole assumere la responsabilità.
Assi portanti della storia materiale del nostro tempo, convitati di pietra al banchetto della democrazia, in ogni caso i poteri forti oggi hanno una dislocazione extra-statale e extra-nazionale; sono le grandi case farmaceutiche padrone del biopotere globale, le agenzie di rating, la finanza internazionale (i “mercati”), le istituzioni economiche mondiali ed europee, i media di dimensione transcontinentale, le mafie pluritentacolari, le istituzioni che curano la Ricerca e Sviluppo per la Difesa delle grandi potenze, le multinazionali dei generi alimentari e dell’energia.
A questi veri poteri forti si abbarbicano oggi i poteri forti di rango nazionale; che a volte – grande novità – esercitano direttamente il potere politico, in fasi d’emergenza o di estrema debolezza dei poteri istituzionali, come referenti e garanti di alcuni vitali interessi sia nazionali sia sovranazionali. E quando questi poteri locali trovano ostacoli alla propria azione, hanno la tentazione di presentarsi come abbandonate da quei poteri forti, che in realtà esse stesse incarnano e tutelano. La lotta contro i poteri forti – anche se in realtà sono soltanto categorie riottose, corporazioni egoiste – diviene così uno slogan e un alibi per gli stessi poteri forti. Che ciò dimostri ancora una volta la loro forza – la loro capacità di eludere la responsabilità politica – o piuttosto la loro debolezza e insufficienza, lo si capirà tra breve. Da subito si comprende invece che, benché forse impossibile da raggiungere pienamente, un decente obiettivo dell’azione politica dovrebbe essere che i poteri forti trovino un nuovo limite, e un orientamento, in un più forte potere di tutti.
Repubblica 14.6.12
I “condizionamenti esterni” nella storia d’Italia
La politica e i suoi nemici
di Guido Crainz
De Gasperi denunciò il “quarto partito” della finanza Contro il centrosinistra si concentrarono opposizioni di ogni tipo, ecclesiastiche ed economiche. Negli anni Settanta apparve il progetto eversivo della P2
Oltre ai tre grandi partiti di massa, avrebbe detto Alcide De Gasperi nel 1947, vi è anche un “quarto partito” la cui influenza non si basa sui voti ma sul denaro e sul potere economico. Ne riferiva più o meno così il dirigente comunista Emilio Sereni: probabilmente forzava un po’ il senso e le parole ma nell’estromissione delle sinistre dal governo quel nodo certamente pesò, e non fu il solo. Nello scenario internazionale prendevano corpo allora le divisioni della guerra fredda, mentre sul piano interno la trasformazione democratica del Paese era frenata dal tenace permanere di uomini e apparati forgiati o cresciuti negli anni del fascismo (quella “continuità dello stato” che Claudio Pavone ha analizzato con finezza). Ancora nei primi anni Sessanta, del resto, la stagione riformatrice del centrosinistra vide all’opera molteplici e multiformi “poteri di condizionamento”. Vi fu il “rumore di sciabole” del Piano Solo del generale De Lorenzo e, sul terreno economico, l’opposizione aperta della Confindustria, in un clima di allarme che alimentò anche una massiccia fuga di capitali. Vi fu l’azione del Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, secondo cui la “prepotenza nazionalizzatrice del centrosinistra” metteva in pericolo la proprietà privata. Carli trovò solido riferimento nel ministro del Tesoro Emilio Colombo che in una lettera al Presidente del consiglio Moro (fatta poi filtrare tramite un quotidiano) considerava le “dogmatiche riforme di struttura” come un “pericolo mortale” non solo per l’economia ma anche per la democrazia. Contro la riforma urbanistica proposta dal ministro Sullo entrarono poi in campo – e vinsero – gruppi economici e di interesse, affiancati da una mobilitazione d’opinione contro la “nazionalizzazione della casa” che utilizzò anche la “macchina del fango” contro Sullo.
Negli anni successivi il ruolo potenzialmente innovativo e di stimolo allo sviluppo dell’industria pubblica fu gravemente minato dalla “razza padrona” dei manager di stato, e da quelle reti di interscambio con i partiti e le loro correnti che ne hanno distorto fini e metodi, sino al degrado e al crollo. Dagli anni Settanta, infine, la crisi crescente della “repubblica dei partiti” aprì la via anche ai “poteri oscuri” e a quelle ragnatele di relazioni cui rinvia lo stesso “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. I poteri istituzionali che difesero la legalità e la trasparenza pagarono talora alti prezzi: si pensi all’offensiva politico-giudiziaria del 1979 contro Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, Governatore e vicedirettore della Banca d’Italia, il cui rigore e la cui correttezza erano di ostacolo all’operare dell’Italcasse e del Banco Ambrosiano, dei Caltagirone e dei Sindona (in quello stesso anno fu assassinato Giorgio Ambrosoli, che era stato nominato liquidatore della Banca Privata di Sindona).
Altre relazioni ancora, di diversa natura, si delinearono negli anni Ottanta, nello sfasciarsi di potentati ormai decrepiti e nell’emergere di nuovi. Nel 1994 la discutibile denuncia dei “poteri forti” fatta dall’onorevole Tatarella, ministro delle Telecomunicazioni nel primo governo Berlusconi, prese spunto dal divieto del Garante dell’Editoria a spot governativi palesemente illeciti: quattro anni prima un colpo di mano per salvare gli spot pubblicitari nei film aveva cementato l’alleanza fra il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani) e il padrone della Fininvest, con le forzate dimissioni di cinque ministri. Immediatamente rimpiazzati senza batter ciglio.
il Fatto 14.6.12
Pugni, beffe e figli d’arte: benvenuti in Campidoglio
Aula blindata per la discussione su Acea
di Andrea Managò e Chiara Paolin
Assistere allo spettacolo d’arte varia del consiglio comunale di Roma non sarà più così semplice. Dopo la scazzottata di lunedì scorso, ieri l’assemblea è tornata a discutere della privatizzazione del 21 per cento di Acea, la municipalizzata che a Roma gestisce acqua ed elettricità, in un clima ancora incandescente, ma stavolta a porte chiuse: daspo ai più agitati tra i Movimenti per l’acqua, Campidoglio blindato dalle forze dell’ordine con richieste di esibire i documenti anche ai turisti, ok ai giornalisti solo se formalmente accreditati. Una rigorosa selezione alla porta onde evitare la rissa numero due.
O numero tre, o quattro, perché negli ultimi mesi la ritmica dello scontro s’è fatta danza tribale tra gruppi di potere geneticamente connessi alle sale consiliari e maschere tradizionali della vita capitolina. I protagonisti dello show sono tanti, colorati, ammanicati, imparentati, e alcuni meritano una presentazione speciale.
FERITO durante le colluttazioni in aula, per il capogruppo Pd Umberto Marroni la politica è una questione di famiglia. Il padre Angiolo ricopre incarichi dal 1965 tra Provincia di Roma e Regione La-zio. Il giovane Umberto cerca di seguirne le orme: a 29 anni era già consulente della Regione, con il padre assessore alle Finanze della giunta Badaloni. Eletto in Campidoglio nel 1997, ha fatto di Acea pubblica un cavallo di battaglia. Nella bagarre di lunedì Marroni ha tentato di impedire il voto ai Pdl che volevano annullare la tattica degli emendamenti infiniti, posticipandone l’esame a vendita Acea già decisa: per questo Federico Mollicone (Pdl) ha tirato fuori il possente orgoglio romano buttandosi su di lui. Il presidente della Commissione Cultura deve essersi immedesimato nelle gesta degli antichi senatori romani, ruolo che recita durante le sfilate rievocative organizzate per il Natale di Roma.
MA IN AULA Giulio Cesare non manca chi è abituato ai gesti eclatanti. Come Andrea Alzetta, detto Tarzan, rappresentante dei movimenti di lotta per la casa. In quattro anni ha organizzato numerose proteste folkloristiche: dal succo di pomodoro versato sul pavimento dell’emiciclo (contro i raid israeliani a Gaza) fino ad arrampicarsi sulla statua di Giulio Cesare per contestare il Piano casa. Per la rissa l’ufficio di presidenza lo ha sanzionato con tre giorni di censura. È andata meglio a Fabrizio San-tori (Pdl), se l’è cavata con una lettera di richiamo, nonostante i comitati per l’Acqua pubblica denunciano abbia colpito un loro militante con un pugno. Ex An, defilato rispetto alle correnti del Pdl romano, critico con Alemanno in occasione dell’ultimo rimpasto di giunta. Recentemente ha organizzato il premio “Microfono d’Oro”, finito al centro delle polemiche per l’assegnazione di un riconoscimento allo speaker radiofonico Mario Corsi, ex Nar.
UNA PREROGATIVA dei capigruppo in Campidoglio è quella di essere figli d’arte. Luca Gramazio del Pdl è figlio del senatore Domenico, che le cronache degli anni Novanta ricordano con un piccone in mano al campo nomadi di Tor de’ Cenci per abbatterlo. Pupillo di Alemanno, è il suo braccio armato in consiglio. Legato alla destra sociale, ha difeso pubblicamente in più occasioni gli attivisti di CasaPound. Come lui anche Monica Cirinnà (Pd) respira politica 24 ore al giorno: è la compagna di Esterino Montino, capogruppo dei democratici in Consiglio regionale del Lazio. Almeno lei si è data da fare per le quote rosa, e – assieme alla collega Gemma Azuni – ha dato vita ai due ricorsi al Tar che hanno costretto il sindaco ad annullare la sua giunta per l’esigua presenza femminile.
E Alemanno cosa pensa del triste spettacolo offerto dai suoi consiglieri? Invece di richiamare l’aula a un contegno istituzionale ieri ha attaccato l’opposizione, “non ci faremo intimidire”, chiedendo perfino il sostegno di Alfano. Poi ha annunciato un esposto per diffamazione contro il manifesto Pd che tappezzava i muri cittadini recitando “Alemanno, truffe e aggressioni per svendere l'acqua dei romani”.
Così oggi la discussione in aula ripartirà con la giunta pronta a presentare un maxi emendamento per aggirare i 100 mila presentati dall’opposizione alla delibera sulla cessione del 21 per cento di Acea. Il clima ideale per un nuovo round sul ring del Campidoglio.
il Fatto 14.6.12
Brindisi. Vantaggiato killer “seriale”
Un killer “seriale”. Una sorta di “Unabomber” armato di esplosivo e bombole di gas. È questa l’ipotesi investigativa più accreditata – e ovviamente ancora da dimostrare – per Giovanni Vantaggiato, l’uomo che ha ammesso di aver fatto esplodere la bomba del 19 maggio, quella che ha ucciso, a Brindisi, Melissa Bassi e ferito altre cinque alunne della scuola Morvillo Falcone. Due giorni fa, nelle sue campagne, gli investigatori hanno scoperto tre bombe pronte esplodere. Non solo: hanno ritrovato componenti chimici utili a stabilizzare l’esplosivo. L’ipotesi è che Vantaggiato possa essere anche l’autore di un attentato risalente al 2008, quello che colpì Cosimo Parlato, che aveva truffato il killer per 300 mila euro e per il quale, nei prossimi giorni, potrebbe essere riaperto il fascicolo d’indagine. Gli investigatori – coordinati dal pm di Brindisi Milto de Nozza e dal procuratore di Lecce Cataldo Motta – sono sempre più convinti che Vantaggiato, nell’arco degli ultimi anni, abbia potuto realizzare più attentati – in modo “seriale” – incrementando le sue capacità tecniche sull’uso degli esplosivi. (a. mass.)
il Fatto 14.6.12
L’ingiustizia dopo la violenza
di Fiorella Mannoia
Dopo tre mesi e mezzo di detenzione va agli arresti domiciliari, perché cade l'accusa di tentato omicidio, quell'essere inqualificabile (uno, tre... non si è capito) che ha selvaggiamente violentato, percosso, e quasi ammazzato una ragazza di 20 anni fuori da una discoteca vicino L'Aquila. Sono indignata, disgustata nel constatare che non cambia mai nulla, che di fronte a chi dichiara l'accondiscendenza della vittima, c'è sempre un altro che gli crede, la storia è piena di casi come questo, e non importa se l'ospedale dichiara di aver ricucito lesioni esterne e interne inferte con una spranga di ferro, con dettagli raccapriccianti che non si possono raccontare, per buongusto, per pudore, per rispetto. Non importa constatare la quasi morte per assideramento della vittima perché abbandonata nuda, sanguinante, priva di sensi, sulla strada, come neanche un cane meriterebbe, trovata per caso e salvata da un ragazzo della discoteca (o dal proprietario... non è chiaro) mentre rientrava a casa.
NON IMPORTANO le ferite sul corpo, né tantomeno, figuriamoci, quelle inferte nell'anima, che segneranno per sempre la sua vita, non importa... è una donna e le donne si sa provocano, istigano, portano jeans troppo stretti, gonne troppo corte, tacchi troppo alti, e non possono permettersi di dire di no, di avere sul più bello un semplice ripensamento, quando la bestia si sveglia, non ci si tira più indietro, si ha il dovere di soddisfarla, altrimenti si rischia che l'uomo, che come si sa è cacciatore, si trovi nella condizione di non riuscire più a controllare la sua furia, furia che avrebbe saputo dominare se quella "figlia di Satana" non lo avesse provocato.
LA DECISIONE presa dal giudice avvalora l’antica idea che la donna debba pagare per aver scatenato nell'uomo un istinto primordiale che la civiltà, l'educazione con molta fatica ha cercato di modificare, facendo di lui, di fatto, la vittima e non il carnefice. Mi sembra già di sentire l'ennesimo vicino, parente, amico o amica (ahimè), che testimonierà di averlo sempre considerato un bravo ragazzo... un ragazzo "normale" (sono sempre "normali" questi mostri), o di sentire l'ennesimo avvocato che si appellerà all'ennesimo giudice (maschio) di turno, pregandolo di non essere troppo severo, scongiurando una condanna eccessiva che potrebbe rovinare per sempre un giovane così "normale", per quello che si può definire un errore, una ragazzata. (Quante volte l'abbiamo sentito!)
Siamo nel 2012 e stiamo ancora a questo punto... che immensa tristezza!!!!!!!!! Voglio manifestare tutta la mia solidarietà a questa ennesima sorella sfortunata, abbandonata per l'ennesima volta da una giustizia ingiusta.
l’Unità 14.6.12
Viaggio nei Cie d’Italia dove la dignità è optional
di Livia Turco
LA STANZA CHE CI ACCOGLIE APPENA ENTRIAMO NEL CIE DI TRAPANI HA LE PARETI RICOLME DI SCRITTE DI NOMI DI UOMINI E DONNE IN ARABO, TUNISINO, EGIZIANO, LINGUE DI COLORO CHE ARRIVANO CON I BARCONI DAL MARE. Tra essi campeggia una svastica nazista con accanto la parola «italiani». Questa sala è quella che varcano i dannati dei Cie, ed è anche quella in cui trascorrono un po’ del tempo interminabile della loro prigionia. Perché di questo si tratta. «Contro il carcere per gli innocenti», avevamo scritto nella nostra campagna per contrastare la normativa Berlusconi-Maroni che protrae fino a diciotto mesi la permanenza nei Cie. Purtroppo avevamo ragione. Constatare cosa significa questa detenzione nel rapporto diretto con chi la vive è stato un durissimo pugno nello stomaco. Abbiamo cominciato da Trapani, una delegazione parlamentare composta oltre che dalla sottoscritta da Alessandra Siragusa, Roberto Giachetti, Roberto Zaccaria e le nostre preziose collaboratrici. Proseguiremo nei prossimi giorni per i Cie di Santa Maria di Capua, Bologna, Gradisca. La visita nei Cie è un’attività che in modo costante svolgono i parlamentari del Pd.
Due sono i Cie di Trapani: Sarraino Vulpitta che contiene 40 persone e Milo che ne contiene 200 e ora ne accoglie 100. Il primo è una struttura più antica che sorge accanto ad un centro per anziani quasi nel centro della città, una struttura vecchia e fatiscente ma che almeno ha un campo di calcetto. L’altra è nuova, con spazi ampi, tutti recintati con alte sbarre senza neanche uno spazio in cui fare due passi all’aperto. Per fortuna lì vicino campeggiano il Monte di Erice e il meraviglioso panorama della Sicilia. «Molti fuggono», mi dicono i poliziotti, con tono rassegnato ed anche consapevole della durezza della condizione, «stare qui fino a diciotto mesi è disumano per loro, ma anche per noi». È difficile dire tutte le storie che abbiamo ascoltato. Abbiamo cercato di ascoltarli tutti. E abbiamo scoperto un dato inatteso: i giovani sono pochi, sono tunisini ed egiziani venuti lo scorso anno o sbarcati recentemente. I loro volti sono i più disperati. Non conoscono la nostra lingua. La loro disperazione sta nel vedersi reclusi quando pensavano di venire in Italia per trovare lavoro, mentre invece non sanno cosa sarà di loro.
La grande quantità di persone che abbiamo incontrato sono in Italia da tanti anni. Parlano bene l’italiano, hanno qui parenti e amici. Si trovano nei Cie perché sono stati in carcere e hanno scontato la pena ma anziché essere rilasciati, vengono portati in questi luoghi, tante volte passando dall’uno all’altro in giro per l’Italia per essere identificati. La domanda che viene naturale è: non sono stati identificati in carcere? Usciti dal carcere non dovrebbero ricevere l’intimazione a lasciare il nostro territorio o, come ti dicono molti di loro, se hanno pagato i loro sbagli, tante volte dovuti ad una vita di marginalità, non dovrebbero essere aiutati ad inserirsi nella società? Scopriamo che manca la collaborazione tra il Ministero di Grazia e Giustizia e il Ministero degli Interni per l’identificazione della persona che dovrebbe avvenire in carcere e dovrebbe servire anche per il rilascio dell’intimazione a lasciare il territorio, quando la persona ha estinto la pena. Ci sono poi tunisini richiedenti asilo che si sono visti respinti la domanda d’asilo. Ci sono i lavoratori che esibiscono i loro contratti di lavoro, il loro permesso di soggiorno scaduto che hanno figli e famiglia e non sanno perché si trovano lì a dover essere identificati, quando le autorità italiane conoscono benissimo le loro generalità. Il fatto è che, scaduto il permesso di lavoro e dunque di soggiorno, ne avevano chiesto il rinnovo, stavano cercando un altro lavoro ma non hanno fatto in tempo a sottrarsi alla tagliola della Bossi-Fini che impone, anche in questi casi, l’espulsione.
Gli operatori sociali della «Cooperativa Insieme» ci raccontano delle difficoltà a costruire una dimensione di vita vagamente umana. Perché quel luogo è peggio del carcere, è irragionevole. Nel carcere sai perché ci stai e ci sono spazi di lavoro e di vita, nel Cie uno non capisce perché ci sta e soprattutto perché ci deve stare fino a diciotto mesi. Questo tempo così lungo farà diventare i Cie una polveriera di tensioni. Di questo devono avere consapevolezza i Ministri di questo Governo. Ora la «Cooperativa Insieme» lascerà la gestione del Centro perché la gara d’appalto, indetta con il criterio esclusivo del minor costo, è stata vinta da un ente gestore che ritiene di essere in grado di accogliere quelle persone in modo dignitoso con un costo di 24 euro al giorno. Altro tema su cui interrogheremo il Ministro degli Interni. Una cifra così irrisoria non può francamente garantire un vitto e un’assistenza sanitaria decente.
Nei Cie si riflettono le contraddizioni della politica dell’immigrazione, in particolare quella relativa alle espulsioni e ai respingimenti. Noi pensiamo una cosa molto semplice: la normativa del centro-destra va abrogata e i Cie vanno superati. Sento tante volte stabilire un parallelismo tra i Cie attuali ed i Cpt della legge del centro-sinistra, sento stabilire una linea di continuità. Questa tesi è falsa e infondata. È contraddetta dalle sentenze della Corte Costituzionale che avevano definito coerenti con la nostra Costituzione i Cpt, luoghi nati per identificare coloro che negano in modo ripetuto le loro generalità e prevedeva il trattenimento di venti giorni, prorogabile a trenta, per poter attivare la collaborazione con i Consolati della autorità locali. C’è una bella differenza tra 20-30 giorni e 18 mesi. C’è una bella differenza tra l’espulsione amministrativa ed il reato di immigrazione clandestina. Ma non potremo sottrarci dal rispondere alla domanda: come accertare le generalità di chi le nega? Perché certamente non possiamo lasciar circolare liberamente nel nostro Paese chi è privo di identità. Dovremo cercare strade nuove ed efficaci. Ma dovremo farlo. Nel frattempo chiediamo al Governo di garantire che nei Cie ci sia il più scrupoloso rispetto della dignità umana e che venga massimamente incentivato il rimpatrio volontario assistito.
il Fatto 14.6.12
Non sono italiani: fuori 30 bambini dalla materna
A Borgomanero (Novara) il primo criterio di selezione è quello della cittadinanza: esclusi i figli di stranieri
di Ferruccio Sansa
Una porta chiusa. Già alla materna. Non è un esordio facile nel mondo della scuola per trentasei bambini di Borgomanero (Novara). Ma a scorrere la graduatoria si scopre altro: tre su quattro sono stranieri. Semplice: tra i primi requisiti richiesti per l’ammissione c’è la cittadinanza italiana. Un altro caso è servito nelle scuole del profondo Nord, ma stavolta con una sorpresa: il preside della scuola (statale), Maria Teresa Valsesia, alle ultime elezioni era candidata in una lista che sosteneva il centrosinistra.
DI PIÙ: il presidente del consiglio di circolo è anche lui un ex assessore di centrosinistra. E invece il sindaco che si batte per ammettere i bambini è un rappresentante del centrodestra, sostenuto dalla Lega. Alla fine la delibera “incriminata” viene ritirata dopo le pressioni del Provveditore. Poco importa, però, la polemica va ben oltre le discussioni che da giorni animano la vita di Borgomanero.
Ormai, si sa, i posti nelle materne valgono oro. Ci sono troppi bambini e poche scuole pubbliche. E allora si ricorre alle graduatorie. Ma quando a Borgomanero vengono resi noti i criteri di ammissione scoppia il putiferio: residenza nel comune, presenza di fratelli nella stessa scuola e residenza nella zona vicina alla scuola (il centro storico). Fin qui niente di strano. Ma ai primi posti ecco un ulteriore criterio “anomalo”: cittadinanza italiana. E così una trentina di bambini immigrati rimangono alla porta dell’asilo. Ma bussano a quella del Comune. Il sindaco Anna Tinivella decide di incontrare i genitori. E alla fine interviene: “Non è una questione di nostra competenza (l’istituto, appunto, è statale), ma non condivido assolutamente la scelta. Si sono create tensioni che si potevano evitare con un po’ di buon senso. Quando sono emerse le prime proteste ho incontrato la direttrice didattica e ho espresso le mie perplessità: mi ha risposto che è sempre stato così e che non capiva il clamore, non trattandosi di scuola dell’obbligo”. Il sindaco cerca una soluzione: “Ho spiegato che avremmo cercato di trovare una soluzione. Il rischio è che si crei ulteriore tensione, perché c’è già qualcuno che sta facendo osservare ai genitori dei bambini ammessi che, cambiando i criteri, il loro posto non è più assicurato”.
COSÌ, COME ha raccontato il Corriere di Novara, il Comune propone una soluzione che accontenti tutti: la creazione di una nuova classe. Intanto la delibera è stata annullata. Dopo l’intervento del provveditore di Novara, Giuseppe Bordonaro che ha esaminato la documentazione ricevuta dalla preside: “Mi aveva chiesto dei chiarimenti e, in accordo con l'Ufficio scolastico regionale, le ho suggerito di sospenderla e di annullarla. La delibera – spiega Bordonaro – avrebbe penalizzato anche i bambini figli di cittadini tedeschi o francesi, non solo extracomunitari”. Quindi, tra l’altro, era contraria alle norme dell’Unione Europea. Ma Bordonaro aggiunge: “Non bisogna dimenticare che, per legge, la scuola è aperta anche ai figli delle persone che non sono nemmeno in possesso del permesso di soggiorno. La professoressa Valse-sia avrebbe sostenuto che, non essendo scuola dell'obbligo, le normative avrebbero potuto essere bypassate. Ma non è così. E in ogni caso avrebbe dovuto prevalere il buon senso”. A Borgomanero, però, c’è chi sostiene che il criterio della cittadinanza italiana non sarebbe soltanto una scelta della preside. Avrebbe pesato parecchio anche il consiglio di circolo, cioè i genitori. La porta per i piccoli stranieri (ma non solo loro), quindi, si riapre. Ma intanto a Borgomanero non si parla d’altro. E non solo lì, la storia è arrivata alla Regione Piemonte (guidata dal leghista Roberto Cota). A difesa dei bambini esclusi intervengono partiti, sindacati e senatori, come Roberto Di Giovan Paolo (Pd). Ormai l’asilo di Borgomanero è sulle prime pagine dei giornali. Oggetto di dibattito in città e di polemica politica. Qualcuno ricorda la storia dell’asilo di Fossalta di Piave, con la bambina marocchina rimasta senza mensa e il sindaco che si era opposto alla decisione delle maestre di dare alla piccola i propri buoni pasto. Stavolta, però, è più complesso, le parti politiche sono confuse: “No, mi dispiace, non siamo una giunta di destra anti-immigrati. Anzi, siamo impegnati nel sociale. Ma credo che neanche la preside e i genitori abbiano adottato quella delibera per cattiveria. Non sono tipi”, sorride amara Anna Tinivella (centrodestra). Conclude: “Peccato, perché è una bellissima cittadina, un esempio di integrazione, dagli anni Sessanta quando arrivarono centinaia di persone dal Sud”. Una cosa resta la stessa (che sia Borgomanero, Fossalta o Adro), a prescindere dalla scuola: in mezzo ci finiscono i bambini.
Corriere 14.6.12
Siria, la svolta della Francia: «Ipotesi intervento armato»
Il ministro Fabius evoca la creazione di zone di non volo
di Stefano Montefiori
PARIGI — Sono i bambini a ispirare il «salto di qualità» nell'opposizione della Francia al regime di Bashar Assad. «Bambini usati come scudi dai militari governativi, torturati, violentati. Massacrati, a decine, ogni giorno», dice Laurent Fabius all'inizio della conferenza stampa convocata in fretta ieri pomeriggio al Quai d'Orsay. Il ministro degli Esteri annuncia: «Abbiamo intenzione di fare ricorso al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (che autorizza anche l'uso della forza, ndr), per rendere obbligatorie le disposizioni del piano Annan». Fabius precisa di avere già coinvolto gli alleati europei e americani, e aggiunge che «la Francia vuole porsi alla guida dell'azione contro questo regime di massacratori che è passato a un livello superiore dell'orrore».
Assad deve lasciare il potere, e per ottenere questo risultato Parigi non esclude la creazione di una «no-fly zone» che impedisca agli aerei del regime di bombardare la popolazione. Da mesi ormai si assiste a uno stallo diplomatico sulla situazione in Siria, cristallizzato dalla visita del presidente russo Vladimir Putin a Parigi il primo giugno scorso. In quell'occasione, durante un incontro molto teso, il presidente francese François Hollande prese chiaramente parte per i ribelli suscitando le proteste di Putin: «Perché parlate solo dei massacri del regime? Anche i guerriglieri commettono stragi, noi non dobbiamo parteggiare per nessuno ma evitare solo che in Siria si scateni la guerra civile».
A giudizio di Fabius e di molti leader occidentali, in Siria la guerra civile c'è già, e da un pezzo. «Quando gruppi che appartengono a uno stesso popolo si uccidono tra loro su larga scala, se non chiamiamo questa una guerra civile allora non possiamo neppure parlare di quel che sta succedendo».
Che cosa suggerisce ora l'offensiva di Fabius, mentre la Russia sembra fornire elicotteri d'assalto all'esercito di Assad? Forse appunto la sensazione che sia necessario stringere in un angolo diplomatico Mosca prima che sia troppo tardi, approfittando magari di una possibile apertura della Cina, l'altra grande potenza che si è opposta finora a un intervento più deciso contro il regime siriano.
«Abbiamo sentito oggi la Cina esprimere la sua viva preoccupazione — ha detto Fabius —, non resta quindi che passare alla velocità superiore in sede di Consiglio di sicurezza ponendoci sotto la disciplina del capitolo VII», quello alla base della risoluzione 1973 che un anno fa permise la missione militare in Libia.
Proprio la risoluzione 1973 è chiamata spesso in causa dalla Russia: approvato in fretta grazie all'abilità del precedente ministro francese Alain Juppé, che strappò la decisiva astensione di Mosca e Pechino per impedire l'imminente strage di civili a Bengasi, a dire di Putin quel provvedimento finì per essere travisato e piegato dagli Occidentali fino a giustificare una guerra totale e la deposizione di Gheddafi. «Non ci faremo ingannare un'altra volta», ha più volte dichiarato Putin, ma intanto in Siria i bombardamenti continuano e le vittime civili aumentano. Ecco perché Fabius ha evocato per due volte, all'inizio e alla fine del suo intervento, la tragedia dei bambini «piazzati davanti ai carri armati».
Il ministro francese ha annunciato quattro misure fondamentali: 1) Inasprimento delle sanzioni. «Non solo contro Assad: tutti i capi militari devono sapere che stiamo stilando una lista di persone che verranno chiamate a rispondere dei loro crimini». 2) Obbligatorietà del piano Annan 3) Maggiore coinvolgimento della Russia, «anche se può sembrare paradossale». 4) Convocazione di una «Conferenza degli amici della Siria» il 6 luglio a Parigi.
Il piano Annan prevede la fine delle violenze, il ritiro dell'esercito dalle città e l'invio di aiuti umanitari. È pronta la Russia, bloccandolo, a prendersi la responsabilità di nuovi massacri? Secondo Fabius, l'esito di un nuovo dibattito al Consiglio di Sicurezza non è più così scontato.
La Stampa 14.6.12
Intervista
“L’Egitto adesso scelga I Fratelli musulmani meglio dell’incertezza”
Amr Moussa: la rivoluzione rischia di fallire, via i militari
di Francesca Paci
Ex leader della Lega araba Amr Moussa nato nel 1936 è stato segretario generale dal 2001 al 2011. Al primo turno delle presidenziali egiziane è arrivato quarto con l’11,13% dei voti
Amr Moussa è tornato. L’ex capo della Lega araba, nonchè ex ministro degli esteri di Mubarak, sconfitto al primo turno delle presidenziali nonostante i sondaggi lo dessero favorito, entra nell’Assemblea che dovrà riscrivere la Costituzione egiziana. E pazienza se liberal e socialisti sono già in piazza per boicottare il neonato organismo troppo sbilanciato in favore degli islamisti. «Meglio essere dentro al processo di cambiamento che fuori» spiega. Il tempo stringe e non gioca a favore della rivoluzione.
Sarebbe disponibile anche a entrare al governo con Mursi o Shafik?
«Come prova la mia partecipazione alla Costituente, voglio servire il mio paese e lavorare con gli egiziani che la pensano come me per difendere la natura civile dello Stato e prevenire il ritorno alle politiche del vecchio regime».
Lo spareggio incalza. Voterà Shafik, Mursi o diserterà le urne?
«Andrò a votare e incoraggio tutti gli egiziani a fare lo stesso. Uno degli aspetti deludenti del primo turno è stato la bassa affluenza. Non ho ancora deciso quale nome indicherò sulla scheda. Entrambe le scelte sono complicate e presentano dei rischi. Ma se vogliamo vivere in democrazia dobbiamo rispettare il risultato delle urne. Raccomando agli egiziani di votare per uno stato civile ( ndr. «civic» è la parola che gli egiziani usano per «liberale») e di una repubblica che si fondi sulla democrazia e lo stato di diritto e abbia come solo riferimento la Costituzione».
Come ha reagito all’esito inatteso del primo turno?
«Ho sentimenti contrastanti. Da un lato, quell’esperienza è stata una delle più belle della mia vita. Ho trascorso un intero anno in strada incontrando persone di ogni genere, contadini, insegnanti, impiegati pubblici e disoccupati. Sono orgoglioso di ogni singolo voto ricevuto. Detto ciò, esco dalla partita preoccupato per il futuro dell’Egitto. La transizione è stata dura per molti, specialmente i poveri e i più vulnerabili, e sfortunatamente non vedo all’orizzonte la fine di questa situazione negativa».
Crede che il Consiglio Supremo delle Forze Armate farà un passo indietro una volta nominato il presidente?
«Confido che il Consiglio delle Forze Armate voglia liberarsi dell’onere di governare l’Egitto consegnando la responsabilità a un presidente eletto. La vera questione è la natura e l’ampiezza dell’autorità che sarà consegnata e le relazioni future tra potere militare e civile. È un tema da trattare con cura, sensibilità e senso di responsabilità. La revoca dello stato d’emergenza è stata ritardata a lungo ed è un passo importante verso lo stato di diritto. Ma non basta. La nuova Costituzione deve limitare il diritto dello Stato di imporre lo stato di emergenza. E urgono leggi che assicurino l’indipendenza della magistratura».
E i Fratelli Musulmani? Si fida delle loro sbandierate credenziali democratiche?
«I Fratelli Musulmani sono attori importanti sulla scena egiziana e giocheranno un ruolo decisivo in futuro, anche perché hanno la maggioranza in Parlamento e una seria possibilità di conquistare la presidenza. Ma devo ammettere che finora la loro performance non è stata soddisfacente. Non è del tutto chiaro il livello del loro impegno per uno stato civile. Ripetono di volerlo. Mi auguro che le nostre definizioni di stato civile coincidano. Molti temono che stiano ancora operando come un’organizzazione clandestina la cui unica preoccupazione è il conseguimento dei propri obiettivi a breve termine con buona pace di quelli altrui. Negli ultimi mesi hanno distrutto molti ponti che ora devono essere riparati».
Che opinione ha dei «liberali», i ragazzi protagonisti della rivoluzione schiacciati oggi tra il fucile e il Corano?
«Il più grande errore dei liberali è stato ed è l’incapacità di fare fronte comune e organizzarsi come opposizione con un piano alternativo da presentare alle prossime elezioni. Prima lo capiranno e meglio sarà per loro e per l’Egitto».
Come valuta la condanna di Mubarak all’ergastolo?
«No comment. Ma speravo che il processo, insieme alle elezioni, avrebbe chiuso la transizione permettendoci di mettere mano alla costruzione della seconda repubblica. Purtroppo non è accaduto e si sta diffondendo un senso di frustrazione e delusione».
Aunannoemezzodallafinedelregime come vede la rivoluzione?
«Ci sono tante strade per raggiungere una destinazione, alcune più lunghe di altre. Ho fiducia nella destinazione della rivoluzione egiziana. Sono preoccupato del fatto che abbiamo preso una strada più lunga e più costosa. Ma ci arriveremo».
l’Unità 14.6.12
Se l’Europa affonda insieme a Obama
I calcoli elettorali di Merkel entrano in conflitto con quelli del presidente Usa
di Marina Mastroluca
«LA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE SI È FERMATA, I DEMOCRATICI SONO STATI UMILIATI IN WISCONSIN, IL PROCURATORE GENERALE DEVE AFFRONTARE una citazione per disprezzo del Congresso, si sono interrotti i colloqui con il Pakistan, Bill Clinton contraddice Obama, Mitt Romney lo sta superando, democratici e repubblicani lamentano una cascata di indiscrezioni sulla sicurezza nazionale, e lui (Obama) se ne esce dicendo che “il settore privato sta andando bene”». Il Washington Post riassume così quello che chiama il «junius horribilis» del presidente Usa. «Potrebbe andare peggio?». Potrebbe, se nella campagna elettorale in picchiata gli ultimi sondaggi vedono ridotta ai minimi termini la distanza tra Obama e Romney e il giudizio sulle capacità economiche del presidente non è mai sceso tanto in basso il capo della Casa Bianca si tiene in costante contatto telefonico con l’Eurozona. Ieri ha chiamato il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy per un colloquio urgente sulla crisi, mentre la stampa continua a monitorare la febbre oltre Atlantico.
Le pressioni di Obama si spiegano anche con la ricaduta elettorale del naufragio europeo: gli affanni della nostra economia, frenando per la terza volta in tre anni il tentativo di ripresa Usa, hanno buone probabilità di mandare a fondo le chance di una sua rielezione. A meno di uno scatto di reni dell’Europa fondata sulla consapevolezza che nessuno si salva da solo, la strada per l’America sarà in salita.
In ogni caso di qui a novembre, quando si voterà per le presidenziali Usa, è improbabile che ci siano segni significativi di crescita dell’economia americana: i dati di maggio registrano una nuova contrazione dei consumi. Gli strateghi democratici hanno messo in guardia sul rischio di trovarsi davanti a «impossibili venti contrari in novembre se non ci muoviamo su una nuova narrativa». Non basterà a Obama dire che le cose vanno relativamente meglio, la middle class Usa non vuole accettare che la lotta quotidiana per stare a galla sia il nuovo concetto di normalità.
La sfida per il secondo mandato dovrà avere i connotati di una scelta tra due visioni opposte, non solo due nomi diversi. Per Obama è quella di credere che lo Stato debba garantire una possibilità per tutti, smentendo la favola che il far west della finanza e dei mercati abbiano in sé i semi di un’economia sana e proficua. Per Romney è l’idea più classica del lasciar fare, del meno Stato, dei tagli alle tasse specialmente per i ricchi, dei tagli soprattutto a qualsiasi forma di correttivo sociale. Esattamente la politica economica che ha portato al disastro e che secondo il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman è continuata forzatamente anche con Obama, per i veti repubblicani al Congresso.
Difficile immaginare dove sarà l’Europa dopo il voto greco del 17 giugno, ancora di più fare previsioni di qui alle presidenziali Usa in autunno, quando l’euro a prendere per buoni i pronostici Christine Lagarde potrebbe essere già stato archiviato. Troppe incognite pesano sul futuro della moneta unica e della stessa Unione Europea anche se lo stesso Krugman ipotizza un crac salvifico, che chiuda il ciclo dei salvataggi delle banche per virare verso una politica meno auto-flagellatoria. Ma si può ipotizzare che non sarà indifferente per le cancellerie europee il nome del nuovo inquilino della Casa Bianca. Anche per quelle più forti, come è ancora oggi (per quanto?) quella tedesca.
La Germania ha finora beneficiato della crisi dei partner europei ma comincia a mostrare segni di cedimento. I calcoli elettorali di Angela Merkel potrebbero rivelarsi sbagliati in una prospettiva che vada oltre al voto del 2013, una data che oggi pare lontanissima rispetto ai tempi stretti della catastrofe incombente. I salvataggi cash non hanno funzionato finora e non funzioneranno, se i mercati più di Occupy e Indignados hanno snobbato i 100 miliardi di euro messi a disposizione della Spagna come fossero carta straccia. E alla fine della fiera, se la via scelta da qui al vertice di fine giugno e dopo non sarà più Europa, non è detto che a rimetterci la poltrona sia solo Obama.
l’Unità 14.6.12
Grecia, paura prima del voto
Prelievi in massa nelle banche greche
Dagli Usa: restate nell’euro. Dall’Eliseo: rispettate gli impegni
di Rachele Gonnelli
La grande corsa al libretto di risparmio in euro è già cominciata in Grecia. Fonti del mondo bancario ellenico hanno fatto trapelare sulla stampa greca che in questa ultima settimana prima del ritorno alle urne è iniziato quello che in gergo viene chiamato il bank run, la grande corsa agli sportelli bancari che tanto ricorda la vecchia Europa dell’Ottocento. I piccoli risparmiatori starebbero ritirando complessivamente fra i 500 e gli 800 milioni di euro al giornodai propri conti nel timore di cambi sfavorevoli con il ritorno alla vecchia valuta, la dracma.
Il centrodestra di Antonis Samaras, capo di Nea Demoktatia, il partito che è uscito vincitore delle ultime consultazioni senza riuscire però a formare un governo, usa questo argomento come una clava negli ultimi sprazzi di campagna elettorale. Per Samaras che pure si è sfilato dalla condivisione di responsabilità di governo con il Pasok questo fenomeno è indice della paura per la ventilata vittoria elettorale della sinistra radicale di Syriza, arrivata seconda nelle ultime elezioni. Anche Samaras però si è impegnato a rinegoziare l’accordo sottoscritto con la troika europea che sta aggravando enormemente la crisi sociale ed economica. Mentre la stessa Syriza, pur rifiutando i tagli imposti con l’austerity ad Atene da Ue, Bce e Fmi, è intenzionata, in caso di vittoria, a cercare di mantenere la Grecia nell’Eurozona. Lo conferma il suo leader, il 37enne Alexis Tsipras dalle colonne del Financial Times di ieri, entrando nel dettaglio. «Il popolo greco vuole sostituire il fallimentare vecchio memorandum firmato a marzo con un piano nazionale per la ricostruzione e la crescita. Questo è necessario per evitare una crisi umanitaria e salvare la moneta unica».
OBAMA E SYRIZA
«Aveva ragione il presidente Barack Obama quando venerdì scorso ha detto che bisogna fare il possibile per crescere ora», continua, «questo si applica anche il mio Paese». La Casa Bianca ieri ha emesso una nota in cui si dice che «il presidente Obama è convinto che la Grecia debba restare nell’euro» per non andare incontro a «circostanze peggiori». Certo è che si moltiplicano i piani d’emergenza di grandi compagnie multinazionali, l’ultimo di cui si ha notizia è quello di Credit Agricole rivelato dal Wall Street Journal ieri, su come attrezzarsi, e rivedere i propri affari, di fronte al ritorno in Grecia della dracma. Una decisione che non dipende solo dalle scelte che faranno gli elettori domenica prossima, visto che sia Nea Democratia sia Syriza che si sfidano all’ultimo voto entrambi date a circa il 30 per cento chiedono entranbe una sostanziale correzione degli impegni assunti in precedenza dal governo ellenico. Se in Europa non cambieranno queste condizioni, i vincitori del 17 aprile potrebbero ritrovarsi con le casse statali completamente vuote, senza neppure un soldo per gli stipendi e la macchina statale. Contravvenire poi al memorandum porterebbe al blocco totale di una o più tranche del mega-prestito da 173 miliardi di euro di cui la Grecia ha disperatamente bisogno. E secondo il quotidiano tedesco Der Zeit ci vorrebbe anche una terza. L’effetto domino del ritorno della dracma sull’Eurozona non è certo ma per l’agenzia di rating Fitch avrebbe «impatti indiretti gravi su Spagna e Italia».
Il presidente francese Francois Hollande, su cui sono riposte le maggiori speranze di condizioni di ricontrattazione del debito greco, ieri, intervenendo con una intervista alla tv greca Mega channel, ha avvertito gli elettori ellenici: «Se si dà l’impressione che i greci vogliano allontanarsi dagli impegni presi e abbandonare ogni prospettiva di riassetto, allora ci saranno dei Paesi nella zona euro che preferiranno finirla con la presenza della Grecia nella zona euro».
Repubblica 14.6.12
Minacce al giornale della Politkovskaja la morsa di Putin sulla stampa libera
di Nicola Lombardozzi
MOSCA — Un giornalista minacciato di morte dal capo dei giudici per i crimini speciali e costretto a fuggire all’estero per precauzione. Un gruppo di suoi colleghi di altre testate arrestati come teppisti mentre provavano a protestare, in applicazione della nuovissima legge anti dissenso. I leader dell’opposizione, interrogati per
il terzo giorno di fila da funzionari che hanno perquisito le loro case e i loro uffici alla ricerca di non meglio precisate prove di un qualche reato. E, con un tempismo perfetto, l’editoriale del New York Times che proprio ieri attribuiva a Putin uno «stile sovietico». Giornata nera insomma per l’immagine di «paese libero e democratico » che il Cremlino si ostina a voler imporre ai media nazionali.
Tutto è cominciato con un articolo denuncia del direttore di Novaja Gazeta sul sito di uno dei pochi fogli d’opposizione rimasti e internazionalmente noto per l’omicidio nel 2006 della sua inviata Anna Politkovskaja. Sergej Sokolov, capo redattore ma di fatto il vice del direttore Dmitrj Muratov, aveva da poco pubblicato un reportage su uno di quegli scandali di “malagiustizia” che scatenano l’indignazione dei media indipendenti. La condanna ad una multa di appena tremila euro per un tale Sergej Tsespovjaz, accusato di una strage di dodici persone in un villaggio del Caucaso e legato a filo doppio con i big locali del partito di governo.
Qualche giorno fa Sokolov ha ricevuto un invito personale del capo del pool degli investigatori, Aleksandr Bastrykn per un vertice di lavoro nella cittadina caucasica di Nalcin. Era una trappola. Davanti a tutti i giudici riuniti, il giudice Bastrykn si è esibito in una tragica sceneggiata. Prima insulti pesanti a Sokolov e al suo giornale, compresa l’icona Politkovskaja, poi una plateale richiesta di scuse pubbliche. Un po’ per timidezza, un po’ per quieto vivere, il giornalista ha accennato a delle scuse per i toni usati ottenendo l’effetto contrario. Furente Bastrykn ha urlato che non gli bastava: «Non se la caverà così facilmente ». Sembra già abbastanza ma il seguito è peggio. Di ritorno all’aeroporto di Mosca, Sokolov è stato prelevato da un paio di agenti, caricato su un’auto e scaricato in un bosco alle porte della capitale. Qui, in uno scenario da brividi, è stato raggiunto da Bastrykn che, senza testimoni, gli avrebbe fatto precise minacce di morte. Concluse con un ghigno beffardo: «Ma stia tranquillo, indagherò con piacere sul suo omicidio».
Troppo perfino per la Russia. Una decina di giornalisti di Radio Eco di Mosca, di emittenti e blog ha subito deciso di immolarsi andando a protestare davanti ai cancelli dell’ufficio di Bastrykn presso il Comitato investigativo della Procura russa nella centralissima via Tekhnicevskij. Arrestati in tre minuti. Quasi comica la situazione di Aleksej Navalnyj, il blogger anticorruzione che fino a ieri era il personaggio più interessante per i giudici di Mosca. Nel corso del suo terzo interrogatorio consecutivo in quel palazzo, si è visto rilasciare improvvisamente da giudici e poliziotti: «Ci scusi, ma abbiamo altro da fare». Adesso il punto è la rivolta di molti giornalisti che ripropongono l’elenco infinito di colleghi minacciati, picchiati, uccisi prima e dopo il delitto Politkovskaja. Nello staff di Putin qualcuno è preoccupato. E viene fuori l’ipotesi di un’ennesima soluzione alla sovietica: «Convincere alle dimissioni l’impulsivo Bastrykn».
l’Unità 14.6.12
Rapporto politica-cultura? Torniamo a Gramsci
di Gaspare Polizzi
IN UN FORTUNATO SPOT DIFFUSO DALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI CON LA METAFORA DEL MURO SI INVITA ALLA LETTURA DEI LIBRI. Ma forse una metafora più appropriata potrebbe essere quella del ponte, perché la cultura, e soprattutto la “cultura politica”, funziona quando costruisce ponti, quando stringe legami di partecipazione e di cittadinanza. Il nodo sta nel modo di legare l’aggettivo al sostantivo, senza negarlo. Interrogarsi oggi sul rapporto tra politica e cultura in Italia comporta uno scontro culturale sulla funzione della cultura politica, per evitare che l’aggettivo (e la parola politica è nata con Platone come aggettivo plurale) smentisca il sostantivo. Mi limito a due esempi tipicamente italiani. Il ritorno di discussione intorno alla figura di Antonio Gramsci sembra soprattutto rivolto all’enfasi sugli aspetti biografici, importanti per un uomo politico di quel livello, ma che a volte oscurano il rilievo del suo pensiero, il riconoscimento della sua attualità nell’orientare la cultura politica italiana. Ora che si afferma con urgenza l’importanza della cultura per lo sviluppo, non solo produttivo, del nostro Paese, che si propone un manifesto «per la costituente della cultura», abbiamo nuovamente bisogno anche del Gramsci “pensatore italiano”, tra i primi in Italia come ha ricordato Tullio De Mauro ad attribuire al termine cultura una dimensione ampia, nella quale ha valore la circolarità dei rapporti che gli uomini sviluppano con la natura attraverso la storia, la conoscenza, le tecniche, la tradizione. Abbiamo bisogno del Gramsci capace di cogliere i limiti della tradizione culturale nazionale e insieme di insegnare una via possibile per la rifondazione di una cultura nazionale. Discutere di cultura e sviluppo significa, gramscianamente, cogliere il senso del circuito che collega la cultura come pilastro portante della gestione istituzionale di una popolazione, nell’educazione, nell’istruzione, nella ricerca scientifica e nella produzione di conoscenza, con la dimensione della cittadinanza e della partecipazione, pilastri portanti della democrazia. «Tornare a Gramsci», aggiungo, è oggi un’esigenza cruciale, insieme culturale e politica. Come non pensare nell’attuale magmatico contesto politico alla riflessione sul «sovversivismo delle classi dirigenti», così efficace per cogliere il senso delle diffuse tendenze populiste e anti-politiche. E come non ricordare come ci insegna Giuseppe Vacca nel suo ultimo libro (Einaudi 2012) che in Gramsci “la vita e i pensieri” (al plurale) si intrecciano. Il secondo esempio riguarda il rapporto mancato tra politica e cultura scientifica in Italia, espresso da quelle «quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni Sessanta», ricostruite di recente da Marco Pivato (Donzelli, Roma 2011). Gli imprenditori italiani che, fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del ‘900, costruirono un modello di sviluppo scientifico, tecnologico e produttivo imitato anche all’estero, furono sconfitti da una politica che poggiava sull’alleanza tra una miope industria privata e una pesante burocrazia pubblica. Ciò fu particolarmente evidente in quattro casi: la Divisione calcolatori elettronici della Olivetti, l’Agip di Enrico Mattei, il Cnen di Felice Ippolito e l’Istituto superiore di sanità di Domenico Marotta. Il promettente meccanismo di simbiosi tra scienza, tecnologia e industria venne bloccato in Italia soprattutto per un deficit di cultura politica. Gli intellettuali, ricordava Gramsci nella classica definizione consegnata al Quaderno 19 del 1934/35, sono «tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo» e si possono riconoscere per un ruolo “organico” o per una funzione “paternalistica”. Soltanto nel primo caso Gramsci vede la possibilità di un contributo attivo, nazionale e sociale, degli intellettuali. Esso non si è realizzato, in Italia, per l’incompiutezza, innanzitutto politica, del progetto di unificazione nazionale e costituzionale e per la conseguente mancanza di quella cultura politica che sola potrebbe salvare i cittadini italiani dall’ipnosi morale, costruendo nuovi vincoli di cittadinanza democratica.
l’Unità 14.6.12
La sfida. Diventare cittadini
Dialogare con l’«altro» è il primo passo per uscire dalla crisi
Confronto e riconoscimento nutrono la vita collettiva:
la politica non può limitarsi a prendere atto della realtà, deve riprendere la sua centralità e progettare alternative
di Sergio Givone
LA GLOBALIZZAZIONE È UN FATTO IRREVERSIBILE CHE NOI TENDIAMO A SPIEGARE IN MODO UNIVOCO, E NON INVECE, COME SI DOVREBBE, IN MODO EQUIVOCO.
Il processo in corso produce uniformità: ovunque andiamo ci ritroviamo sempre allo stesso punto, distinguiamo a stento la periferia di Milano dalla periferia di New York. Una tendenza universale all’omogeneità sta cambiando la fisionomia dei luoghi e degli stili di vita, dei modi di produzione e di distribuzione delle merci o di circolazione delle persone: è il caso degli aeroporti che esprimono un modello urbanistico universale. Tuttavia, questa grande tensione all’omogeneità che è sotto gli occhi di tutti e per questo è enfatizzata cela un altro processo in corso di natura opposta, un vero contromovimento: da un fondo nascosto emergono modi di vivere che costituiscono l’esatto contrario dell’uniformità. Nel mondo globalizzato acquistano nuova forza i localismi, i tribalismi e i fideismi, le religioni tornano a essere superstizioni. Insomma, un mondo in cui viviamo tutti la stessa vita e che dovrebbe portare, se non alla pace universale, almeno a una maggiore comprensione degli uni e degli altri, in realtà acuisce i particolarismi, le tensioni e i conflitti.
Come affrontare questo problema? Non esiste un governo mondiale dell’economia e la crisi che stiamo attraversando lo conferma: non siamo riusciti a inventare un governo dei processi economici e dei rapporti tra le nazioni, e neppure dei giudizi da dare sulle tragedie e sulle guerre che insanguinano il mondo.
La strada da percorrere è un’altra. Dobbiamo ripartire dalle persone, dai loro bisogni e dalle loro contraddizioni, e ciò è possibile solo imparando a dialogare, dunque a capire che io non sono tu, ma che solo grazie al rapporto con il tu io sono e posso dire «io». Quando mi guardo allo specchio accade qualcosa di strano, come se non mi riconoscessi, e ciò non avviene perché non mi piaccio o perché mi rendo conto con amarezza di come mi abbia ridotto il passare degli anni: non è questo il punto. Se guardandomi allo specchio accade che io non mi riconosca, che io non veda sulla superficie dello specchio la conferma inoppugnabile e tranquillizzante della mia identità, ciò è dovuto a una ragione molto più profonda: io sono sempre altro rispetto alla mia identità, o meglio, la mia identità si costruisce solo in rapporto all’identità dell’altro. Allora, se le cose stanno così, imparare a dialogare non significa banalmente imparare a sopportarci, bensì capire che io sono solo grazie all’altro, e non solo grazie a quell’altro che conosco e che amo, grazie all’amico, al familiare, al vicino o al concittadino che con me condivide abitudini e esperienze. No, io sono io anche grazie all’altro che mi dà fastidio, all’altro che mi toglie spazi che ritengo miei. Solo grazie a lui io sono io, sono vivo e vado avanti: capire davvero tutto questo, e da qui ripartire, è la vera rivoluzione. Questo è il nodo di quel processo che, con Bauman, possiamo chiamare glocalizzazione.
Rimane da capire in che modo tale processo rivoluzionario di riconoscimento dell’altro, che sposta l’accento sulle persone – cioè su noi cittadini come soggetti attivi del presente – possa influire sulle grandi decisioni politiche ed economiche. Un buon esempio potrebbe essere questo: fare il contrario di quanto sin qui si è fatto con le legge elettorali, che prevedono apparati che di fatto nominano i rappresentanti dei cittadini. Non può essere così: i rappresentanti dei cittadini devono venire dai cittadini stessi.
Il rischio che la parola dei cittadini si disperda attraverso i numerosi passaggi che portano alle grandi decisioni politiche ed economiche, anche per un problema di competenze, è un rischio reale che va affrontato. I greci avevano coniato una parola bellissima: agoreuein, prendere la parola in piazza. È un verbo carico di significato, che non vuol dire solo esporre una certa tesi, ma anche farsi responsabili di quella tesi di fronte ai concittadini. Ovviamente si tratta di un modello di democrazia diretta adatto a una città stato dove parlamento e piazza coincidevano, ma che certo non funziona in uno stato di diecimila città: qui ci vogliono le mediazioni, è chiaro. Ma le mediazioni non sono imposizioni, dunque non devono essere strumenti in mano a chi ha ottenuto il potere e se ne serve imponendo regole e misure dall’alto. Le cose non funzionano così: le mediazioni devono realmente mediare, devono permettere un autentico interfacciarsi dei cittadini e dei luoghi istituzionali in cui si prendono le decisioni.
In questo modo diverso d’intendere le mediazioni si cela la risposta alla grande domanda sul ruolo e sul destino della politica di fronte all’egemonia dell’economia finanziarizzata. La politica ridotta a tecnica gestionale dell’economia in realtà, ormai è chiaro, non gestisce un bel niente. Questa politica ci dice solo: le cose nel mondo vanno in questo modo perché così vogliono le leggi di mercato, i tassi d’interesse o lo spread. La politica ritiene di poter solo prendere atto della realtà e di avere davanti a sé un’unica soluzione. Poi, però, vediamo che la stessa attualità più stringente smentisce l’idea della soluzione unica dettata dal mercato. Il nodo cruciale della Grecia, ad esempio, può essere affrontato in un modo o in un altro, esistono alternative reali la cui portata va ben aldilà del mero fatto economico.
Dobbiamo capire che restituire alla politica la sua centralità ci conviene, anche dal punto di vista economico. Una simile rivoluzione che parte dalla centralità delle persone e dal riconoscimento dell’altro come origine dell’io va perseguita non perché sia una scelta più etica o più gratificante ma perché, di fronte alla crisi, ci prospetta delle soluzioni alternative. Litigare ci conviene. Confrontarci senza sosta e magari confliggere nelle scelte e nelle visioni da realizzare, liberandoci dall’illusione della soluzione unica imposta dal mercato, è l’unica strada che ci conviene percorrere.
Repubblica 14.6.12
Metafisica del contagio
Il nuovo saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo
Emergenza, caos e malattia: le metafore delle nostre paure
di Antonio Gnoli
Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone – Metafisica della peste (Einaudi) – con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo – allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze – scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.
Non teme una certa confusione di generi?
«E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio – che della peste è il massimo poeta – filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la Storia della colonna infame di Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».
La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.
«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».
La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito?
«Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla».
La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?
«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».
Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?
«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».
Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca?
«In che senso?»
Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica.
«Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso».
Con quali effetti?
«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere».
A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi come la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?
«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?»
Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati.
«È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini».
E perché lei ha accettato di farne parte?
«È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti».
La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».
Il male, come la peste, produce il disordine?
«L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà civile fosse già la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».
Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità?
«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà del XVII secolo, in anni non lontani dal Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità,
in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto».
Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera?
«Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».
l’Unità 14.6.12
Anche Breivik è un «uomo laser»
Tante affinità con il serial killer svedese protagonista di un romanzo verità
Il processo al norvegese che fece una strage l’anno scorso rimanda all’assassino seriale Ausonius che colpì negli anni 90. Entrambi filo-nazisti, anti-immigrati, amanti delle armi
di Oreste Pivetta
L’UOMO LASER, C’era una volta la Svezia Gellert Tamas Traduzione di Renato Zatti pagine 546 euro 19,50 Iperborea
POCO MENO DI UN ANNO FA UN TRENTATREENNE NORVEGESE FECE ESPLODERE UNA BOMBA NEI PRESSI DI ALCUNI UFFICI DEL GOVERNO, A OSLO, e quindi, raggiunta l’isola di Utoya, sparò a ripetizione su una folla di giovani simpatizzanti del partito socialdemocratico. I morti furono ottanta. Il presunto colpevole (anche per l’autore di una strage così mostruosa vale la presunzione d’innocenza) fu presto individuato: Anders Behring Breivik, norvegese. Allora Breivik si definì anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Adesso, sotto processo, continua a esaltare il valore del suo gesto. Alle perizie psichiatriche, per quanto possano valere, risultò sano di mente.
Ho ripensato a Breivik non solo per le notizie che ci giungono in questi giorni dalle aule giudiziarie norvegesi, ma anche leggendo un lungo reportage di cinquecento pagine: lo si potrebbe definire alla maniera del capolavoro di Truman Capote, A sangue freddo, una «no fiction novel» oppure un esempio di quel new journalism che negli anni sessanta «inventarono», con lo stesso Truman Capote, Tom Wolfe, Gay Talese, Norman Mailer. Autore del lungo reportage è un giornalista svedese, sebbene di origini ungheresi, Gellert Tamas. L’uomo laser (tradotto dallo svedese da Renato Zatti) racconta di un serial killer per odio razziale, di Stoccolma, tale John Ausonius (ma questo era solo l’ultimo nome del nostro assassino, che inseguiva anche così una immaginaria purezza scandinava), che nei primi anni Novanta andava in giro a sparare, prima con un fucile dal puntatore laser poi con una classica pistola dotata di un artigianale silenziatore, contro gli immigrati. Contro chiunque in realtà gli apparisse come un immigrato, per la pelle più scura e soprattutto per i capelli neri. Ne uccise solo uno, dieci li ferì, alcuni gravemente. Ausonius era un ottimo tiratore, come testimoniano le sue prove durante il servizio militare: in quei dieci casi mancò l’obiettivo che si era prefisso per questione di millimetri o per la coincidenza di un osso che devia il proiettile. Se ne rammaricò: viveva la sopravvivenza delle sue vittime come un fallimento personale.
Leggendo una rapida biografia di Breivik, mi sono reso conto di alcune coincidenze. La prima riguarda il nostro punto di vista viziato da un pregiudizio positivo: difficile pensare che episodi del genere tocchino due Paesi che ci rappresentano l’utopia realizzata del welfare sociale più sensibile e quindi della comunità solidale, diffici- le credere ad esempio che le nuove immigrazioni (in Svezia soprattutto dopo il disastro jugoslavo) abbiano creato tante tensioni, tanti conflitti, fino a determinare la nascita (e anche l’affermazione parlamentare) di movimenti razzisti, alcuni addirittura di nostalgie naziste e pronti all’uso delle armi (durante le indagini alla ricerca del serial killer furono scoperti veri arsenali nelle case di militanti che nelle manifestazioni inneggiavano a Hitler).
IL DELITTO PALME
Certo la Svezia ha vissuto la sua tragedia politica: nel 1986 venne assassinato, mentre usciva da un cinema insieme con la moglie, Olof Palme, il grande leader socialdemocratico, uno dei personaggi centrali della storia europea nel dopoguerra. Gellert Tamas lo ricorda di frequente: erano passati ormai cinque anni all’epoca degli attentati di Ausonius, ma non si poteva dimenticare facilmente la figura di Palme e la sua fine, mentre, peraltro, una cospicua squadra di agenti speciali lavorava ancora sulle tracce del colpevole, che non venne mai individuato (un colpevole fu indicato, venne processato, condannato, poi assolto in secondo grado e quindi in via definitiva). Ma credo che Tamas pensi ad Olof Palme anche per sottolineare la debolezza politica e morale di una maggioranza di centrodestra al governo e di una opposizione socialdemocratica incapaci di reagire, se non alla fine e quasi sulla spinta di una iniziativa popolare, a quell’onda razzista e nazista di un fanatismo, che aveva percorso la Svezia e nelle cui parole Ausonius aveva trovato non solo la giustificazione ma addirittura il plauso.
Torno alle concomitanze. Breivik e il criminale svedese sono figli di coppie separate, vivono un rapporto di profondo contrasto con i genitori, sono definiti dagli amici intelligenti, brillanti, colti (Ausonius ha una passione maniacale per il cinema), entrambi però irascibili, entrambi non temevano di dichiarare il loro odio per lo straniero immigrato, giocavano in Borsa guadagnando moltissimo (ma alla fine perdendo molto), avevano una cura maniacale per il loro corpo: Breivik si sottopose a numerosi interventi di plastica estetica, Ausonius era elegantissimo, raffinato nell’abbigliamento, non cercò di modificare il proprio aspetto se non per un particolare: il colore dei capelli. I suoi capelli erano neri, i coetanei a scuola lo chiamavano «negro». Appena potè si fece tingere i capelli. Li voleva biondi, il risultato fu penoso: divennero rossi. Andava bene lo stesso, bastava che fosse occultato quel «nero» che sapeva di straniero. Più tardi avrebbe portato anche lenti a contatto azzurre: gli pareva così d’essere diventato uno svedese perfetto, d’aver cancellato per sempre la sua origine, figlio di immigrati, di una contadina tedesca e di un cuoco svizzero (e donnaiuolo).
Breivik venne dichiarato non idoneo al servizio militare, Ausonius fu arruolato (per quanto fosse già stato sottoposto a cure psichiatriche), maneggiava armi con grande facilità, aggrediva i compagni (finché i compagni non aggredirono lui), fu infine allontano dopo numerosi atti di insubordinazione.
Breivik e Ausonius s’avvicinarono ai gruppi nazisti, il primo all’English Defence League, il secondo alla cosiddetta Nuova Democrazia, partito fondato questo dall’erede di una nobile famiglia svedese, con un fallimentare passato di dirigente d’azienda, e da un gestore di lunapark e discografico che aveva fatto i soldi pubblicando musica pseudo popolare (sono anche i tempi di Haider in Austria, di Le Pen in Francia, di Bossi in Italia...). Forse le analogie finiscono qui. Nella scarna biografia di Breivik, ricostruita dai giornali, manca quel paesaggio politico, sociale, culturale, che è invece il corpo denso e prezioso del libro di Gellert Tamas, un paesaggio che non abbandona mai la cronaca e i gesti dell’assassino.
Tamas è bravissimo a rappresentare Ausonius nella sua follia omicida, è ancora più bravo a governare la macchina investigativa. Ma il poliziesco, che ci regala suspense ad ogni pagina, non rinuncia a raccontarci un Paese di timida politica, di grave crisi economica, esposto ai conflitti del mondo e di conseguenza ad una chiusura egoista, scelta comune, quando tutti i mali vengono attribuiti a chi si presenta con i «capelli neri», alla caduta nel qualunquismo che lascia spazio all’affermazione di slogan beceri quanto odiosi. Il partito del nobile decaduto e del venditore di dischi acquista un peso, inondando le istituzioni della sua insipienza e della sua volgarità. Poi sparirà, ma la traccia è rimasta: tornerà alla ribalta.
Ausonius, nella sua disperata malattia, che, come spesso capita, gli psichiatri non riescono ad avvertire, è una vittima e al tempo stesso quella frazione incivile di società: non gli mancheranno gli incoraggiamenti.
C’è una Svezia che reagisce: giovani in piazza, gente normale in piazza, svedesi a fianco degli immigrati, operai che scioperano per difendere i diritti dei compagni, in un Paese dove anche la regina è un’immigrata (a rischio d’espulsione se fosse passata una folle legge proposta appunto dai cosiddetti nuovi democratici), c’è persino una polizia che lavora con grande scrupolo, passione, responsabilità, dalla parte delle vittime (da noi chissà quali deviazioni).
Ausonius, che per campare riccamente s’era dato con successo alle rapine in banca (e rapinava per distrarre l’attenzione dei poliziotti dagli attentati), venne alla fine acciuffato. Finirà in carcere dove Gellert Tamas lo incontrerà varie volte, a lungo, scoprendo un uomo colto, che legge Newsweek e Time, che parla fluentemente svedese, tedesco e inglese.
Tamas ha lavorato alcuni anni tra ricerca e scrittura: un tempo lungo e inaccettabile per un giornalismo come il nostro senza inchieste e senza reportage, sempre più povero, un tempo lungo anche per i nostri editori, che preferiscono mandare alla svelta in stampa cataste di documenti usciti da una fotocopiatrice compiacente.
Corriere 14.6.12
Alla ricerca del sublime inseguendo la vertigine
Il trattato attribuito per errore a Longino
di Roberto Galaverni
Riguardo al trattato Del Sublime non sembra esserci alcuna certezza. Misteriosa è l'identità dell'autore, che rimane legata solo per convenzione a quel Cassio Longino, filosofo neoplatonico del III secolo d. C., a cui dapprima l'opera è stata attribuita. Incerta è l'epoca della sua composizione: probabilmente il primo secolo inoltrato dell'età imperiale, ma i pareri sono molto discordi. E oscillante è pure l'interpretazione di numerosi passaggi del testo, difficile dire se per la qualità intrinseca dei concetti affermati o se per una padronanza incompleta dei mezzi espressivi da parte dell'autore. Tutto, insomma, appare oltremodo slittante, sfuggente, perfino oscuro. Ma, proprio per questo, tutto resta sempre aperto. Natura e destino del Sublime compongono una sorta di costellazione allo stato fluido dove ogni cosa è in divenire, proprio come la traiettoria delle sue metafore più incandescenti, arrischiate e appunto non circoscrivibili.
Va detto allora che la fortuna è stata proporzionale alla natura fortemente indeterminata dell'opera. Sconosciuto all'antichità, il trattato ha avuto una ricezione progressivamente crescente a partire dal XVI secolo (l'editio princeps è del 1554), per raggiungere il punto più alto nel corso del Settecento, tra istanze preromantiche e romanticismo pienamente definito. Non sono tante le opere che possono vantare una simile influenza sulla letteratura e il pensiero estetico dell'età moderna, tant'è che Francesco Donadi ha potuto indicare nel Sublime il più importante antagonista della Poetica di Aristotele. E ben a ragione. Quanto più questa appare analitica, precisa e razionalmente fondata, tanto più quello risulta sintetico, oltranzista, ambiguo, irrazionale. Se Aristotele governa implacabilmente i propri concetti, Longino lascia correre a briglia sciolta il proprio repertorio metaforico, fino a lasciarselo talvolta sfuggire di mano.
Sta proprio qui, del resto, il motivo d'attrazione forse principale che il trattato ha esercitato su generazioni di lettori e di scrittori ormai innumerevoli. Qui, infatti, viene celebrato anzitutto ciò che eccede il linguaggio, anche il più immaginifico e irregolare. Anzi, il sentimento del sublime, che pure può arroventare di sé l'espressione poetica, coincide con un impulso di natura trascendente che finisce per incenerire il linguaggio stesso in cui si manifesta. Il sublime è esattamente ciò che è situato al di fuori della parola, ma che può trovare nella parola stessa il tramite, il conduttore privilegiato tra l'elevatezza interiore dell'individuo (quella parte dell'uomo che trascende l'umano) e la grandiosità del creato (il sublime naturale così caro ai romantici). Anticlassico e antinormativo per eccellenza, Longino è insieme il teorico e lo scrittore del pathos, della vertigine, delle passioni forti e indisciplinate, degli stati d'esaltazione e, insomma, di «tutto quel che è fuori dalla norma, il grande e il bello». Non la persuasione, ma l'estasi; non il controllo, ma l'emozione; non il discernimento, ma l'immedesimazione. Come per un autore rispetto al mondo, così per un lettore di fronte a un'opera quello che conta è l'identità di sentimento e di visione, di parola e d'immagine. «Il sublime», ed è questo un Longino purissimo, «quando al giusto momento prorompe, riduce ogni cosa in briciole, come una folgore». Allo stesso modo, il carattere tecnico-retorico della trattazione travalica il reticolo espressivo. La precettistica compositiva entra in conflitto con se stessa, rovesciandosi nell'indicazione di uno stato d'animo e, più ancora, di una possibilità di vita.
Non sorprende allora che la natura agonistica e l'esaltazione dell'uomo insite nell'idea del sublime abbiano attratto più di altri uno studioso come Harold Bloom, il critico dell'angoscia dell'influenza e delle prerogative irripetibili del genio. «I poeti sublimi che siano per taluni aspetti radicalmente umanistici — Milton, Blake, Wordsworth, Shelley, Keats, Whitman, Stevens — sono costretti a rinunciare al sublime quando sottolineano il loro lato umanistico». Nella condizione del sublime, si direbbe, vedere e chiudere gli occhi risultano la stessa cosa. Così, Del Sublime andrebbe letto tenendo magari nell'altra mano la Poetica, il grande avversario che si è richiamato più sopra. Non dovrebbe darsi Longino senza almeno un po' di Aristotele. È infatti sempre una mano a lavare l'altra, e non diversamente.
Corriere 14.6.12
L'arte di coltivare il talento
Chiunque fosse, è da considerarsi un «principe dei critici» (come lo definì Giambattista Vico) lo Pseudo Longino autore del trattato Del Sublime, il volume in edicola sabato con la prefazione inedita di Nuccio Ordine. Spiega appunto Ordine che «nonostante le incertezze sulla paternità (lo scritto resta anonimo) e sulla datazione (ormai fissata intorno al I secolo d. C.), il trattato costituisce ancora oggi un punto di riferimento fondamentale per il dibattito sul Sublime». E i requisiti necessari per la creazione di un'opera letteraria «sublime» comprendono la scelta del registro di stile e la competenza, certo, ma soprattutto una «innata grandezza d'animo». Anzi, anche l'alto sentire non basta, spiega l'anonimo autore, ma occorre «coltivare il talento» come una pianta, con la conoscenza e lo studio dei più grandi autori.
La settimana prossima in edicola le Vite parallele. Alessandro e Cesare di Plutarco con la prefazione inedita di Carlo Franco, e le Filippiche di Demostene, con la prefazione inedita di Luciano Canfora. (i.b.)
Corriere 14.6.12
Quell'idea di socialismo negli anni freddi di Stalin
di Arturo Colombo
L'antologia «Politics e il nuovo socialismo» a cura di Alberto Castelli, Marietti, pp. 265, € 22
Anche se in pochissimi la ricordano, «politics» (senza neppure la maiuscola!) è stata una rivista importante, pubblicata a New York dal 1944 al '49, che ha trovato in Dwight Macdonald (nella foto) il fondatore e il direttore, capace di coinvolgere alcuni esponenti autorevoli, da Paul Goodman a Andrea Caffi, da Mary McCarthy a Nicola Chiaromonte, ad Albert Camus: personalità molto diverse fra loro, eppure unite da una comune «insofferenza» verso ogni ideologia imposta. Lo si capisce dal volume antologico politics e il nuovo socialismo, a cura di Alberto Castelli, che in un saggio introduttivo traccia quello che definisce come impegno alla «ricerca di una nuova politica».
Eravamo in un momento difficile, fra l'ultimo periodo del secondo conflitto mondiale e la successiva, drammatica rottura del mondo fra i «due blocchi». Andare alla ricerca di un «nuovo socialismo» (mentre Stalin cercava di imporre quel tipo di politica, che dal Cremlino si sarebbe estesa ai Paesi dell'Est europeo) significava sottoporre a «una critica radicale» il marxismo dopo Marx, sia di fronte a quello che Chiaromonte considerava «il potere illimitato» dominante nell'Unione Sovietica, sia di fronte a quello che Macdonald definiva «un crollo generale dei vecchi sogni di fratellanza universale».
Chi scriveva su «politcs» aveva un obiettivo arduo: di fronte a meccanismi politici manovrati da élite autoritarie (anzi, totalitarie), che violentavano gli spazi di libertà, l'imperativo rimaneva quello di riportare ogni individuo al centro di ogni scelta politica, per farne il protagonista di un concreto rinnovamento su come «stare insieme», senza privilegi per pochi né vincoli oppressivi per gli altri.
È un punto che Hannah Arendt — pur non avendo mai collaborato a «politics» — coglieva in un saggio, che Castelli pone come introduzione alla raccolta antologica, là dove ribadisce che per il gruppo, riunito intorno a Macdonald ogni essere umano deve costituire «lo scopo ultimo della politica».
La Stampa TuttoScienze 13.6.12
Il gene che si fotocopiò due volte: così siamo diventati intelligenti
Ricerca Usa: un processo che ci ha trasformato
di Gabriele Beccaria
I western ci hanno abituati al buono, al brutto e al cattivo. Un paio di milioni di anni fa, invece, il trio doveva essere formato dal furbo, dal buono e dallo scemo.
«Ed è molto divertente da immaginare»: Evan Eichler, professore della University of Washington, a Seattle, commenta così la scoperta. C’è stato un momento della storia remota in cui versioni diverse dei nostri antenati vivevano in contemporanea e con cervelli decisamente differenti: accanto ai tipi «standard» - né stupidi né geniali - c’erano esemplari molto brillanti e altri un po’ tonti. Con conseguenze esilaranti, certo, ma anche straordinarie.
Che la mente resti un enigma è più che noto, ma ora Eichler ha una possibile risposta ai motivi delle sue metamorfosi. La causa si nasconde nel Genoma, in una zona così umbratile che finora era sfuggita alle indagini. Un gene, battezzato Srgap2 e responsabile dello sviluppo della corteccia, vale a dire l’area che controlla funzioni superiori come il linguaggio e l’autocoscienza, si è duplicato due volte nel corso della sua lunghissima esistenza. Sembra poco, visto che si parla di un tempo dilatato, ma in realtà il fenomeno è - a quanto si sa - rarissimo. Non più di una trentina di geni sono riusciti a fare lo stesso, eppure nel caso di Srgap2 le conseguenze sono state clamorose. L’evoluzione dell’uomo ha preso una strada niente affatto scontata.
La prima «fotocopia» si manifesta 3.4 milioni di anni fa, quando compare Srgap2b, la seconda circa un milione di anni dopo, con Srgap2c. E oggi i Sapiens portano in sé tutte e tre le versioni, il cui originale - sostiene la ricerca di Eichler con Franck Polleux dello Scripps Institute di La Jolla - dev’essere entrato in funzione molto prima, tra 4 e 6 milioni di anni fa, nella fase in cui il genus Homo si separa dagli scimpanzé e comincia l’avventura dell’uomo. Ogni volta che l’interruttore è scattato la qualità della copia si è rivelata un po’ più bassa, eppure è proprio la loro compresenza ad aver generato un esito sorprendente.
La conferma è arrivata dai test. Quando nei topini di laboratorio l’originale Srgap2 è stato sostituito con il b oppure con il c, il loro cervello è andato fuori strada, senza riuscire a evolvere normalmente. Ma, non appena sono stati affiancati tutti e tre i geni, ecco il miracolo: le proteine hanno fatto un ottimo lavoro, modellando una mente che si può definire davvero più intelligente. Sebbene le dimensioni non mutassero, a cambiare sono stati i neuroni. Le ramificazioni - i dendriti - sono aumentate in quantità, diventando anche più spesse e lunghe. In sostanza - spiegano i ricercatori - si è osservato in miniatura qualcosa che dev’essere accaduto anche nelle nostre scatole craniche.
Se prima le cellule cerebrali erano pigre, dopo si sono «dopate», dimostrando di comunicare velocemente tra loro: così è cresciuto il potere di processamento dell’informazione. E non solo. I neuroni hanno dimostrato di saper migrare in zone diverse dei giovani cervelli in formazione. E le testimonianze fossili danno una conferma, per quanto indiretta: proprio 3.4 milioni di anni l’Australopithecus afarensis scopre che le pietre scheggiate possono trasformarsi in protesi di se stesso e quindi in preziosi utensili. La corsa dei neuroni è iniziata.
La Stampa TuttoScienze 14.6.12
Tutti gli echi di Stonehenge
“Era un teatro prima dell’invenzione del teatro”
di Francesco Rigatelli
A oltre 4 mila anni dalla sua costruzione, Stonehenge non finisce di incuriosire. E’ proprio questa la forza d’attrazione del circolo di pietre allineate alle fasi solari nell’Inghilterra del Sud. A cosa servivano? Chi le ha messe lì? E come? Le risposte al momento sono: per osservare le stelle; i druidi o probabilmente qualcuno precedente; con rulli da una collina a 30 km di distanza.
Eppure il sito continua ad essere meta di pellegrinaggio e a far parte dell’immaginario collettivo del mistero tanto da apparire in libri, fumetti e film. Prima della più o meno affidabile teoria sui druidi, Stonehenge era la leggendaria costruzione di Mago Merlino, niente meno che l’artefice della tavola rotonda. E al centro del cerchio di pietre veniva dato per sepolto Uther Pendragon, fantasioso sovrano della Britannia postromana e padre dell’altrettanto immaginario re Artù. Nonché Costantino III, padre di Pendragon. Il sito veniva idealizzato, insomma, come un luogo genitore del regno di Camelot narrato nel Ciclo bretone.
Ad aggiungere un dettaglio al già spettacolare dibattito arriva ora uno studio dell’Università inglese di Salford, secondo cui Stonehenge non sarebbe solo un osservatorio astronomico, un luogo di culto, un eventuale centro di misteri, ma anche un teatro prima del teatro. Le vibrazioni e il riverbero del suono derivante dai megaliti parrebbero eccezionali. Non una semplice eco, ma un effetto più raffinato. Qualcosa di simile all’acustica di una cattedrale. Con un ritardo nella propagazione del suono inferiore a un secondo. Un effetto particolarmente adatto, insomma, a un luogo religioso.
Secondo i ricercatori, sarebbe inoltre possibile per una persona che si nasconda dietro una pietra e parli ad alta voce essere sentito in molti altri punti del cerchio. Una scoperta abbastanza insolita, già che a Stonehenge non ci sono cime alte o caverne larghe, solitamente associate alle dinamiche acustiche.
Anche per questo i ricercatori hanno lavorato sul sito originale e pure nella replica che c’è negli Usa, emettendo e registrando 64 suoni da diverse posizioni con tecnologia 3D, simulando quella che poteva essere l’attività dell’epoca. Perché questa è la chiave: ricostruire quanto potesse essere sconvolgente allora un sistema di amplificazione del suono del genere. Basti pensare che il teatro greco risale a poche centinaia di anni prima di Cristo.
La scoperta, che tra l’altro potrebbe spiegare la strana posizione di alcune pietre poco allineate rispetto al cerchio, è ovviamente già molto discussa dagli studiosi e dai curiosi. Per intanto, se non aggiunge niente su chi ha costruito effettivamente Stonehenge, offre almeno qualche elemento in più per capire come veniva vissuto il sito.
Corriere 14.6.12
Internet si allarga
Quanto è diventata grande la Rete? 340 trilioni di trilioni di trilioni
di Massimo Sideri
Un numero da Zio Paperone per racchiudere la Rete del futuro: con il passaggio dall'attuale protocollo Internet versione 4 a quello versione 6, gli indirizzi unici disponibili da 4,3 miliardi di oggi diventeranno 340 trilioni di trilioni di trilioni, sintetizzabile con il numero 34 seguito da 37 zeri. Ogni uomo avrà 50 indirizzi seguiti da 27 zeri. Una domanda sorge spontanea: che ce ne faremo?
Sarà possibile collegare 7 oggetti a persona attraverso il wi-fi
Trecento quaranta trilioni di trilioni di trilioni: un numero che fino ad ora avevamo letto solo nelle storie di zio Paperone quantifica la nuova «dimensione» di Internet. Semplificando molto possiamo dire che da una settimana, con il passaggio dal protocollo Internet versione 4, Ipv4, alla versione 6, Ipv6, il numero degli indirizzi unici della Rete sono diventati potenzialmente espandibili dai «vecchi» 4,3 miliardi fino a questa grandezza irraggiungibile: 34 seguito da 37 zeri. Qualcuno li avrà anche giocati al Lotto.
Eppure, al di là della tentazione della cabala, la vera domanda è: cosa ce ne faremo di questi 340 trilioni di trilioni di trilioni di nuove «porte» al web se sulla Terra siamo in tutto 7 miliardi (e, potremmo aggiungere, molti offline)? È stato calcolato che con il nuovo protocollo ci saranno 100 indirizzi per ogni atomo del mondo, circa 50 seguito da 27 zeri Ip per ogni essere umano. Un po' troppi. Ma per comprendere il senso del numero bisogna rispolverare un po' di storia di Internet. La versione 4 del sistema dei protocolli sui quali ancora viviamo online è del 1981. Allora nessuno aveva immaginato a cosa saremmo andati incontro e dunque era sembrato ragionevole implementare un sistema a 32 bit, suddiviso in 4 gruppi da 8 bit separati ciascuno da un punto (più complicato descriverlo che leggerlo: 10101010.10101010.10101010.10101010). Le combinazioni possibili con questo sistema erano appunto 4,3 miliardi, una capacità di spazio che avevamo sostanzialmente saturato. Nell'implementare la versione 6, allo studio dal '98, si è passati a un sistema con 128 bit (scritto sarebbe troppo lungo). I 340 trilioni di trilioni di trilioni sono dunque una soglia potenziale alla quale si è puntato anche per non avere problemi per almeno un secolo anche se ora, proprio come 30 anni fa, non possiamo sapere cosa succederà tra 30 anni.
«Al di là del numero — spiega Alberto Degradi, direttore tecnico di Cisco Italia — quello che è importante è che non avremo più problemi di indirizzamento. La versione 6 è un forte elemento di abilitazione per l'Internet delle cose». Un Ip è sostanzialmente il numero con il quale un qualunque apparecchio viene identificato in Rete. Un personal computer, un tablet, uno smartphone. Ma l'industria sta già collegando o pensando di collegare tutto alla Rete, dal frullatore, alla lavatrice, all'automobile. «Stimiamo — continua Degradi — 50 miliardi di oggetti collegati già nel 2020. Internet raddoppia in termini di oggetti ogni 5,32 anni. Questo è un dato preciso, perché ogni oggetto ha un Mac address, un sotto-indirizzo che ci permette di individuarne il numero esatto. Quindi tra 8 anni avremo sette oggetti collegati per ogni persona sulla Terra». E ognuno avrà un nuovo Ip.
Il che pone anche un problema di «tenuta» della Rete. Con la crescita dei nuovi Ip è come se stessimo aprendo 50 miliardi di porte nuove sulla Rete senza però cambiarne ponti e autostrade. Abilitati gli ingressi ora bisognerà investire sull'infrastruttura. «È un tema concreto anche se ci stiamo già adeguando con reti che lavorano su terabit al secondo di velocità» conferma Degradi.
L'Ip è anche il numero occultato dietro i domini web che noi siamo abituati a scrivere con le lettere come corriere.it. Dietro a ognuno di essi c'è il codice numerico collegato al server dove il sito si appoggia. E proprio ieri, l'Icann, l'ente non profit per lo sviluppo di Internet, ha reso noto a Londra che sono giunte 1.900 richieste per i nuovi suffissi personalizzabili che si affiancheranno ai 22 attuali (come .com o .it). Tra i domini più richiesti ci sono .book, .shop, .news e quelli geografici (il .roma è stato domandato da una società inglese). In fila anche le aziende: Google ha fatto richiesta per 100 domini tra cui .google, .youtube e anche .lol. La Fiat ne ha domandati nove. Il costo? 185 mila dollari e 25 mila dollari l'anno. Abbastanza per far demordere qualche egocentrico.
Il nuovo protocollo
Con il passaggio dal protocollo Internet versione 4, Ipv4, alla versione 6, Ipv6, il numero degli indirizzi unici della Rete sono diventati potenzialmente espandibili fino a 340 trilioni di trilioni di trilioni: 340 seguito da 36 zeri. Con la «vecchia» versione erano 4,3 miliardi
I nuovi domini
L'Icann, l'ente non profit per la sicurezza, lo sviluppo e la stabilità di Internet, ha fatto sapere che sono arrivate oltre 1900 richieste di nuovi domini: 911 da Usa e Canada, 675 dall'Europa, 303 dall'Asia, 24 dall'America Latina e 17 dai Paesi africani. Google ne ha richiesti più di 100, Microsoft 11, Apple 1. Tra le aziende italiane Fiat ha fatto domanda per 9 domini
Come affrontare questo problema? Non esiste un governo mondiale dell’economia e la crisi che stiamo attraversando lo conferma: non siamo riusciti a inventare un governo dei processi economici e dei rapporti tra le nazioni, e neppure dei giudizi da dare sulle tragedie e sulle guerre che insanguinano il mondo.
La strada da percorrere è un’altra. Dobbiamo ripartire dalle persone, dai loro bisogni e dalle loro contraddizioni, e ciò è possibile solo imparando a dialogare, dunque a capire che io non sono tu, ma che solo grazie al rapporto con il tu io sono e posso dire «io». Quando mi guardo allo specchio accade qualcosa di strano, come se non mi riconoscessi, e ciò non avviene perché non mi piaccio o perché mi rendo conto con amarezza di come mi abbia ridotto il passare degli anni: non è questo il punto. Se guardandomi allo specchio accade che io non mi riconosca, che io non veda sulla superficie dello specchio la conferma inoppugnabile e tranquillizzante della mia identità, ciò è dovuto a una ragione molto più profonda: io sono sempre altro rispetto alla mia identità, o meglio, la mia identità si costruisce solo in rapporto all’identità dell’altro. Allora, se le cose stanno così, imparare a dialogare non significa banalmente imparare a sopportarci, bensì capire che io sono solo grazie all’altro, e non solo grazie a quell’altro che conosco e che amo, grazie all’amico, al familiare, al vicino o al concittadino che con me condivide abitudini e esperienze. No, io sono io anche grazie all’altro che mi dà fastidio, all’altro che mi toglie spazi che ritengo miei. Solo grazie a lui io sono io, sono vivo e vado avanti: capire davvero tutto questo, e da qui ripartire, è la vera rivoluzione. Questo è il nodo di quel processo che, con Bauman, possiamo chiamare glocalizzazione.
Rimane da capire in che modo tale processo rivoluzionario di riconoscimento dell’altro, che sposta l’accento sulle persone – cioè su noi cittadini come soggetti attivi del presente – possa influire sulle grandi decisioni politiche ed economiche. Un buon esempio potrebbe essere questo: fare il contrario di quanto sin qui si è fatto con le legge elettorali, che prevedono apparati che di fatto nominano i rappresentanti dei cittadini. Non può essere così: i rappresentanti dei cittadini devono venire dai cittadini stessi.
Il rischio che la parola dei cittadini si disperda attraverso i numerosi passaggi che portano alle grandi decisioni politiche ed economiche, anche per un problema di competenze, è un rischio reale che va affrontato. I greci avevano coniato una parola bellissima: agoreuein, prendere la parola in piazza. È un verbo carico di significato, che non vuol dire solo esporre una certa tesi, ma anche farsi responsabili di quella tesi di fronte ai concittadini. Ovviamente si tratta di un modello di democrazia diretta adatto a una città stato dove parlamento e piazza coincidevano, ma che certo non funziona in uno stato di diecimila città: qui ci vogliono le mediazioni, è chiaro. Ma le mediazioni non sono imposizioni, dunque non devono essere strumenti in mano a chi ha ottenuto il potere e se ne serve imponendo regole e misure dall’alto. Le cose non funzionano così: le mediazioni devono realmente mediare, devono permettere un autentico interfacciarsi dei cittadini e dei luoghi istituzionali in cui si prendono le decisioni.
In questo modo diverso d’intendere le mediazioni si cela la risposta alla grande domanda sul ruolo e sul destino della politica di fronte all’egemonia dell’economia finanziarizzata. La politica ridotta a tecnica gestionale dell’economia in realtà, ormai è chiaro, non gestisce un bel niente. Questa politica ci dice solo: le cose nel mondo vanno in questo modo perché così vogliono le leggi di mercato, i tassi d’interesse o lo spread. La politica ritiene di poter solo prendere atto della realtà e di avere davanti a sé un’unica soluzione. Poi, però, vediamo che la stessa attualità più stringente smentisce l’idea della soluzione unica dettata dal mercato. Il nodo cruciale della Grecia, ad esempio, può essere affrontato in un modo o in un altro, esistono alternative reali la cui portata va ben aldilà del mero fatto economico.
Dobbiamo capire che restituire alla politica la sua centralità ci conviene, anche dal punto di vista economico. Una simile rivoluzione che parte dalla centralità delle persone e dal riconoscimento dell’altro come origine dell’io va perseguita non perché sia una scelta più etica o più gratificante ma perché, di fronte alla crisi, ci prospetta delle soluzioni alternative. Litigare ci conviene. Confrontarci senza sosta e magari confliggere nelle scelte e nelle visioni da realizzare, liberandoci dall’illusione della soluzione unica imposta dal mercato, è l’unica strada che ci conviene percorrere.
Repubblica 14.6.12
Metafisica del contagio
Il nuovo saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo
Emergenza, caos e malattia: le metafore delle nostre paure
di Antonio Gnoli
Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone – Metafisica della peste (Einaudi) – con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo – allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze – scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.
Non teme una certa confusione di generi?
«E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio – che della peste è il massimo poeta – filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la Storia della colonna infame di Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».
La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.
«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».
La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito?
«Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla».
La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?
«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».
Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?
«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».
Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca?
«In che senso?»
Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica.
«Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso».
Con quali effetti?
«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere».
A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi come la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?
«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?»
Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati.
«È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini».
E perché lei ha accettato di farne parte?
«È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti».
La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».
Il male, come la peste, produce il disordine?
«L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà civile fosse già la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».
Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità?
«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà del XVII secolo, in anni non lontani dal Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità,
in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto».
Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera?
«Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».
l’Unità 14.6.12
Anche Breivik è un «uomo laser»
Tante affinità con il serial killer svedese protagonista di un romanzo verità
Il processo al norvegese che fece una strage l’anno scorso rimanda all’assassino seriale Ausonius che colpì negli anni 90. Entrambi filo-nazisti, anti-immigrati, amanti delle armi
di Oreste Pivetta
L’UOMO LASER, C’era una volta la Svezia Gellert Tamas Traduzione di Renato Zatti pagine 546 euro 19,50 Iperborea
POCO MENO DI UN ANNO FA UN TRENTATREENNE NORVEGESE FECE ESPLODERE UNA BOMBA NEI PRESSI DI ALCUNI UFFICI DEL GOVERNO, A OSLO, e quindi, raggiunta l’isola di Utoya, sparò a ripetizione su una folla di giovani simpatizzanti del partito socialdemocratico. I morti furono ottanta. Il presunto colpevole (anche per l’autore di una strage così mostruosa vale la presunzione d’innocenza) fu presto individuato: Anders Behring Breivik, norvegese. Allora Breivik si definì anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Adesso, sotto processo, continua a esaltare il valore del suo gesto. Alle perizie psichiatriche, per quanto possano valere, risultò sano di mente.
Ho ripensato a Breivik non solo per le notizie che ci giungono in questi giorni dalle aule giudiziarie norvegesi, ma anche leggendo un lungo reportage di cinquecento pagine: lo si potrebbe definire alla maniera del capolavoro di Truman Capote, A sangue freddo, una «no fiction novel» oppure un esempio di quel new journalism che negli anni sessanta «inventarono», con lo stesso Truman Capote, Tom Wolfe, Gay Talese, Norman Mailer. Autore del lungo reportage è un giornalista svedese, sebbene di origini ungheresi, Gellert Tamas. L’uomo laser (tradotto dallo svedese da Renato Zatti) racconta di un serial killer per odio razziale, di Stoccolma, tale John Ausonius (ma questo era solo l’ultimo nome del nostro assassino, che inseguiva anche così una immaginaria purezza scandinava), che nei primi anni Novanta andava in giro a sparare, prima con un fucile dal puntatore laser poi con una classica pistola dotata di un artigianale silenziatore, contro gli immigrati. Contro chiunque in realtà gli apparisse come un immigrato, per la pelle più scura e soprattutto per i capelli neri. Ne uccise solo uno, dieci li ferì, alcuni gravemente. Ausonius era un ottimo tiratore, come testimoniano le sue prove durante il servizio militare: in quei dieci casi mancò l’obiettivo che si era prefisso per questione di millimetri o per la coincidenza di un osso che devia il proiettile. Se ne rammaricò: viveva la sopravvivenza delle sue vittime come un fallimento personale.
Leggendo una rapida biografia di Breivik, mi sono reso conto di alcune coincidenze. La prima riguarda il nostro punto di vista viziato da un pregiudizio positivo: difficile pensare che episodi del genere tocchino due Paesi che ci rappresentano l’utopia realizzata del welfare sociale più sensibile e quindi della comunità solidale, diffici- le credere ad esempio che le nuove immigrazioni (in Svezia soprattutto dopo il disastro jugoslavo) abbiano creato tante tensioni, tanti conflitti, fino a determinare la nascita (e anche l’affermazione parlamentare) di movimenti razzisti, alcuni addirittura di nostalgie naziste e pronti all’uso delle armi (durante le indagini alla ricerca del serial killer furono scoperti veri arsenali nelle case di militanti che nelle manifestazioni inneggiavano a Hitler).
IL DELITTO PALME
Certo la Svezia ha vissuto la sua tragedia politica: nel 1986 venne assassinato, mentre usciva da un cinema insieme con la moglie, Olof Palme, il grande leader socialdemocratico, uno dei personaggi centrali della storia europea nel dopoguerra. Gellert Tamas lo ricorda di frequente: erano passati ormai cinque anni all’epoca degli attentati di Ausonius, ma non si poteva dimenticare facilmente la figura di Palme e la sua fine, mentre, peraltro, una cospicua squadra di agenti speciali lavorava ancora sulle tracce del colpevole, che non venne mai individuato (un colpevole fu indicato, venne processato, condannato, poi assolto in secondo grado e quindi in via definitiva). Ma credo che Tamas pensi ad Olof Palme anche per sottolineare la debolezza politica e morale di una maggioranza di centrodestra al governo e di una opposizione socialdemocratica incapaci di reagire, se non alla fine e quasi sulla spinta di una iniziativa popolare, a quell’onda razzista e nazista di un fanatismo, che aveva percorso la Svezia e nelle cui parole Ausonius aveva trovato non solo la giustificazione ma addirittura il plauso.
Torno alle concomitanze. Breivik e il criminale svedese sono figli di coppie separate, vivono un rapporto di profondo contrasto con i genitori, sono definiti dagli amici intelligenti, brillanti, colti (Ausonius ha una passione maniacale per il cinema), entrambi però irascibili, entrambi non temevano di dichiarare il loro odio per lo straniero immigrato, giocavano in Borsa guadagnando moltissimo (ma alla fine perdendo molto), avevano una cura maniacale per il loro corpo: Breivik si sottopose a numerosi interventi di plastica estetica, Ausonius era elegantissimo, raffinato nell’abbigliamento, non cercò di modificare il proprio aspetto se non per un particolare: il colore dei capelli. I suoi capelli erano neri, i coetanei a scuola lo chiamavano «negro». Appena potè si fece tingere i capelli. Li voleva biondi, il risultato fu penoso: divennero rossi. Andava bene lo stesso, bastava che fosse occultato quel «nero» che sapeva di straniero. Più tardi avrebbe portato anche lenti a contatto azzurre: gli pareva così d’essere diventato uno svedese perfetto, d’aver cancellato per sempre la sua origine, figlio di immigrati, di una contadina tedesca e di un cuoco svizzero (e donnaiuolo).
Breivik venne dichiarato non idoneo al servizio militare, Ausonius fu arruolato (per quanto fosse già stato sottoposto a cure psichiatriche), maneggiava armi con grande facilità, aggrediva i compagni (finché i compagni non aggredirono lui), fu infine allontano dopo numerosi atti di insubordinazione.
Breivik e Ausonius s’avvicinarono ai gruppi nazisti, il primo all’English Defence League, il secondo alla cosiddetta Nuova Democrazia, partito fondato questo dall’erede di una nobile famiglia svedese, con un fallimentare passato di dirigente d’azienda, e da un gestore di lunapark e discografico che aveva fatto i soldi pubblicando musica pseudo popolare (sono anche i tempi di Haider in Austria, di Le Pen in Francia, di Bossi in Italia...). Forse le analogie finiscono qui. Nella scarna biografia di Breivik, ricostruita dai giornali, manca quel paesaggio politico, sociale, culturale, che è invece il corpo denso e prezioso del libro di Gellert Tamas, un paesaggio che non abbandona mai la cronaca e i gesti dell’assassino.
Tamas è bravissimo a rappresentare Ausonius nella sua follia omicida, è ancora più bravo a governare la macchina investigativa. Ma il poliziesco, che ci regala suspense ad ogni pagina, non rinuncia a raccontarci un Paese di timida politica, di grave crisi economica, esposto ai conflitti del mondo e di conseguenza ad una chiusura egoista, scelta comune, quando tutti i mali vengono attribuiti a chi si presenta con i «capelli neri», alla caduta nel qualunquismo che lascia spazio all’affermazione di slogan beceri quanto odiosi. Il partito del nobile decaduto e del venditore di dischi acquista un peso, inondando le istituzioni della sua insipienza e della sua volgarità. Poi sparirà, ma la traccia è rimasta: tornerà alla ribalta.
Ausonius, nella sua disperata malattia, che, come spesso capita, gli psichiatri non riescono ad avvertire, è una vittima e al tempo stesso quella frazione incivile di società: non gli mancheranno gli incoraggiamenti.
C’è una Svezia che reagisce: giovani in piazza, gente normale in piazza, svedesi a fianco degli immigrati, operai che scioperano per difendere i diritti dei compagni, in un Paese dove anche la regina è un’immigrata (a rischio d’espulsione se fosse passata una folle legge proposta appunto dai cosiddetti nuovi democratici), c’è persino una polizia che lavora con grande scrupolo, passione, responsabilità, dalla parte delle vittime (da noi chissà quali deviazioni).
Ausonius, che per campare riccamente s’era dato con successo alle rapine in banca (e rapinava per distrarre l’attenzione dei poliziotti dagli attentati), venne alla fine acciuffato. Finirà in carcere dove Gellert Tamas lo incontrerà varie volte, a lungo, scoprendo un uomo colto, che legge Newsweek e Time, che parla fluentemente svedese, tedesco e inglese.
Tamas ha lavorato alcuni anni tra ricerca e scrittura: un tempo lungo e inaccettabile per un giornalismo come il nostro senza inchieste e senza reportage, sempre più povero, un tempo lungo anche per i nostri editori, che preferiscono mandare alla svelta in stampa cataste di documenti usciti da una fotocopiatrice compiacente.
Corriere 14.6.12
Alla ricerca del sublime inseguendo la vertigine
Il trattato attribuito per errore a Longino
di Roberto Galaverni
Riguardo al trattato Del Sublime non sembra esserci alcuna certezza. Misteriosa è l'identità dell'autore, che rimane legata solo per convenzione a quel Cassio Longino, filosofo neoplatonico del III secolo d. C., a cui dapprima l'opera è stata attribuita. Incerta è l'epoca della sua composizione: probabilmente il primo secolo inoltrato dell'età imperiale, ma i pareri sono molto discordi. E oscillante è pure l'interpretazione di numerosi passaggi del testo, difficile dire se per la qualità intrinseca dei concetti affermati o se per una padronanza incompleta dei mezzi espressivi da parte dell'autore. Tutto, insomma, appare oltremodo slittante, sfuggente, perfino oscuro. Ma, proprio per questo, tutto resta sempre aperto. Natura e destino del Sublime compongono una sorta di costellazione allo stato fluido dove ogni cosa è in divenire, proprio come la traiettoria delle sue metafore più incandescenti, arrischiate e appunto non circoscrivibili.
Va detto allora che la fortuna è stata proporzionale alla natura fortemente indeterminata dell'opera. Sconosciuto all'antichità, il trattato ha avuto una ricezione progressivamente crescente a partire dal XVI secolo (l'editio princeps è del 1554), per raggiungere il punto più alto nel corso del Settecento, tra istanze preromantiche e romanticismo pienamente definito. Non sono tante le opere che possono vantare una simile influenza sulla letteratura e il pensiero estetico dell'età moderna, tant'è che Francesco Donadi ha potuto indicare nel Sublime il più importante antagonista della Poetica di Aristotele. E ben a ragione. Quanto più questa appare analitica, precisa e razionalmente fondata, tanto più quello risulta sintetico, oltranzista, ambiguo, irrazionale. Se Aristotele governa implacabilmente i propri concetti, Longino lascia correre a briglia sciolta il proprio repertorio metaforico, fino a lasciarselo talvolta sfuggire di mano.
Sta proprio qui, del resto, il motivo d'attrazione forse principale che il trattato ha esercitato su generazioni di lettori e di scrittori ormai innumerevoli. Qui, infatti, viene celebrato anzitutto ciò che eccede il linguaggio, anche il più immaginifico e irregolare. Anzi, il sentimento del sublime, che pure può arroventare di sé l'espressione poetica, coincide con un impulso di natura trascendente che finisce per incenerire il linguaggio stesso in cui si manifesta. Il sublime è esattamente ciò che è situato al di fuori della parola, ma che può trovare nella parola stessa il tramite, il conduttore privilegiato tra l'elevatezza interiore dell'individuo (quella parte dell'uomo che trascende l'umano) e la grandiosità del creato (il sublime naturale così caro ai romantici). Anticlassico e antinormativo per eccellenza, Longino è insieme il teorico e lo scrittore del pathos, della vertigine, delle passioni forti e indisciplinate, degli stati d'esaltazione e, insomma, di «tutto quel che è fuori dalla norma, il grande e il bello». Non la persuasione, ma l'estasi; non il controllo, ma l'emozione; non il discernimento, ma l'immedesimazione. Come per un autore rispetto al mondo, così per un lettore di fronte a un'opera quello che conta è l'identità di sentimento e di visione, di parola e d'immagine. «Il sublime», ed è questo un Longino purissimo, «quando al giusto momento prorompe, riduce ogni cosa in briciole, come una folgore». Allo stesso modo, il carattere tecnico-retorico della trattazione travalica il reticolo espressivo. La precettistica compositiva entra in conflitto con se stessa, rovesciandosi nell'indicazione di uno stato d'animo e, più ancora, di una possibilità di vita.
Non sorprende allora che la natura agonistica e l'esaltazione dell'uomo insite nell'idea del sublime abbiano attratto più di altri uno studioso come Harold Bloom, il critico dell'angoscia dell'influenza e delle prerogative irripetibili del genio. «I poeti sublimi che siano per taluni aspetti radicalmente umanistici — Milton, Blake, Wordsworth, Shelley, Keats, Whitman, Stevens — sono costretti a rinunciare al sublime quando sottolineano il loro lato umanistico». Nella condizione del sublime, si direbbe, vedere e chiudere gli occhi risultano la stessa cosa. Così, Del Sublime andrebbe letto tenendo magari nell'altra mano la Poetica, il grande avversario che si è richiamato più sopra. Non dovrebbe darsi Longino senza almeno un po' di Aristotele. È infatti sempre una mano a lavare l'altra, e non diversamente.
Corriere 14.6.12
L'arte di coltivare il talento
Chiunque fosse, è da considerarsi un «principe dei critici» (come lo definì Giambattista Vico) lo Pseudo Longino autore del trattato Del Sublime, il volume in edicola sabato con la prefazione inedita di Nuccio Ordine. Spiega appunto Ordine che «nonostante le incertezze sulla paternità (lo scritto resta anonimo) e sulla datazione (ormai fissata intorno al I secolo d. C.), il trattato costituisce ancora oggi un punto di riferimento fondamentale per il dibattito sul Sublime». E i requisiti necessari per la creazione di un'opera letteraria «sublime» comprendono la scelta del registro di stile e la competenza, certo, ma soprattutto una «innata grandezza d'animo». Anzi, anche l'alto sentire non basta, spiega l'anonimo autore, ma occorre «coltivare il talento» come una pianta, con la conoscenza e lo studio dei più grandi autori.
La settimana prossima in edicola le Vite parallele. Alessandro e Cesare di Plutarco con la prefazione inedita di Carlo Franco, e le Filippiche di Demostene, con la prefazione inedita di Luciano Canfora. (i.b.)
Corriere 14.6.12
Quell'idea di socialismo negli anni freddi di Stalin
di Arturo Colombo
L'antologia «Politics e il nuovo socialismo» a cura di Alberto Castelli, Marietti, pp. 265, € 22
Anche se in pochissimi la ricordano, «politics» (senza neppure la maiuscola!) è stata una rivista importante, pubblicata a New York dal 1944 al '49, che ha trovato in Dwight Macdonald (nella foto) il fondatore e il direttore, capace di coinvolgere alcuni esponenti autorevoli, da Paul Goodman a Andrea Caffi, da Mary McCarthy a Nicola Chiaromonte, ad Albert Camus: personalità molto diverse fra loro, eppure unite da una comune «insofferenza» verso ogni ideologia imposta. Lo si capisce dal volume antologico politics e il nuovo socialismo, a cura di Alberto Castelli, che in un saggio introduttivo traccia quello che definisce come impegno alla «ricerca di una nuova politica».
Eravamo in un momento difficile, fra l'ultimo periodo del secondo conflitto mondiale e la successiva, drammatica rottura del mondo fra i «due blocchi». Andare alla ricerca di un «nuovo socialismo» (mentre Stalin cercava di imporre quel tipo di politica, che dal Cremlino si sarebbe estesa ai Paesi dell'Est europeo) significava sottoporre a «una critica radicale» il marxismo dopo Marx, sia di fronte a quello che Chiaromonte considerava «il potere illimitato» dominante nell'Unione Sovietica, sia di fronte a quello che Macdonald definiva «un crollo generale dei vecchi sogni di fratellanza universale».
Chi scriveva su «politcs» aveva un obiettivo arduo: di fronte a meccanismi politici manovrati da élite autoritarie (anzi, totalitarie), che violentavano gli spazi di libertà, l'imperativo rimaneva quello di riportare ogni individuo al centro di ogni scelta politica, per farne il protagonista di un concreto rinnovamento su come «stare insieme», senza privilegi per pochi né vincoli oppressivi per gli altri.
È un punto che Hannah Arendt — pur non avendo mai collaborato a «politics» — coglieva in un saggio, che Castelli pone come introduzione alla raccolta antologica, là dove ribadisce che per il gruppo, riunito intorno a Macdonald ogni essere umano deve costituire «lo scopo ultimo della politica».
La Stampa TuttoScienze 13.6.12
Il gene che si fotocopiò due volte: così siamo diventati intelligenti
Ricerca Usa: un processo che ci ha trasformato
di Gabriele Beccaria
I western ci hanno abituati al buono, al brutto e al cattivo. Un paio di milioni di anni fa, invece, il trio doveva essere formato dal furbo, dal buono e dallo scemo.
«Ed è molto divertente da immaginare»: Evan Eichler, professore della University of Washington, a Seattle, commenta così la scoperta. C’è stato un momento della storia remota in cui versioni diverse dei nostri antenati vivevano in contemporanea e con cervelli decisamente differenti: accanto ai tipi «standard» - né stupidi né geniali - c’erano esemplari molto brillanti e altri un po’ tonti. Con conseguenze esilaranti, certo, ma anche straordinarie.
Che la mente resti un enigma è più che noto, ma ora Eichler ha una possibile risposta ai motivi delle sue metamorfosi. La causa si nasconde nel Genoma, in una zona così umbratile che finora era sfuggita alle indagini. Un gene, battezzato Srgap2 e responsabile dello sviluppo della corteccia, vale a dire l’area che controlla funzioni superiori come il linguaggio e l’autocoscienza, si è duplicato due volte nel corso della sua lunghissima esistenza. Sembra poco, visto che si parla di un tempo dilatato, ma in realtà il fenomeno è - a quanto si sa - rarissimo. Non più di una trentina di geni sono riusciti a fare lo stesso, eppure nel caso di Srgap2 le conseguenze sono state clamorose. L’evoluzione dell’uomo ha preso una strada niente affatto scontata.
La prima «fotocopia» si manifesta 3.4 milioni di anni fa, quando compare Srgap2b, la seconda circa un milione di anni dopo, con Srgap2c. E oggi i Sapiens portano in sé tutte e tre le versioni, il cui originale - sostiene la ricerca di Eichler con Franck Polleux dello Scripps Institute di La Jolla - dev’essere entrato in funzione molto prima, tra 4 e 6 milioni di anni fa, nella fase in cui il genus Homo si separa dagli scimpanzé e comincia l’avventura dell’uomo. Ogni volta che l’interruttore è scattato la qualità della copia si è rivelata un po’ più bassa, eppure è proprio la loro compresenza ad aver generato un esito sorprendente.
La conferma è arrivata dai test. Quando nei topini di laboratorio l’originale Srgap2 è stato sostituito con il b oppure con il c, il loro cervello è andato fuori strada, senza riuscire a evolvere normalmente. Ma, non appena sono stati affiancati tutti e tre i geni, ecco il miracolo: le proteine hanno fatto un ottimo lavoro, modellando una mente che si può definire davvero più intelligente. Sebbene le dimensioni non mutassero, a cambiare sono stati i neuroni. Le ramificazioni - i dendriti - sono aumentate in quantità, diventando anche più spesse e lunghe. In sostanza - spiegano i ricercatori - si è osservato in miniatura qualcosa che dev’essere accaduto anche nelle nostre scatole craniche.
Se prima le cellule cerebrali erano pigre, dopo si sono «dopate», dimostrando di comunicare velocemente tra loro: così è cresciuto il potere di processamento dell’informazione. E non solo. I neuroni hanno dimostrato di saper migrare in zone diverse dei giovani cervelli in formazione. E le testimonianze fossili danno una conferma, per quanto indiretta: proprio 3.4 milioni di anni l’Australopithecus afarensis scopre che le pietre scheggiate possono trasformarsi in protesi di se stesso e quindi in preziosi utensili. La corsa dei neuroni è iniziata.
La Stampa TuttoScienze 14.6.12
Tutti gli echi di Stonehenge
“Era un teatro prima dell’invenzione del teatro”
di Francesco Rigatelli
A oltre 4 mila anni dalla sua costruzione, Stonehenge non finisce di incuriosire. E’ proprio questa la forza d’attrazione del circolo di pietre allineate alle fasi solari nell’Inghilterra del Sud. A cosa servivano? Chi le ha messe lì? E come? Le risposte al momento sono: per osservare le stelle; i druidi o probabilmente qualcuno precedente; con rulli da una collina a 30 km di distanza.
Eppure il sito continua ad essere meta di pellegrinaggio e a far parte dell’immaginario collettivo del mistero tanto da apparire in libri, fumetti e film. Prima della più o meno affidabile teoria sui druidi, Stonehenge era la leggendaria costruzione di Mago Merlino, niente meno che l’artefice della tavola rotonda. E al centro del cerchio di pietre veniva dato per sepolto Uther Pendragon, fantasioso sovrano della Britannia postromana e padre dell’altrettanto immaginario re Artù. Nonché Costantino III, padre di Pendragon. Il sito veniva idealizzato, insomma, come un luogo genitore del regno di Camelot narrato nel Ciclo bretone.
Ad aggiungere un dettaglio al già spettacolare dibattito arriva ora uno studio dell’Università inglese di Salford, secondo cui Stonehenge non sarebbe solo un osservatorio astronomico, un luogo di culto, un eventuale centro di misteri, ma anche un teatro prima del teatro. Le vibrazioni e il riverbero del suono derivante dai megaliti parrebbero eccezionali. Non una semplice eco, ma un effetto più raffinato. Qualcosa di simile all’acustica di una cattedrale. Con un ritardo nella propagazione del suono inferiore a un secondo. Un effetto particolarmente adatto, insomma, a un luogo religioso.
Secondo i ricercatori, sarebbe inoltre possibile per una persona che si nasconda dietro una pietra e parli ad alta voce essere sentito in molti altri punti del cerchio. Una scoperta abbastanza insolita, già che a Stonehenge non ci sono cime alte o caverne larghe, solitamente associate alle dinamiche acustiche.
Anche per questo i ricercatori hanno lavorato sul sito originale e pure nella replica che c’è negli Usa, emettendo e registrando 64 suoni da diverse posizioni con tecnologia 3D, simulando quella che poteva essere l’attività dell’epoca. Perché questa è la chiave: ricostruire quanto potesse essere sconvolgente allora un sistema di amplificazione del suono del genere. Basti pensare che il teatro greco risale a poche centinaia di anni prima di Cristo.
La scoperta, che tra l’altro potrebbe spiegare la strana posizione di alcune pietre poco allineate rispetto al cerchio, è ovviamente già molto discussa dagli studiosi e dai curiosi. Per intanto, se non aggiunge niente su chi ha costruito effettivamente Stonehenge, offre almeno qualche elemento in più per capire come veniva vissuto il sito.
Corriere 14.6.12
Internet si allarga
Quanto è diventata grande la Rete? 340 trilioni di trilioni di trilioni
di Massimo Sideri
Un numero da Zio Paperone per racchiudere la Rete del futuro: con il passaggio dall'attuale protocollo Internet versione 4 a quello versione 6, gli indirizzi unici disponibili da 4,3 miliardi di oggi diventeranno 340 trilioni di trilioni di trilioni, sintetizzabile con il numero 34 seguito da 37 zeri. Ogni uomo avrà 50 indirizzi seguiti da 27 zeri. Una domanda sorge spontanea: che ce ne faremo?
Sarà possibile collegare 7 oggetti a persona attraverso il wi-fi
Trecento quaranta trilioni di trilioni di trilioni: un numero che fino ad ora avevamo letto solo nelle storie di zio Paperone quantifica la nuova «dimensione» di Internet. Semplificando molto possiamo dire che da una settimana, con il passaggio dal protocollo Internet versione 4, Ipv4, alla versione 6, Ipv6, il numero degli indirizzi unici della Rete sono diventati potenzialmente espandibili dai «vecchi» 4,3 miliardi fino a questa grandezza irraggiungibile: 34 seguito da 37 zeri. Qualcuno li avrà anche giocati al Lotto.
Eppure, al di là della tentazione della cabala, la vera domanda è: cosa ce ne faremo di questi 340 trilioni di trilioni di trilioni di nuove «porte» al web se sulla Terra siamo in tutto 7 miliardi (e, potremmo aggiungere, molti offline)? È stato calcolato che con il nuovo protocollo ci saranno 100 indirizzi per ogni atomo del mondo, circa 50 seguito da 27 zeri Ip per ogni essere umano. Un po' troppi. Ma per comprendere il senso del numero bisogna rispolverare un po' di storia di Internet. La versione 4 del sistema dei protocolli sui quali ancora viviamo online è del 1981. Allora nessuno aveva immaginato a cosa saremmo andati incontro e dunque era sembrato ragionevole implementare un sistema a 32 bit, suddiviso in 4 gruppi da 8 bit separati ciascuno da un punto (più complicato descriverlo che leggerlo: 10101010.10101010.10101010.10101010). Le combinazioni possibili con questo sistema erano appunto 4,3 miliardi, una capacità di spazio che avevamo sostanzialmente saturato. Nell'implementare la versione 6, allo studio dal '98, si è passati a un sistema con 128 bit (scritto sarebbe troppo lungo). I 340 trilioni di trilioni di trilioni sono dunque una soglia potenziale alla quale si è puntato anche per non avere problemi per almeno un secolo anche se ora, proprio come 30 anni fa, non possiamo sapere cosa succederà tra 30 anni.
«Al di là del numero — spiega Alberto Degradi, direttore tecnico di Cisco Italia — quello che è importante è che non avremo più problemi di indirizzamento. La versione 6 è un forte elemento di abilitazione per l'Internet delle cose». Un Ip è sostanzialmente il numero con il quale un qualunque apparecchio viene identificato in Rete. Un personal computer, un tablet, uno smartphone. Ma l'industria sta già collegando o pensando di collegare tutto alla Rete, dal frullatore, alla lavatrice, all'automobile. «Stimiamo — continua Degradi — 50 miliardi di oggetti collegati già nel 2020. Internet raddoppia in termini di oggetti ogni 5,32 anni. Questo è un dato preciso, perché ogni oggetto ha un Mac address, un sotto-indirizzo che ci permette di individuarne il numero esatto. Quindi tra 8 anni avremo sette oggetti collegati per ogni persona sulla Terra». E ognuno avrà un nuovo Ip.
Il che pone anche un problema di «tenuta» della Rete. Con la crescita dei nuovi Ip è come se stessimo aprendo 50 miliardi di porte nuove sulla Rete senza però cambiarne ponti e autostrade. Abilitati gli ingressi ora bisognerà investire sull'infrastruttura. «È un tema concreto anche se ci stiamo già adeguando con reti che lavorano su terabit al secondo di velocità» conferma Degradi.
L'Ip è anche il numero occultato dietro i domini web che noi siamo abituati a scrivere con le lettere come corriere.it. Dietro a ognuno di essi c'è il codice numerico collegato al server dove il sito si appoggia. E proprio ieri, l'Icann, l'ente non profit per lo sviluppo di Internet, ha reso noto a Londra che sono giunte 1.900 richieste per i nuovi suffissi personalizzabili che si affiancheranno ai 22 attuali (come .com o .it). Tra i domini più richiesti ci sono .book, .shop, .news e quelli geografici (il .roma è stato domandato da una società inglese). In fila anche le aziende: Google ha fatto richiesta per 100 domini tra cui .google, .youtube e anche .lol. La Fiat ne ha domandati nove. Il costo? 185 mila dollari e 25 mila dollari l'anno. Abbastanza per far demordere qualche egocentrico.
Il nuovo protocollo
Con il passaggio dal protocollo Internet versione 4, Ipv4, alla versione 6, Ipv6, il numero degli indirizzi unici della Rete sono diventati potenzialmente espandibili fino a 340 trilioni di trilioni di trilioni: 340 seguito da 36 zeri. Con la «vecchia» versione erano 4,3 miliardi
I nuovi domini
L'Icann, l'ente non profit per la sicurezza, lo sviluppo e la stabilità di Internet, ha fatto sapere che sono arrivate oltre 1900 richieste di nuovi domini: 911 da Usa e Canada, 675 dall'Europa, 303 dall'Asia, 24 dall'America Latina e 17 dai Paesi africani. Google ne ha richiesti più di 100, Microsoft 11, Apple 1. Tra le aziende italiane Fiat ha fatto domanda per 9 domini