l’Unità 18.5.12
Il compito della sinistra
di Alfredo Reichlin
LA CRISI SI AGGRAVA MA NOI NE USCIREMO. COMINCIO COSÌ. CON UN SENTIMENTO, NONOSTANTE TUTTO, DI FIDUCIA. Tutto è molto difficile. Ma se vado alla sostanza delle cose vedo che una uscita da destra democratica, di stampo europeo, non esiste. Una destra può anche vincere ma sarebbe solo un esito catastrofico della crisi italiana. Si aprirebbe una lotta tra vecchi e nuovi avventurieri sostenuti dall’agitazione sempre più demagogica e populista delle varie TV contro i partiti. Assisteremo non solo all’impoverimento del Paese (in una certa misura e per qualche tempo inevitabile) ma alla sua disarticolazione: sociale e territoriale. Il tramonto dell’Italia come grande nazione.
Sulle nostre spalle pesa, quindi, una responsabilità enorme. Ma è proprio il bisogno di unità della nazione, ed è la domanda di Europa che colloca il Pd al centro della situazione.
Sono le cose che chiedono un nuovo grande patto sociale e una riscossa civile come la condizione per voltare pagina. Ma noi siamo all’altezza di questo compito? Riusciamo a farci percepire come “la speranza”, cioè come la cosa di cui questo paese ha un disperato bisogno: di non cedere ai rancori e alla paura per credere invece che cambiare è possibile? Questo io mi chiedo e mi convinco sempre di più che occorre dare battaglia, anche dentro il Pd, per uscire dalle vecchie logiche di potere e dare un senso alla politica in quanto possibilità degli uomini di uscire dalla passività e di influire sulle sorti della propria vita. E quindi, anche per contare qualcosa nel mondo.
Non mi nascondo che i mesi che stanno davanti a noi saranno difficilissimi, forse drammatici. Ma mi rifiuto di inseguire solo gli “spread”. Voglio cominciare a chiamare le cose con il loro nome. Chi sono questi misteriosi mercati? Io non credo che sbagliavamo quando cominciammo noi per primi a parlare molto tempo fa su queste colonne della grande crisi economica dell’Occidente come della rottura dell’ “ordine” mondiale. Un “ordine” non solo economico ma politico e anche, se non soprattutto, intellettuale e morale. Non voglio ripetere cose già dette e ridette sulla finanza. È sempre più chiaro che fu fatale la decisione della destra anglo-americana di porre fine al cosiddetto compromesso socialdemocratico e di affidare alle logiche dei mercati finanziari il governo delle società umane. Si è visto il risultato. I mercati finanziari sono “ciechi”. La loro natura è speculativa. Vedono solo ciò che si può guadagnare nel breve periodo. Prendi i soldi e scappa. Si spostano nel mondo con un “clic” sul computer, in pochi secondi. La sorte di una grande e antica storia come quella del popolo greco, oppure il fatto che per mettere in piedi una fabbrica ci vogliono anni, tutto questo non è affare dei mercati finanziari. Naturalmente, sto semplificando. So benissimo che senza la finanza, gli imprenditori e gli Stati non possono nemmeno fare progetti per il lungo periodo. So bene che sono serviti grandi capitali per finanziare l’esplosivo sviluppo del mondo arretrato. Conosco i costi giganteschi della rivoluzione scientifica in atto: il digitale, l’informazione. Non sono un “indignado” che demonizza il ruolo della finanza.
So tutto questo. Ma ciò che io penso è altro. Penso che occorre allargare il campo della riflessione. Perché ciò che ormai sta venendo in discussione non è solo un problema economico. Dietro i meccanismi degli “spread” c’è ben altro. E io credo che sia arrivato il momento di chiamare le cose con il loro nome. Incombe su tutto questo io credo la formazione di un potere quale non si era mai visto così grande dopo la rivoluzione francese e la nascita del Terzo Stato, cioè della borghesia moderna. Questo è il dato. Cito solo un piccolo fatto italiano. Qualcuno denunciava gli stipendi troppo alti della tecnocrazia italiana e citava il manager Tronchetti-Provera il quale guadagnerebbe una cifra annua corrispondente a 60mila euro al giorno. Il Tronchetti freddamente precisò che si trattava di circa la metà. Ma il punto non è questo anche perché c’è gente che guadagna molto di più. È la domanda sul tipo di società in cui viviamo. La grande maggioranza degli italiani guadagna poco più di mille euro al mese. Quindi 30-35 euro al giorno. Quindi 30 non contro 300 ma contro 30.000. Mi chiedo: dopo i grandi sultani dell’Oriente e i grandi principi europei prima della rivoluzione francese e dalla nascita dello Stato moderno si erano mai viste distanze così grandi?
Non sto sollevando un problema di giustizia. Sto cercando di capire cosa sia il sistema attuale. È il capitalismo che abbiamo conosciuto fino a ieri? Il capitalismo, dopotutto, è stato una civiltà, si è retto anche su un compromesso sociale. Certo, è stato lo sfruttamento del lavoro ma, insieme con esso, la formazione della società del benessere. È stato la più grande macchina per la ricchezza che ha consentito in due secoli di fare molto di più che nei ventimila anni precedenti. Questo è stato, con tutte le sue ingiustizie ma anche le sue conquiste di libertà.
Adesso siamo di fronte a un’altra cosa. Siamo alla crisi di questa civiltà: la civiltà del lavoro umano e della valorizzazione delle capacità creative dell’imprenditore. Siamo alla riduzione della ricchezza al denaro. Ma un denaro fasullo fatto col denaro. Siamo al fatto che il mondo è stato inondato da una moneta fittizia la cui massa è ormai diventata tale da superare di nove volte la produzione della ricchezza mondiale. Chi paga? Devo ripeterlo perché è proprio così: l’economia di carta si sta mangiando l’economia reale.
La situazione è drammatica ma anche molto semplice. È chiaro che questo sistema non è in grado di dare un futuro al mondo. Mette a rischio valori e beni essenziali. La drammatica vicenda europea è così che va letta. È su questo terreno che la democrazia moderna si sta giocando tutto. Al punto che il presidente della Consob (non un pericoloso sovversivo ma il garante della Borsa di Milano) ha tuonato contro la “dittatura” dei cosiddetti mercati finanziari e ha denunciato il fatto che questo mercati, attribuendo ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, stanno nei fatti vanificando il principio del suffragio universale. Caspita. Allora ho ragione io. È di potere politico che dobbiamo parlare non solo di economia. Ecco la necessità e il ruolo della politica. Bisogna alzare il tiro. Bisognerebbe immaginare l’Europa anche come un grande “fatto politico”, cioè come un fattore essenziale della lotta per una nuova civiltà del lavoro. Io è qui che vorrei vivessero i miei nipoti: nel luogo più bello e più civile del mondo. Dove l’uomo, in quanto persona, conta.
Certo, l’uscita dalla crisi economica sarà lenta e richiederà saggezza e realismo. Il nemico non sono le banche, senza le quali si ferma tutto. Ciò che è necessario è la creazione di un nuovo potere democratico capace di contrastare lo strapotere dell’oligarchia dominante. Questo è il compito della sinistra.
l’Unità 18.5.12
La salvezza dell’Italia e dell’Ue è nelle mani dei progressisti
di Stefano Fassina
IL COLLASSO DEL GOVERNO CONSERVATORE IN OLANDA, PASDARAN DELLA MERKEL. LA VITTORIA DEL “VETERO SOCIALISTA” HOLLANDE A PARIGI. Il successo dell’old laburista Ed Miliband alle elezioni amministrative nel Regno Unito. Il drammatico messaggio da Atene. La netta affermazione della “keynesiana” Kraft alla guida della Spd nel Nord-Reno Westfalia. Che vuol dire? Vuol dire che la linea di politica economica imposta nella Ue dai conservatori, tedeschi in primis, e condivisa da larga parte delle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte, è sbagliata. Vuol dire, come previsto, che l’area euro è sempre più avvitata in una spirale di recessione-aumento della disoccupazione-instabilità di finanza pubblica. Vuol dire che non possiamo uscire dal tunnel attraverso il pareggio di bilancio, il controllo dell’inflazione e le mitiche riforme strutturali. Vuol dire infine che è necessario il sostegno alla domanda aggregata per innalzare il livello dell’attività produttiva e orientarlo verso lo sviluppo sostenibile e i beni comuni e di cittadinanza: Keynes e Schumpeter insieme, anzi Keynes al servizio di Schumpeter.
Dopo l’affidamento esclusivo alle riforme strutturali e il tentato blitz sulle regole per i licenziamenti al fine di inseguire l’impossibile via della “svalutazione interna”, imposta dalla Merkel e giustificata sul piano economico dalla Commissione Barroso, dalla Bce e l’altro ieri da una deprimente nota conclusiva della missione a Roma del Fmi, anche Monti si è convinto che il problema non è dal lato dell’offerta, ma dal lato della domanda. Propone la golden rule per allentare la morsa dell’austerità distruttiva, in sintonia con l’emendamento presentato al Patto di stabilità dai Socialisti e Democratici al Parlamento europeo su iniziativa di Roberto Gualtieri. È un passo avanti significativo, dovuto ai dati drammatici dell’economia reale e ai rapporti di forza maturati sul campo politico. Ora, si deve andare avanti, in coordinamento stretto con il presidente francese e i leader realisti europei.
Nell’area euro va perseguita l’agenda della Dichiarazione di Parigi discussa da Gabriel, Hollande e Bersani il 17 marzo scorso e confermata martedì dai leader della Spd in occasione della visita di Hollande a Berlino: mutualizzazione dei debiti sovrani («redemption fund»), piano europeo per il lavoro, investimenti finanziati da project bonds e tassa sulle transazioni finanziarie, regolazione e vigilanza europea dei mercati finanziari, agenzia “pubblica” europea per il rating, coordinamento delle politiche retributive. L’emergenza, però, è la salvezza della Grecia. Una comunità di uomini e donne sull’orlo di una involuzione economica e democratica dopo lo sciagurato governo conservatore dal 2005 al 2009 e la medicina sbagliata, per principi attivi e per dosi, somministrata, su prescrizione Merkel-Sarkozy, da Commissione europea, Bce e Fmi. Le parole della Cancelliera tedesca e del neo-presidente francese martedì a Berlino e la contestuale posizione di Mario Draghi aprono uno spiraglio di speranza.
In Italia è stato irresponsabile da parte del governo Berlusconi-Tremonti-Lega fissare, unico caso nella Ue, il pareggio del bilancio prima al 2014 e poi al 2013 nel contesto di una violenta recessione. Un’irresponsabilità accompagnata da subalternità e conformismo culturale di tanti autorevoli commentatori, anche di background progressista, al mantra del rigore. I dati sul Pil 2012 confermano che gli obiettivi di finanza pubblica per l’anno in corso e per il prossimo sono irraggiungibili. Insistere ad avvicinarli implica stringere ancora di più il cappio a imprese e lavoratori. Invece, come la Spagna, dobbiamo rinegoziare i nostri obiettivi con la Commissione europea. Per rinviare il previsto aumento dell’Iva. Per applicare la golden rule per gli investimenti immediatamente cantierabili dei Comuni. Per utilizzare le risorse recuperate dalla spending review su scuola pubblica e fondo per le politiche sociali. Da mesi, gli spread salgono per l’assenza di prospettive di ripresa non per l’andamento minaccioso della spesa pubblica. L’alternativa, allora, riguarda la strada per raggiungere obiettivi possibili: ulteriore distruzione di base produttiva o recessione meno severa. Dobbiamo arrivare al 50% di disoccupazione giovanile per svoltare verso il buon senso? I danni causati in Grecia dall’austerità cieca non insegnano nulla?
I risultati elettorali in Italia hanno resettato il discorso sulle alleanze. Quanti fino a ieri proponevano il governo Monti e il centrismo come orizzonte del Pd, oggi spiegano con disinvolta incoerenza il valore di un’alleanza incentrata sul perno progressista. Tuttavia il discorso, sebbene riorientato, continua ad essere politicista. Rimane assente dalla proposta politica il programma fondamentale, la visione, per l’Italia e per l’area euro. L’agenda dell’alleanza tra progressisti e moderati prevede l’attuazione delle lettere arrivate nell’estate scorsa da Francoforte e Bruxelles, come continuano a sostenere i partiti del Terzo Polo? Oppure, l’agenda è imperniata sulla Dichiarazione di Parigi?
Il Pd ha grandi responsabilità per il futuro dell’Italia. Dobbiamo costruire un’alleanza larga, innanzitutto fuori dal Palazzo, con le forze della società, del lavoro e della cultura. Ma, possiamo essere credibili in quanto indichiamo il nostro baricentro, non il recinto, culturale e sociale: l’europeismo progressista, il neo-umanesimo laburista, alternativo al liberismo; il lavoro subordinato, in tutte le forme. La riproposizione del Pd come forza subalterna e contenitore indifferenziato e generalista di qualunque interesse sociale porta al trionfo le soluzioni regressive. Oramai una corrispondenza biunivoca è evidente sul terreno politico: nel secolo asiatico, la salvezza dell’euro, asset necessario per la ricostruzione della civiltà del lavoro in Europa, è sulle spalle dei progressisti e, insieme, la salvezza dei progressisti è legata all’euro e al rilancio politico dell’Unione europea.
Corriere 18.5.12
Liberalismo e liberismo, una distinzione italiana
risponde Sergio Romano
A quanto mi consta, solo nella lingua italiana vi è distinzione terminologica in campo economico tra liberalismo e liberismo, risalente soprattutto a Croce. Alcuni difendono questa nostrana distinzione.
Francesco Meli
Caro Meli,
Effettivamente la distinzione appartiene quasi esclusivamente alla lingua e alla cultura italiane. Quando il Corriere, negli scorsi mesi, ha pubblicato il lungo dibattito su questo tema fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ho ricordato che la parola «liberismo» non ha corrispondenti nelle lingue dei principali Paesi occidentali. Il dizionario italo-inglese offre free trade, free enterprise; il dizionario italo-francese suggerisce libéralisme, vale a dire la stessa parola che traduce l'italiano liberalismo; il dizionario italo-tedesco propone freihandel (libero commercio), freie wirtschaft (libera economia). Altri, fra cui gli spagnoli, preferiscono parlare di liberalismo economico.
Per Benedetto Croce, tuttavia, la distinzione era necessaria perché consentiva di evitare confusione fra un concetto che appartiene alla sfera morale (liberalismo) e un concetto che appartiene alla sfera economica (liberismo). Mentre il primo definiva il trionfo della libertà, il secondo era per lui uno «schema astratto» (noi diremmo oggi una ideologia), vale a dire una ricetta con cui si vorrebbero risolvere, una volta per tutte, i problemi pratici che un governo liberale può invece essere costretto ad affrontare con formule e mezzi diversi. A queste affermazioni di Croce, Einaudi replicò pragmaticamente che l'economista non deve essere un ideologo e che possono esservi circostanze in cui certe soluzioni non liberiste (dazi protettivi, nazionalizzazione di servizi pubblici) possono essere convenienti.
Aggiunse, per meglio dimostrare la sua disponibilità al confronto, che possono esservi addirittura circostanze in cui il liberismo viene praticato da un governo assoluto e suscita critiche liberali, come accadde in Francia nell'ultima fase del Secondo Impero, prima della guerra franco-prussiana del 1870 (se fosse ancora con noi, Einaudi non mancherebbe di ricordare che anche la Cina comunista è economicamente liberale e politicamente illiberale). Ma Einaudi, a differenza di Croce, era profondamente convinto che tra libertà economica e libertà politica esistesse un nesso importante. Questo non significa, beninteso, che una economia liberale abbia l'effetto di produrre necessariamente un sistema politico liberale. Ma tra l'economia di mercato e un regime autoritario esistono contraddizioni che possono, in ultima analisi, mettere in discussione il funzionamento del sistema. Gli scandali cinesi degli ultimi tempi potrebbero esserne la conferma.
Non è vero, invece, che la parola e il concetto appartengano soltanto al pensiero di Benedetto Croce. Dal grande Dizionario di Salvatore Battaglia risulta che la parola liberismo fu utilizzata anche negli scritti di Alfredo Panzini, Riccardo Bacchelli, Antonio Gramsci, Piero Gobetti. Credo che la spiegazione di questa peculiarità italiana debba essere ricercata nella storia politica del Paese dopo l'Unità. Cavour fu certamente liberale e adottò negli anni del suo governo una politica economica ispirata dai principi del free trade e del laissez faire. Ma la Destra storica, pur continuando a definirsi liberale, giunse rapidamente alla conclusione che l'unificazione di un Paese, soprattutto se formato da sistemi e stadi di sviluppo molto diversi, esigesse un forte intervento dello Stato, principalmente nella costruzione e nella gestione delle infrastrutture.
Quando fu ministro dei Lavori pubblici, dal 1873 al 1876, Silvio Spaventa propose una legge per la nazionalizzazione della rete ferroviaria. La legge fu osteggiata dai liberisti toscani, interessati al finanziamento e al controllo di nuove linee, e la loro opposizione provocò la caduta della Destra storica. Spaventa era zio e tutore di Croce. Forse il filosofo napoletano, nella sua disputa con Einaudi, difendeva implicitamente la reputazione liberale del suo tutore.
l’Unità 18.5.12
Harlem Desir:
«Atene non deve essere lasciata sola. La sfida è la crescita»
intervista di Umberto De Giovannangeli
Harlem Désir. Eurodeputato sin dal 1999, Harlem Désir è
il coordinatore del Ps
È stato il primo presidente di Sos Racisme dal 1984 al 1992
«Aubry? Ha deciso con Hollande e Ayrault che ora la priorità è la campagna elettorale» ...
«I progressisti europei devono impegnarsi per far ritrovare la fiducia ai greci»
«L’Europa deve ricominciare ad essere sinonimo di speranza, di solidarietà, di nuove prospettive in un mondo messo in crisi dal dominio dei mercati finanziari. In questo senso, registro con soddisfazione che l’elezione di François Hollande ha permesso di spostare il dibattito in Europa sul tema della crescita. È questo il terreno su cui deve sempre più caratterizzarsi l’iniziativa dei progressisti europei». A sostenerlo è Harlem Désir, europarlamentare, coordinatore nazionale del Ps francese, a Roma per un incontro con Pier Luigi Bersani, il presidente del Gruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini, e il capogruppo Spd al Bundestag, Frank-Walter Steinmeier
Partiamo da Parigi e dal nuovo governo guidato da Jean-Marc Ayrault. C’è chi ha parlato di uno scontro tra Hollande e la numero uno del Ps, Martine Aubry... «Martine Aubry ha già risposto a questo tema, spiegando che Hollande aveva una scelta tra due profili, e la sua scelta è caduta su Ayrault, con cui ha una vicinanza di lunga durata. Sulla base di questa riflessione, Martine, d’intesa con Hollande e Ayrault, ha preferito restare alla guida del Ps per condurre, a fianco del premier, la campagna per le legislative di giugno. Si tratta di un appuntamento cruciale per noi, perché l’obiettivo è avere una maggioranza che permetta a Hollande di realizzare il suo programma di riforme».
Un programma a larghissimo raggio...
«È la sfida della sua presidenza. La sfida delle riforme. Riforme che investono il piano economico e sociale, che si proiettano sul terreno delle misure atte a uscire dalla crisi che colpisce l’Europa; ma la sfida riformista investe anche il campo, altrettanto importante, dei diritti civili: penso, ad esempio, al diritto al matrimonio per le coppie dello stesso sesso, o al diritto al voto, a livello locale, per i residenti stranieri, cose che non possono essere realizzate senza avere una maggioranza all’Assemblea nazionale».
Il neoministro dell’Economia, Pierre Moscovici, ha detto che la Francia non ratificherà il Fiscal Compact se non sarà accompagnato da un Patto per la crescita. «Moscovici ha ribadito ciò lo stesso Hollande, nel giorno della sua investitura e poi nell’incontro con Merkel a Berlino, aveva sottolineato: in Europa si è aperta una discussione per avere delle politiche di sostegno alla crescita. Noi siamo impegnati a rispettare le regole europee in materia di bilancio e di riduzione del debito. Direi di più: questa è una nostra priorità, indipendentemente dalle “imposizioni” europee, perché non vogliamo dipendere dagli umori dei mercati. In campagna elettorale, Hollande ha ribadito con forza che la disciplina di bilancio è molto importante, mentre il mandato di Sarkozy è stato segnato da regali fiscali assolutamente irresponsabili, concessi a clientele e categorie sociali molto ricche, e tutto questo sulle spalle della finanza pubblica. Per finanziare le nostre politiche prioritarie, nel campo della formazione e della coesione sociale, abbiamo bisogno di avere delle finanze pubbliche sane. Per questo siamo impegnati a raggiungere la riduzione del 3% del debito pubblico entro il 2013, e l’equilibrio di bilancio entro la fine del mandato presidenziale, nel 2017. In questo quadro, la Bce può e deve giocare un ruolo attivo contro la speculazione finanziaria. Ma l’Europa non uscirà mai dalla crisi del debito né da quella dell’occupazione se non saprà o vorrà dotarsi degli strumenti per una strategia di sostegno alla crescita. Ed è proprio per individuare questi strumenti che sono qui a Roma per incontrare Bersani, Franceschini, Steinmeier, perché i nostri partiti lavorino per individuare proposte concrete che rafforzino il dinamismo economico».
Può fare degli esempi in proposito? «Vogliamo rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti, un migliore uso dei fondi strutturali europei. Pensiamo ad una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, sia per regolare i mercati finanziari e sia per generare nuove risorse (50 miliardi di euro l’anno) per sostenere misure per la crescita in Europa. Assieme al Pd e alla Spd abbiamo messo in campo una proposta relativa alla emissione di project bond e alla mutualizzazione dei prestiti, per finanziare iniziative per la crescita in settori strategici, come è quello, ad esempio della green economy, un campo nel quale l’Europa dovrebbe essere pioniera».
L’Europa non è solo la «speranza francese» ma anche l’incubo greco.
«I greci torneranno tra qualche settimana alle urne. Mi auguro che la Grecia confermi la sua volontà di restare nell’area euro e di continuare a pensare al proprio futuro nel quadro del progetto di costruzione europea. Ma la Grecia non può, non deve essere lasciata sola. Francia, Italia, Germania, con la spinta delle forze progressiste, devono essere capaci di aiutare il popolo greco e la sua classe dirigente a credere nuovamente che il ritorno alla crescita sia possibile. D’altro canto, il caso greco dimostra che le sole misure di austerità non sono sufficienti per uscire dalla crisi e finiscono per fare un favore all’estremismo dei partiti anti-europei. Per questo oggi “non possiamo non sentirci greci” ed essere fautori di una solidarietà concreta, lungimirante. Ad Atene, peraltro, è nata la democrazia e noi abbiamo un debito con loro. Non possiamo immaginare il futuro dell’Europa rinunciando ad un Paese che è stato un faro di civiltà».
l’Unità 18.5.12
La grande famiglia europea non lasci sola la Grecia
di Margherita Hack
TEMPO DI ELEZIONI E DI CAMBIAMENTI IN EUROPA. IN FRANCIA CON LA VITTORIA DI HOLLANDE RITORNA IL SOCIALISMO DOPO ANNI. Che spiri da lì un vento di sinistra? In Italia ci sono state le elezioni amministrative che hanno visto il crollo del Pdl e della Lega, soffocati dagli scandali, l’inesistenza del Centro, la tenuta del Pd. Chi vince è Grillo: il suo partito ricorda quello dell’Uomo Qualunque che, lo dico per i più giovani che non lo hanno visto, aveva per simbolo un uomo torchiato dalle tasse. Eppure non siamo il Paese che paga più tasse, siamo però sicuramente tra quelli che hanno più evasori fiscali. In Germania c’è stata la sconfitta della Merkel: si attenuerà la linea del rigore per favorire la crescita? Intanto la situazione economica dell’Europa rimane difficile. Faccio un paragone con l’economia familiare: quando una famiglia si ritrova al collasso, dopo anni di benessere, vuol dire che è vissuta al di sopra delle sue possibilità. Cosa fare quindi? Si deve risparmiare, cercando di riassestare le finanze. Se però la fonte di reddito della famiglia è una piccola impresa autonoma bisogna mantenerla in vita e farla crescere. Come fare? Spesso si deve ricorrere alle banche, o ai prestiti privati o ad amici e parenti ricchi. Con il risultato di indebitarsi ancora di più.
La Grecia è al collasso. Se l’Europa deve essere unita come una famiglia è necessario che i membri più ricchi aiutino quelli più poveri, ma c’è bisogno anche di un controllo. L’Europa non può essere solo un’entità economica, abbiamo bisogno di un vero governo europeo. Eppure anche in Europa vengono emanate norme assurde, come quelle delle quote latte o l’obbligo di distruzione delle eccedenze, quando c’è tanta gente che muore di fame.
Il governo Monti vuole togliere l’assegno di accompagnamento ai redditi più alti: è accettabile, purché non si includa nei redditi beni primari come la casa. Però non si capisce perché non imporre allora le tasse sui grandi patrimoni, a meno che non siano investiti per produrre una crescita dell’occupazione.
Cosa succede nelle nostre questure? In particolare cosa succede in una città grande e abituata da sempre alla convivenza tra popoli diversi come Trieste? Mi riferisco al caso di Alina Bonar Diachuk, ucraina di 32 anni che è stata detenuta illegalmente in una cella del commissariato di Villa Opicina, frazione di Trieste, e si è uccisa impiccandosi. Alina era immigrata illegalmente, era stata detenuta al Coroneo, il carcere di Trieste, dove aveva già tentato il suicidio, poi era stata scarcerata per essere trasferita nel centro di identificazione di Bologna. Invece, Alina è stata rinchiusa in una cella e, benché la cella fosse dotata di telecamera, la ragazza non è stata neppure sorvegliata, tanto che ci si è accorti di quello che era accaduto mezz’ora dopo la sua morte. La Procura ha fatto perquisire la casa del dirigente dell’ufficio immigrazione dove si è svolto il fatto e ha trovato scritti inneggianti al razzismo e all’antisemitismo. Come calpestare i diritti di un cittadino.
Corriere 18.5.12
Perché una via d’uscita «argentina» non può funzionare nella crisi greca
di Rocco Cotroneo
Esiste davvero un'uscita «argentina» per la crisi greca? E, se così fosse, Atene ne seguirebbe soltanto le conseguenze nefaste o anche la spettacolare rinascita che ne scaturì? Ricordiamo come andò. Alla fine del 2001 l'Argentina si trovava con un debito estero impagabile, un'economia a pezzi e il vincolo del cambio fisso, la parità peso-dollaro. Nel giro di poche settimane lasciò fluttuare la moneta e dichiarò default sul debito (i famosi tango bond, nelle tasche anche di molti italiani).
Per 2-3 anni gli argentini soffrirono un impoverimento drammatico, l'economia si contrasse del 20 per cento, la disoccupazione andò alle stelle. Poi iniziò la ripresa, e fu esplosiva, ogni oltre aspettativa. Da un decennio l'Argentina è il Paese che più cresce in America Latina. Buenos Aires non ha mai fatto pace con i mercati: ha chiuso i rapporti con il Fmi e le sue emissioni di bond sono minime. Ce la fa, per semplificare, con le proprie gambe. Motivo principale, la forte domanda estera per le sue commodities, in primo luogo la soia. Nelle ultime settimane Paul Krugman e Mark Weisbrot, due economisti liberal, hanno sostenuto che l'Argentina potrebbe essere un modello da seguire per la Grecia. Meglio la rottura unilaterale con l'Europa, dicono, invece di questa interminabile manfrina sul salvataggio. Fatte le dovute differenze, Krugman sostiene che il turismo e l'industria navale potrebbero essere i due motori per la ripresa. Weisbrot aggiunge che al momento della crisi le esportazioni argentine erano allo stesso livello di quelle greche attuali, quindi una ripresa trainata da una dracma debole è possibile.
La prospettiva è vista ovviamente come una follia dalle banche e dai partner europei: l'effetto a catena di un default greco non controllato sarebbe immediato. L'economista Yanis Varoufakis spiega che la soluzione farebbe male in primo luogo alla Grecia. Le potenzialità del suo export non sono paragonabili a quelle argentine. E anche la prospettiva di un futuro autarchico (in Argentina quasi non si importa più nulla) non è decisamente allegra.
Sette del Corsera 18.5.12
A noi greci Frau Merkel deve un sacco di soldi
«Danni di guerra mai pagati, centinaia di miliardi di euro. E poi i tesori d’arte rubati»
Parla Manolis Glezos, l’ex partigiano e militante ellenico
di Vittorio Zincone
tre pagine nelle edicole
l’Unità 18.5.12
Grecia, i deputati nazisti entrano in Parlamento al passo dell’oca
di Teodoro Andreadis
Il conto alla rovescia verso il nuovo appuntamento elettorale è, dunque, iniziato. Si vota tra ventinove giorni. «Potremo pagare le pensioni solo fino a giugno», ha dichiarato il nuovo ministro del lavoro del «governo elettorale», Jorgos Zaniàs. In questo clima, ieri, si è riunito per la prima volta il Parlamento, formatosi in base ai risultati del voto del 6 maggio. Dopo l’elezione formale della nuova presidenza, verrà sciolto, per rispettare i tempi imposti dalla nuova tornata elettorale. Alla fine, i deputati del partito comunista ortodosso, Kke, sono riusciti a farsi assegnare dei seggi «a distanza di sicurezza» da quelli dei neonazisti di Alba Dorata. «Capite anche voi cosa succederebbe se fossimo a stretto
contatto, ci provocherebbero subito», aveva dichiarato la segretario del Kke, Aleka Paparriga. E i 21 deputati di questa formazione neonazista, guidata da Nikos Michaloliàkos, dopo le allucinanti dichiarazioni dei giorni scorsi, sul «falso storico delle camere a gas», sono entrati in parlamento al passo dell’ oca. Tutti, o quasi, li hanno ignorati.
La campagna elettorale è già partita. Il centrodestra di Nuova Democrazia chiama a raccolta esponenti che nel passato avevano lasciato il partito, come l’ex ministro degli esteri Dora Bakojanni e l’economista Stefanos Manos, cercando di ricompattare lo schieramento conservatore. «O noi o la sinistra, o l’euro o la dracma», è lo slogan del suo leader, Antònis Samaràs. E la sinistra in questione, gli eurocomunisti di Alexis Tsipras, rispondono: “Con l’austerità ci
stanno trascinando all’inferno. Se noi usciamo dall’euro, la prossima sarà l’Italia». I socialisti del Pasok hanno annunciato che «si batteranno contro tutte le destre ed anche contro la demagogia della sinistra». Evanghelos Venizelos, presidente del Pasok ha detto che vuole al governo «un centrosinistra responsabile». È chiaro che i toni, sino alla vigilia delle nuove elezioni, saranno molto accesi, quasi senza esclusione di colpi. Scontro di sondaggi, intanto: quello dell’emittente Alpha dà il 23,1% al centrodestra, il 21% a Syriza e il 13,2% al Pasok. Mentre secondo il giornale To Pondìki, Syriza è ancora primo, al 22%, la destra si ferma al 19,5% e il Pasok è al 14%. Si riparte, quindi, pur nella stanchezza generale. Ma almeno, delle tanto citate file alle agli sportelli delle banche greche, ieri non c’era traccia.
Corriere 18.5.12
Afferma di aver pagato Rutelli, Bianco, Renzi, Franceschini, Bindi, Fioroni. Enrico Letta, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni
Lusi: ecco a chi davo altri soldi Rutelli lo attacca: è un ladro
L'ex tesoriere dice di aver saldato fatture per tutti i leader
di M.Antonietta Calabrò
ROMA — «C'è stata un'ingerenza nell'attività di indagine della Procura di Roma» da parte dei vertici della Margherita, cioè da parte di Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Giampiero Bocci. Ecco la nuova accusa dell'ex tesoriere del partito Luigi Lusi scritta nero su bianco nella sua memoria di 35 pagine, più un sostanzioso numero di allegati, che ha consegnato durante l'audizione di mercoledì sera alla giunta per le autorizzazioni del Senato.
Emergono inoltre altri particolari sui chiarimenti dati a voce da Lusi — che si è definito «il bancomat del partito» — sul meccanismo di spartizione dei fondi tra popolari e rutelliani (il famoso 60 per cento ai primi e 40 ai secondi). E dopo i primi nomi di Rutelli, Bianco e Renzi si è saputo che Lusi ha affermato di aver pagato fatture di altri esponenti del partito come il capogruppo Dario Franceschini, il vicepresidente di Montecitorio, Rosy Bindi, Giuseppe Fioroni, il vicesegretario del Pd Enrico Letta, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni. «Per le loro attività politiche, non direttamente ma attraverso loro intermediari». L'ex tesoriere ha invece escluso finanziamenti a Pierluigi Castagnetti e Franco Marini, che avevano costituito l'Associazione dei popolari.
Naturalmente da ieri mattina piovono smentite e querele. Il leader dell'Api, Rutelli, accusa Lusi di essere «un ladro svergognato», «mentitore e inquinatore pericolosissimo». Il sindaco di Firenze lo sfida a «tirare fuori le carte». E decide di rendere noti i primi 56 nomi (dei circa 150 totali) dei finanziatori delle sue campagne elettorali.
Oggi Franceschini dichiara: «Non so di che cosa parla! Ma le indagini non erano sui soldi sottratti, e non sui soldi destinati all'attività politica?». Enrico Letta commenta: «Non sono a conoscenza di nessun patto spartitorio» e rivendica «la piena legittimità dell'uso dei rimborsi per l'attività politica» e parla di un tentativo già denunciato nelle settimane scorse di creare un polverone tra «uso legittimo e uso distorto dei fondi».
Per Fioroni «se Lusi ha finanziato iniziative politiche o elettorali di uomini e donne della Margherita, ai vari livelli territoriali, che sono anche miei amici, ha tenuto un comportamento legittimo perché i rimborsi elettorali servono a finanziare iniziative politiche e non a fare altro». Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani commenta: «Quelle raccontate da Lusi non sono belle storie».
La memoria dell'ex tesoriere dovrebbe servire a dimostrare che nella sua vicenda c'è il «fumus persecutionis», che può evitargli il carcere. Nel documento Lusi punta l'indice contro Rutelli, Bianco e Bocci, che non avevano alcun titolo, secondo lui, per inviare alla Procura la lettera dell'8 febbraio scorso, in cui a nome e per conto della Margherita hanno sollecitato i magistrati ad «adottare cautela per le esigenze di riservatezza» della parte offesa, cioè il partito, e a evitare «sconfinamenti» a presidio della «libertà e insindacabilità delle scelte politiche».
Quella lettera, si legge nella memoria, «comparata con i successivi accadimenti giudiziari sembra essere da essi riscontrata». È qui insomma che si sostanzierebbe «l'indebita ingerenza». Perchè, secondo Lusi, la Procura attenendosi alle cautele di Rutelli non ha compiuto il sequestro della contabilità del partito (che comproverebbe le sue affermazioni). E neppure il sequestro delle apparecchiature informatiche. Nello stesso senso va, infine, la mancata perizia tecnico contabile sulle movimentazioni finanziarie del conto corrente della Margherita. «Come se Bossi avesse chiesto alla Procura di Milano di non andare oltre le responsabilità del tesoriere Belsito» hanno commentato gli avvocati di Lusi, Petrucci e Archidiacono.
Repubblica 18.5.12
I pm chiedono i verbali dell´audizione l´inchiesta si allarga alla Margherita
Il senatore: "Procura e gip gregari del mio ex partito"
Ora è da chiarire se ci siano altri che hanno preso parte all´opera predatoria
di Carlo Bonini
ROMA - Chiuso nell´angolo e con la prospettiva concreta di entrare prima dell´estate a Regina Coeli, Luigi Lusi rovescia il tavolo. Dice in Senato ciò che a verbale, il 27 marzo, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone, dall´aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci, aveva preferito tacere, limitandosi ad evocare solo le percentuali di un asserito patto di spartizione "60-40" delle risorse del Partito tra le correnti dei "Rutelliani" e dei "Popolari" («Preferisco non fare nomi, perché sarebbe la mia parola contro quella di altri»). Di più: nella memoria consegnata in Giunta, accusa Procura e gip di non aver sin qui voluto andare fino in fondo a questa storia rigettando la sua richiesta di piena discovery ed incidente probatorio sulla contabilità del Partito. Ne denuncia la «singolare gregarietà» investigativa alle sollecitazioni ricevute dalla Margherita, ricordando una lettera dell´8 febbraio inviata da Rutelli, Bocci e Bianco ai pm nel tentativo di suggerire e delimitare l´oggetto di indagine («E´ la prova di una grave ingerenza nel lavoro della magistratura»).
E la mossa, pure studiata per accreditare un fumus persecutionis, ha un primo effetto. Che se non cambia né ridimensiona la sostanza delle accuse e dei fatti contestati al senatore, certamente modifica la forza di inerzia che ha sin qui orientato il lavoro della Procura. In qualche modo obbligandola, ora, qualunque dovesse essere la decisione che il Senato assumerà, ad allargare il perimetro sin qui circoscritto della sua indagine. Imponendole un lavoro di verifica puntuale di tutte quelle somme che, dagli atti già acquisiti, risultano pacificamente non sottratte dall´ex tesoriere e sono formalmente giustificate come spese per il funzionamento della macchina politica del Partito e dei suoi ex leader. Un passaggio decisivo che può trasformare l´indagine sull´ex tesoriere da un´inchiesta su Luigi Lusi e la sua macroscopica stangata (quale sin qui è stata), in un´inchiesta su Luigi Lusi e i soldi della Margherita. Dove il nodo da sciogliere non è più soltanto se il senatore si sia abbandonato al saccheggio della cassa (circostanza ormai acclarata), ma se in questa storia di Predoni non ce ne siano anche altri. Detta altrimenti, se Enzo Bianco equivalga al Trota. O, al contrario (e come il Presidente dell´Assemblea della Margherita dice di poter pacificamente documentare), se la differenza decisiva stia nel fatto che il primo il denaro lo spendeva per pagare i costi della politica (spese per il personale di segreteria) e il secondo per seratine in discoteca e il pieno dell´auto.
E´ un fatto che la Procura chiederà alla giunta del Senato di acquisire il verbale delle dichiarazioni del senatore. E che, ieri di buon mattino, l´avvocato Titta Madia, legale della Margherita, fosse in Procura per sollecitare una convocazione ad horas di Francesco Rutelli (per altro già sentito il 2 aprile), intenzionato a presentarsi immediatamente nella sua veste di parte lesa, non solo per formalizzare una nuova denuncia per calunnia nei confronti di Lusi, ma anche per anticipare possibili domande. Una richiesta che i pm hanno garbatamente declinato, riservandosi di ascoltare l´ex leader della Margherita quando riterranno opportuno.
Insomma, l´indagine penale si prepara ad entrare in un terreno assai scivoloso quale quello della verifica delle spese discrezionali del Partito a fini politici, della loro giustificazione formale e sostanziale, della loro effettiva rispondenza a quanto dichiarato nei rendiconti. Un lavoro da cui, per scelta, si era sin qui tenuta lontana, nel timore, per altro mai dissimulato, di farsi strumento di una resa dei conti politica. Come dimostrano i verbali di testimonianza di Francesco Rutelli e di Enzo Bianco dell´aprile scorso, in cui i pm avevano ritenuto di non dover chiedere conto nel merito di denaro "in chiaro" nei bilanci, quali i finanziamenti alla fondazione "Cfs" e i 105 mila euro l´anno alla "M&S congress" di Catania. Che non a caso, ieri, Lusi è tornato ad indicare.
La Stampa 18.5.12
Caso Lusi e caso Lega
Ddl corruzione, il Pd fa passare il suo testo: pene inasprite Scontro Pdl-Pd
I partiti nemici di se stessi
di Marcello Sorgi
Alla vigilia dei ballottaggi, un’imperdonabile leggerezza sta portando i partiti a inscenare alla Camera una guerriglia sulla legge anticorruzione. Proprio negli stessi giorni in cui vengono a maturazione i due scandali che hanno investito, una dopo l’altra, la (ex) Margherita e la Lega.
Accomunati dagli imbrogli dei rispettivi tesorieri, Lusi e Belsito, i due casi avevano avuto finora sviluppi gravi, ma differenti. La Lega infatti è stata colpita alla testa, e per quanti tentativi siano stati fatti, anche da Maroni, che ne ha preso la guida, per salvare Bossi, o almeno per circoscriverne le colpe, la magistratura ha trovato prove del diretto coinvolgimento del Senatur, non solo dei suoi familiari e famigli, nella truffa dell’uso indebito dei rimborsi elettorali. E per questo si appresta a chiamarlo a rispondere in giudizio.
Diversamente, nel caso della Margherita, sembrava che i vertici del partito fossero riusciti a dimostrare di essere stati parti lese, e non complici, dell’amministratore fedifrago. Il comportamento di Lusi, che con fondi pubblici, ma per ragioni private, viaggiava in aereotaxi, frequentava alberghi e ristoranti costosi, aveva una particolare passione per certi spaghetti al caviale del costo di 180 euro a porzione, e si era costituito un patrimonio immobiliare familiare fatto di ville e attici al centro di Roma, aveva certo gettato più di uno schizzo di fango sul suo ex partito, in parte confluito nel Pd e in parte fuoriuscito, al seguito di Rutelli e della sua nuova formazione Alleanza per l’Italia. Ma lo stesso Rutelli, l’ex ministro dell’Interno Bianco e il sindaco di Firenze Renzi, per citare i principali, a dire del tesoriere, beneficiari di quel che restava dei fondi della Margherita, erano riusciti a smantellarne le insinuazioni e addirittura a dichiararsene vittime. Quando però i giudici hanno chiesto la carcerazione di Lusi, il senatore s’è presentato davanti alla giunta per le immunità, che doveva dare un primo responso sul suo arresto, e ha sfoderato una serie di accuse precise, con dati e cifre, che hanno riempito pagine e pagine di resoconto e sono state subito allegate ai fascicoli dell’inchiesta. Di modo che, seppure Rutelli, Bianco e Renzi hanno reagito nuovamente con durezza, annunciando una seconda serie di querele, i giudici - magari anche con l’intento di scagionarli da una vicenda così pesante - probabilmente firmeranno per loro gli ormai classici avvisi di garanzia.
Certo, per conoscere le conclusioni a cui approderanno le inchieste e per veder celebrare i processi, ci vorrà del tempo. E in ogni caso converrà attendere prima di dare un giudizio definitivo. Non tutto è chiaro. E non è detto che di fronte a contestazioni e a responsabilità personali più o meno evidenti ed equilibrate, i tribunali emettano la stessa sentenza. Ciò che al contrario si può valutare fin d’ora sono le conseguenze politiche di quel che è avvenuto, il quanto e il quando, dato che le ultime notizie e rivelazioni sono esplose disgraziatamente nel bel mezzo di una tornata elettorale: tutta giocata, per giunta, sul sussulto dell’antipolitica e sull’imprevedibile avanzata di Grillo e del suo Movimento Cinque Stelle.
Una coincidenza talmente malaugurata era davvero impensabile. Il risultato è che i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, i quali, pur divisi e tra mille difficoltà, cercavano di riorganizzarsi per le prossime elezioni politiche del 2013, adesso sono azzoppati. Tra Lega ed (ex) Margherita, mal contato, hanno perso un terzo a testa della loro forza. E se i ballottaggi, in cui si vota solo per i sindaci, non consentiranno facilmente di misurare la portata dell’emorragia, già i numeri del primo turno segnalavano che il calo subito ha messo le due coalizioni in condizione di non rappresentare più la maggioranza, neppure se dovessero sommare i loro voti. A dimostrarlo, basta prendere in esame i due maggiori partiti, Pdl e Pd, che alle elezioni del 2008 rappresentavano più del 70 per cento dei voti e adesso rischiano di non arrivare al 50. Un rischio già diventato realtà in molte delle città in cui s’è votato e il Pdl è sceso sotto al 15 per cento. Ma nel Sud anche i numeri del Pd sono spesso sconfortanti.
Siccome i dati sono disponibili, e sono stati analizzati, da più di dieci giorni, ci si poteva aspettare che nelle due settimane che separavano il primo turno dal secondo, la politica, così timorosa dell’antipolitica, avrebbe cercato riscatto con il proprio comportamento. C’erano almeno due occasioni a portata di mano: la riforma del finanziamento dei partiti e la legge anticorruzione. Ma per la prima, alla fine di una trattativa estenuante che ha visto cambiare troppe volte la portata dei tagli ai rimborsi elettorali, ora fissata al cinquanta per cento, si dovrà aspettare ancora una settimana. E per la seconda, la guerriglia alla Camera in corso da giorni e giorni - con il Pd che vota con l’Idv, e la Lega che si astiene, per isolare il Pdl e metterlo in minoranza - è ora giunta a minacciare il governo. Quali saranno gli effetti di tutto questo sul voto di domenica e lunedì, è fin troppo facile immaginarlo. Ma stavolta i partiti puniti il 6 maggio non hanno che da prendersela con se stessi.
Corriere 18.5.12
Perché sono tornati i tempi dello scontro
di Francesco Verderami
C'era una volta l'ABC della politica, c'erano i vertici della «strana maggioranza», le foto opportunity scattate alle cene di Palazzo Chigi, i decreti legge imposti dal governo a colpi di fiducia e approvati da Pdl, Pd e Terzo polo senza batter ciglio.
Oggi il segretario del Pdl accusa il leader del Pd di «slealtà politica», il capo dei centristi teme una «campagna elettorale permanente», e un dirigente dei democratici come Fioroni arriva a dire che «se Monti pensa di tirare a campare di qui al 2013, rischia di tirare le cuoia anzitempo senza un ritrovato accordo tra partiti». È vero che tutti giurano di non voler staccare la spina all'esecutivo, ma gli uomini del Professore si sono resi conto che in tanti stanno maneggiando vicino all'interruttore.
Per quanto possa apparire paradossale in questa fase, con la crisi dell'euro e l'allarme sui mercati, il casus belli non è un provvedimento economico ma la giustizia, un voto sulle norme del ddl anticorruzione, che ha fatto precipitare il Palazzo ai tempi dello scontro tra poli contrapposti. Sarà pure un «problema di gestione» e non un caso politico, come sostengono a Palazzo Chigi, ma il tentativo di ridurre mediaticamente la portata dell'evento non basta, perché il «problema di gestione» rischia di provocare un grave caso politico.
Ieri il voto in commissione alla Camera, dove al Pd si sono uniti il Fli e l'Idv, ha fatto materializzare i fantasmi che il giorno prima Berlusconi aveva descritto fuori dai denti a Monti: le «maggioranze a geometrie variabili» sulla giustizia; il «patto disatteso» sull'approvazione simultanea delle norme sulle intercettazioni e sulla responsabilità civile dei magistrati; «l'intento evidente» di mettere in difficoltà il Pdl. E certo al Cavaliere non è bastato sentire dal premier che «per me vale ancora la logica del package deal», perché — com'è evidente — «l'accordo quadro» non regge. Non c'è più.
Ieri Berlusconi ha visto confermati i suoi timori, l'indice l'ha puntato contro la Severino, accusata di «esser stata leggera», di aver avuto «troppa fretta» e di essersi fatta «sfuggire di mano la situazione». E poco importa sapere se nel Pdl prevalgono quanti pensano all'errore piuttosto che al dolo politico. Se davvero il voto in Commissione sia stato frutto di un conflitto interno ai democratici. Il punto è che alla vigilia dei ballottaggi, per il partito di maggioranza relativa è un duro colpo d'immagine a tutto vantaggio del Pd. Peraltro la drammatica situazione economica impone di non alzare troppo i toni sulla materia, perché un simile scontro, su un simile argomento, per di più in questa fase, sarebbe surreale. E a saldo elettorale (molto) negativo.
Tuttavia a Palazzo Chigi il «gioco del Pd» non è affatto piaciuto, se è vero che autorevoli esponenti dell'esecutivo l'hanno definito «un tentativo strumentale di stressare il governo», magari confidando in una «reazione» del Pdl che porterebbe a far saltare l'interruttore. Il Cavaliere farà attenzione a non toccare quella levetta, sebbene a pranzo con il Professore avesse rammentato quanto gli costi tenere accesa la luce del governo con i suoi elettori, il desiderio di dar loro soddisfazione per l'insoddisfazione dei provvedimenti. Ma non ha risposto di conseguenza quando Monti, senza giri di parole, gli ha chiesto: «Allora cosa fate?».
Resta da capire cosa potrebbe fare il premier, in questo clima di «campagna elettorale permanente». Lo stesso Casini pare sia allarmato, e avrebbe esortato Monti a «un'opera di mediazione politica» attraverso il ministro della Giustizia. La Severino si è detta subito «pronta» a provvedere con un maxi emendamento per assorbire la polemica. Il problema è che se il testo arrivasse così in Aula sarebbe un disastro, perché l'Emiciclo della Camera si trasformerebbe in una curva da stadio, dove le tifoserie estreme potrebbero rendere impossibile il compromesso.
Certo colpisce che il Pdl non si sia reso conto per tempo della trappola in cui stava finendo, offrendo a Bersani e Di Pietro una formidabile arma di comunicazione elettorale e politica. E si vedrà se — dopo aver subìto una sconfitta sulle frequenze tv — il Cavaliere dovrà ingoiare un altro rospo sulla Rai, che entro giugno verrà affidata a un presidente con poteri da amministratore delegato e dove i consiglieri (da scegliere fuori dalla politica) avranno più o meno il ruolo della tappezzeria. Berlusconi, stretto in una morsa, non può muoversi per «senso di responsabilità», oltre che per i dati dei sondaggi, secondo cui Bersani oggi avrebbe la maggioranza certa anche al Senato.
Chissà se questi numeri indurranno Casini ad accettare l'alleanza dei moderati. Di sicuro l'operazione è impossibile nelle condizioni in cui si trova il Pdl. È tale il caos che, per la prima volta, Alfano ha alzato la voce al vertice di partito l'altra sera. «Così — ha detto — non si può continuare»: con la lotta tra ex forzisti ed ex aennini, le minacce estemporanee al governo, le autocandidature per Palazzo Chigi, «è stato disorientato l'elettorato. In queste condizioni non è pensabile andare avanti. Io non posso farlo». Il Pdl (per ora) gli ha dato ragione e si è ricompattato.
Corriere 18.5.12
La Costituzione non è merce di scambio
di Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale
Caro direttore, in Parlamento si sta discutendo di un progetto di riforma costituzionale, la cui approvazione dovrebbe, a quanto pare, scaturire da un accordo fra i tre maggiori gruppi parlamentari che appoggiano il governo Monti. C'è una prima anomalia da notare: il livello di attenzione dell'opinione pubblica, non tanto sull'intento riformatore in sé, quanto sul merito delle riforme progettate, è estremamente basso. Eppure si tratterebbe di mettere mano a parti centrali e delicate dell'impianto costituzionale. Certo: l'attenzione pubblica è oggi concentrata soprattutto sull'andamento e sulle prospettive della crisi economico-finanziaria e sui suoi risvolti europei. E tuttavia una modifica (di questa portata) della Carta fondamentale non dovrebbe passare sotto silenzio e nella distrazione generale, come già è avvenuto, purtroppo, un mese fa con la modifica in tema di equilibrio del bilancio varata con la legge costituzionale n. 1 del 2012. Il rischio del silenzio è aggravato dal fatto che si vorrebbe approvare la modifica con la maggioranza dei due terzi nelle due Camere, il che escluderebbe la possibilità di un referendum che riaccenda l'attenzione dell'opinione pubblica. In proposito vale la pena di ricordare come da tempo fosse stato proposto (per esempio da Oscar Luigi Scalfaro) di «mettere in sicurezza» la Costituzione prescrivendo che per modificarla occorra in ogni caso la maggioranza dei due terzi e che in ogni caso si possa chiedere il referendum: questa preliminare (e auspicabilissima) riforma non ha però avuto alcun seguito.
Nel merito, sarebbe anzitutto necessario abbandonare l'idea di un «pacchetto» di riforme da varare con un'unica legge, e votare invece separatamente tante leggi quanti sono gli oggetti sostanziali che si vogliono disciplinare. Infatti la prassi del «pacchetto» porta inevitabilmente i partiti e i gruppi a «mercanteggiare» fra loro, accettando anche ciò che non vorrebbero (e magari non dovrebbero) accettare pur di far passare un altro «pezzo» di riforma che essi abbiano a cuore. Se poi si andasse al referendum, una legge unica non consentirebbe agli elettori di esprimersi liberamente a favore o contro ciascuno degli ingredienti che la compongono.
Nel progetto in discussione vi sono almeno quattro oggetti ben distinti, che riguardano rispettivamente: la composizione delle Camere; la distribuzione delle funzioni fra di esse; i poteri del governo nel procedimento legislativo; la fiducia e la sfiducia al governo e lo scioglimento delle Camere (cosiddetta forma di governo); e altri se ne potrebbero aggiungere per strada.
Sul primo punto ciò che servirebbe è una integrazione della riforma proposta: la tanto invocata riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere senz'altro disposta, ma accompagnandola con la cancellazione di quel vero obbrobrio che è l'elezione separata dei rappresentanti degli italiani all'estero, sciaguratamente introdotta nel 2001. È sotto gli occhi di tutti che cosa abbia prodotto questa strana elezione — su scala addirittura continentale — di una pattuglia di parlamentari che non hanno e non possono avere nessun rapporto reale con la loro base elettiva. Gli italiani all'estero che vogliono partecipare alla elezione delle Camere votino casomai per corrispondenza o, tornando in Italia, magari con voli low cost.
Il secondo punto (il bicameralismo) meriterebbe probabilmente una riforma più incisiva, che differenzi davvero le Camere riservando a quella dei deputati il conferimento della fiducia al governo e facendo del Senato una assemblea rappresentativa delle autonomie. Ma questa riforma, lo si è capito, non piace al presente Parlamento. Allora, invece che attribuire a ciascuna delle due Camere una preminenza (e l'ultima parola) su diverse categorie di leggi, difficilmente distinguibili fra loro (le leggi espressione di competenze statali esclusive o invece di competenze concorrenti con quelle delle Regioni), e quindi su «materie» spesso dagli incerti confini, come dimostra l'abbondante contenzioso Stato-Regioni, meglio sarebbe limitarsi a rendere facoltativo, dopo l'approvazione di una Camera, l'esame da parte dell'altra Camera, su richiesta di una frazione di questa. Si avrebbe un risultato di snellimento senza dar luogo a disarmonie o a infinite controversie.
Il terzo punto riguarda i poteri del governo nel procedimento legislativo. È corretto stabilire — lo si potrebbe fare anche con i regolamenti parlamentari — dei termini (congrui) entro cui il governo possa chiedere che le Camere esaminino e approvino o respingano o modifichino i progetti che sono per esso caratterizzanti. E solo nel caso di vano decorso del termine si potrebbe ammettere una sorta di «voto bloccato» sulla proposta del governo. Ma a questo indubbio rafforzamento del potere del governo nel processo legislativo ci si dovrebbe domandare se non accompagnare, per riequilibrarlo, un riconoscimento della facoltà per le minoranze di impugnare direttamente le leggi davanti alla Corte Costituzionale nel caso di violazione delle norme sul procedimento legislativo che ne garantiscono i diritti.
L'ultimo punto (la forma di governo) tocca invece aspetti su cui meglio sarebbe rinviare ogni eventuale decisione al futuro Parlamento, che sarà espresso dagli elettori nel 2013. Il sistema politico italiano è oggi troppo fluido e indeterminato nei suoi lineamenti perché si possa capire fino in fondo quali prospettive e quali rischi si aprirebbero modificando le regole sulla fiducia e sullo scioglimento (che incidono anche sui poteri del capo dello Stato). La tesi, pur frequentemente enunciata, secondo cui il presidente del Consiglio avrebbe oggi troppo pochi poteri è in realtà indimostrata e indimostrabile. I poteri istituzionali (quelli politici effettivi dipendono da fattori, appunto, politici) del primo ministro sono tutt'altro che scarsi nel regime parlamentare che ci caratterizza (basta pensare alla questione di fiducia che egli può porre davanti alle Camere), e ancor più consistenti diventerebbero se si modificassero come si è detto le regole sui procedimenti legislativi.
C'è invece un provvedimento che questo Parlamento non dovrebbe tardare ad approvare: ed è una diversa legge elettorale. Ma questo non ha a che fare con modifiche della Costituzione, semmai con una sua migliore attuazione.
La Stampa 18.5.12
Riforma della legge Basaglia
Non serve il consenso del paziente per trattamenti extraospedalieri prolungati
“Riaprono i manicomi”, scoppia la bagarre
L’opposizione: passo indietro di 40 anni Il Pdl: è un sostegno per le famiglie
di Flavia Amabile
ROMA Si stava discutendo la riforma della legge Basaglia ieri in commissione Affari Sociali della Camera quando, senza troppi preavvisi, è stato approvato un articolo che ha fatto insorgere l’opposizione: riaprono i manicomi. Sotto accusa c’è il prolungamento del Trattamento sanitario obbligatorio che cambia nome e potrà avere la durata di quindici giorni contro gli otto attuali. Viene poi «istituito il trattamento necessario extraospedaliero prolungato, senza consenso del paziente, finalizzato alla cura di pazienti che necessitano di trattamenti sanitari per tempi protratti in strutture diverse». Il trattamento non potrà durare più di un anno. In pratica un nuovo genere di manicomi accusa l’opposizione.
Il relatore del testo, Carlo Ciccioli del Pdl nega. Si va nella direzione, dice, «del sostegno alle famiglie dei pazienti, oggi abbandonate a se stesse, e di una buona e corretta assistenza alle persone che non hanno consapevolezza di malattia e per questo molto spesso evitano di curarsi o di seguire i trattamenti terapeutici prescritti». Massimo Polledri della Lega Nord invita a «superare i tabù ed aprire il confronto».
Ma la polemica è già scattata. «La risorta maggioranza Pdl-Lega ha segnato un passo indietro di quarant’anni - denuncia Margherita Miotto, capogruppo Pd in commissione -. Di fatto il testo votato prevede che il malato di mente venga recluso nei manicomi per lunghi periodi, anche anni, e non prende minimamente in considerazione la cura della malattia psichica. La reclusione dei malati nasconde la patologia e non la cura». Anche Ignazio Marino del Pd dichiara che il Pdl è «schizofrenico: approva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari opg e riapre i manicomi». «Rinverdire alleanze elettorali sulla pelle chi è afflitto da malattia mentale è davvero sconcertante», spiega. E soprattutto dopo aver votato per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari «invece di impegnarsi a valorizzare e sostenere i centri di salute mentale, tentano di infliggere a tanti malati una ingiustizia inaudita, riaprire i manicomi civili».
Decisamente contraria anche l’Italia dei Valori. «L’articolo proposto dal Pdl con l’appoggio della Lega ripristina di fatto i vecchi manicomi. Si tratta di un provvedimento disumano che calpesta la dignità e i diritti delle persone», accusa Antonio Palagiano, capogruppo IdV in Commissione Affari Sociali alla Camera e responsabile Sanità del partito. Parla di «colpo di mano di una rinnovata e scellerata alleanza Pdl-Lega» la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni.
Repubblica 18.5.12
Alla Camera votato un testo di riforma della legge Basaglia sull´assistenza psichiatrica in strutture extra-ospedaliere
"Riapriamo i manicomi", blitz Lega-Pdl insorge il Pd: così si torna indietro di 40 anni
La radicale Coscioni: "Un colpo di mano frutto di una scellerata alleanza"
di Luca Monaco
ROMA - Riapriranno i manicomi? La polemica è subito divampata dopo che, ieri, la commissione Affari sociali della Camera ha approvato il testo di riforma della legge Basaglia: votata dal Parlamento il 13 maggio 1978, ha regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. La questione dirimente, ora, è il contenuto del quinto articolo della bozza, proposta dal Popolo delle libertà con l´appoggio della Lega: prevede l´apertura di «strutture extraospedaliere» per il ricovero dei pazienti che necessitano di «trattamenti sanitari per tempi protratti». Il relatore del testo, Carlo Ciccioli (Pdl), nega che si miri a una restaurazione delle vecchie strutture di contenimento. Ma a pensarla diversamente sono in molti.
I contenuti del documento non piacciono al Partito democratico, che parla di un passo indietro di 40 anni, «visto che provvedimento prevede che il malato possa rimanere recluso anche anni, senza prendere in considerazione la cura della malattia psichica». Anche i Radicali e l´Italia dei valori criticano il fatto che il nuovo Trattamento sanitario necessario per malattia mentale (che sostituirebbe il vecchio Trattamento obbligatorio), ha durata di 15 giorni, ma può essere prolungato con proposta motivata dal responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura, «senza consenso del paziente», recita il testo.
Quello che per Ciccioli sarebbe uno strumento «di sostegno alle famiglie dei malati, che oggi vivono abbandonate a loro stesse», per Margherita Miotto (Pd) è una «forzatura ideologica di Pdl e Lega». «Il pdl è schizofrenico - aggiunge il pd Ignazio Marino - approva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e riapre i manicomi». Il responsabile Sanità dell´Idv Antonio Palagiano attacca: «È disumano, calpesta la dignità e i diritti delle persone». Insomma, la polemica ferve. E se la soluzione approvata dalla commissione Affari sociali «è un colpo di mano frutto di una scellerata alleanza», giudica la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, va detto altresì che una decisione, magari di altro tipo, è necessaria. Attualmente infatti, su tutto il territorio nazionale, sono solo 700 i centri di salute mentale. Appena 16 quelli attivi 24 ore su 24. Poco, troppo poco, per un Paese evoluto come dovrebbe essere l´Italia. Ma la soluzione, per molti, certo non può essere quella di un ritorno al passato.
il Fatto 18.5.12
Boffo a Bagnasco: “Se parlo io”. Poco dopo arriva la sua nomina
Una lettera dell’ex direttore di Avvenire prima del ruolo a Tv2000
di Marco Lillo
Agosto 2009: il Giornale accusa, lui si dimette
Al suo nome è associata una definizione chiara, precisa. E definisce “metodo Boffo”, quello applicato dal Giornale di Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti. Tutto parte dall’agosto del 2009, quando il Giornale della famiglia Berlusconi attacca il presunto atteggiamento censorio adottato da Dino Boffo sulle pagine di Avvenire riguardo alcune vicende personali del presidente del Consiglio. Allo scopo di dimostrarne l'incoerenza, diffonde la voce sulla presunta omosessualità – accertata secondo Feltri dal Tribunale di Terni – dello stesso Boffo, voce che però viene smentita dal gip di Terni. Il 3 settembre 2009, dopo che Avvenire aveva respinto in dieci punti le accuse del Giornale, Dino Boffo si dimette dal ruolo di direttore. Il 4 dicembre 2009, Vittorio Feltri, rispondendo a una lettrice, scrive sul Giornale che “La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali”. La lettera qui sotto riportata anticipa di due mesi l’assunzione di Boffo alla direzione di TV2000.
Roma Probabilmente chi legge questo articolo, a differenza del capo dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, sa bene chi è Marco Travaglio. Ma forse non sa bene chi è Dino Boffo. E allora, per conoscere meglio il direttore della tv dei vescovi, Tv 2000, e per comprendere meglio i metodi usati nelle segretestanzevaticaneèutileleggere la lettera inedita che oggi pubblichiamo.
La missiva fa parte di un fascicolo di documenti visionati dal Fatto e pubblicati in esclusiva nei mesi scorsi: dal famoso memo del cardinale Castrillon sul complotto contro il Papa, alla lettera di monsignor Viganò sui furti in Vaticano; dai documenti segreti sulle pressioniperaddolcirelaposizione del Vaticano in materia di Ici alle carte interne allo Ior.
LA LETTERA che pubblichiamo oggi è stata spedita il 2 settembre 2010 al presidente della Cei Angelo Bagnasco dal fax della casa di Oné, in provincia di Treviso, di Dino Boffo. Il fax segue quello inviato nei giorni precedenti al segretario del Papa, padre Georg Gänswein, svelato nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità e anticipato ieri dal Corriere. Nella lettera a don Georg si allude al presunto mandante morale del killeraggio mediatico operato un anno prima, nell’agosto 2009, dal Giornale diretto da Vittorio Feltri ai danni dell’ex direttore di Avvenire. “Sono venuto a conoscenza di un fondamentale retroscena e cioè che a trasmettere al dottor Feltri il documento falso sul mio conto è stato il direttore dell’Osservatore Romano, professor Gian Maria Vian” scriveva Boffo nella prima lettera a don George e aggiungeva: “Non credo... che il cardinale Tarcisio Bertone (Segretario di Stato, ndr) fosse informato fin nei dettagli sull’azione condotta da Vian, ma quest’ultimo forse poteva far conto di interpretare la mens del suo Superiore: allontanato Boffo da quel ruolo, sarebbe venuto meno qualcuno che operava per la continuità tra la presidenza (della Cei, ndr) del cardinale Ruini e quella del cardinale Bagnasco”. La lettera che pubblichiamo oggi sul Fatto infatti è un appello accorato a Bagnasco che scaturisce da un articolo di Marco Travaglio del 2 settembre 2010, dal titolo eloquente: “Boffonchiando”. Il pezzo di prima pagina si chiudeva con un invito a Boffo: “Forse è venuto il momento di rompere il riserbo e fare definitivamente chiarezza sul Suo caso. Anzitutto rendendo pubblici gli atti del Suo processo, che i cronisti non hanno potuto visionare perché manca il consenso del condannato (Lei). E poi spiegando perché Lei non ha ritenuto di denunciare Il Giornale, anzi è stato visto a pranzo proprio con Feltri nel febbraio scorso. C’è qualcosa che ancora non sappiamo?... Attendiamo Sue notizie”.
Invece di rispondere alla luce del sole, Boffo prende carta e penna il giorno stesso e coglie l’occasione per mettere sotto pressione la Cei con una lettera(nonc’èil destinatario, ma appare destinata a Bagnasco) che comincia così “Eminenza, vorrei tanto che Lei mi avesse davanti e potesse avvertire tutta la mia desolazione (...) Dio sa quanto vorrei poter risolvere da solo queste mie grane (...) Desolazione c’è in me per questa ripresa di attenzione sulla vicenda che mi ha interessato. Accludo l’articolo di Marco Travaglio apparso nella prima pagina del Fatto di oggi”. Boffo, evidentemente, pensa che Bagnasco non veda Annozero e si premura di aggiungere: “Non so se ha presente chi è il giornalista Marco Travaglio. Per capirci è il più puntuto, inesorabile e documentato avversario di Berlusconi. Più ancora di Santoro. È il giornalista “nemico” per antonomasia”.
Il passaggio è rivelatore: il nemico di Berlusconi – nella concezione di Boffo e forse della Cei – è automaticamente‘per antonomasia’ nemico anche della Chiesa. Boffo identifica a modo suo anche l’ispirazione del pezzo: “Travaglio ha sentito Feltri che faceva i suoi numeri da circo... ha sentito le insinuazioni avanzate nei confronti dei vescovi, ha sentito Feltri ricordare che io non avrei fatto querela e gli è scattata la mosca al naso. Come è possibile che Boffo stia ancora zitto? Cosa nasconde o cosa lo preoccupa? I suoi vecchi padroni (lui ragiona così) perché l’hanno mollato? Non è che per caso è sceso a patti con il suo torturatore, ha preso dei soldi per tacere e ora se ne sta alla larga?... Lui (Travaglio, ndr) probabilmente mi vorrebbe stanare nell’ottica della sua causa”.
AL DI LÀ del tono melenso, la lettera a questo punto prende una piega un po’ preoccupante per Bagnasco: “Cosa faccio? Faccio un’intervista per dire la mia e dare ragguagli sulla mia situazione? Ancora ieri Ezio Mauro si è offerto di venire lui a casa mia e a farmela, come direttore, l’intervista. Ma lo stesso Fatto me l’ha chiesta (vero, ndr), Il Foglio, La Stampa, Il Resto del Carlino. Non avrei problemi cioè a poter parlare, ma io non sono ancora convinto che sia la strada migliore perché andrei di fatto a rinfocolare le polemiche e comunque finirei per arrecare danno a qualcuno, tanto più che se parlo non è che possa sorvolare del tutto sulla parte svolta da Bertone-Vian. Potrei andare leggero”, prosegue Boffo un po’ minaccioso, “d’altra parte se parlo, posso negare completamente quello che a oggi risulta essere la realtà dei fatti? Sarebbe prudente ed evangelico negare, o è più prudente ed evangelico starmene zitto? Questo è il punto. Tra l’altro io non ho nessuna remora oggi come oggi a far togliere la riservatezza al fascicolo del Tribunale ma certo andrei – pur senza volerlo – a scatenare l’attenzione dei media sulle due famiglie, alle quali io – ben inteso – non devo nulla, ma che mi è sempre apparso più prudente tenere alla larga giacché non le conosco al punto di potermi fidare delle loro reazioni”. Non tanto per i danni alle famiglie dunque, quanto alla Chiesa, par di capire. “E comunque – prosegue Boffo – sarebbe una via che solleva me (la reazione di chi oggi legge quel fascicolo è: tutto qui?) ma non chiuderebbe la vicenda in un freezer e ri-ecciterebbe probabilmente il baillame. Ecco perché finora e nonostante le mille provocazioni di Feltri, ho preferito starmene zitto. Lui però (stupidissimo) non è stato a sua volta zitto”.
Poi arriva la preghiera: “Eminenza glielo chiedo in ginocchio... non crede che la Chiesa dovrebbe dare o fare qualche segno che, dal suo punto di vista, mi riabiliti agli occhi del mondo? E si possa in tal modo sperare di far scendere la febbre? ”. Sono i giornalisti, secondo Boffo, a puntare il dito contro “il silenzio della Chiesa che loro interpretano come un fatto sospetto.
DIMENTICANO che lei ha parlato, e come (Bagnasco nel settembre del 2009 intervenne a difesa di Boffo, ndr), che lei ha fatto fare una dichiarazione anche dopo il 4 dicembre, quando ci fu la ritrattazione di Feltri. (....) Certo se potessi dire che la Cei mi sta comunque aiutando sarebbe una cosa diversa griderebbe, a chi vuol sapere, che non sono proprio abbandonato a me stesso, che la Cei a suo modo mi è solidale, che sono semplicemente a casa ad aspettare che il procedimento abbia termine ma non mi sento un reietto agli occhi del mio ex editore (la Cei controlla l’Avvenire del quale Boffo era direttore prima dello scandalo, ndr) ”. A questo punto Boffo arriva al dunque: “Le chiedo in punta di piedi: facciamo uscire questa cosa (dell’articolo 2, per grazia della Cei) così che circoli e raffreddi un po’ il clima? ”. Boffo vorrebbe far pubblicare la notizia del suo prossimo contratto di collaborazione (articolo 2) con il quotidiano La Stampa, con il quale è in trattativa per rinforzarsi agli occhi dell’opinione pubblica. “Non voglio metterLa in angusti – prosegue la lettera di Boffo – non voglio nulla, Eminenza. Vorrei solo sparire, ma sparire non posso”. E infatti Boffo non sparirà. E non andrà mai nemmeno a La Stampa. Un mese e mezzo dopo la lettera, sarà nominato direttore di rete di Sat 2000. E non farà nessuna intervista.
il Fatto 18.5.12
Sciarelli “Avvertimento” per il caso Orlandi-De Pedis
La riapertura della bara scuote i nervi agli amici di Renatino. Dopo i volantini ritrovati vicino alla chiesa di San'Apollinare, l'altra sera durante la trasmissione Chi l'ha visto? è giunta in studio la telefonata di Giuseppe De Tomasi, alias Sergione. Proprio il figlio, secondo gli inquirenti, sarebbe l'autore della famosa telefonata anonima del 2005: “Andate a vedere dove è sepolto De Pedis e scoprirete la verità su Emanuela Orlandi”. De Tomasi nega: “Dite alla Sciarelli che vado sotto casa sua con le bombe e i carri armati”, Poi ha tentato di moderare i toni: “Sono anziano, su una sedia a rotelle, mi state rovinando la vita... ho chiesto la perizia fonica”. In realtà la perizia c'è stata. La voce dell'uomo, che nel 2005 aveva indicato la chiave di svolta del caso Orlandi, aveva toni che ricordavano quella di Mario il “barista”, che nei giorni successivi alla scomparsa di Emanuela aveva più volte telefonato in casa Orlandi. In definitiva la polizia si è convinta che “Mario” fosse Sergione, mentre la voce dell'anonimo apparterrebbe a suo figlio. Non c'è alcun bisogno di acquisire la voce di De To-masi, sono molte intercettazioni, dalle quali è emerso che non ha cambiato mestiere, continua a fare l'usuraio. (rdg)
Corriere 18.5.12
Il Vaticano e le carte segrete. Riparte la caccia ai «corvi»
CITTÀ DEL VATICANO — Oltretevere, ieri, ci si chiedeva: ma quando sono saltate fuori? Le «carte segrete» sulla scrivania di Benedetto XVI, contenute nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità e anticipate oggi dal nuovo Sette, vengono rese pubbliche a neanche un mese dalla costituzione della commissione cardinalizia voluta dal Papa per fare «piena luce» sui corvi vaticani che da gennaio hanno diffuso documenti «coperti dal segreto d'ufficio». Da tempo sono avviate un'indagine penale del Tribunale vaticano e una amministrativa della segreteria di Stato. Controlli, interrogatori. Possibile che «Vatileaks» prosegua? La convinzione in Vaticano è che le lettere riservate fossero già uscite da mesi, a conferma di quanto si pensava: un «dossier» è filtrato all'esterno prima che uscissero in gennaio le lettere riservate dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò. Quando il Vaticano ha chiuso boccaporti era già tardi. Oltretevere c'è irritazione, «ma che ci fossero documenti in giro, purtroppo, non sorprende». Quanto ai contenuti — a cominciare dalla lettera di Dino Boffo a monsignor Georg Gänswein, con relative accuse al direttore dell'Osservatore Romano Giovanni Maria Vian — i diretti interessati mantengono il silenzio. Oltretevere non si commenta, però si fa notare che le stesse accuse rimbalzavano all'epoca sui giornali e che la Santa Sede le aveva già smentite («Non hanno alcun fondamento») il 9 febbraio 2010, con una nota molto dura «approvata dal Papa stesso». Il fax di Boffo a Gänswein è del 6 gennaio 2010. Pochi mesi prima il Giornale, scrivendo che Boffo patteggiò un'accusa di molestie (516 euro di ammenda), aveva pubblicato una velina falsa che calunniava l'allora direttore di Avvenire. Al segretario del Papa, Boffo scrive che fu Vian a consegnare il documento falso al Giornale, «forse» per «interpretare la mens del suo superiore», il cardinale Bertone. Del fax di Boffo non si sapeva, però accuse simili circolavano. Tanto che il 9 febbraio 2010 una nota della segreteria di Stato, a proposito delle «ricostruzioni» che sui media coinvolgevano Vian e «insinuano responsabilità addirittura del segretario di Stato», respingeva tutto come «falso» aggiungendo: «Appare chiaro che tutto si basa su convinzioni non fondate, con l'intento di attribuire al direttore dell'Osservatore, in modo gratuito e calunnioso, un'azione immotivata, irragionevole e malvagia. Ciò sta dando luogo a una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che coinvolge lo stesso Pontefice». E ancora: «Benedetto XVI deplora questi attacchi ingiusti e ingiuriosi» e «rinnova piena fiducia ai suoi collaboratori». Lo si fece stampare sull'Osservatore con una premessa: «Il Santo Padre ha approvato e ne ha ordinato la pubblicazione». Bertone e Vian sono rimasti al loro posto, Boffo è stato nominato direttore di «Tv2000», emittente Cei.
G. G. V.
Sette del Corsera 18.5.12
Le carte segrete sulla scrivania di papa Ratzinger
cinque pagine, nelle edicole
il Fatto 18.5.12
Peccati e sentenze: la dura vita della provetta
La Consulta decide sull’eterologa. Parte la crociata della Chiesa
di Paola Zanca
Ecografie, amniocentesi, cesarei. Letta dalle pagine dell'Avvenire, la deriva demografica è già cominciata. L’Italia è piena di “madri per forza”, di donne che reclamano “un diritto che non c’è”. E martedì rischiamo di svegliarci in un paese di neonati in provetta: “senza genitori”, perché “avere tanti ‘padri’ e ‘madri’ – sostiene in prima pagina il quotidiano dei vescovi – di solito equivale a non averne nessuno”. Riavvolgiamo il nastro per chi non si fosse accorto di essere nel mezzo di un disastro epocale. Il 22 maggio, tra quattro giorni, nel corso di un’udienza pubblica, la Corte Costituzionale pronuncia la sentenza sull’articolo 4 della legge 40. Ovvero giudica la legittimità della legge stessa, visto che quell'articolo parla del divieto alla fecondazione attraverso il seme di un donatore o l’ovocita di una donatrice esterni alla coppia. Un divieto che, formulato così com’è, vige solo in Italia. Ecco come tutto è cominciato.
Tutto vietato
Alle 19,15 del 11 febbraio 2004 le deputate dell'opposizione indossano una maschera bianca. Nell'aula di Montecitorio è appena passata la legge 40. Solo chi è sterile ha diritto alla procreazione medicalmente assistita. Ma mai con il seme o l'ovocita di una terza persona, nemmeno se uno dei due non è più fertile perché ha subìto una chemioterapia. È vietata alle coppie fertili, anche se portatrici di malattie genetiche o virali. Inutile dire che per i single non se ne parla. E che gli embrioni non utili per una gravidanza non possono essere mai usati ai fini di ricerca. Perfino Stefania Prestigiacomo, all'epoca ministro per le Pari Opportunità del secondo governo Berlusconi, ammette di avere dubbi sulla costituzionalità della legge. Ma in compenso le norme volute dal centrodestra hanno il sostegno di Francesco Rutelli. E anche Rosy Bindi, alla fine, le vota. La legge passa con 277 sì, 222 i no. I Radicali (all'epoca rappresentati da Daniele Capezzone), Ds, Rifondazione e Pdci, Idv e Verdi promuovono un referendum per abrogarla.
Quattro milioni di firme
Pur di evitarlo, le provano tutte: Forza Italia con una proposta di legge che modifica dopo appena sei mesi le norme appena approvate (elimina il divieto nel caso di coppie portatrici di malattie). Un “papocchio” da cui i referendari non si fanno incantare, nonostante anche nel centrosinistra ci siano voci discordanti (Enrico Letta disse: “Arrivare al referendum sarebbe una sconfitta della politica”). Poi ci provano la Prestigiacomo e l'Udeur. Intanto è arrivato settembre e ci sono le firme da portare in Cassazione: sono 4 milioni. È lì che arriva il testo di Giuliano Amato: si rivolge ai parlamentari dell'Ulivo, li invita a trovare un accordo bipartisan. Intanto dalla Consulta è arrivato il via libera ai quesiti. Il referendum si farà il 12 e 13 giugno del 2005. La campagna per l'astensione è fortissima: la lancia il cardinale Ruini, la conduce il Comitato Scienza e Vita (presieduto da Paola Binetti) che arriva dappertutto, perfino negli asili. Gianfranco Fini, a un mese dal voto, annuncia a sorpresa che voterà alcuni sì. Finisce male: alle urne si presenta solo il 25% degli elettori.
Pioggia di ricorsi
Nel giro di due anni, le coppie che vanno all'estero per tentare la fecondazione si moltiplicano per quattro (in cinque anni hanno toccato quota 50 mila). Chi resta in Italia comincia la battaglia in Tribunale. Un giudice di Cagliari dice a una coppia di portatori sani di beta-talassemia che negli ovuli fecondati c'è il rischio della malattia: la diagnosi pre-impianto, vietata dalla legge 40, è un loro diritto. Succede anche al Tribunale di Firenze: il giudice dice che i test pre natali si possono fare, purché non servano a scegliere il colore degli occhi del nascituro. A gennaio 2008 il Tar del La-zio boccia le linee guida della legge e arrivano i ricorsi a pioggia. Ad aprile 2009 la Consulta boccia uno dei cardini della 40, il divieto a impiantare più di tre embrioni. Dieci mesi più tardi dice che, se la donna ha problemi di salute, è legittima anche la crioconservazione degli embrioni.
L’ultima parola
Ora nel mirino dei giudici costituzionali c'è l'articolo 4 della legge, quello sulla fecondazione eterologa. Il ricorso è stato presentato nel 2010. La sentenza arriverà martedì. E chissà che non ci sia bisogno di riscrivere le linee guida dell'ex sottosegretario Eugenia Roccella, bocciate a novembre dal Consiglio superiore di Sanità. Nel frattempo, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'eterologa è entrata ufficialmente nella lista dei “peccati frutto della scienza” stilata dalla Santa Sede.
il Fatto 18.5.12
I promotori del ricorso: nessun pericolo di vuoto normativo
Non si crea alcun vuoto normativo a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del divieto di applicazione di tecniche con gameti esterni alla coppia”. Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e avvocato di una delle coppie ricorse alla Consulta sul divieto di fecondazione eterologa dettato dalla legge 40, risponde ad Avvenire. “Già la stessa legge prevede che non nascano legami con il donatore biologico. Inoltre la normativa sulla donazioni di organi, applicata anche ai centri di Pma (Procreazione medicalmente assistita, ndr), prevede la tracciabilità e quindi l’assoluta possibilità di rintracciare i donatori e avere tutte le informazioni necessarie per una eventuale cura. Il rischio di mercificazione delle donne donatrici non sussiste, perché v’è divieto assoluto di commercializzazione di parti del corpo umano desumibile da principi generali e direttamente dallo stesso art. 5 del Codice civile”.
il Fatto 18.5.12
Il ginecologo Carlo Flamigni
“Incredibile: i cattolici contro l’etica del dono”
di Silvia D’Onghia
Cosa c’è di odioso in una paternità che si basa su un principio così semplice: sono tuo padre perché ti sto vicino e faccio fronte ai tuoi bisogni? ”. Il professor Carlo Flamigni, ginecologo, membro del Comitato nazionale di Bioetica, presidente onorario dell’Aied, una vita spesa per aiutare le donne ad avere figli, appena si nominano la Legge 40 e il divieto di fecondazione eterologa diventa un fiume in piena.
Professore, ha visto l’avvertimento dell’Avvenire in vista del pronunciamento della Consulta sull’eterologa?
Io ai cattolici vorrei dire solo una cosa: quando in Italia c’erano le donazioni, erano donazioni vere. Uomini e donne non hanno mai percepito una lira. A volte ci restavano ovociti di donne che avevano fatto la fecondazione con successo e non sapevamo che farne. Così chiedevamo loro se erano disponibili a donarle. Trovo insopportabile fare una battaglia contro l’etica del dono.
Cosa è accaduto in questi otto anni di divieto?
Che le coppie hanno continuato ad andare all’estero. E che spesso, per risparmiare sui viaggi e sulle pratiche cliniche, che possono essere molto lunghe e ripetersi nel tempo, si sono rivolte a centri poco sicuri. Una coppia ha scritto di recente a Napolitano: erano stati a Cipro, ora hanno un figlio affetto da una patologia genetica. Questa gente andrebbe difesa. Io ho proposto di aprire un centro a San Marino, dove essere sottoposti gratuitamente all’eterologa. Per i medici non sarebbe un grosso danno.
Ma se la Consulta dovesse eliminare il divieto la settimana prossima, non si rischierebbero speculazioni?
No, basterebbe fare delle semplicissime linee guida: le donazioni si fanno nei centri pubblici, si stabilisce un numero massimo di donazioni per donatore, nessuno ci guadagna. Vede, io sono un vecchio comunista: a me stimolare una donna a donare gli ovuli in cambio di soldi fa ripugnanza.
Quale pronunciamento si aspetta?
Guardi, io sono pessimista vivendo in questo Paese. Però faccio io una domanda: cosa c’è di odioso in una paternità che si basa su un principio così semplice: sono tuo padre perché ti sto vicino e faccio fronte ai tuoi bisogni? Negare questa possibilità è un atto di malignità e di cattiveria.
il Fatto 18.5.12
In Europa il turismo procreativo
Lo chiamano turismo procreativo. Più semplicemente è la fuga all’estero delle coppie che ricorrono alla fecondazione eterologa. Molti Paesi europei la consentono, con procedure variabili. La Spagna è la meta preferita degli italiani, con cliniche a Madrid, Barcellona, Granada e Valencia. La legislazione permette sia la donazione di gameti, sia quella di embrioni. Anche alle single e alle omosessuali. In Svizzera è consentita la donazione solo per il seme e solo alle coppie sposate, a Lugano, Locarno e Bellinzona. Nella Repubblica Ceca è permessa la donazione di gameti ed embrioni. In Belgio e in Grecia l’eterologa è consentita alle coppie sposate o conviventi, sia eterosessuali che omo, e alle donne single. In Austria l’accesso alle procedure è limitato alle coppie etero sposate o conviventi. Consentita la donazione di seme, non di ovociti. (m. c.)
l’Unità 18.5.12
Usa, giro di boa. Ora i bianchi sono minoranza
Il sorpasso nel luglio 2011: i neonati ispanici neri e asiatici sono stati il 50,4 per cento
di Marina Mastroluca
Che sarebbe arrivato il giorno questo giorno era scritto nei numeri e nelle cose. Le minoranze hanno girato la boa del 50 per cento, i nuovi nati bianchi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti sono numericamente inferiori ai neonati ispanici, asiatici e neri contanti insieme: 49,6% contro il 50,4. Sia pure solo nelle nursery, il sorpasso è avvenuto, figlio dell’immigrazione degli ultimi trenta, quarant’anni e della contemporanea flessione delle nascite tra la popolazione bianca. Per quanto attesa da tempo, la svolta è «una pietra miliare per una nazione il cui governo fu fondato da europei bianchi e ha combattuto con forza sulle questioni della razza», scrive il New York Times. E poco importa che i bianchi siano ancora la maggioranza sul totale della popolazione: i numeri in sala parto raccontano dove sta andando il Paese. «È uno spartiacque. Ci mostra quanto siamo diventati multiculturali», dice Andrew Cherlin, sociologo della John Hopkins University.
La svolta è avvenuta nel luglio 2011, secondo i demografi. In alcuni Stati Usa è già consolidata. Le minoranze sono maggioritarie in California, in Texas, in New Mexico e alle Hawaii. E in particolare nel Distretto di Columbia, a Washington. Un balzo in avanti notevole solo rispetto a vent’anni prima, quando i neonati appartenenti a minoranze erano appena il 37%. La spiegazione è intuitiva. La gran parte degli immigrati arrivati negli Stati Uniti era ed è formata da persone giovani e sane e più disposte a far figli, a differenza della popolazione bianca che rappresenta ancora il 63,4% della società Usa, ma sta inesorabilmente invecchiando: l’età media dei bianchi, secondo l’ultimo censimento Usa, è di 42 anni.
Al contrario per i latinos l’età media è di appena di 27 anni e non c’è dastupirsi se i centri che assistono le immigrate e i loro figli stanno conoscendo un vero e proprio boom. Anche se la crisi ha rallentato le nascite, anche se ci sono meno opportunità. Anche se i flussi migratori in particolare dal Messico stanno rallentando. Persino in questi anni di affanni economici la natalità tra le minoranze è scesa in misura minore che tra i bianchi: il 3,2% contro l’11,4.
In termini demografici i conti tornano. A una popolazione più anziana se ne sta affiancando una più giovane e potenzialmente più attiva. I dati del censimento mostrano larghe parti degli States in cui senza gli immigrati non ci sarebbero quasi più giovani. Il rimpiazzo dell’immigrazione è necessario e secondo i demografi è destinato a durare: non appena l’economia ripartirà, ci si aspetta che i flussi tornino come prima.
Più giovani, più poveri e più lontani dai centri del potere: i non bianchi americani hanno una buona probabilità di riconoscersi in queste categorie. E qui c’è il primo gap. «C’è una larga distanza tra la popolazione più anziana con i voti, il denaro e il potere, ed un sacco di necessità e la popolazione giovane che è a loro estranea e con la quale non hanno contatti personali e poche connessioni culturali», spiega William Frey, demografo del Brooking Institution, parlando delle sfide che pone l’andamento demografico Usa. La differenza è accentuata anche dalla tendenza delle minoranze a non partecipare alla vita politica, a non votare. Nel 2008, per esempio, solo la metà dei latinos aventi diritto si è presentata ai seggi, contro il 65% dei non ispanici: un bacino di voti potenziali che fanno gola. Altro gap, preoccupante in prospettiva, è quello sull’educazione: la futura maggioranza del Paese ha accesso a un’istruzione di qualità inferiore. E per quanto sia possibile raddrizzare il timone, le scelte giuste vanno prese ora.
L’AMERICA DI SERIE B
Se le tendenze demografiche restassero invariate, i demografi calcolano che le minoranze diventeranno maggioranza sul totale della popolazione intorno al 2042. Trent’anni in cui le distanze dovranno essere accorciate. Perché l’America che ha eletto Obama è anche quella che non gli perdona di essere un afro-americano e che ancora mette in dubbio il suo certificato di nascita. È il Paese dove la ricchezza media delle famiglie bianche nel 2009 ammontava a 113.149 dollari, contro i 6.325 degli ispanici e i 5.677 dei neri: lo stesso luogo dove tra il 2005 e il 2009 i redditi dei latinos sono scesi del 66% (per gli afro-americani -53%), contro una contrazione di appena il 16% per i bianchi. È ancora l’America dove la larga maggioranza di qualunque colore crede che il Paese sia diviso in base alla razza, ma solo il 19% dei bianchi contro il 60% dei neri pensa che esista un problema di razzismo.
Strettoie che diventano ineludibili, grazie a quelle culle multicolor e a generazioni nuove per le quali la diversità sarà sempre meno diversa. Potrà non piacere a qualcuno ma sarà così. È già così per Dowell Myers, docente di politiche demografiche. «Se gli Stati Uniti dipendessero solo dalle nascite di bianchi dice saremmo già morti».
La Stampa 18.5.12
Lo scrittore Englander “Ora possiamo scegliere se essere bianchi o neri”
Intervista di Maurizio Molinari
Questi dati confermano che gli Stati Uniti sono diventati una società globale dove ognuno di noi sceglie liberamente quale identità avere»: lo scrittore Nathan Englander, classe 1970, si riconosce nella fotografia di un’America dove le minoranze hanno più figli dei bianchi e parla di «sfida solo per chi ancora guarda al presente con gli occhi rivolti al passato».
Che cosa ha pensato quando ha letto le nuove statistiche sui nuovi nati del Censimento federale?
«Ho pensato alla conferma del fatto che l’America è una società globale dove non c’è più una singola etnia maggioritaria perché a imporsi è una molteplicità di identità che sono destinate a fondersi al punto da essere difficili da classificare».
Se lo aspettava?
«Questo è il mondo nel quale io vivo ogni giorno e che si ritrova nei miei scritti. La sorpresa davanti al superamento dei neonati bianchi da parte di quelli delle minoranze può appartenere solo a chi, nel settore dell’informazione o altrove, guarda al presente ostinandosi ad avere la testa rivolta all’indietro, adoperando schemi vecchi, superati, inadatti a descrivere il mondo nel quale siamo immersi. La demografia fotografa una realtà che esiste già da tempo. Siamo noi ad essere spesso in ritardo nell’accorgerci dei cambiamenti avvenuti».
Ciò che colpisce della radiografia dei nuovi nati è anche come siano in forte aumento i figli di coppie miste...
«A ben vedere è lo stesso tipo di famiglia da cui proviene il presidente Barack Obama, che ha un padre nero e una madre bianca. Le famiglie miste sono la parte più avanzata della società globale perché si lasciano alle spalle le divisioni razziali. Obama ha scelto di essere nero ma poteva dirsi bianco. Siamo ciò che scegliamo di essere non ciò che gli altri ci impongono di essere. L’apparenza o le caratteristiche gli altri ci assegnano passano in secondo piano».
Quali possono essere le conseguenze di tale trasformazione?
«In primo luogo si tratta di una nuova dimensione della libertà personale. Imporre l’identità con la forza, dall’esterno, è qualcosa che appartiene alle dittature. Era il Sudafrica dell’apartheid che pretendeva di decidere chi era nero così come era la Germania di Adolf Hitler a voler stabilire chi era ebreo. Ora invece sono i singoli individui che liberamente scelgono cosa desiderano essere sulla base di percorsi personali, uno diverso dall’altro. La propria identità è una scelta sovrana e non può essere più imposta da altri, dall’esterno. Si tratta di una conseguenza delle trasformazioni demografiche che questo studio del Censimento sottolinea, destinate a produrre ricadute innumerevoli ma comunque positive per le nuove generazioni del XXI secolo».
il Fatto 18.5.12
Harvard, la fucina dei potenti non è in crisi
Miliardi ed eccellenza come dogma dell’università americana: anche i professori sono sempre sotto esame
di Carlo Antonio Biscotto
L’annuale classifica delle università mondiali compilata dai ricercatori dell’Università Jao Tong di Shanghai, ha confermato Harvard al primo posto. Da questo prestigioso, quasi leggendario istituto universitario sono usciti 44 premi Nobel, 46 premi Pulitzer e 8 presidenti degli Stati Uniti. Harvard ha solamente dieci facoltà, ma forma l’élite intellettuale e la classe dirigente del Paese.
MA QUALI SONO, se ci sono, i segreti di Harvard? In primo luogo la qualità del corpo docente e l’assoluto rigore meritocratico con cui viene selezionato. Ha scritto in un suo libro la sociologa francese Staphanie Grousset-Charrière, lettrice ad Harvard dal 2004 al 2008: “Harvard forma non solamente gli studenti, ma anche gli insegnanti. Non si ha il diritto di ammalarsi e anche con 39° di febbre si fa lezione. È necessario vestirsi in maniera dignitosa per dare il buon esempio e sono qualità indispensabili: la puntualità, la cordialità, la disponibilità, la comprensione, la professionalità e la disciplina”.
Inoltre, i nuovi insegnanti non vengono mandati allo sbaraglio, ma all’inizio vengono monitorati e seguono corsi di pedagogia e di scienza dell’educazione. Imparano in tal modo a organizzare corsi interattivi, a presentare la materia, a stimolare domande e a utilizzare documenti e supporti informatici.
All’inizio dell’anno accademico c’è il cosiddetto shopping week, una settimana durante la quale gli studenti hanno modo di valutare i circa 900 corsi proposti dall’università. È un sistema che stimola la curiosità degli studenti, ma che incentiva anche i docenti il cui corso, nel caso in cui non venga scelto da un numero sufficiente di studenti, viene soppresso senza esitazione.
UN ALTRO SEGRETO di Harvard consiste nella “valutazione reciproca”: non sono solo gli insegnanti a valutare gli studenti, ma anche gli studenti a giudicare i loro docenti.
Alla fine di ciascun semestre gli studenti danno un voto ai loro professori e quelli che ottengono i voti migliori ricevono un diploma, il Derek C. Book Award, che viene consegnato nel corso di una cerimonia dove non mancano né i dolci né lo champagne.
Ma la principale caratteristica di Harvard riguarda il modo in cui viene valutato il lavoro degli studenti. Ad Harvard è bandito il concetto di sufficienza e le valutazioni debbono essere sempre positive e costruttive. Mai mortificare gli studenti. Mai usare il tono cattedratico e “professorale” in uso dalle nostre parti. Mai dire “no, è sbagliato”. Si preferisce un più costruttivo: “Errore interessante; vediamo di capire cosa può averlo prodotto”.
Non è insolito che il contratto di un docente non venga rinnovato per il solo fatto di aver espresso sui suoi studenti giudizi troppo perentori e insufficientemente motivati.
Harvard ha un capitale di 30 miliardi di dollari gestito da un centinaio di maghi della finanza.
Le tasse universitarie sono piuttosto alte, circa 43.000 dollari l’anno, ma le donazioni degli ex alunni e le borse di studio sono generose. L’eccellenza è la religione di questa università.
Quest’anno sono stati ammessi solamente il 5% dei candidati.
C’È UN DOCENTE ogni 8-10 studenti e il piano di studi è estremamente aperto, quasi “alla carta”, tanto che ciascun studente può costruire un suo personale percorso di studio. Lo scopo di questa multidisciplinarietà è quello di evitare un eccesso di specializzazione in età troppo precoce. Per diventare “specialisti”, dicono a Harvard, c’è sempre tempo.
La Stampa 18.5.12
Se i cristiani non hanno bisogno dell’anima
La tesi radicale della teologa Nancey Murphy, a Torino per un convegno sui rapporti tra scienza e religione
Ci sono sempre elementi neuronali alla base delle nostre azioni, ma non ne sono la causa
di Franca D’Agostini
Oggi, Casa Valdese. Nancey Murphy è tra i relatori della giornata conclusiva del convegno «Materia, vita, spirito. Teologia e scienze naturali a confronto», promosso dal Centro Evangelico di Cultura Arturo Pascal e dal Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson, oggi a partire dalle ore 10 presso il Salone della Casa Valdese di Torino (c. Vittorio Emanuele II, 23). Intervengono inoltre Corrado Sinigaglia e Andrea Lavazza, modera Franca D’Agostini. Nel pomeriggio tavola rotonda con Claudio Ciancio, Edoardo Boncinelli, Roberto Bondì, Sergio Rostagno, Angelo Vianello e Alberto De Toni
Uno dei molti paradossi sull’identità personale che sono circolati negli ultimi anni è il caso dell’anziano e dottissimo professore il quale propone a un suo studente, giovane e aitante ma di scarsa intelligenza, di scambiarsi i cervelli: lo studente riceverà un cervello pieno di sapienza e dottrina, il professore avrà un corpo nuovo e prestante. Già: ma chi rimane con il cervello vuoto e il corpo cadente? La risposta dipende da come concepite l’identità personale: se per voi siamo il nostro corpo, ci guadagna lo studente, se per voi siamo il nostro cervello, ci guadagna il professore.
Per fortuna, i trapianti di cervello sono eventualità ancora lontane. Ma il problema di fondo rimane aperto: chi siamo, in definitiva, se davvero siamo qualcosa? E posto che quel che siamo sia distinto dal nostro corpo, come vuole il «dualismo cartesiano», dove si colloca, esattamente, la mente, o l’anima, o la coscienza? La questione interessa in modo primario la religione, e particolarmente la religione cristiana, da sempre alle prese con un’antropologia complicata e discussa, che prevede strane mescolanze di corpo e spirito, e anime che si addormentano per risvegliarsi nella resurrezione.
In questo quadro è davvero sorprendente la posizione di Nancey Murphy, teologa cristiana, professore al Fuller Theological Seminar di Pasadena, oggi a Torino per l’importante convegno su «Materia, vita spirito» organizzato dal Centro Luigi Pareyson e dal Centro di Cultura Evangelica Arturo Pascal.
Murphy sostiene recisamente: «I cristiani non hanno alcun bisogno dell’anima». Anzi, il cristianesimo è-può essere una religione decisamente fisicalista: può ammettere che siamo anzitutto corpi. Scrive Murphy in Bodies and Souls, or Spirited Bodies? (2006): «Non c’è bisogno di postulare alcun elemento metafisico addizionale, come fosse un’anima, o uno spirito, o una mente», e aggiunge: «Ciò non toglie che siamo esseri intelligenti, morali, e spirituali. Siamo complessi organismi fisici, per di più formati da migliaia di anni di cultura. Siamo, molto semplicemente: corpi spiritati ( spirited bodies) ». Di qui ha inizio il particolare «fisicalismo non riduzionista» di Murphy, una prospettiva in cui la religione non «dialoga» con la scienza, ma anzi si fonda sulla scienza.
In un ambiente come quello italiano, ancora afflitto da inutili guerre culturali, tra scienza e humanities, scienza e religione, il pensiero di Nancey Murphy è una ventata d’aria fresca, non perché la sua posizione sia cauta ed ecumenica, ma al contrario: perché è estrema e radicale, nella sua illuminante originalità.
Naturalmente, Murphy è consapevole delle complesse implicazioni storico-dottrinali che la sua posizione comporta. E tutto il suo lavoro consiste nella paziente elaborazione delle ragioni che possono portare il cristiano a pensare se stesso e il mondo in modo coerente con la scienza e la filosofia contemporanee, e con il comune buon senso. In Did My Neurons Make Me Do It? (2007 con W. S. Brown) Murphy affronta la questione del libero arbitrio nella prospettiva della neurobiologia. Ci sono sempre elementi neuronali alla base delle nostre azioni, ma ciò non significa che siano causa delle nostre azioni. Benché spesso le ragioni dei gesti più estremi degli esseri umani siano disguidi neuronali, spiega Murphy, «non è quasi mai appropriato dire “è colpa dei miei neuroni”».
Ma allora, se è tutto così semplice, perché abbiamo tanta difficoltà a capire come dal nostro essere fisico emergano responsabilità e intenzionalità? Il problema, dice Murphy, è che «nonostante i cambiamenti nella fisica, e della neurobiologia, una larga parte della nostra cultura sta ancora funzionando in base a concezioni arcaiche (newtoniane, cartesiane) della causalità e della coscienza». Ma basta riconoscere che la realtà di cui ci parla la scienza è stratificata e complessa e dalle microparticelle alle società umane ci sono diversi tipi di causazione e agenti causali, per capire che intenzionalità e libero arbitrio non sono affatto incompatibili con il nostro essere fisico.
Bisognerebbe, in altre parole, «chiudere il teatro quando l’attore [l’io] se ne è andato». Molte discussioni filosofiche oggi sembrano in effetti così: strani teatri in cui il pubblico discute, animatamente, di uno spettacolo inesistente, di fronte a un palcoscenico vuoto.
Corriere 18.5.12
Il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris
Tornare alle cose e criticare il reale
di Vittorio Gregotti
Dopo molte pubblicazioni emerse in modo frammentario nell'ultimo anno anche sui quotidiani, il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pp.113, 15) pone le premesse per una concreta discussione critica intorno al postmodernismo ed al suo possibile tramonto. Dopo quasi trent'anni di inascoltata critica all'ideologia postmodernista in architettura (con l'utilizzazione dei testi di Habermas, di Jameson, di Touraine, di David Harvey e di pochi altri e con una rilettura dei testi dello stesso Lyotard che, assieme a Derrida e Foucault, come nota anche Ferraris, erano tornati alla fine degli anni Ottanta a riflettere intorno all'Illuminismo) non posso che essere felice della pubblicazione del libro di Ferraris e della sua distinzione tra realismo critico e positivismo. Anche se alla questione delle arti del contemporaneo dedica poco spazio.
Ne scriverò qui, in modo assai sommario, dal particolare punto di vista della pratica artistica dell'architettura, cercando anche di stimolare lo stesso Ferraris, che ne aveva scritto già vent'anni or sono con parere assai diverso. Oggi riaffronta questo stesso argomento dal punto di vista della relazione critica con la realtà, scrive «come presa d'atto di una svolta intorno agli esiti del postmoderno», in quanto tale «esito è stato quello di un populismo-mediatico, in un sistema in cui (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere a qualsiasi cosa».
Al di là delle mie convergenze di opinioni, è interessante guardare la questione dal più ristretto punto di vista del fare dell'arte ed, in particolare, dell'architettura. A questo proposito una prima questione è quella posta da Ferraris sull'«inemendabilità della percezione», che è messa a sua volta in discussione nel postmodernismo «da una confusione tra ontologia ed epistemologia». Mi sembra chiaro infatti che le percezioni delle opere dell'arte possono mutare in quanto muta nel tempo la cultura del giudizio critico del soggetto. È pur vero, come l'autore stesso scrive che «vi è sempre un residuo epistemologico nell'ontologia, e viceversa», ma questo è, sempre dal punto di vista del fare delle arti, un processo in cui i due elementi di mescolano in modo decisivo nella costituzione dell'opera. A questo contribuisce un confronto critico con la realtà in cui opera, in modo discontinuo, proprio la ragione illuminista a cui, ricorda Ferraris, si oppone in modo radicale il postmodernismo populista con il rifiuto «del nesso tra sapere ed emancipazione».
E qui si pone una seconda questione, quella di che cosa significhi relazione critica con la realtà che, per la pratica artistica dell'architettura, ha un doppio significato: quello della relazione con le condizioni della produzione e della tecnica, e quello della costituzione della forma dell'opera che muove insieme alla sua intenzionalità trasformativa nei confronti dello stato generale delle cose. Ed è proprio questo ciò che Ferraris intende per realismo «nel senso kantiano del giudicare cosa sia il reale e cosa non lo sia, e in quello marxiano del trasformare ciò che non è giusto».
Affermare quindi ancora oggi, secondo l'ideologia postmodernista, che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, ha solo a che vedere con un'inquietudine coperta da una serie di simulate certezze di cui la religione del denaro, la tecnoscienza ed il potere, sono i soli punti di riferimento. Meglio, cioè, praticare l'idea che ci sono fatti ed insieme (in modo inestricabile) le loro interpretazioni che devono presiedere alle opere delle pratiche artistiche. Sono questi gli obiettivi più importanti di una critica alla realtà per mezzo delle opere dell'arte vista come ricerca di fondamenti e di frammenti di verità in quanto terreno di ogni futuro. Al di là di queste considerazioni il testo di Ferraris è appassionato, ironico (come sovente i suoi testi) e comprensibile: persino per un muratore come me.
Corriere 18.5.12
La storia, profezia sul passato
Come in medicina, è il ripetersi dei sintomi la chiave di tutto
di Luciano Canfora
S criveva Leopold von Ranke in un bel capitolo della sua Storia universale che «Tucidide non era rimasto insensibile alle nuove teorie scientifiche intorno alla natura». In realtà si tratta di ben più che un modesto interesse: si tratta dell'influsso su di lui del metodo diagnostico e prognostico dalla medicina ippocratica. Il luogo classico che rivela la assunzione da parte di Tucidide di tale metodo e la estensione di esso al sapere storico-politico è il preambolo con cui egli introduce la descrizione della cosiddetta peste di Atene. Dichiara in quel passo lo storico di voler descrivere i sintomi del male dal quale egli stesso fu affetto, e che riuscì a superare, «affinché lo si possa riconoscere quando eventualmente si ripresenterà». La conoscenza, dunque, di un fenomeno che potrebbe verificarsi (cioè «futuro») è fondata secondo Tucidide sull'attento studio dei sintomi. Analogamente, quando nel proemio spiega perché ha deciso di dedicare un racconto così analitico alla guerra peloponnesiaca, da lui ritenuta la più importante di tutta la storia passata, introduce come giustificazione un argomento simile: che cioè la natura umana essendo sostanzialmente immutabile o forse modificabile in un tempo lunghissimo, eventi «uguali o simili» è altamente probabile che si ripresentino; donde la necessità di conoscere analiticamente l'esperienza già consumatasi. Il pronostico del medico e il pronostico del politico si fondano dunque entrambi sullo stesso presupposto empirico-sintomatologico.
Tucidide estende questo metodo anche alla conoscenza del passato remoto: anche in tale ambito, dove l'assenza di documentazione è vastissima, saranno i sintomi («segni») a suggerire una possibile ricostruzione di un passato ormai smarrito, e soprattutto renderanno possibile valutarne la grandezza a paragone della ben più verificabile grandezza della storia in fieri. Profezia sul passato, dunque, e profezia sul futuro, si potrebbe dire: il metodo è il medesimo; è il metodo della medicina ippocratica.
Alla luce di tale concezione, è evidente che le altre forme di «pronostico» a base arcaicamente oracolare vengano considerate da Tucidide con distacco, con ironia, se non con disprezzo. Celebre la considerazione ironica che egli riserva all'oracolo che fu rispolverato in Atene appunto in occasione dell'esplosione del contagio. Si ricordarono in quella occasione — dice Tucidide — che tempo addietro aveva circolato una profezia, secondo la quale «insieme con la guerra sarebbe sopraggiunto il contagio pestilenziale« (che effettivamente si produsse nel 430-429 a.C., cioè appena un anno dopo l'inizio della guerra con Sparta). Il fatto è che, nota ancora Tucidide, la parola indicante il flagello concomitante con la guerra inizialmente non era «pestilenza» (loimòs) ma «carestia» (limòs). Nondimeno — conclude Tucidide — ritoccarono il dettato della profezia sulla base di quanto effettivamente era accaduto ed essa risultò, se così si può dire, veridica (II, 54). Questa notazione, che potremmo definire volterriana, indica, in modo inequivocabile, la lontananza di Tucidide dal mondo magico-profetico-oracolare. È facile riconoscere in tale libertà di pensiero, in tale visione razionale dei fatti storici e naturali, l'influsso decisivo di quella fondamentale corrente intellettuale che definiamo sommariamente «sofistica» e che un grande storico del pensiero greco, Theodor Gomperz, definì «illuminismo».
Intorno ad una guerra così totale e alla fine disastrosa come la guerra peloponnesiaca era inevitabile che si «incrostassero» profezie, più o meno costruite alla maniera di quella che Tucidide deride. Nella commedia di Aristofane intitolata Pace (421 a.C.), la festosa accoglienza riservata al trionfo della pace, da parte dei protagonisti di quella commedia, viene disturbata dalla interferenza di un indovino di nome Ierocle che si affanna a sbraitare che non è ancora tempo, «non è gradito ancora agli dei che si interrompa il grido di guerra» (vv. 1073-1075). Effettivamente anche Plutarco nella Vita di Nicia, cioè del politico che più fortemente volle la pace stipulata nel 421, apparsa inizialmente come risolutiva, ricorda che un bel po' di fanatici andavano in giro sbraitando che la guerra era fatale che durasse tre volte nove anni, e che dunque era prematuro che il conflitto terminasse dopo appena dieci. E Plutarco soggiunge che gli Ateniesi la stipularono ugualmente quella pace «sbeffeggiando» codesti profeti di sventura.
Purtroppo la guerra ricominciò dopo alcuni anni e si sviluppò con un andamento asimmetrico. Ma a cose fatte, quando ormai Atene dovette capitolare e rinunciare alle mura e alle navi, qualcuno sfoderò l'antica profezia e, forzando un po' le cifre, cercò di dimostrare che la guerra era durata effettivamente ventisette anni.
A rigore, anche accettando la tesi audace di Tucidide, secondo cui si trattò di un'unica guerra protrattasi fino a che Atene non capitolò, ugualmente i conti non tornano: oltre tutto lo stesso Tucidide sembra oscillare a proposito dell'esatto inizio del conflitto, posto dapprima al momento dell'attacco a sorpresa degli Spartani contro Platea e successivamente soltanto nel momento della prima invasione dell'Attica. E quanto poi alla conclusione, essa può ragionevolmente porsi o nel momento dell'ingresso di Lisandro in Atene ormai prostrata, ovvero sei mesi dopo, quando si arrese anche l'isola di Samo, alleata fedelissima di Atene, cui era stata attribuita in blocco la cittadinanza ateniese: come dire, semplificando, che a distanza di sei mesi Atene cadde due volte.
Insomma, i propalatori di oracoli anche in questa occasione dovettero affannarsi a far quadrare i conti, mentre gli storici di formazione «realpolitica» e dotati di una mentalità aliena dal soprannaturale, ebbero ancora una volta materia per sorridere di queste cabale numerologico-oracolari.
Corriere 18.5.12
«Orlando», l'italiano in cantiere
Il poema dell'Ariosto che tenne a battesimo la lingua nazionale
di Paolo Di Stefano
I talo Calvino invitava ad accostarsi all'Orlando furioso senza tanti preamboli, perché «è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi». È vero, al punto che viaggiando dentro questo fantastico «poema del movimento« rischiò di perdersi per primo il suo stesso autore. La storia editoriale del capolavoro di Ludovico Ariosto è infatti una delle più tormentate che si conoscano: l'opera nasce nei primissimi anni del Cinquecento, quando il poeta non è ancora trentenne. Nel gennaio 1507, a Mantova, Ariosto legge a Isabella d'Este Gonzaga qualche brano del nuovo testo, che ha già cominciato a incuriosire la corte. Solo nel 1516, a Ferrara viene licenziata la prima edizione (A) di quaranta canti, ma nel giro di tre anni l'autore avvia la revisione e sempre a Ferrara nel 1521 consegna alle stampe una seconda edizione (B).
L'anno chiave per Ariosto, e non solo per lui, è il 1525, quando escono le Prose della volgar lingua, il trattato con cui l'amico Pietro Bembo «fonda» lo stile e la grammatica della lingua letteraria sulla base dei maggiori scrittori trecenteschi. Ariosto ne rimane sconvolto, al punto da essere indotto a rimettere mano al suo poema per uniformarlo al toscano letterario ripulendolo della veste regionale primitiva. Dopo una lunga rielaborazione, nell'ottobre 1532, pochi mesi prima della morte, il poeta pubblica la terza e definitiva edizione (C) dell'Orlando furioso, ampliato di sei canti.
Il lavoro di una vita dell'Ariosto è anche il lavoro della vita di Cesare Segre, il filologo che più di tutti ha studiato il poeta emiliano, sin da quando, giovanissimo, era assistente del filologo Santorre Debenedetti, suo prozio: è infatti con il binomio Debenedetti-Segre che uscirà, nel '60, l'edizione critica del poema. Ma oltre che all'opera maggiore, Segre si è dedicato, con studi e edizioni critiche, anche alle minori (a un volume Ricciardi del '54 seguono quelli dei Classici Mondadori). L'impresa più lunga e difficile arriva però adesso, con il Rimario diacronico del Furioso. «Disporre di tutto l'insieme delle rime e del lessico, parola per parola, nel loro svolgimento da una redazione all'altra permette di verificare il sistema linguistico dell'Ariosto in movimento», osserva Segre.
Un primo progetto fu avviato nel '65 con l'Olivetti, allora all'avanguardia nell'elettronica. La chiusura dell'attività olivettiana nel settore dei computer impose una sospensione. Se ne riparlò anni dopo con l'Accademia della Crusca: «Dato che l'Ariosto fu lo scrittore che più di tutti ha contribuito all'affermazione del toscano letterario come lingua nazionale, una concordanza diacronica avrebbe permesso di seguire le fasi di questa impresa». L'impresa richiede necessariamente una cooperazione tra informatici e filologi: con l'apporto tecnico di Antonio Zampolli e in seguito di Eugenio Picchi, con il lavoro filologico di Luigina Morini e di Clelia Martignoni, con il contributo informatico di Manuela Sassi, nel '74 la conclusione sembra vicina, ma non è così. Gli oltre trent'anni che seguono sono una specie di romanzo, con complicati passaggi da un software all'altro, e persino con pacchi di carta che spariscono e costringono a rifare una parte del lavoro. Solo con il sostegno dello Iuss (l'Istituto pavese di studi superiori, diretto da Roberto Schmid) si va verso il lieto fine.
Ed eccolo qui, infatti, il Rimario, su carta (e su dvd): un monumento in due volumi, diretto da Segre, che solo ad apertura di pagina rivela la complessità e la bellezza tipografica, tra varietà di corpi, caratteri, segni e nuove simbologie. L'obiettivo è quello di registrare, sulla base di C, le varianti delle edizioni precedenti A e B in tutte le possibili situazioni testuali. Ci sono casi molto semplici, per esempio la sostituzione quasi sistematica di una parola con un sinonimo (come i cavalli che diventano destrieri o gli amatori che diventano amanti). Ci sono casi in cui il cambio di una sola parola in rima (la caduta di certi latinismi o di forme dialettali) genera conseguenze a cascata: vedi l'eliminazione quasi sistematica dell'avverbio presto (sostituito in C da soluzioni varie tra cui il sinonimo tosto) o l'esigenza di cassare tutte le sdrucciole in rima (scompaiono, tra l'altro, opera, povero e povera); ci sono le ottave inserite solo nella B e nella C, per non dire dei sei canti inventati ex novo nel '32. Il Rimario (unico esempio, finora, di rimario «diacronico», che registra cioè le varianti d'autore) dà conto, ovviamente del contesto.
Segre accenna al «progressivo depurarsi linguistico del poema». L'antecedente più vicino ad Ariosto era l'Orlando innamorato, dove però viene utilizzata una lingua ben diversa: «Al Nord la lingua corrente era un toscano mescolato con il dialetto, come dimostra il Boiardo: Ariosto sulle prime ne segue l'esempio, ma nelle due redazioni successive ripulisce la lingua fino ad arrivare a un toscano puro, tanto che il Furioso verrà assunto come un modello linguistico anche dal Dizionario della Crusca. Quello di Ariosto è un lavoro attentissimo, parola per parola, che ora riusciamo a seguire nel suo insieme: è significativo che quando decide di cambiare un termine o una forma fonetica, lo faccia anche a costo di mandare all'aria tutte le rime dell'ottava».
Un lavorìo ben diverso dal risciacquo manzoniano in Arno, perché mentre Ariosto tiene conto, quasi da storico della lingua, delle stratificazioni letterarie, l'ideale di Manzoni è opposto: «La lingua de I promessi sposi è il fiorentino vivo, che invecchia subito, perché soggetto a trasformarsi col tempo: Manzoni, riproducendo il parlato contemporaneo, fa una scelta utopica contro la storia della lingua; Ariosto invece ha un'idea evolutiva, fa i conti con i tre secoli precedenti, con Dante e Petrarca. Nell'ultima redazione, poi, acquisisce una dimensione meno umanistica e più rinascimentale». Magari sacrificando qualcosa al colore e alla brillantezza a favore dell'euritmia e della simmetria classica: «Qualcuno — ricorda Segre — preferisce la prima redazione. Per me è una scelta difficile: l'eccesso di equilibrio e di classicità dell'ultima edizione può anche dar fastidio rispetto alla freschezza precedente, dove si prende anche la libertà di parteggiare per gli Estensi e i francesi loro alleati, mentre nella C celebra senza calore l'imperialismo di Carlo V. Ma d'altra parte nell'edizione '32, che può apparire più ingessata, Ariosto inserisce episodi stupendi, come quello di Olimpia». Anche con i contemporanei si propongono problemi analoghi: «In effetti, non sempre l'ultima volontà dell'autore è la migliore. Le Cinque storie ferraresi di Bassani sono molto più scorrevoli e stilisticamente ricche nella prima edizione, poi con il lavoro successivo vengono rese più pesanti e aggrovigliate. Anche la Gerusalemme conquistata è più brutta della Liberata: per fortuna, come posteri abbiamo la possibilità di scegliere. Per Ariosto scegliere è difficile».
Come si vive in compagnia di Ariosto per più di cinquant'anni? «Il Furioso è un'opera divertente, rasserenante, solare, un'opera di straordinaria libertà, non per niente piacque a Voltaire e a Calvino. Basti pensare a come affronta l'aldilà: a così poca distanza dal Medioevo doveva risultare strabiliante. È un libro non antireligioso, ma a-religioso, senza tutte le manie del Tasso, per il quale non ho mai avuto una gran simpatia. Certo, è molto lungo, 38.736 versi, il triplo della Divina Commedia, che al confronto sembra un libriccino». Eredi? «Il testimone, quando la fortuna dell'Ariosto va declinando, passa direttamente a Cervantes».
Repubblica 18.5.12
Le nomine della cultura
Le élite riluttanti
Tra Manzoni e il Gattopardo, i difetti dei "migliori"
di Roberto Esposito
Forze anonime che tendono a spezzare la legittimità democratica delle scelte economiche
Un saggio di Carlo Galli analizza il rapporto difficile delle classi dirigenti con la società italiana
Vizi di fondo come apatia, cinismo e irresponsabilità Ma anche capacità di sorprendere
ROMA - Marina Valensise, Stefania Stafutti e Giorgio Amitrano sono i nuovi direttori degli Istituti italiani di cultura rispettivamente a Parigi, Pechino e Tokyo. La decisione è stata presa dal ministro degli Esteri Giulio Terzi al termine della procedura prevista per la nomina dei direttori "di chiara fama". Valensise è giornalista, Stafutti insegna Lingua e letteratura cinese a Torino, Amitrano, preside di Lingue alla Orientale di Napoli, è anche traduttore dal giapponese di numerose opere letterarie.
C´è sempre stato qualcosa di irrisolto nel rapporto tra l´Italia e le sue élites. Destinate, per loro natura, ad aggregare la società, orientandola verso finalità collettive, raramente hanno svolto tale compito, risultando in più di un´occasione esse stesse fattore di disgregazione. Disarticolate in una pluralità difficilmente riconducibile all´unità di una classe dirigente degna di questo nome, esse si sono scontrate per la difesa di privilegi antichi e nuovi, trasformandosi spesso in vere e propri comitati di affari, ben poco interessati al bene comune. Perché, e come, ciò sia accaduto, da dove nasca questa tendenza e cosa possa arrestarla, è quanto si chiede, con il solito misto di rigore storico e di intelligenza interpretativa, Carlo Galli nel suo I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità (Laterza). Proprio questo è l´angolo di visuale da cui egli guarda alla crisi italiana � non solo quella, recentissima, di tipo economico, ma la crisi politica, sociale, culturale di lungo periodo che rende il nostro Paese in buona parte diverso dalle altre democrazie. Contrariamente ad un´opinione diffusa, essa non nasce dall´allargarsi della distanza tra ceto politico e società civile, ma piuttosto dalla sua cancellazione, che tende a fare dell´una lo specchio deformato dell´altra. E, più precisamente, dalla ricorrente dimissione di responsabilità delle élites che le sottrae al compito, loro proprio, di traghettare la società italiana da un difficile passato ad un futuro ancora indeterminato.
Nel quadro che egli profila l´attenzione per le continuità strutturali che sottendono le svolte storiche � dal cinquantennio postunitario al fascismo, alle "due" repubbliche, fino ad oggi � si coniuga con uno sguardo, altrettanto vigile, sulle differenze che tagliano la storia delle élites, articolandone la fenomenologia in una forma irriducibile ad un percorso lineare. Ciò che caratterizza tale storia è un movimento pendolare che, di volta in volta, riporta a galla un vizio di fondo, mai del tutto smaltito. Ma anche, in determinate occasioni e quasi a tempo scaduto, un guizzo, un colpo di reni inaspettato. Proprio quando l´aggancio con l´Europa sembrava ormai perso, per almeno tre volte � negli anni drammatici che precedono l´Unità, dopo la sconfitta bellica e infine al culmine dell´attuale crisi economica � le élites italiane ritrovano la forza per interrompere una deriva apparentemente senza sbocco, aprendo, pur in maniera sempre precaria ed incerta, una fase nuova.
Ma per non perdere la ricchezza del discorso di Galli, è necessario ripercorrerne a ritroso il filo, sovrapponendo, come fa l´autore, la storia reale delle élites alla percezione che ne hanno gli intellettuali. Come spesso accade, a mostrare maggiore capacità conoscitiva sono i letterati. In un breve torno di anni Leopardi e Manzoni fissano con nitidezza i caratteri regressivi delle classi dirigenti che frenano come un peso morto l´incipiente processo di unificazione. Inefficacia operativa e modestia culturale, particolarismo miope ed assenza di prospettiva, apatia e cinismo formano la miscela fangosa che risale le vene delle élites italiane. A mancare, prima ancora che un disegno chiaro di riscatto nazionale, è la capacità di unificare il Paese in un progetto condiviso che tenga insieme interessi individuali e valori generali. Neanche la raggiunta Unità, dovuta allo sforzo eroico di una élite illuminata, riesce a fluidificare il rapporto tra il nuovo ceto di governo nazionale e il notabilato locale. Un che di gretto e di chiuso � uno spirito conservatore che tende a riproporre vecchi stili di vita e di pensiero � soffoca, poco alla volta, le conquiste degli anni gloriosi, trascinando indietro l´Italia unita, come traspare dalle pagine dei Viceré di De Roberto e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Quando, all´inizio del nuovo secolo, gli intellettuali si candidano, in modo velleitario e verboso, ad assumere essi stessi un ruolo politico, si crea quel cortocircuito tra retorica e degrado morale che consegnerà l´Italia al fascismo. Allora una frenesia interventista � interpretata soprattutto da D´Annunzio � non sarà che l´altro lato della tradizionale riluttanza dei �colti´ a farsi classe dirigente di un Paese moderno.
Perché le élites italiane � analizzate nelle loro costanti da scienziati politici come Mosca, Pareto, Michels, e da Gramsci con un più complesso metodo storico-dialettico � tornino a giocare un ruolo positivo, bisogna arrivare al dopoguerra, quando, nell´emergenza della sconfitta, cominciano a collaborare a vario titolo alla ricostruzione del Paese. Dai padri costituenti agli industriali che avviano la ripresa economica, a intellettuali, artisti, registi di livello non solo nazionale, la Prima Repubblica, con tutti suoi limiti, raggiunge il doppio risultato di restituire dignità alla politica e di includere nuovi ceti nelle maglie dello Stato democratico. Certo, tutto ciò non fu esente da compromessi, chiusure, esclusioni � prima tra tutte quella, obbligata da circostanze internazionali, del Pci. Ma le luci bilanciano nel complesso le ombre. Fino a quando, tuttavia � a partire dagli anni Ottanta � la società italiana conosce un nuovo, rapido, declino che, dall´assassinio di Moro, porta prima al decennio craxiano e poi, attraverso lo psicodramma di Tangentopoli, alla spericolata avventura del Cavaliere.
Senza soffermarci su questa dinamica involutiva, si può dire che mai come nel ventennio berlusconiano la funzione delle élites venga pervicacemente mortificata dalla concentrazione dell´intero potere politico, economico, mediatico nelle mani di un unico uomo capace di giocare insieme diverse parti in commedia: quella, dannunziana dell´eroe, quella carismatica del grande comunicatore e quella, infine, dell´uomo comune, portatore di vizi e di virtù, entrambe offerte come modello a cittadini increduli e insieme abbagliati da una sconcertante assenza di responsabilità pubblica e, spesso, di decoro personale. Mai come in questa fase recente, le élites italiane � giudici, professori, scienziati � appaiono inutili, emarginate, derise, se non si prestano ad essere asservite. Il tutto in un passaggio storico che tende a generalizzare sul piano mondiale la sudditanza della politica a forze anonime, soprattutto di tipo finanziario, che finiscono per spezzare il rapporto tra decisioni macroeconomiche e democrazia rappresentativa.
Proprio allora, tuttavia, ancora una volta, quando tutto sembra crollare portandoci vicino al punto di non ritorno, il collasso pilotato del berlusconismo sembra offrire un´ultima chance a un "governo dei migliori", formato da quelle stesse élites � professori, banchieri, alti burocrati, esponenti del mondo cattolico � apparentemente messe fuori gioco. Su quale possa essere la durata, e l´esito, di questo esperimento, l´autore giustamente non si pronuncia. Certo, il rapporto tra politica, tecnica ed economia è ben più complesso di quanto analisi approssimative lascino pensare. Resta, comunque, una domanda di fondo: se questa nuova élite è espressione di quelle stesse potenze anonime dell´economia e della finanza � grandi banche, holding internazionali, agenzie di rating � che hanno in larga misura prodotto la crisi, sarà in grado di portarcene fuori? Qui forse la stessa analisi delle élites � utilissima per uno sguardo dall´altro del società italiana � andrebbe accompagnata da un´analisi dal basso, espressiva di quella lacerazione sociale e di quella disperazione materiale che trattiene il nostro Paese sulla cresta di un drammatico crinale.
il Fatto 18.5.12
Faceboom. È nata una bolla?
Oggi debutta a Wall Street il titolo del social network, il prezzo valuta l’azienda oltre 25 volte i suoi ricavi. Sembra di rivivere l’euforia (e la follia) della new economy degli anni 90. Oppure un genio ventottenne sta compiendo un miracolo duraturo?
di Giorgio Meletti
I numeri sono pazzeschi e senza precedenti. Viene quotata in Borsa Face-book, l'azienda che ha inventato il social network dal successo travolgente. È nata nel 2004, adesso ha circa 900 milioni di utenti, ma due anni fa non arrivava a 500 milioni. L'accelerazione potrebbe sembrare impressionante. E ciò che desta sorpresa e ammirazione è la figura del padrone di Facebook, Mark Zuckerberg, un giovanotto che ha compiuto 28 anni il 14 maggio: quando è nato, Bill Gates e Steve Jobs erano già miliardari.
Cinque volte il valore di Telecom
Zuckerberg, che si presenta alle conferenze con gli analisti finanziari in felpa, sta lanciando la più grande Ipo (Initial public offering) di sempre riguardante un'azienda del web. Il prezzo di collocamento delle azioni è salito di giorno in giorno, prima il massimo era 35 dollari, alla fine 38 dollari per azione. L’azienda della Silicon Valley vende azioni per 18 miliardi di dollari, equivalenti a una valutazione totale della società superiore ai 100 miliardi di dollari. Per avere un'idea delle proporzioni, 100 miliardi di dollari è cinque volte il valore di Borsa di Telecom Italia, o se preferite la somma del valore di due giganti del listino italiano, Eni e Intesa Sanpaolo. Ma Telecom Italia ha un giro d'affari attorno ai 30 miliardi di euro, Face-book nel 2012 arriverà attorno a un decimo di quella cifra. Il che significa che se Telecom Italia vale metà del suo fatturato, Facebook viene valutata fino a 25 volte i suoi ricavi.
I multipli sono l'alfa e l'omega della finanza, ma adesso vedremo che stavolta è diverso, Zuckerberg sembra farsi beffe della religione dei multipli, e i mercati più che mai si prostrano in adorazione della sua felpa. La bolla Internet di fine anni Novanta, in confronto a quello che vediamo in questi giorni, fa sorridere. Andiamo a rivedere le cifre. Il grande botto del secolo scorso fu la quotazione di Netscape, la società di Marc Andreessen, allora ventiquattrenne inventore del primo browser per navigare in Internet: prima fece Mosaic, poi Netscape. La società fu collocata al pubblico il 9 agosto 1995 al prezzo di 28 euro per azioni. Alla fine del primo giorno di quotazione il prezzo era già arrivato a 58 dollari e il valore della società a 3 miliardi di dollari, circa 100 volte il fatturato. La bolla era fondata sulla certezza di futuri profitti. A partire dal 1997, quando la febbre di Internet raggiunse il parossismo, furono quotate al Nasdaq, il mercato delle aziende tecnologiche, 367 internet company. Alla fine del 2000 solo 55 di queste valevano in Borsa più del prezzo di collocamento, mentre la gran parte si erano dissolte, compresa la mitica Pet.com che doveva fare i soldi vendendo online cibi per cani e gatti. Quando scoppiò la bolla, Yahoo!, che era arrivata a valere 240 dollari per azione, precipitò in pochi mesi a 11 dollari. Amazon crollò da 105 a 8 dollari. Molto è cambiato da allora. Si parlava di new economy e intanto i soldi si facevano con la old economy. A fine 2000, mentre scoppiava la bolla internet, Telecom Italia valeva 75 miliardi di euro, cinque volte il valore di oggi.
Modello Google
Adesso le Internet company sono realtà solide e concrete. Amazon, dopo il bagno di cui sopra, è risalita in modo costante. Oggi vale in Borsa 102 miliardi di dollari; Yahoo!, nonostante un inesorabile declino, è quotata 18 miliardi di dollari, più di molte società della old economy. Durante i dieci anni che sono passati dall'attentato alle Torri Gemelle, che sancì emotivamente la fine dell'infanzia della new economy, c'è stata la quotazione di Google. Nel 2004 il motore di ricerca è stato collocato in Borsa con un valore di 23 miliardi di dollari, un ordine di grandezza superiore all'epopea di solo 5-6 anni prima. Oggi Google vale 200 miliardi di dollari, mentre la Microsoft di Bill Gates, vecchia corazzata dell'informatica, vale 261 miliardi, e la Ibm ne vale 231. E lì, Google, nel gruppo dei grandissimi. Solo che di Google abbiamo capito tutti il segreto. Quel motore di ricerca, grazie alla sua efficienza, presiede alla navigazione su Internet, tutto passa da lì. Il fatturato pubblicitario corre, i profitti anche. Ecco il multiplo decisivo, il price/earning, cioè il rapporto tra prezzo e utili, in sigla p/e. Il p/e di Google è 19, lo stesso della Apple orfana di Steve Jobs, che pure in Borsa vale oltre 500 miliardi di dollari. La Ibm ha un p/e 15, la Microsoft ha 11. Siamo lì. Invece Facebook, se solo la sua azione si fermasse in Borsa alla moderata quotazione di 38 euro per azione, avrebbe un p/e superiore a 100. E qui si ripropongono molti interrogativi vecchio stile, come quelli degli anni 90.
I dubbi degli analisti
Molte voci di analisti sconsigliano di comprare a questi prezzi le azioni di Facebook. Che è oggi un'azienda molto redditizia: su 4 miliardi di fatturato fa un miliardo di utili. La redditività è molto alta, e con le dimensioni dell'azienda è destinata inesorabilmente a ridursi. Quindi, per fare i profitti che un prezzo di 38 euro per azione presuppone, Facebook deve far crescere in modo esponenziale il proprio fatturato nei prossimi anni. Un'analisi della Bernstein Research è arrivata alla conclusione che Zuckerberg, per mantenere le promesse, deve più che decuplicare il fatturato nei prossimi dieci anni e superare i tre miliardi di utenti. Possibile? Ci credono in pochi. Un piccolo esercito di blogger, analisti togati, riviste specializzate e finanzieri autorevoli, consigliano di tenersi alla larga dalle azioni Facebook. Le sconsiglia Barron's, bibbia finanziaria per palati finissimi, mentre Warren Buffett, detto il mago di Omaha, semplicemente l'uomo più ricco del mondo, ha fatto sapere che lui non compra azioni Facebook perché non sa come valutarle, e quindi ha preferito staccare un assegno da 10 miliardi di dollari per comprare azioni Ibm per il suo fondo Berkshire Hathaway.
La missione di Zuckerberg
E qui scatta la magia, o se preferite la follia, del tempo presente. Mentre analisti e finanzieri in ogni angolo del pianeta fondevano i loro computer per calcolare la redditività prevedibile delle azioni Facebook, Zuckerberg ha scritto una lettera agli investitori per avvertirli che la sua società non è nata per fare i soldi, ma per compiere una “missione sociale” (testuale) e “rendere il mondo più aperto e connesso”. L'obiettivo di Facebook è “un mondo migliore, dove la gente con più informazioni può prendere decisioni migliori”. Quelli calcolano la redditività futura, e lui avverte che l'unica sua preoccupazione (come capo azienda e azionista di inattaccabile maggioranza anche dopo la quotazione) è di aiutare il mondo a diventare migliore. Ma la cosa più sorprendente è che il mercato accoglie con giubilo il proclama di Zuckerberg, e il prezzo di collocamento delle azioni non fa una piega. Siccome non c'è molta gente desiderosa di buttare i propri soldi, l'unica spiegazione è che i mercati cominciano a imparare che dare alla propria impresa un'etica, forse, è il modo più furbo per inseguire il profitto.
il Fatto 18.5.12
Il rischio dell’amicizia
Banche e soci, ecco chi ci guadagnerà di sicuro
di Giovanna Lantini
Milano. Facebook o non Facebook. Questo il dilemma degli investitori, per lo più grandi banche, che guardano al collocamento a Wall Street del social network di Mark Zuckerberg. La domanda dei titoli non è certo mancata, al punto da far chiudere l'offerta in anticipo e far alzare la forchetta di prezzo a 34-38 dollari per azione dalla precedente di 28-35 dollari, portando la valutazione massima di Facebook a 104,2 miliardi di dollari.
UNA CIFRA stratosferica su cui le banche che si occupano del collocamento faranno grassi introiti. “I banchieri stanno facendo tutto il possibile per assicurare il buon esito dell'offerta – ha sintetizzato a Bloomberg News il responsabile degli investimenti di Palisade Capital Management, Dan Veru – Se l'operazione non andrà a buon fine sarà un pessimo segnale non solo per Facebook, ma anche per l'intero mercato”. Di sicuro alle attuali condizioni chi non si potrà lamentare sarà senz'altro Zuckerberg, che con la vendita di 30,2 milioni di titoli prima dello sbarco a Wall Street si prepara a incassare oltre 1 miliardo di dollari. E non è il solo: quasi metà del ricavato dell'offerta andrà nelle tasche degli attuali soci di Facebook e non nelle casse dell'azienda. Ma non è questo il principale cono d'ombra sul fondatore del social network del quale gli scettici sottolineano la giovane età in rapporto al potere assoluto che continuerà ad avere sull'azienda. Tuttavia Zuckerberg non sarebbe né il primo né l'ultimo enfant prodige della tecnologia. Più strutturale l'obiezione sollevata dall'analista di Bernstein, Carlos Kirjner, che si chiede come farà Zuckerberg a conciliare “la necessità di creare valore per gli azionisti con la missione della società di rendere il mondo più aperto e connesso”. Più nel dettaglio, Kirjner vorrebbe sapere “che criteri utilizzerà per definire le priorità del business, approvare i progetti d'investimento e distribuire le risorse”. E, in generale, se Facebook possa davvero creare anche un social network pubblicitario rispettando la privacy dei suoi 900 milioni di utenti. Già, la pubblicità. Il cavallo di battaglia degli scettici è proprio qui: i conti del trimestre 2012 di Facebook hanno sì evidenziato una crescita annua dei ricavi pubblicitari del 36%, ma il confronto con il dato degli ultimi tre mesi del 2011 è di un calo dell'8 per cento che la società ha motivato in modo poco convincente con la stagionalità.
NON AIUTA a sciogliere la diffidenza il fatto che martedì sia venuto fuori che un colosso come General Motors abbia deciso di interrompere gli investimenti pubblicitari sul social network. Il punto non sta nella cifra in gioco, circa 10 milioni di dollari, cioè una piccola parte del fatturato di Facebook (1,06 miliardi nel primo trimestre), ma nelle motivazioni di Gm che ha rilevato uno scarso impatto sull'utenza. D'altro canto c'è chi, come l'analista di Sterne Agee, Arvind Bhatia, tenendo presenti le sottovalutazioni del passato ha già raccomandato ai suoi clienti di comprare il titolo con un prezzo obiettivo di 45 dollari al grido di: “Crediamo che Face-book stia rivoluzionando il mercato pubblicitario mondiale proprio come ha fatto Google meno di un decennio fa”. Quanto al breve termine, cioè all'andamento del debutto in Borsa di domani, c'è chi come IG Markets, è pronto a scommettere addirittura su un balzo del 15 per cento sottolineando “l'incredibile successo” riscosso dal prodotto sui mercati secondari. Questo forse anche in virtù delle fortissime limitazioni all'acquisto del titolo in fase di sottoscrizione, che è stata riservata alle grandi banche e solo ai piccoli investitori americani che hanno superato dei complicati test sulla capacità di comprensione dell'investimento, incrociati con un'analisi delle loro disponibilità finanziarie. Mentre fuori dall'arena, secondo i media americani, i normali fan di Facebook di tutte le età sarebbero in preda alla febbre della Borsa, pronti a comprare le azioni non appena sul mercato e a dare così il secondo fondamentale contributo alla ricchezza di Zuckerberg.