sabato 19 maggio 2012

il Fatto 19.5.12
Giovane, donna, musulmana è la voce di Hollande
Ministro, parlerà per il nuovo governo di Francia a soli 34 anni
di Gianni Marsilli


Tra la piega severa di Jean Marc Ayrault, l’aristocratico portamento di Arnaud de Montebourg, la pelata pensosa di Pierre Moscovici, lo sguardo altero di Laurent Fabius, spiccano già nel governo francese i due vivissimi occhi da scugnizzo e il pronto sorriso di Najat Vallaud Belkacem, nominata portavoce dell’esecutivo nonché ministro delle Pari opportunità, che qui si chiama dei Diritti delle donne. Nei giorni scorsi, quando i suoi colleghi affettavano la solita indifferenza d’ufficio per il loro destino di governo, lei non stava nella pelle dall’impazienza, e lo diceva.
HA ASPETTATO la nomina al tavolino di un caffè di Lione, sua città di adozione. È lì che ha ricevuto la fatidica telefonata di “François”, testimoni diretti una giraffa e una telecamera, tranquillamente ammesse alla breve conversazione tra i due. Quindi abbracci e baci con gli amici, senza infingimenti. Era felice, e si vedeva. Così è questa giovane donna di 34 anni, bruna e sottile, “puro prodotto della Repubblica”, come le piace definirsi. La sua biografia è lì a testimoniare una storia di integrazione riuscita. Najat nacque infatti in un villaggio del Rif marocchino, Beni Chiker, da dove suo padre era partito in cerca di lavoro: lo esigevano le bocche dei suoi sette figli. L’aveva trovato come muratore nella banlieue di Amiens, nel profondo nord piccardo, dove lei lo raggiunse nell’81 quando aveva quattro anni. Ragazza brillante, a neanche vent’anni era già ammessa alla mitica Sciences Po, la culla delle élites della rue Saint Guillame. Da quel momento, racconta, è stato “un succedersi di incontri che hanno precipitato le cose”. Il primo, il suo professore di diritto la cui moglie era una deputata socialista, Beatrice Marre, che ricorda: “Era appassionata e gran lavoratrice”. Ancora studente, divenne già assistente parlamentare. Nel 2002, dopo l’irruzione di Jean Marie Le Pen al secondo turno delle presidenziali, aderire al Ps fu una reazione naturale, e da lì cominciò l’ascesa politica.
IL SECONDO incontro fu con Gerard Collomb, peso massimo del partito e soprattutto sindaco di Lione, che la volle nel suo staff. E poi nel consiglio regionale del Rodano-Alpi, il suo primo successo elettorale. A seguire, nella giunta comunale lionese, come assessore alla gioventù. Nel 2006 l’incontro con Ségolène Royal che preparava la sua candidatura alle presidenziali. Racconta Montebourg che all’epoca Najat “fece fronte con intelligenza e sangue freddo”. Fu ancora con Ségolène alle primarie socialiste dello scorso anno, per poi allinearsi con il vincitore Hollande: “Disciplinata e legittimista”, la definì quest’ultimo, prima di nominarla portavoce della sua campagna. Tutto ciò non le ha impedito, nel frattempo, di convolare a giuste nozze con un alto funzionario dell’amministrazione pubblica e di mettere al mondo due figli. Najat è di gentile aspetto ma di lingua pronta e assai puntuta, fino ad una certa ferocia. Non esitò a definire Sarkozy come “un impasto tra Berlusconi e Putin”, paragone che persino alcuni dei suoi compagni trovarono ingeneroso. Si dice musulmana, per quanto non praticante. Ha la doppia nazionalità franco-marocchina, e non intende rinunciarvi con gran dispetto di quelli del Fronte nazionale e di non pochi dell’Ump, la destra parlamentare. Ieri del resto una fedelissima di Sarkozy, Nadine Morano, si è detta preoccupata per il futuro delle donne francesi: “Najat Belkacem era contro la legge che ha vietato il burqa”.
MA A VEDERLA salire lo scalone dell’Eliseo, sempre con quell’aria sbarazzina ma bella elegante nel suo giacca pantalone finemente rigato, era l’immagine della modernità: la bionda Morano non si è meritata nemmeno una replica. Najat del resto non vuole essere la Rachida Dati dell’equipe di Hollande. Si considera pienamente assimilata, non intende “rappresentare la diversità”. È francese e repubblicana, nel senso pieno del termine. E tanto peggio per chi la vorrebbe rispedire nel suo Rif natale.

Corriere 19.5.12
Il favoloso mondo di Aurélie Da figlia di minatore italiano ad arbitro della cultura francese
La ministra Filippetti: «Fiera delle mie radici»
di Stefano Montefiori


PARIGI — La prima visita da ministro della Cultura, ieri, è stata agli operai dell'acciaieria Arcelor Mittal di Florange, in Mosella, che temono di perdere il lavoro. «Ha preferito venire subito da noi invece che andare a Cannes, non lo dimenticheremo», dice il sindacalista Edouard Martin ai cancelli della fabbrica. Al Festival era già tutto pronto per accogliere la ministra ma la Croisette dovrà aspettare domani. In un partito socialista spesso accusato di dimenticare le sue radici popolari, la 38enne normalista di lettere classiche, scrittrice e neo-ministro Aurélie Filippetti resta attaccata alle origini. Che sono la classe operaia, e l'Italia.
La famiglia di Aurélie viene da Gualdo Tadino, in Umbria, abbandonata dal nonno Tommaso dopo la Grande Guerra per andare a lavorare nelle miniere della Mosella, in Francia. Militante antifascista, entrato nella resistenza contro i tedeschi, Tommaso Filippetti morì nell'aprile 1945 nel lager nazista di Bergen Belsen. Suo figlio Angelo ha fatto anche lui il minatore, ed è stato per 10 anni il sindaco comunista del paesino di Audun-le-Tiche. È morto nel 1992, di un cancro ai polmoni preso in miniera.
Due giorni fa, alla cerimonia di insediamento tra gli stucchi e gli ori di rue de Valois, il ministro uscente Frédéric Mitterrand che cedeva il posto a Aurélie ha raccomandato alla madre Odette Filippetti (nata Rovere), che sedeva commossa in prima fila, di essere «fiera di sua figlia». Ma la ministra della Cultura venuta da lontano, poco dopo, ha commentato in italiano «che in questo momento bisogna essere fieri non di me ma di mio nonno, che è morto per la libertà di tutti noi, e fieri di mio padre, che con il suo lavoro mi ha permesso di arrivare dove sono adesso».
Aurélie Filippetti ha raccontato le vicende della sua famiglia nel suo primo romanzo, «Gli ultimi giorni della classe operaia», uscito in Francia dieci anni fa e edito in Italia da Tropea. In quel libro, che ottenne un grande successo e ottime recensioni, l'allora militante ecologista Aurélie raccontava del padre Angelo «che si alzava tutte le mattine alle cinque ed era già sotto terra quando mi svegliavo. Una volta che il cancro al polmone lo colpì, sputava di continuo, come tutti i vecchi minatori». E ancora, nei ricordi d'infanzia della Filippetti, il maiale ammazzato una volta l'anno per preparare la porchetta (in italiano nel testo) da servire alla festa della cellula sindacale, o gli gnocchi fatti a mano dalla mamma ogni domenica. Grazie ai sacrifici dei genitori, la figlia di minatori Aurélie Filippetti ha potuto studiare lettere classiche all'École normale supérieure di Fontenay-Saint-Cloud, ed è oggi ministro in una Paese, la Francia, dove la Cultura è da sempre uno dei dicasteri più importanti del governo. Ma gli inizi non furono facili. «Ci chiamavano macaronì, in senso dispregiativo», ha raccontato la Filippetti qualche anno fa quando è tornata a Gualdo Tadino. Nella cittadina umbra la Filippetti era già andata da bambina, accompagnata dal padre per il gemellaggio con Audun-le-Tiche. «Fu un momento importantissimo per tutti gli emigrati italiani di Audun-le-Tiche — fu poi il commento della Filippetti, riportato dal Giornale dell'Umbria —, perché una parte del nostro cuore rimane a Gualdo. Per costruire bene l'avvenire è fondamentale conoscere il passato e essergli fedele».
Sposata, con una figlia tredicenne, Aurélie Filippetti ha collaborato a lungo con Ségolène Royal prima di sostenere François Hollande al momento della candidatura per le presidenziali. Durante la campagna elettorale era lei, fotogenica e spigliata, a salire sul palco assieme all'altra portavoce Najat Vallaud-Belkacem per «scaldare la folla» in attesa del comizio. Il suo primo atto da ministro sarà la modifica o la soppressione della legge Hadopi che stacca la spina a chi scarica file illegalmente, per sostituirla con un altro sistema «che finanzi la creazione artistica».
Al passaggio delle consegne con il precedente ministro Frédéric Mitterrand, amico più che avversario politico, la Filippetti ha ricordato l'importanza della lingua francese, «alla quale siamo così attaccati», e della cultura come «ciò che è capace di avvicinare le persone». Poi Aurélie Filippetti ha regalato a Mitterrand un romanzo, «E disse», di Erri de Luca. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere — ha detto davanti alle telecamere —. Una cosa che ci unisce, è l'amore per l'Italia».

Corriere 19.5.12
Orlandi, indagato un monsignore
L'ex rettore di Sant'Apollinare sotto accusa per concorso in sequestro
di Fabrizio Peronaci


ROMA — Al quinto giorno di lavoro della polizia scientifica sull'ossario di Sant'Apollinare — nella stessa cripta dove lunedì è stata aperta la tomba del boss «Renatino» De Pedis — emerge una novità dell'inchiesta a lungo tenuta coperta, segreta, inaccessibile. Il quinto indagato per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana sequestrata nel 1983, ha un nome. Oltre ai quattro della banda della Magliana, nelle indagini figura un insospettabile. Un ecclesiastico: è monsignor Piero Vergari, rettore di Sant'Apollinare all'epoca dei fatti, rimosso dall'incarico nel 1991, un anno dopo aver perorato la causa dell'«indegna sepoltura» con una lettera al cardinal Poletti in cui descrisse il gangster romano come «grande benefattore».
Allontanato dai suoi superiori, «don Pierino» tornò nella natìa Umbria, a Sigillo, per poi proseguire l'attività pastorale nel Reatino. Vani in tanti anni — visto il carattere veemente — i tentativi di avvicinarlo. Nonostante curi un sito a suo nome, Vergari non si dilunga in spiegazioni. Ama il latino: Parce sepulto, perdona chi è sepolto, ha scritto in un testo in cui ricorda l'incontro con «Renatino» a Regina Coeli, le volte che il boss lo aiutò «a preparare le mense dei poveri» e che «quando seppi in tv della sua morte, ne restai meravigliato e dispiacente». In conclusione, nuova citazione: De mortuis nil, nisi bene. Dei defunti si deve dir bene. Anche Emanuela Orlandi però, sospettano gli inquirenti, è morta.
Morta ammazzata. La pista presa nel 2008 dopo le rivelazioni di Sabrina Minardi, la femme fatale di De Pedis che accusò il suo amante di aver organizzato l'omicidio, ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati (oltre che di se stessa, rea confessa) di tre esponenti della «bandaccia»: Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, indicati come i pedinatori di Emanuela, e Sergio Virtù, descritto come «l'autista» che la caricò in auto e la portò sul litorale, dove fu uccisa, chiusa in un sacco e «stritolata in una betoniera».
Ora che il quadro è completo, tuttavia, lo scenario cambia: l'accusa di concorso in sequestro per il monsignore («un atto dovuto, era il padrone di casa», precisa chi indaga), ammesso che non evapori in una richiesta di proscioglimento ricolloca le indagini in un raggio limitatissimo: la figlia del messo papale sparì alle 19 del 22 giugno 1983 cento metri più in là, davanti al Senato, e poco dopo sarebbe finita in trappola e riportata con una scusa dentro Sant'Apollinare. Cosa accadde nel luogo sacro? Incontri a sfondo sessuale? A supporto di tali ipotesi, ci sarebbero il sequestro di un computer e un'intercettazione piuttosto scabrosa che coinvolge un seminarista. E anche la tenacia con cui da giorni viene setacciata la cripta: una volta aperta la bara di «Renatino» si pensava che il lavoro fosse finito, e invece la Scientifica sta passando al setaccio le 200 cassette di ossa trovate nei sotterranei, dopo aver usato il georadar in cerca di vani dietro le pareti e sotto il pavimento.
Una di quelle ossa appartenne alla povera Emanuela? Il dubbio, per quanto «residuale», è drammaticamente questo. E, se verrà fugato, per risolvere il giallo della «ragazza con la fascetta» non resterà che una scelta: tornare a battere le vecchie piste legate ad Alì Agca, ai servizi segreti dell'Est e al terrorismo internazionale, un tempo percorse a lungo e poi scartate.

La Stampa 19.5.12
Roma, Rettore della basilica di Sant’Apollinare ai tempi della scomparsa
Caso Orlandi, indagato l’ex parroco
«Concorso in sequestro di persona» Ma la procura: «Solo un atto dovuto»
di Giacomo Galeazzi e Francesco Grignetti


La procura di Roma indaga sull'ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, don Piero Vergari: «Concorso in sequestro di persona», si legge negli atti. Il monsignore, che nel frattempo ha lasciato Roma ed è tornato nella natia Sigillo, in Umbria, nel 1983, al tempo della scomparsa della ragazza era il «padrone di casa». E don Vergari era ancora al suo posto sette anni dopo, nel 1990, quando fu ucciso il boss della Magliana, Renatino De Pedis, per il quale caldeggiò con il Vicariato la specialissima sepoltura in chiesa. Inevitabile, quindi, un’iscrizione al registro degli indagati all’atto di aprire il sepolcro. «Un atto dovuto», viene spiegato negli ambienti inquirenti. L’ispezione della cripta di Sant’Apollinare alla ricerca del cadavere di Emanuela Orlandi, ovviamente, non si sarebbe potuta effettuare senza il rigoroso rispetto delle norme. Occorreva un’iscrizione al registro degli indagati per chi, come don Vergari, aveva la responsabilità della gestione della basilica. E iscrizione è stata. Ma un passo del genere è stato soppesato a lungo dalla procura di Roma. E quando i magistrati hanno deciso per il via libera all’ispezione, con tutte le conseguenze giuridiche del caso, anche il Vaticano è stato informato.
Don Vergari fu inviato a Sant'Apollinare, a due passi da piazza Navona, dal cardinale vicario Poletti per «normalizzarla» negli anni turbolenti del post-Concilio e tanto fu efficace nel riportare la basilica alla tradizione che la vedova di Renatino De Pedis racconta di averla scelta all' epoca per le nozze e le messe domenicali poiché «era l’unica a Roma coi canti gregoriani». Sarà necessario oltre un mese di tempo, comunque, per sapere se tra le ossa trovate nel sotterraneo di Sant’Apollinare ci siano anche quelle di Emanuela Orlandi. Rispetto alla quasi totalità dei resti di epoca prenapoleonica, alcuni sono più recenti e il loro Dna sarà comparato con quello della cittadina vaticana.
«Se qualcuno aveva interesse a far sparire qualche traccia ha avuto tutto il tempo per farlo», commenta l'ex sostituto procuratore generale Giovanni Malerba che si occupà del caso Orlandi. E aggiunge: «La Santa Sede non collaborò alle indagini». Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ritiene che «la sepoltura del boss in un luogo destinato a papi e cardinali sia il vero snodo dell'intreccio tra Chiesa, Stato e criminalità che 29 anni fa si è portato via mia sorella».
Sant’Apollinare è una chiesa con una storia di primaria importanza. Era la basilica annessa al Pontificio Istituto di studi giuridici, uno dei principali centri di formazione del clero. Nell’edificio ebbe un ufficio riservato Oscar Luigi Scalfaro. Durante le battaglie del referendum sul divorzio il Pontificio Istituto, che ospitava preti studenti e professori, fu per caso sede di incontri con Adriana Zarri e Raniero La Valle, e per intervento del sostituto della Segreteria di Stato Benelli fu in pratica chiuso con l’accusa di essere diventato un «covo di comunisti». L’edificio divenne sede del Circolo di San Pietro, per l’assistenza dei poveri, e nuovo rettore della Basilica fu scelto don Piero Vergari, pragmatico e abile, che nel suo apostolato nelle carceri era entrato in contatto anche con esponenti di spicco della mala romana.

il Fatto 19.5.12
Orlandi: indagato per sequestro il prete di Sant’Apollinare
Per la scomparsa di Emanuela c’è un quinto inquisito: don Piero Vergari, ai tempi del rapimento rettore della basilica dove fu sepolto il boss De Pedis. E dove la ragazza fu vista per l’ultima volta
di Rita Di Giovacchino


Per la scomparsa di Emanuela Orlandi c’è ora un quinto indagato. Un prete, l’unico in grado di chiudere il cerchio di un’inchiesta “corsara” che indaga sul mistero della tomba di Renatino De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare. Sotto la riga blu, che copre l’omissis, c’è il nome di don Piero Vergari, in quegli anni rettore della basilica minore, dal 1992 passata all’Opus Dei, all’epoca dipendente dal Vicariato di Roma e cioè dal cardinale Ugo Poletti.
Atto dovuto, liquida rapidamente la “fonte”. Ma, la recente iscrizione del parroco, precede di pochi giorni la decisione della Procura di Roma di varcare la soglia del sagrato, tra piazza Navona e il Senato, scendere nei sotterranei inviolati e aprire quel sarcofago tempestato di zaffiri attorno al quale, in un delirio di curiosità e legittimi interrogativi, è andata crescendo la convinzione che soltanto lì è racchiusa la verità. Non soltanto sulla scomparsa di Emanuela, ma su inaccessibili segreti vaticani a fronte dei quali gli intrighi romanzeschi di Dan Brown impallidiscono. Unico dato certo è che fu Vergari a sollecitare il trasferimento a Sant’Apollinare della salma di De Pedis, ucciso il 2 febbraio in via del Pellegrino, con una lettera al cardinal Poletti che vergò il nulla osta in tempi rapidissimi. I resti del boss, riemersi quasi intatti dall’umido abitacolo, sono lì dal 20 marzo 1990. Ma Sant’Apollinare è anche la chiesa dove per l’ultima volta fu vista Emanuela, il 22 giugno 1983, prima che sparisse nel nulla. “Quell’indegna sepoltura rappresenta lo snodo del patto tra Stato, Chiesa e criminalità”, ha detto lunedì scorso Pietro Orlandi, sul piazzale della chiesa dove è tornato dopo 29 anni per assistere alla riapertura della tomba. Da anni il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Simona Maisto indagano su una strana pista che lega la scomparsa della ragazzina a un “ricatto” nei confronti di Wojtyla.
MAFIA e malavita romana beffati dal Vaticano e pronti a tutto per rientrare di 250 miliardi di vecchie lire che i boss avevano riciclato nelle casse dello Ior. Soldi che il papa avrebbe utilizzato per finanziare Solidarnosc, il sindacato polacco di Walesa. Atto dovuto l’iscrizione di don Vergari, ma conferma della pista Ior. A indicarla era stata nel 2009 Sabrina Minardi, l’ex amante di Rena-tino. “La ragazza è morta, ho visto Sergio gettare due sacchi nella betoniera in un cantiere a Torvaianica... quando siamo tornati a casa gli ho chiesto chi era. Che te lo devo dì io, mi rispose”. Quello di Emanuela era un rapimento “indicato” da qualcuno molto in alto, dice la donna. Da chi?
“ Da Marcinkus... doveva creare scalpore, come la morte di Calvi, così chi doveva capi’ capiva”. Frasi apparentemente sconclusionate, ma non del tutto: l’anno prima la mafia aveva ucciso Roberto Calvi. Ora gli imputati di quel processo sono stati tutti assolti, ma agli atti restano i legami incrociati tra siciliani e romani: Calò era amico di De Pedis, considerato “l’uomo del Vaticano” come l’augusta sepoltura conferma.
Ora non è più soltanto Sabrina ad affermare che Emanuela era stata rapita da De Pedis. Molti personaggi legati alla banda della Magliana lo hanno confermato: da Maurizio Abbatino, a Fabiola Moretti, fino a Nino Mancini, l’Accattone che nell’intervista di martedì scorso al Fatto Quotidiano ha detto: “Bisognava decidere se far ritrovare qualche cardinale in una pozza di sangue o mandare un segnale forte, abbiamo scelto la seconda strada”. Un segnale che Marcinkus deve aver recepito: forse il cardinale da far ritrovare “nella pozza di sangue” era lui. Anche Sabrina è indagata, ha ammesso di averla tenuto in ostaggio Emanuela in un appartamento a Torvaianica.
CON LEI ci sono altri tre pregiudicati iscritti con l’accusa di sequestro di persona aggravato dallo scopo di estorsione, dalla conseguente morte dell’ostaggio e dalla minore età della vittima. Tutti a piede libero, tranne Sergio Virtù, in carcere per altro reato, l’uomo che avrebbe occultato il cadavere a Torvaianica. L’uomo ha sempre negato, ma ad accusarlo c’è anche la testimonianza di una donna polacca un tempo legata a lui. Ci sono poi due fedelissimi di De Pedis, Ci-letto e Giggetto, alias Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni. Sospettato di aver avuto un ruolo marginale è anche Giuseppe De Tomasi, l’ex commercialista di Renatino che ha aggredito Federica Sciarelli, nell’ultima punta di Chi l’ha visto. Una perizia afferma che sarebbe Mario “il barista”, il telefonista anonimo. Se non fosse morto nel 2006 la Procura di Roma avrebbe iscritto anche Marcinkus per concorso in sequestro? Sospetto fondato, ma la prescrizione è dietro l’angolo. Il prossimo anno saranno 30 anni che Emanuela è scomparsa.

il Fatto 19.5.12
Il bandito “Aiutava le mense dei poveri”

Dal sito internet www.vergarimonspiero.com  

Tra le più belle esperienze della mia vita sacerdotale in Roma (...) mi è stata carissima quella della visita alle carceri di Regina Coeli (...). Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte (...). Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Doveva essere valido come sempre, il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. (...) la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991.
Mons. Piero Vergari 3 ottobre 2005

il Fatto 19.5.12
L’incontro con De Pedis, l’amicizia e la sepoltura del boss
Il sacerdote è tornato a vivere nel suo paesino natale in Umbria
La sua storia è parallela a quella del potente Marcinkus


Don Piero Vergari da anni è tornato a Sigillo, il paesino dell’Umbria che 72 anni fa gli diede i natali. Ogni tanto i giornalisti suonano alla sua porta per intervistarlo, ma lui si affaccia al balcone, saluta e lascia tutti a bocca asciutta. Un esilio che un po’ ricorda quello subito dal vescovo Marcinkus, tornato a Cicero nell’Illinois (che come tutti sanno è patria di Al Capone), nel 1989. Se non fosse per la scomparsa di Emanuela nulla legherebbe il destino di un vescovo che per 27 anni è stato tra gli uomini più potenti della Chiesa, che si muoveva come un capo di Stato o almeno come un ministro degli esteri, con quello di un umile parroco di cui mai avremmo sentito parlare se non fosse per questa strana storia della tomba di De Pedis.
A SEGNARE il suo destino, dicono, furono i primi anni Ottanta quando assisteva i detenuti nel carcere di Regina Coeli, in quegli anni affollato dai boss della Banda della Magliana. Lì conobbe Renatino e ne fu conquistato: “Parlavamo di cose religiose e di attualità”. Ma anche il boss lo amava. Tanto che nessuno sa dire se sia stato lui a introdurlo nelle sacrestie che contano e non invece sia stato De Pedis, importante crinale della “trattativa” tra Vaticano e boss, amico di tanti pezzi grossi della Santa Sede, a raccomandare il prete amico suo. Nel 1989, proprio mentre Marcinkus lasciava la Roma che tanto amava a causa di quell’ordine di cattura spiccato dalla procura di Milano per il crac del banco Ambrosiano, don Vergari ormai rettore della basilica di Sant’Apollinare officiò le nozze di De Pedis con Carla Di Giovanni, ragazza seria e di buona famiglia. La pecorella smarrita era tornata all’ovile. Fu dopo, mentre si stappavano le bottiglie di champagne, che Renatino scherzando disse: “Quanno me tocca, me piacerebbe esse sepolto qui”. La profezia si avverò in tempi rapidi, appena tre mesi dopo in via del Pellegrino. Il resto è noto. Quando lo scorso anno fu convocata in procura, Carla Di Giovanni diede questa spiegazione: “Mio marito era legato a quella chiesa, lì andavamo a messa la domenica e lì ci siamo sposati, so che aveva fatto offerte importanti a don Vergari, io stessa consegnai nelle sue mani 500 milioni”. Il parroco confermò: “Era un gran benefattore, ha fatto tanto del bene a giovani e persone bisognose”.
GIULIO ANDREOTTI, chiamato in causa dalla Minardi per un paio di cene, commentò caustico: “Forse non era un benefattore dell’umanità, ma di Sant’Apollinare sì”. A guastare la festa c’è il fatto che Emanuela Orlandi frequentava quella chiesa, anzi la scuola di musica Tommaso Ludovica de Victoria, dove studiava flauto traverso. La scuola si trova all’interno dell’imponente complesso di Sant’Apollinare. Tre volte a settimana, dalle 15 alle 18, entrava in quel cortile, quella primavera era improvvisamente sbocciata, ormai era un’adolescente e non passava inosservata.
Potevano rapirla ovunque, invece l’hanno rapita lì. Inutile girarci intorno, la famiglia sospetta l’esistenza di un basista. “Mia sorella è stata rapita soltanto perché era una cittadina vaticana”, ribadisce il fratello Pietro. Il segnale forte, di cui parla l’Accattone è passato sulla sua testa. Don Vergari è indagato anche se, quando i magistrati sono scesi nella Cripta, non era lì ad aprire la porta. Ma nel 1983 era lui il padrone di casa. Atto dovuto. Il nuovo rettore è don Pedro Huidobro, dell’Opus Dei, che per uno strano segno del destino è medico patologo e in questa veste ha assistito ai passaggi più delicati della riesumazione della salma. “Noi ci auguriamo che l’apertura della tomba aiuti a far ritrovare serenità e rispetto nei confronti di un luogo sacro, da parte nostra la collaborazione con le autorità competenti è totale”. A San-t’Apollinare si volta pagina, qualcuno dice: solo perché non è più la Curia romana a comandare in queste mura.
Rdg

il Fatto 19.5.12
Il caso gemello di Mirella Gregori sparita 47 giorni prima


Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia scompare il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni. Alla sparizione di Emanuela fu collegata anche quella di un’altra adolescente romana, Mirella Gregori, scomparsa il 7 maggio 1983. La vicenda della Gregori viene collegata a Emanuela quando la madre di Mirella riconosce i volti di due uomini collegati all’Orlandi, mostrati negli identikit. Dopo 29 anni dalla scomparsa della Orlandi, la vicenda è ancora aperta. Dal 1983 ad oggi moltissime piste sono state seguite: dalle telefonate dell’Amerikano, secondo alcuni Paul Markinus, presidente dello Ior, che tiravano in ballo Ali Agca, l’uomo che un paio d’anni prima aveva sparato a Papa Giovanni II, fino alla banda della Magliana. Pista seguita dopo la telefonata anonima che suggeriva di controllare chi fosse sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare, ovvero Enrico De Pedis, uno dei capi della banda.

Repubblica 19.5.12
Le linee guida dei vescovi per evitare abusi sessuali. "Collaborate con i giudici"
Pedofilia, nella direttiva Cei niente obbligo di denuncia
"I vescovi non sono obbligati a denunciare i preti pedofili"
di Marco Ansaldo


PIENA collaborazione della Chiesa italiana con la giustizia civile sugli abusi sessuali di sacerdoti nei confronti di minori. Ma nessuna denuncia diretta da parte dei vescovi, perché l´obbligo non è previsto dall´ordinamento nazionale. Sono questi alcuni tra i punti fondamentali delle "Linee guida" della Cei sulla pedofilia.
Ecco le linee guida della Cei: i prelati collaborino con i giudici
La scelta è stata di non scavalcare la legge nazionale che costringe solo i pubblici ufficiali
Le nuove norme accolgono le richieste del Papa: saranno diffuse la settimana prossima

La Conferenza episcopale italiana le diramerà la prossima settimana durante la sua Assemblea generale, preceduta da una prolusione del presidente, il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco. Una decisione che non mancherà di suscitare l´attenzione dell´opinione pubblica, e forse qualche polemica. Perché con l´annuncio delle "Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici", la Chiesa italiana viene in ogni caso incontro alle richieste fatte lo scorso anno da Benedetto XVI, e poi raccomandate nel maggio 2011 dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Ma le denunce dovranno partire dalle vittime stesse, e non dalle diocesi.
Vediamo i punti principali delle disposizioni in materia. Nella sostanza, il documento della Chiesa italiana è in buona parte l´applicazione della Lettera circolare della Congregazione, l´ex Sant´Uffizio, per tanti anni guidato da Joseph Ratzinger prima di diventare Papa. Quando nel 2010 scoppiò il caso della pedofilia nella Chiesa, il Pontefice chiese alle Conferenze episcopali di tutto il mondo di redigere un regolamento che affrontasse con spirito nuovo e "tolleranza zero" il fenomeno. Le nuove norme sono state quindi elaborate e approvate nel gennaio scorso, ma si è deciso di presentarle e pubblicarle nella settimana in cui si svolge l´Assemblea generale della Cei.
Uno dei primi punti è quello dell´ascolto delle vittime o dei loro familiari da parte del vescovo o di un suo delegato. Determinante sotto questo profilo l´assistenza psicologica e spirituale dei minori. E vale per tutti l´esempio dato dallo stesso Benedetto in più viaggi all´estero: a Malta, in Germania, in Gran Bretagna il Papa ha voluto ricevere e parlare con le vittime. Dura in proposito la sua Lettera pastorale ai cattolici d´Irlanda, con ferme accuse ai prelati e parole di vicinanza agli abusati.
Un secondo pilastro riguarda la protezione dei bambini e dei giovani da parte del vescovo. Viene sentita come doverosa l´esigenza di fornire una risposta adeguata ai casi di abuso sessuale commesso dai chierici. E sono previsti programmi educativi di prevenzione, sia per aiutare i giovani sia per sostenere i genitori.
Terzo punto forte, la formazione dei religiosi. Un aspetto che concerne il «corretto discernimento vocazionale» e una «sana formazione umana e spirituale dei candidati». I futuri sacerdoti dovranno infatti apprezzare «la castità e il celibato», rispettando così «la disciplina della Chiesa».
Il vescovo dovrà quindi, e questo è un ulteriore cardine, accompagnare i suoi religiosi, soprattutto nei primi anni del loro sacerdozio, avvertendoli circa il «danno recato da un chierico alla vittima di abuso sessuale» e della «propria responsabilità di fronte alla normativa canonica e civile».
Il punto in ultimo decisivo è quello della cooperazione con la giustizia civile. La Lettera circolare del Sant´Uffizio lo scorso anno raccomandava così: «Sebbene i rapporti con le autorità civili differiscano nei diversi Paesi, tuttavia è importante cooperare con esse nell´ambito delle rispettive competenze». E poiché si prescriveva che le Linee guida tenessero conto delle legislazioni dei singoli Paesi, la scelta infine è stata quella di non scavalcare la normativa nazionale che, per l´Italia, prevede l´obbligo di denuncia all´autorità giudiziaria solo per i pubblici ufficiali e non lo prevede dunque per i casi di abuso di cui venissero a conoscenza i vescovi. L´eventuale denuncia starà alle vittime, che troveranno in questo piena collaborazione da parte dei ministri religiosi.

l’Unità 19.5.12
La società educante e la speranza italiana
Giuseppe Vacca ha indicato un terreno di confronto molto interessante tra il Pd e il mondo cattolico
Occorre discutere a partire dal riconoscimento
del ruolo della famiglia e dal principio di sussidiarietà
di Massimo De Angelis


NEL SUO ARTICOLO DAL SIGNIFICATIVO TITOLO “IDENTITÀ DEL PD E QUESTIONE ANTROPOLOGICA” (L’UNITÀ 17 MAGGIO), GIUSEPPE VACCA RIFLETTE IN MODO INTERESSANTE sui rapporti tra quella forza politica e il mondo cattolico.
Egli individua nell’emergenza educativa un terreno speciale di confronto. A partire dall’inizio del 2008, allorché Joseph Ratzinger inviò la famosa lettera alla diocesi di Roma cui seguì la grande udienza in piazza San Pietro, il tema è particolarmente sentito a approfondito in seno al mondo cattolico italiano e nella Cei. Nella consapevolezza che la crisi oggi presente, è sì specificamente economica e finanziaria, e su questo il Pontefice si è soffermato nella Caritas in Veritate, ma essa ha infine radici (e a ben vedere anche soluzioni) culturali.
Il terreno di confronto appare dunque appropriato così come alcune idee presenti nell’articolo di Vacca: quella di società educante (importante è innanzitutto il sostantivo), quella della non disgiungibilità di istruzione ed educazione (così come, potrebbe dirsi, di efficienza e virtù), quella del non surrogabile ruolo educativo della famiglia. Tre tasselli di una visione che, se assunti con chiarezza e in modo unitario, farebbero compiere decisivi passi in avanti al confronto di idee nel Paese. Tante incomprensioni su scuola statale e no sono in passato nate dal fatto che il punto di vista dei tanti cattolici impegnati in questo campo era frainteso. La loro critica all’idea statalistica di scuola veniva scambiata con la volontà di affermare l’idea di una scuola privata e per ricchi. Mentre l’idea era ed è quella di una scuola libera in cui siano operanti, e in relazione reciproca, la libertà dell’insegnante e quella dello studente e della sua famiglia.
Ma qual è il fondamento di siffatta impostazione se non che ogni progetto formativo deve partire dal basso e crescere secondo il principio di sussidiarietà? E quindi prima la famiglia, poi la scuola, poi altre strutture a cominciare da quelle della comunicazione, e non a partire dall’alto e quindi dallo Stato. Società educante va dunque benissimo. Sapendo, certo, che educare è difficile e richiede la passione di trasmettere i valori-base dell’esistenza umana e civile, e che perciò è impossibile sulla base di un approccio postmoderno secondo il quale educare alla ricerca del Bello, del Vero e del Buono è ubbìa o mistificazione. Perché educare significa precisamente esser convinti che non tutte le idee e i comportamenti sono sullo stesso piano.
Anche alla luce del ruolo educativo originario della famiglia e dei suoi due membri genitoriali, complementari sulla base della loro rispettiva identità sessuale, si potrebbe meglio comprendere (anche a prescindere da ogni presupposto religioso) la posizione tante volte espressa dalla Chiesa sull’importanza del matrimonio e sulla sua incomparabilità con altre unioni tra persone dello stesso sesso: unioni che lo Stato peraltro ha non solo il diritto, ma il dovere di regolare nell’interesse dei singoli iuxta propria principia. (Sarebbe in propo
sito prezioso, anche per purificarsi dalle scorie di scontri del recente passato, tradurre e leggere il recente libro di Martin Rhonheimer “Christentum und saekularer Staat”, Herder, 2012). Vita, famiglia, educazione sono quindi quel trittico che forma davvero la persona come ente non individualisticamente chiuso in sé stesso, ma ontologicamente relazionale.
«L’anima dell’educazione può essere solo una speranza affidabile», scriveva in modo toccante nella lettera già citata Benedetto XVI. Perciò, forse, oggi educare è così difficile e allo stesso tempo è però una sfida bella e decisiva. Una sfida in nome della speranza e perciò della vita stessa. «Alla radice della crisi della educazione, infatti scriveva ancora Benedetto XVI c’è una crisi di fiducia nella vita». Quella che vediamo serpeggiare tra i nostri giovani (crisi di prospettive economiche ma anzitutto di incertezza culturale).
Ebbene, sarebbe prezioso e forse non del tutto irrealistico pensare a uno sforzo unitario in questo campo. A partire dalla individuazione dei bisogni fondamentali delle persone che non vanno scambiati con i desideri, nel contesto di una crisi che è di civiltà, e in nome infine di quella “speranza” che, certo per un tramite discreto ma autorevole, quale è quello così umano dei genitori e degli insegnanti, non dobbiamo cessare di provarci ad “affidare” e cioè trasmettere ai nostri bambini e ai giovani, e che coincide con la vera educazione.

l’Unità 19.5.12
Settimo Cielo
Una nuova etica pubblica dipende anche dai cristiani
di don Filippo Di Giacomo


IN SEGUITO, ABBIANO RIDACCHIATO SULLA NOSTRA DABBENAGGINE... eppure preparandoci a seguire come giornalisti, la visita di Benedetto XVI ad Arezzo e a San Sepolcro il 13 maggio scorso, ci eravamo fidati della cartina proposta da un settimanale nazionale che, nelle due località toscane, indicava l’epicentro della secolarizzazione made in Italy. Non era vero, ma una volta dato il segnale d’inizio, come diceva Napoleone, fatalmente «l’intendenza segue». Poi, ascoltando e rileggendo con calma, è apparso chiaro che tra i discorsi «laicamente orientati» di quel giorno, vi erano anche i due pronunciati dal Papa. Se non altro, quando ha sottolineato che «oggi vi è particolare bisogno che il servizio della Chiesa al mondo si esprima con fedeli laici illuminati, capaci di operare dentro la città dell’uomo, con la volontà di servire al di là dell’interesse privato, al di là delle visioni di parte. Il bene comune conta di più del bene del singolo, e tocca anche ai cristiani contribuire alla nascita di una nuova etica pubblica...Ai giovani rivolgo l’invito a saper pensare in grande: abbiate il coraggio di osare! Siate pronti a dare nuovo sapore all’intera società civile, con il sale dell’onestà e dell’altruismo disinteressato. E’ necessario ritrovare solide motivazioni per servire il bene dei cittadini». E le pregevoli, e profonde parole dei sindaci di Arezzo e di San Sepolcro hanno fatto meglio comprendere come la vera politica, in Italia, sia ancora possibile solo dove i cittadini sono liberi di scegliere, grazie al sistema maggioritario, da chi essere governati. Naturalmente, nessuno si è interessato a quello che l’avvocato Giuseppe Fanfani (sindaco di Arezzo) e la professoressa Daniela Frullani hanno detto della loro città e dei loro cittadini: senza particolari complessi, non hanno avuto difficoltà (come risulta dai discorsi) a ricordare quanto la Repubblica sia debitrice di ciò che nella Costituzione i cattolici, cioè la maggioranza dei padri fondatori della nostra forma statuale, hanno saputo far scrivere. Qualcosa di molto importante, che dura fino ai nostri giorni, e che permette ancora che in questo Paese si riescano a creare (anche a sinistra) spazi trasversali e convergenti per disegnare e organizzare una vita civile per tutti, per i laici (senza puzza sotto il naso) e per i cattolici (senza ex cathedra in testa perché frequentano una sacrestia), per i «vecchi» e per i «nuovi cittadini» cioè gli «altri», quelli che l’Italia la scelgono prima per necessità e poi con il cuore. «L’accoglienza, che anche in tempi recenti avete saputo dare a quanti sono venuti in cerca di libertà e di lavoro, è ben nota», ha detto il Papa agli aretini. Alla fine di febbraio del 2006, mentre a Fiuggi, con il congresso di «La rosa nel pugno» la sinistra italiana tentava uno dei tanti assemblaggi elettoralistici per scardinare il blocco del berlusconismo, Benedetto XVI rendeva noto il suo primo messaggio da Papa per la quaresima di quell’anno. Anche allora, come è accaduto in Toscana, ricordava non solo la necessità di difendere la «famiglia fondata sul matrimonio», ma anche di salvaguardare le economie del nostro e degli altrui Paesi dai poteri finanziari. Ai quali, nell’epoca della globalizzazione, giustizia imporrebbe l’onere di dimostrare fattivamente come pensare e provvedere a coloro che vivono nell’impoverimento globale da loro causato. E ricordando che, con Paolo VI, la Chiesa sospetta una certa sfumatura assolutoria nei termini «crescita-mercato-sviluppo», notava come i teorici del liberalismo economico riescono a rendere quasi gradevole la diffusa ingiustizia sociale che accomuna l’80% di questa nostra umanità celandola sotto le sembianze di presunte economie «indebitate», e reiterava ai cattolici il monito a guardare ai problemi dell’equa distribuzione dei beni di questo mondo come a una «sottrazione di umanità», cioè ad un problema di etica globale.
L’argomento venne più volte ripreso e commentato, su Avvenire, il quotidiano della Cei, da uno dei socialisti più autorevoli nel mondo, l’ebreo polacco Zygmunt Bauman. Dal congresso dei nostri socialisti in quei giorni invece, fluirono soprattutto i commenti di un pensatore di nome Vladimir Luxuria. Il 2013 si avvicina: sarà pronta la legge elettorale per ridare libertà di scelta agli italiani anche a livello nazionale?

Repubblica 19.5.12
È ora di investire nei valori etici
di Joaquìn Navarro-Vals,
già Portavoce di Giovanni Paolo II

Stiamo vivendo un periodo di crisi. Forse questa è tra le espressioni più ricorrenti che è possibile ricavare dalla lettura quotidiana dei giornali o dall´osservazione di un qualsiasi dibattito televisivo. Ma non si tratta, invero, di una novità senza precedenti. Il paragone storico che il più delle volte viene stabilito richiama la débâcle economica e politica della fine degli anni 20 del secolo scorso. Da lì l´Europa venne fuori grazie all´investimento americano nel cosiddetto New Deal, un insieme di riforme virtuose con cui il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt risollevò, fra il 1933 e il 1938, le sorti del pianeta. Al resto pensò la guerra.
Nel presente, però, malgrado l´efficace paragone, la crisi assume un volto meno uniforme, largamente più esteso e radicalmente meno controllabile. Anche perché l´odierna recessione si sta prolungando, dopo l´abbrivio bancario statunitense dell´autunno del 2008, in una specie di tunnel interminabile. Perciò ad oggi è impossibile trovare una proposta di riforme analoga a quella di cent´anni fa per linearità e risolutezza.
Insomma, stiamo vivendo una fase orribile e disarmante, la quale, parafrasando l´omonimo libro di Edmund Husserl, intitolato per l´appunto La crisi delle scienze europee, potrebbe titolarsi "la crisi della civiltà globale". Ossia, non un breve intervallo, ma uno status depressivo permanente, destinato a determinare tutte le relazioni economiche e politiche dei prossimi decenni.
In primis, è importante ricordare che l´instabilità economica non è esattamente una novità. L´originalità del presente, semmai, sta nel fatto che non sussistono più le condizioni culturali per poter risolvere tutto alla svelta, perché la rappresentazione che abbiamo ha i connotati "congiunturali" di contingente precarietà che trasforma le nostre comunità in un´enorme "società liquida", come l´ha definita efficacemente il sociologo Zygmund Baumann.
Proviamo a leggere, ad esempio, qualche dato riguardante l´Italia. Nel quadro economico-finanziario dei conti pubblici dell´Eurozona dell´ultimo triennio il debito pubblico italiano si mostra tra i più elevati (oltre 1600 miliardi di euro, pari al 27 % dell´intera area monetaria comune). Le operazioni di contenimento del deficit hanno fatto evitare una deriva involutiva di tipo greco, ma nel periodo dal 2008 al 2010 al peso del passivo statale si è aggiunto il tracollo del Prodotto Interno Lordo, un onere aumentato di 15 punti e stimato, all´incirca, come il 119 %. D´altra parte, al di là delle valutazioni politiche, sebbene la situazione italiana mostri scompensi cronici e anomalie esclusive, la situazione non è tanto migliore per Francia e Germania, rispettivamente a 18 e 19 punti.
Dove la condizione nazionale sembra essere veramente gravissima è, ancor più, dal lato lavoro. Il livello italiano di attività è allacciato a quello della media europea, anche se con una maggiore incidenza del debito. La flessione sull´occupazione osservata nel 2010 ( - 0,7 per cento, pari a - 153 mila unità) rivela grandemente l´entità congiunturale del gap occupazionale che investe innanzitutto le professioni qualificate e tecniche ( - 251 mila unità) e gli operai specializzati ( - 109 mila unità), con una diminuzione dell´occupazione femminile non qualificata enorme (pari a 19 mila unità).
L´allontanamento di massa dalla produttività, dunque, è certamente un male concreto. È importante, a ogni buon conto, porsi correttamente la domanda se a generare davvero la crisi siano i rilievi negativi che constatiamo oppure le caratteristiche, tutto sommato, contingenti che andiamo selezionando. Sì perché l´epistemologo Karl Popper avvisava che si verifica sempre solo quello che si vuole dimostrare. E le nostre statistiche considerano principalmente quei fattori di crisi che sono quantificabili e riportabili a resoconti calcolabili con evidenza.
A guardare bene la realtà, insomma, la cosiddetta crisi congiunturale deriva dal fatto che noi tentiamo di rendere stabili comportamenti che sono necessariamente dinamici e variabili, e per definizione non risolvibili. Tale è, d´altronde, il metodo che definisce l´atteggiamento empirico preminente nel nostro tempo.
Se, però, non ci sono più risorse per un welfare economico, non bisogna dimenticare che esiste un welfare che non costa nulla, e riguarda il costume e il modo di vita che si intende scegliere. Immaginiamo per un momento quanto diverso sarebbe il modo d´essere della realtà sociale se noi investissimo tempo e passione su aspetti umani che sono invariabili e permanenti. Mi riferisco a quelle scelte che già Aristotele definiva essenziali, appunto perché non svaniscono in un attimo. L´amicizia, la famiglia, i rapporti di paternità e maternità, il tempo libero, l´estetica ambientale, la religione sono, appunto, "imprese" permanenti, a differenza del lavoro, dell´occupazione, del debito nazionale, pubblico e privato, che, essendo fisionomie congiunturali, non restano identiche se non per breve tempo. Le prime opzioni coincidono proprio con quei presupposti umani primari che chiamiamo valori, essendo indispensabili per fissare il livello qualitativo di vita che è possibile raggiungere. Esse costruiscono quanto Anthony Giddens chiama il "welfare della felicità" e ultimamente Martha Nussbaum "beni non per profitto".
Come negare, d´altronde, che la prima e più grande ricchezza di una società siano i figli, i giovani e i loro progetti riguardanti il futuro, una risorsa non quantificabile e non misurabile, sebbene sensibilmente presente nelle attenzioni dell´opinione pubblica?
La conclusione del ragionamento è, quindi, piuttosto semplice. È vero, viviamo un momento di crisi globale. Ed è vero che questa crisi globale è oggettiva e deriva dalla valutazione economica del debito, della poca produttività e dell´alto tasso di disoccupazione sociale. Ma la causa ultima della crisi è il non investire a dovere sull´importanza culturale di quanto è umanamente durevole e continuativo. Si tratta dei valori etici sostanziali che, al netto della crisi, sono gli unici in grado di dare solidità alla società, rendendola potenzialmente popolata di persone felici. Ben inteso, potenzialmente, perché occorre impegnarsi, con buona pace della congiunturale crisi del momento e della presunta liquefazione dei valori.

Repubblica 19.5.12
L’offensiva del centrodestra alla vigilia della sentenza che potrebbe far cadere l’ultimo pilastro della legge 40. L´ex sottosegretario Roccella propone un nuovo ddl
"Fecondazione eterologa, nuova legge se la Consulta dice sì"
Il nuovo testo dovrebbe trattare temi come l´anonimato o meno del donatore
di Caterina Pasolini


ROMA - Eterologa libera, eterologa vietata. La Corte Costituzionale si riunirà martedì, ma già monta la polemica sulla possibile sentenza. Sale tra le diverse parti sociali e opposte formazioni politiche la speranza e la paura che diventi possibile anche in Italia la fecondazione con gameti di donatori diversi dal partner. Che quelle tremila coppie che ogni anno varcano i confini in cerca di un figlio, negato dalla natura o da malattie genetiche, possano superando la legge 40 che la vieta, farsi seguire e fecondare legalmente nel loro paese. Dimezzando costi, rischi e attese.
E così, a pochi giorni dal "E day", scatta la controffensiva nel caso in cui la Consulta dia il via libera. Eugenia Roccella, ex sottosegretario Pdl alla Salute, da sempre contraria all´eterologa «perché non mi piace l´idea di progettare famiglie in laboratorio in fondo c´è sempre l´adozione» ieri ha lanciato la sua proposta: «Se la Corte Costituzionale dirà sì alla fecondazione eterologa, ci sarà bisogno di una nuova legge perché si creerebbe un vuoto normativo». E così ha inviato una lunga lettera ai parlamentari e, assicura, ha già ricevuto approvazione anche dall´ala cattolica del centro sinistra.
Gli avvocati che hanno presentato i ricorsi contro il divieto, come Maria Paola Costantini, non sono d´accordo. «Già adesso, con i decreti legislativi del 2007 e 2010 che riguardano le donazioni di organi, la questione del vuoto normativo non sussiste, perché sono applicabili alla fecondazione ed è previsto tutto: dalla donazione al consenso informato, alla tracciabilità dei donatori». La legge 40, sottolinea poi l´avvocato, già circoscrive la donazione di gameti alle coppie infertili in età fertile, «quindi l´eventuale cambiamento della Corte non prevede di allargare né alle mamme nonne, né ai single né agli omosessuali».
Ma il problema fondamentale per Roccella è un altro. «Argomenti così importanti non possono essere affidati solo a una sentenza, deve discuterne il parlamento, bisogna aprire un dibattito democratico». Tra i punti fondamentali che la legge dovrebbe affrontare vi è l´anonimato o meno del donatore «visto che sono convinta: il bambino ha il diritto di sapere chi è il padre o la madre biologica». Poi la gratuità della donazione del gameti, già regolata, ma che secondo l´ex sottosegretario ha bisogno di punti fermi per evitare che, come in alcuni paesi, diventi un mercato, con donne sottoposte a cicli intensivi per dare ovociti ad altre. E infine l´organizzazione delle biobanche e l´inserimento dell´eterologa all´interno del Sistema sanitario nazionale pubblico.
Favorevoli invece all´eterologa, i medici dell´associazione nazionale medicina della riproduzione. «Perché sui trattamenti fatti all´estero i dati forniti da diversi osservatori registrano abusi e seri rischi sanitari per le future madri e i nascituri le cui conseguenze ricadono anche sul nostro Ssn che dovrà garantire le cure mediche».

l’Unità 19.5.12
Gramsci, la speranza tradita della libertà grazie all’Urss
L’ultimo libro di Vacca presentato ieri all’Auditorium di Roma La tragedia del prigioniero sulla base dei nuovi documenti
di Bruno Gravagnuolo


COMPAGNI...VOI OGGI STATE DISTRUGGENDO L’OPERA VOSTRA...CI PARE CHE LA PASSIONE VIOLENTA DELLE QUESTIONI RUSSE...».La tragedia politica ed esistenziale di Antonio Gramsci torna a riassumersi in queste righe del 14 ottobre 1926 indirizzate al Comitato centrale del partito russo. È uno dei nodi ineludibili a cui rimanda l’ultimo volume di Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e tra i massimi studiosi del pensatore:Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi, pp. 367, Euro 33). Ieri il libro è stato presentato all’Auditorium di Roma, con il musicologo Giudo Salvetti, Silvio Pons, storico del comunismo, Cristina Comencini e Bruno Cagli, presidente dell’Accademia di Santa Cecilia. Mentre alla fine Antonio Gramsci Jr, figlio di Giuliano Gramsci, e Franco Fois, hanno suonato musiche medievali e rinascimentali. Ma c’entra Santa Cecilia con Gramsci? Parte del suo lessico familiare, perché in quell’Accademia cento anni fa si diplomava in violino Julka Schucht, moglie di Gramsci e prima ancora la sorella Asia.
Mille fili emotivi, intessuti dal mito dell’Italia, che conduce la famiglia e le tre sorelle Schucht all’incontro con il genio di quel piccolo sardo che osava bacchettare tutto il gruppo dirigente bolscevico, prima di venire incarcerato dal fascismo nel novembre 1926. Insomma si è parlato di musica, di memorie familiari. Ma il fulcro sono state le novità del libro di Vacca, specie nella «recensione» di Silvio Pons. Eccone alcune. Primo, la lettera del 1926 non fu una semplice accusa «di metodo» ai sovietici: non espellete Trotzski e l’opposizione. No, l’accusa era più pesante. E cioè: voi russi vi state chiudendo in un orizzonte da fortezza assediata e corporativa. Mentre per Gramsci occorreva rilanciare la rivoluzione in Occidente con una «guerra di posizione» graduale e attenta alle alleanze.
Altra novità, la lettera del febbraio 1928 di Grieco a Gramsci in carcere, che fece infuriare il prigioniero, perché «compromettente». Svelava che il Pci si interessava fin troppo della liberazione di Gramsci, il che per il detenuto inficiava ogni trattativa tra Urss e fascismo per giungere alla sua liberazione. Questo intendeva Macis, giudice istruttore, quando disse a Gramsci che i suoi amici lo volevano in galera. Ovvero: il regime non poteva tollerare che il Pci rivendicasse meriti nella liberazione di Gramsci. Ma in realtà né l’Urss né Mussolini intendevano liberare quel «cervello». Troppo libero e geniale. Ingestibile. E il Pci? Gestì Gramsci come poté e poi lo mise a frutto. Con la Costituente nel 1946 e l’idea di una via democratica. Il suo ultimo messaggio in bottiglia.

La Stampa 19.5.12
Politica e giustizia, i fronti aperti
Lusi, i pm vogliono le carte
Procura interessata alle accuse lanciate dall’ex tesoriere ai big della Margherita
di Francesco Grignetti


ROMA All’assalto L’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi si è difeso davanti alla Giunta delle Immunità del Senato tirando in ballo tutti i big del partito che lo hanno scaricato dopo l’esplosione dello scandalo sull’uso dei rimborsi

La procura di Roma ha deciso: al presidente del Senato è giunta ieri mattina una richiesta perché le dichiarazioni del senatore Luigi Lusi di mercoledì notte siano girate al palazzo di Giustizia. I magistrati vogliono acquisire alla fonte le accuse di Lusi agli ex colleghi di partito, ma anche valutare la memoria difensiva che lamenta un loro comportamento «persecutorio». Alcune cosiddette rivelazioni, comunque, tali non sono per gli investigatori. Si è saputo solo ieri, infatti, che il Nucleo tributario della Guardia di Finanza sta già lavorando da tempo sui finanziamenti a favore di alcune fondazioni e società. I pm Alberto Caperna e Stefano Pesci avevano chiesto alla Finanza di accertare se i fondi in questione fossero stati destinati ad iniziative politiche (lecite) o ad altre attività di tipo personalistico (illecite). Al momento, però, non sono venute alla luce condotte irregolari.
Tra le altre cose, c’è sotto accertamento anche l’attività della «M&S Congress», l’azienda di Catania legata al marito della segretaria di Enzo Bianco, destinataria, secondo quanto riferito da Lusi nel corso dell’audizione al Senato, di 105 mila euro l’anno tra il 2009 e il 2011.
Renato Schifani, da parte sua, ha prontamente girato a Marco Follini, il presidente della Giunta per le Immunità, la richiesta dei magistrati «affinché nello spirito di leale collaborazione tra organi dello Stato, la sottoponga alla Giunta medesima in quanto competente a valutare l’eventualità di una deroga al principio della riservatezza di un proprio atto».
In vista del secondo round dell’audizione di Lusi, intanto, che si terrà mercoledì, si apre tutta un’altra questione all’interno della Giunta. Come rispondere alla magistratura? E poi: dare o meno pubblicità ai propri atti? Follini sarebbe favorevole a un’operazione di totale trasparenza. «Le attuali regole parlamentari - dice - prevedono che i lavori della giunta avvengano in una condizione di riservatezza a tutela di tutte le persone che sono coinvolte nei procedimenti. È chiaro però che lo stillicidio di notizie riportate dai giornali sulla base di confidenze più o meno veritiere rilasciate da parlamentari più o meno loquaci pone un problema, per usare un eufemismo».
Follini è favorevole a una riscrittura delle regole «per far sì che le riunioni della Giunta siano rese, a pieno titolo, di pubblico dominio. La combinazione tra norme delicatamente antiquate e comportamenti disinvoltamente post-moderni, mi pare proprio che non stia funzionando».
Epperò, considerando che la mina-Lusi sta creando un’infinità di danni al suo ex partito (di nuovo Matteo Renzi: «Rispondere alle accuse di Lusi non è difficile. È umiliante, casomai. Perché il giochino è chiaro: si vuol far credere che siamo tutti uguali». E Rutelli: «Siamo oltre la diffamazione, oltre il tentativo di inquinamento del processo: come può esserci qualcuno che gli dà ancora retta? »), anche la questione della pubblicità ai lavori è diventata politica. Il Pdl gode delle disgrazie della Margherita. «Al di là del regolamento - dice Raffaele Lauro, Pdl - la nuova audizione del senatore Lusi andrebbe trasmessa in diretta radiotelevisiva come avviene negli Stati Uniti». Il Pd è sulla difensiva. «Non cento anni fa - replica Francesco Sanna, Pd ma in questa legislatura il Pdl aveva formalmente proposto al Senato l’inasprimento del regime di segretezza delle sedute». Comunque Sanna ci sta a dare massima pubblicità alle sedute. «Proprio in apertura dell’ultima riunione avevo proposto la trasmissione in diretta sul sito Internet del Senato».
E intanto si prepara una denuncia collettiva per calunnia da parte dei big della Margherita contro il tesoriere infedele. Ma anche Lusi annuncia querele contro chi lo critica senza aver partecipato ai lavori di Giunta. "Si apre la querelle: giusto pubblicare le sedute della Giunta sulle immunità?"

Corriere 19.5.12
Pd diviso dalle parole del senatore
Lite Renzi-Misiani sui bilanci online


ROMA — Propone Matteo Renzi: «I tesorieri di tutti i partiti mettano online le spese fatte con il finanziamento pubblico». Il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, gli risponde secco: «I bilanci del partito a cui è iscritto, il Pd, sono online fin dalla fondazione». Dopo le accuse che l'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, avrebbe fatto in giunta per le immunità al Senato («a lui ho dato 70 mila euro»), il sindaco di Firenze ha già reso noto i nomi di 73 finanziatori della sua campagna elettorale. Lusi, indagato dalla procura di Roma per appropriazione indebita dei fondi della Margherita, avrebbe anche affermato di aver finanziato Rutelli, Bianco, Franceschini, Bindi, Fioroni, Letta, Realacci e Gentiloni «per attività politiche». Creando fratture nel Pd. Perché Margherita e Ds presero finanziamenti (circa 400 milioni) dal 2006 al 2011, nonostante nel 2007 fossero confluiti nel Pd. Nell'ex Margherita si fa notare la differenza tra gli usi personali e i finanziamenti politici annunciando querele. La procura di Roma ha chiesto la trasmissione delle audizioni di Lusi al Senato. La giunta si vedrà mercoledì per parlarne e il presidente, Follini, è intenzionato a proporre sedute «a porte aperte» per evitare ulteriori fughe di notizie.

La Stampa 19.5.12
Summit Nato, la protesta
Occupy Wall Street alla conquista di Chicago “Non si torna più indietro”
Sul pullman con gli indignati: sfonderemo la porta per la rivoluzione
di Paolo Mastrolilli


Da New York all’Illinois Sveglia all’alba, caffè all’autogrill e sul pullman subito slogan battaglieri: «Chicago brucia»
I ragazzi hanno studiato sui testi distribuiti dai leader: volto mascherato, messaggi criptati via Twitter e silenzio se arrestati

Andiamo a Chicago per non tornare più indietro». Magari esagera Louis a parlare così, ma l’enorme tatuaggio che gli copre tutto il braccio destro è chiaro: «Faith is Pain», per credere bisogna soffrire. Il fatto che siamo dentro una chiesa, la West Park Presbyterian Church di Amsterdam Avenue, non c’entra molto col tono evangelico del tatuaggio. Questa è una delle parrocchie più liberal di Manhattan, la prima ad aver integrato i fedeli gay, e si è offerta come punto di raccolta per i manifestanti di Occupy Wall Street che vanno a rovinare la festa della Nato nella città di Obama. Louis, 22 anni, tecnico dell’aria condizionata al Bronx, è uno dei ragazzi che si sono dati appuntamento qui per la marcia su Chicago. Bus gratuiti, organizzati dal gruppo «99% Solidarity» e finanziati dal sindacato National Nurse United. Partono da otto città, New York, Washington, Philadelphia, Boston, Providence, Atlanta, Los Angeles e Portland, per convergere tutti insieme in Illinois e unirsi alle proteste pianificate da Occupy Chicago.
Sono le due del mattino e gli attivisti arrivano come congiurati. Diane, uno dei leader che fa l’avvocato civilista in New Jersey, è vestita con pantaloni e camicetta, come se stesse per discutere una causa; Barbie e Toxic, studenti di Brooklyn, sfoggiano capelli fuxia, anfibi, borchie, giacca di pelle, e piercing dove neppure un torturatore della Santa Inquisizione si sarebbe azzardato a infilare metalli appuntiti. L’atmosfera però ricorda una gita scolastica, o al massimo una missione di hooligans per una partita di calcio inglese. Qualcuno suona il piano della chiesa. Una signora dai guanti neri con le dita mozzate distribuisce panini al tacchino: ha fatto dumpster diving nello Starbucks all’angolo della strada, recuperando confezioni intatte dai rifiuti. Diane passa i manuali per il comportamento in caso di arresto, e il numero di emergenza della National Lawyers Guild che offre assistenza gratuita ai detenuti: «Quando vi fermano dite che non acconsentite ad essere perquisiti, e poi tacete». È preoccupata: «Non vado a Chicago per farmi prendere, ma prevediamo centinaia di arresti. La polizia si è addestrata a lungo: cannoni assordanti, barricate. Dopo tanta fatica, vorranno usare l’apparato che hanno costruito». Yoni Miller, 18 anni, mostra ai colleghi come usare il sistema di messaggi Vibe mettendo un doppio hashtag prima di ogni testo, per nascondere le parole e comunicare in maniera segreta. A Zuccotti Park lo chiamavano il «Presidente di Occupy Wall Street»: «Non ci sono presidenti qui, solo gente che protesta per avere una vita decente». Lui passa per genio della matematica, ma ha lasciato l’high school e creato un sito per le ripetizioni online agli studenti superdotati delle scuole pubbliche.
Arriva Stephen Webber, capo spedizione, cinquant’anni e i capelli bianchi. Aveva un’azienda digitale per la comunicazione medica, ma a ottobre l’ha venduta e ora fa il manifestante a tempo pieno. Lui, insieme a un «captain» che c’è su ogni bus, appartiene alla categoria degli «inarrestabili»: se la polizia lo ferma gli altri devono farlo scappare, perché ha il compito di riportare la carovana a casa dopo le proteste. Sul suo iPad controlla i nomi degli iscritti e li indirizza ai pullman. Sono le quattro del mattino, quando finalmente si parte. Ci aspettano 1.200 chilometri di autostrada, ma i ragazzi cantano: «Burn Chicago, burn! ». La prima sosta è a Kylertown, Pennsylvania, per il caffè. Louis arrotola una cartina, con dentro una roba da finire in galera: «È la mia colazione». Lo guarda perplesso Yuri, che sul braccio porta una crocerossa: «Sono uno degli infermieri. Vengo da Irkutsk, in Siberia. Ho fatto il corso per l’assistenza in combattimento con l’Armata Rossa. A settembre sono venuto in vacanza, ho visto la protesta di Zuccotti Park, e non sono più ripartito».
Risaliti sul bus, Stephen spiega il progetto: «Per me è un fatto personale. Sono nato a Guantanamo da un pilota di caccia, che poi è stato abbattuto in Vietnam e ha fatto due anni di prigionia. Mia madre protestava contro il nucleare, e la prima volta venni arrestato con lei nel 1982. Vedere stravolta la missione per cui è stata fondata l’America è insopportabile. Io ero favorevole alla guerra in Afghanistan, ma ora è troppo. Obama è meglio di Bush, ma di poco: anche lui è nella tasca delle lobby. Andiamo a protestare contro la Nato perché è il braccio armato del complesso militare industriale, che indirizza le risorse del paese dove vuole l’1% dei più ricchi, e affama il 99%».
Fuori dal finestrino scorrono le colline della Pennsylvania rurale: «Qui si lamenta Yoni - è tutto fracking, quella tecnica tossica per l’estrazione del gas». Webber riprende il discorso: «Durante l’inverno Occupy Wall Street è stata calma, perché dovevamo ridefinire il messaggio, che era troppo confuso. Abbiamo fatto riunioni ogni settimana, con amici tipo l’ex leader di Tiananmen Shen Tong, professori della Columbia University come Todd Gitlin, che nel Sessantotto guidava la Sds, ribelli internazionali tipo il serbo Ivan Markovic. Pensavamo di puntare sull’ineguaglianza, ma è un’idea negativa. Abbiamo scelto il concetto di fairness, giustizia per tutti. Sotto questo ombrello puoi infilarci ogni cosa: dalla riforma fiscale ai costi dell’università. L’obiettivo è trasformarci in un movimento politico, fare raccolta fondi con il crowd sourcing, e in prospettiva favorire l’elezione in Congresso di parlamentari vicini alle nostre posizioni. Il modello è un po’ il Tea Party, che non è diventato partito, ma ha aperto la strada alla protesta contro il sistema e condiziona gli uomini e le scelte dei repubblicani.
Qui a Chicago la manifestazione più dura sarà domani. I prossimi obiettivi poi sono una grande evento a Filadelfia il 4 luglio, il 17 settembre l’anniversario di Occupy Wall Street, e l’inauguration del presidente a gennaio, dove contiamo di portare un milione di persone a Washington. Serve per costruire la visibilità, altrimenti tutte le energie della protesta vanno perdute».
La sosta pranzo è a Youngstwon, Ohio: pizza per tutti, offerta dai sindacati. Poi altre otto ore di bus, tra i silos nella campagna dell’Indiana, ascoltando Paul Simon e guardando il film «Breakfast Club» su una banda di studenti ribelli. Con i cartoni della pizza i ragazzi hanno disegnato cartelli appesi ai finestrini: «Healthcare not Warfare». E anche messaggi per il G8: «Support the Robinhood Tax», la tassa sulle transazioni finanziarie. Alle porte di Chicago Diane spiega le possibili sistemazioni per la notte: «A, ospitalità da amici. B, campeggio in aree autorizzate. C, occupare un manicomio di South Side appena chiuso». Dal fondo del bus si alza una voce rumorosa e compatta: «Manicomio, manicomio! ». Stephen sorride con sguardo paterno, compiaciuto e preoccupato: «È così in tutte le rivoluzioni: ci vuole qualcuno che sfondi la porta, affinché gli altri possano passare».

La Stampa 19.5.12
Ungheria, il governo spegne l’ultima radio d’opposizione


Il governo di destra di Viktor Orban al potere in Ungheria ha approvato ieri in Parlamento una legge destinata a liquidare definitivamente Klubradio, unica voce di opposizione ancora in vita. Con il provvedimento, adottato quale emendamento alla legge sui media, il Consiglio dei media, organo di sorveglianza, non è più obbligato ad assegnare la licenza per una frequenza al vincitore di un concorso. Si disinnesca così il verdetto di un tribunale che lo scorso febbraio aveva stabilito che il Consiglio dei media avrebbe dovuto fare il contratto per la licenza con Klubradio. Infatti il tribunale aveva annullato un falso concorso organizzato dal Consiglio in cui era risultata vincitrice un’emittente inesistente, imponendo al Consiglio di rifare la gara per le frequenze.
Il vicepresidente del partito socialista (all’opposizione), Laszlo Mandur, ha detto che il voto è «una condanna a morte» per la radio. Andras Arato, presidente dell’emittente, confida ancora nel capo dello Stato, il nuovo presidente della Repubblica Janos Ader, che forse rifiuterà di firmare la legge emendata, e nella Corte costituzionale che potrebbe abrogarla. La battaglia non è ancora persa definitivamente per i sostenitori della radio che stanno pagando contributi volontari per il suo mantenimento in vita.
I collaboratori dell’emittente lavorano senza paga da mesi poiché la pubblicità non arriva a Klubradio per l’incertezza della sua esistenza. Arato ha avvertito tutto il mondo della stampa ungherese: a questo punto servirebbe un atto di solidarietà dell’intero settore, poiché non si tratta più solo di Klubradio, ma è in pericolo l’intera libertà di stampa e di parola in Ungheria.

La Stampa 19.5.12
“Con 30 euro la Chiesa si è presa la moschea di Cordova”
Gli islamici: è patrimonio di tutti, ma non ci lasciano pregare
di Gian Antonio Orighi


Hanno rubato la cattedrale moschea di Cordova». La Junta Islamica (JI), organizzazione nazionale spagnola no profit dei fedeli di Allah, torna alla carica con il celeberrimo tempio, innalzato dodici secoli fa da Abderrahmán I e dichiarato dall’Unesco, nel 1984, patrimonio mondiale dell’Umanità. Da anni la JI chiede inutilmente di poter pregare davanti al Mihrab, la nicchia che conteneva una copia dorata del Corano, e dare un uso religioso condiviso alla basilica. Adesso, dopo il «no» del vescovo, accusa la Chiesa di aver «carpito» il meraviglioso capolavoro architettonico con 850 colonne di marmo. Sborsando la ridicola cifra di 30 euro.
«Il furto è stato possibile grazie a due miracoli - accusa il sito Webislam della JI -. L’ex premier popolare Aznar, cambiando la legge ipotecaria nel ’98, ha permesso alla Chiesa prima di appropriarsi degli edifici del demanio, benché siano patrimonio di tutti gli spagnoli, poi di disporre di un edificio di 23.400 metri in pieno centro della città senza spendere un centesimo, visto che non paga non solo l’Ibi (l’Imu spagnola, ndr) ma neppure le spese di conservazione».
La legge ipotecaria in questione è quella del 1946, con la quale l’osservantissimo dittatore Francisco Franco permetteva alla Conferenza Episcopale Spagnola (Cee) di registrare la proprietà di alcuni beni senza proprietario, «ad eccezione dei templi destinati al culto cattolico». A tal fine, il Caudillo decise nell’art. 206 che, senza notificazione pubblica e notaio, bastava che il vescovo dichiarasse che il bene apparteneva alla Chiesa. Alla fine degli Anni 90 l’allora primo ministro popolare Aznar tolse a sorpresa le eccezioni.
«Dal ’98 la Cee si è appropriata di centinaia di basiliche, come quella di Cordova. E l’ex premier socialista Zapatero, nei suoi otto anni di governo, non ha cambiato la legge», lamenta la Junta Islámica. Che poi ricorda come il mancato apporto tributario della Cee all’Ibi, proprio in un momento di acutissima crisi economica, sia stimato in tre miliardi di euro all’anno.
Ma c’è di più. Gli islamici, arrabbiati anche perché nel 2010 il vescovo di Cordova, Demetrio Fernández, voleva togliere il doppio titolo cattedralemoschea al fantastico edificio (eretto dove si trovava l’antica basilica di San Vicente Martire, distrutta dagli islamici nel 711), criticano pure che sia esentasse, perchè gli 8 milioni di euro annui incassati con i biglietti d’ingresso da 8 euro sborsati dai turisti sono considerati «donazioni».

Corriere 19.5.12
Una fanciulla rapita da Zeus L'Europa inventata dai greci
di Eva Cantarella


L'Europa senza la Grecia: se ne parla come se fosse una possibilità, spiegando le tragiche conseguenze economiche che questo porterebbe con sé. Ma non solo di economia si tratta, quando si parla della Grecia. Si tratta anche del nostro presente e di quello che esso è grazie ai greci e alla loro storia: grazie a quella Grecia, vale a dire, la cui presenza è ancora parte essenziale della nostra vita, a cominciare come ben noto dal nostro vocabolario. Da dove vengono, se non da quella Grecia, parole come mito, teatro, diavolo, politica, democrazia, demografia, apoteosi, antropologia, geografia, psichiatria, telefono, diagnosi, terapia (solo alcuni tra gli innumerevoli esempi, pochi nomi a caso, tra i primi che vengono alla mente). Ma il lascito linguistico non è che una delle tante loro eredità che (anche se non lo sappiamo o non ci pensiamo) ci accompagnano nella vita quotidiana. Per ricordare le quali, o almeno parte delle quali, proviamo, in modo semiserio, a immaginare l'inimmaginabile: come sarebbe la nostra vita oggi, come e cosa sarebbe l'Europa se non fosse mai esistita «quella» Grecia? Quella di Omero e di Eschilo, della battaglia di Maratona e di Pericle, di Zeus, degli dèi dell'Olimpo e dei miti...
Per prima cosa, il nostro continente non si chiamerebbe Europa. A farci sapere perché ci chiamiamo europei, infatti, è un mito (ovviamente greco): quello della ragazza Europa, figlia di Antenore, re della città fenicia di Tiro, sulle coste dell'Asia minore. Un giorno, mentre giocava con le compagne sulla spiaggia, Europa venne rapita dal solito Zeus che, colpito dalla sua bellezza, assunse le sembianze di un bellissimo toro bianco, dalle corna così lucenti che sembravano spicchi di luna. Bello e apparentemente mansueto l'animale andò a sdraiarsi ai piedi di Europa che, fiduciosa, sedette sulla sua groppa. E subito Zeus-toro, rizzatosi sulle zampe, si gettò in mare, raggiungendo a nuoto le coste di Creta, ove si unì a Europa sotto dei platani cui, da quel giorno, fu concesso di non perdere mai le foglie. Potenza del mito: vicino alla città cretese di Gortina esiste un platano, ove tuttora i giovani sposi si recano in pellegrinaggio, la sera del matrimonio... Ma prescindiamo pure dal nome. Difficile ricordare le infinite cose che mancherebbero alle nostre vite in una immaginaria Europa della quale Grecia non avesse contribuito a fare la storia: non potremmo leggere Omero, Saffo, la lirica, i grandi tragici, Erodoto e Tucidide, e non mi pare cosa da poco. Non avremmo i templi di Paestum e di Selinunte. I musei (tutti, non solo quelli europei) sarebbero infinitamente più poveri: niente frontone del Partenone al British Museum, niente arte greca al Louvre e al Metropolitan, niente altare di Pergamo al Pergamon Museum di Berlino... Chissà se Frau Merkel lo ha mai visto. Non c'è momento e aspetto della nostra vita che non ci riconduca all'esistenza dei greci. Un solo esempio, la psicoanalisi (che ovviamente avrebbe un altro nome): come avrebbe fatto Freud a spiegare i misteri della nostra psiche senza Edipo? E per finire, ma solo per ragioni di spazio, e tralasciando, sempre per motivi di spazio, i loro lasciti in campo scientifico, come sarebbe l'Europa se nel 490 a.C. l'immane esercito persiano non fosse stato sconfitto nella piana di Maratona da Milziade a capo di 10.000 opliti ateniesi? La storia non si fa con i se, lo sappiamo bene, ma una cosa è certa: i greci combatterono e vinsero per difendere la loro libertà di cittadini, per non essere sottomessi a un impero dove esistevano solo dei sudditi. E nel farlo consentirono a noi di conoscere e di ereditare la democrazia. Come sarebbe stata la nostra storia, se essi non l'avessero sperimentata e non ce ne avessero insegnato il valore? Come saremmo, oggi, se non ci avessero trasmesso l'orgoglio di essere noi, i cittadini, i titolari della sovranità?
Che mondo povero sarebbe il nostro, senza quella Grecia. Eppure, nel discutere la possibilità (pur cercando di scongiurarla) di escludere la Grecia di oggi dall'Eurozona, tutto quello cui si pensa è l'aspetto economico del problema. Che è, ovviamente, assolutamente fondamentale. Ma, accanto a esso, la Grecia non meriterebbe che venisse preso in qualche considerazione anche tutto quello che le dobbiamo? Quanta ingratitudine, oggi, per la ragazza Europa.

Corriere 19.5.12
Vite e segreti in via Panisperna L'amore ai tempi dell'atomica
La razionalità di Fermi e le emozioni (tradite) del suo amico
di Paolo Beltramin


Anche la fisica dipende dai punti di vista. L'ora più buia della storia della scienza ha molti colori diversi, osservata dal chiuso di un laboratorio. «Alle 5.28 del 16 luglio 1945, nel deserto di Alamogordo erano coriandoli quelli che Enrico Fermi ha tirato in aria. Piccoli pezzi di carta. La prima bomba atomica era appena esplosa come test e aveva trasformato quella porzione di terra in un cratere lunare. Ma lui non ha voluto guardare in faccia la deflagrazione. L'ha misurata. Calcolando lo spostamento dei piccoli pezzi di carta rispetto alla verticale per l'effetto dell'esplosione».
La scena che dà il titolo a Coriandoli nel deserto di Alessandra Arachi (Feltrinelli, pp. 138, 10), romanzo veloce e potente come un'esplosione, è un flashback improvviso che spezza il corso del racconto, ambientato in una stanza d'ospedale 24 anni più tardi. Le avventure, gli amori e le tragedie del gruppo di ricercatori che scoprì le proprietà dei neutroni lenti — primo, decisivo passo verso l'energia nucleare e la bomba atomica — sono stati raccontati più volte dalla letteratura e dal cinema, dalla Scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia ai Ragazzi di via Panisperna di Gianni Amelio. Questa volta l'autrice, giornalista del «Corriere della Sera» da quando studiava fisica all'università «pensando di poter fare la scienziata», ha scelto di non mettere al centro del racconto Fermi, capo del gruppo e futuro premio Nobel, né Ettore Majorana, il più geniale dei suoi allievi finito presto nel nulla. No, il protagonista si chiama Enrico Persico: è il migliore amico e il principale assistente di Fermi nel laboratorio di via Panisperna, eppure il suo nome non finirà nei libri di storia e nei nomi delle vie principali delle nostre città, alla sua vita sono dedicate appena otto righe sul sito della Treccani e sei su Wikipedia.
Coriandoli nel deserto è scritto in prima persona, come una sorta di diario — dal ritmo serrato, perfetto per un monologo teatrale — composto da Persico-Arachi negli ultimi giorni di vita dello scienziato. Il rapido, inconsapevole ma non per questo meno drammatico avvicinamento alla morte si intreccia con il bilancio di un'esistenza segnata dalla sconfitta, professionale e soprattutto umana. La natura non gli ha dato il talento del suo maestro, il destino non gli ha permesso di abbracciare il suo amore. «Sono stato io il primo che ha conquistato un posto nel prestigioso istituto di Fisica di via Panisperna. Lui me lo ha portato via», scrive Persico nel suo diario. Lui, naturalmente, è Fermi: «Il mio ventriloquo. Il mio faro. Il mio nutrimento. Il mio boia».
Tutto quello che conta davvero nella vita di Persico (e di Fermi, e dei milioni di altre persone coinvolte indirettamente da questa storia) è accaduto la mattina di lunedì 22 ottobre 1934, in quel laboratorio romano diventato famoso nel mondo. Fu nella mente del premio Nobel, certo, che si accese la scintilla. Fu lui a ideare l'esperimento che portò alla creazione di elementi radioattivi stabili, una scoperta più decisiva della trasformazione del piombo in oro. Ma cosa fu ad accendere quella scintilla? Forse una strana teoria di Fermi sull'amore: «Possiamo postulare che quando si parla di un sentimento chiamato amore, lo spazio non è importante — teorizza scherzando (ma forse no) il maestro all'allievo, in un raro pomeriggio di svago a Campo de' Fiori, seduti sotto la statua di Giordano Bruno —. Al momento del bisogno, infatti, la distanza dell'amata/o può venire annullata dalla velocità dell'amore che non è una costante ma è proporzionale all'amore stesso».
La mattina del 22 ottobre 1934 Persico ebbe la grande occasione di conquistare Nella, la donna della sua vita. Fu proprio l'energia incandescente del suo amore, quel giorno, a ispirare la grande scoperta di Fermi. L'esperimento fu un successo destinato a cambiare la storia dell'umanità, ma richiese il sacrificio di quella storia d'amore. Come fu possibile? È questo il grande mistero al centro del romanzo, e naturalmente viene svelato solo nelle ultime pagine.
«C'è l'amore dietro l'energia atomica», scrive Persico in un passaggio chiave della sua memoria. Certo, questo non è un diario ma «solo» un romanzo e la voce del protagonista in realtà è quella di una scrittrice appassionata di fisica e di psicologia, che scrive diversi decenni dopo la fine di tutta questa storia. Di sicuro c'è solo un dato biografico: Enrico Persico e Nella Mortara sono stati gli unici due ricercatori del gruppo di via Panisperna che non si sono mai sposati. Eppure, leggendo Coriandoli nel deserto, sembra tutto così terribilmente reale. Perché nel nucleo dell'atomo si può vedere l'amore o la morte, è solo questione di punti di vista.

Repubblica 19.5.12
George Steiner
“Dobbiamo imparare a dire no, il pensiero libero è in pericolo”
La Bibbia e la cultura contemporanea raccontate del grande critico
di Maurizio Bono


I libri non spariranno, il pensiero libero forse sì. Perché la vera fragilità è degli uomini: «La mia paura è che la collettività, o meglio la sua potenza tecnologica, soffochi tutto. Oggi una persona autonoma, libera, fatica a trovare una porta aperta per far conoscere la sua visione. I pensieri anarchici rischiano di perdersi in mezzo al rumore senza limiti, all´uniformità del gusto volgare e alla dittatura della ricchezza». George Steiner, il più lucido e originale critico delle crisi ricorrenti della cultura occidentale, è stato in questi giorni a Milano per accompagnare l´uscita (da Vita e Pensiero) del suo breve, denso testo Il libro dei libri, sottotitolo "Una introduzione alla Bibbia ebraica", e nonostante la diversità di approccio e convinzioni all´Università Cattolica, dove ha dialogato con il cardinal Gianfranco Ravasi, si è sentito perfettamente a casa: «Ricordi che per noi ebrei il testo è una patria, io credo che il giudaismo sia più una pedagogia trascendentale, un insegnamento che una religione. Rabbino significa insegnante e lettore della parola, non prete. La Bibbia è una mescolanza di fantastica diversità di narrazioni, saghe, racconti, leggende, leggi, rituali – come direbbe il mio grande amico Umberto Eco è veramente la "forma aperta" – senza la quale non ci sarebbero né arte, né letteratura e neppure musica, nella storia occidentale. Questo è il vero, profondo legame tra me e il mondo del Cardinale Ravasi: il nostro amore per i libri, in un mondo in cui l´esperienza della lettura seria, del dialogo personale e privato con il testo, sta diventando purtroppo rara». E così, oltre che a casa, George Steiner in questi giorni si è ritrovato anche spaesato, come altrove in Occidente: «Anche qui da voi stanno sparendo le piccole botteghe. Un segno. Perché l´omologazione, del paesaggio urbano e delle nostre vite, è talmente forte da rendere difficile pronunciare quella parola fondamentale che è "no". Per quanto saprà ancora, il singolo individuo, opporsi al conformismo? Per questo credo che il nostro mondo, quello dei professori e di chi ancora ci ascolta e ci legge, debba difendere una possibilità di resistenza».
Dove suggerisce di cominciare?
«Come ho detto ai giovani che ho incontrato, si comincia dalla lettura e dalla memoria. I giovani hanno una paura terribile della solitudine, ma la lettura seria, il dialogo con il testo, diventare amico di un grande poema o di un grande libro vuol proprio dire stare soli, nella concentrazione e nel silenzio, per riconoscere se stessi».
Perché abbiamo perso l´abitudine di farlo?
«Vorrei dire una cosa un po´ pericolosa: il cattolicesimo non è un grande amico della lettura. Il ruolo universale della Bibbia è un prodotto del protestantesimo. Sono state la traduzione di Lutero e la Bibbia di Re Giacomo a garantire alla Bibbia una vera universalità. Il cattolico, specialmente nei paesi mediterranei come Italia e Spagna, la legge poco, mentre il protestante è lettore della Bibbia dall´infanzia. Ma soprattutto oggi c´è un altro problema».
Quale?
«La scuola. E se mi permette anche la scuola italiana. Che è diventata una forma di amnesia organizzata. Memorizzare un brano, una pagina di Geremia o di Dante o di Shakespeare vuol dire interiorizzare una grande forza di resistenza. Il dispotismo della finanza, la dittatura della ricchezza di cui in Italia negli ultimi anni avete fatto diretta esperienza, non può distaccarci dalla nostra memoria interiore. Il grande poeta russo Mandel´stam, la Achmatova, sono sopravvissuti nella memoria dei loro lettori. Neppure Stalin ha potuto distruggerla. Per questo, mi sembra fondamentale dare al muscolo del ricordo un po´ di forza: io all´espressione italiana "imparare a memoria", che è un po´ banale, preferisco quella francese, "apprendre par coeur", o l´inglese "by heart"».
Si può proporre la Bibbia a memoria anche a orecchie ormai abituate al rumore assordante?
«La Bibbia rimane l´inventore delle principali tematiche del nostro autoriconoscimento, il miracolo è la qualità anche letteraria di quei testi, imparagonabile a ogni altro libro per forza narrativa. Le pagine sul destino di Gerusalemme, Geremia, la storia di re Saul e David, la meravigliosa favola di Ruth la straniera nel paese dei Moabiti: questi e tanti altri sono brani senza i quali non esisterebbe la cultura occidentale. La voce formidabile che risuona dal deserto e dal passato rimane il codice e la definizione, con Omero, Dante e Shakespeare, gli altri tre sommi autori, della nostra coscienza europea e di quella americana».
Omero, Dante, Shakespeare, la Bibbia antidoto ai guasti sociali del presente. Eppure è stato proprio lei, professore, a descrivere meglio di chiunque altro la cultura occidentale, in lavori come il Castello di Barbablù o il recentissimo On the poetry of though (Garzanti lo pubblicherà in italiano in autunno) come un susseguirsi di crisi e cesure, dalla classicità alla "post-cultura".
«Sì, è troppo facile lamentarsi e credere che a ogni generazione la nostra civiltà sia alla fine. C´è il rischio di sbagliare come i più autorevoli intellettuali d´Europa che all´avvento della rivoluzione di Gutenberg parlarono della morte del libro. È un azzardo fare pronostici sulla attualità, appaiono sempre nuove forme. Si può solo, a volte, definire la transizione mentre avviene, vedere il passo che attraversa la frontiera: pensiamo all´Ulisse di Joyce, un capolavoro classico nel senso più radicale, opera vicina a Omero, e poi a Finnegan´s Wake,, un´opera totalmente nuova scritta per trovare una lingua dell´inconsapevole, del sogno e della notte, un esperanto dell´ignoto. Joyce è stato un uomo di genio su due parti della frontiera, e la nostra età comincia davvero dopo Finnegan´s Wake, dopo il surrealismo e le altre avanguardie. Nel mondo del rock è cambiata la qualità del suono, della luce e perfino del corpo. Ma attenzione, il punto non è il susseguirsi delle forme nuove. Anzi. Ogni forma nuova è spesso l´espressione di una creatività».
Che oggi rischia di spegnersi.
«Sì. A causa di questa "collettività tecnologica", appunto. Che non lascia spazio agli sperimentatori. Se l´Ulisse joyciano si concludeva con il celebre "yes" di Molly Blooom, oggi è necessario stare con Sartre che scriveva: "il pensiero è dire no". Di fronte a questo, mi piace ricordare che per il popolo ebraico il libro dei libri è stato la garanzia della sopravvivenza e della identità, un libro eternamente "tascabile", col quale da un esodo all´altro ha potuto portarsi dietro, nel successivo rifugio ed esilio, l´essenza di sé».
Nella prefazione al suo libro, che è anche un dialogo tra voi, Ravasi esprime un garbato rammarico per il fatto che "Steiner, collocato sulla frontiera (per altro mobile) dell´agnosticismo, lascia qua e là brillare, ma non affronta mai di petto" l´"interrogativo estremo". Insomma, non contempla che il vero autore della Bibbia possa non essere l´uomo...
«Sì, io non credo a una rivelazione sovrannaurale. Anche se nel Libro dei libri ci sono trame e capitoli, che sono di una tale potenza e perfezione formale che è molto difficile per me immaginarli prodotti da un uomo come lei o come me. L´ho già detto facendo un esempio oramai noto: posso immaginare Dante che dopo aver scritto l´incontro con Brunetto Latini va al supermarket a comprare il pane o il burro, ma non posso immaginare l´autore o l´autrice – è possibile che sia un´autrice – dei discorsi di Dio nella bufera del libro di Giobbe o del Salmo 23 come una persona comune, per quanto straordinaria»
Quindi chi ha scritto la Bibbia?
«Heidegger su questo punto ha dato una risposta affascinante: la Bibbia rappresenta un momento dell´evoluzione umana dove la lingua era più prossima all´aurora dell´essere, una lingua quasi adamica, immediata alla verità. Una teoria meravigliosa ma totalmente assurda, perché l´evoluzione linguistica dell´uomo è un processo sociobiologico naturale. Di fronte all´origine di quel testo immenso preferisco rimanere nell´enigma e nello stupore senza fine».

Repubblica 19.5.12
Il nuovo saggio di Giulio Giorello
Il traditore modello
Infame o benedetto un simbolo per tutte le passioni
di Nello Ajello


Si sfiora Catilina, si insegue in Dante il conte Ugolino, passato dal partito ghibellino al guelfo
"Uno che giura e mente" è la definizione che dà di lui Shakespeare nel "Macbeth"
Il nuovo saggio di Giulio Giorello racconta forme e protagonisti, storici e attuali, dell´infedeltà: dalla politica all´amore, passando attraverso la letteratura

Tradire è solo questione di punti di vista? Sì e no. Talora, è anche questione di revolver». La domanda – e la chiosa glaciale che le fa compagnia – sono le note dominanti del saggio di Giulio Giorello, Il tradimento: in politica, in amore e non solo, edito da Longanesi.
Il tradimento nella sfera amorosa rientra solo in maniera sporadica nei temi del libro, il cui percorso attraversa in generale la pratica di governo, la teologia, la metafisica, l´etica e l´arte. In ciascuno di questi recinti, è determinante la figura del traditore, esposto a diventare un proverbiale modello di protervia. Le varianti che volta per volta egli assume si estendono dalla figura del "fellone" a quella del simulatore o dissimulatore, dell´illusionista, del burattinaio che muove i complici come marionette, del bugiardo o dello spergiuro («Che cos´è un traditore?, ci si domanda in un versetto del Macbeth scespiriano. «Uno che giura e mente», sarà la risposta). Falso devoto, finto amico e torbido giocatore con le vite altrui, di rado il traditore vede svanire le proprie trame. Al termine della parabola può esserci la consegna ai nemici di una vittima predestinata: in questo senso è Giuda il più classico progenitore della categoria. Ecco che qui l´etimologia interviene a illuminarci: in latino «tradere», da cui «traditore», significa appunto «consegnare», mentre – per dirne solo un´altra – il «sicario», eventuale braccio armato dell´operazione, prende il nome dal pugnale, detto, sempre in latino, «sica». A volte, per rimorso, debolezza o generosità, il traditore si suicida.
La casistica esibita da Giorello è straripante e a tratti intricata, anche per il generoso spreco di citazioni. Essa si estende da quel Flavio Giuseppe che, in occasione della guerra giudaica del 66 dopo Cristo, passò dalla funzione di ex capo dei ribelli di Israele a quella di collaborazionista dell´impero di Vespasiano. Il volume, com´è naturale, indugia sull´immagine dell´Iscariota, memorabile «cattivo». Passa poi da Bruto e Cassio – gli «impenitenti repubblicani» che fecero di Cesare l´emblema del despota giustiziato, contribuendo ad esaltarne il mito – a quella Guerra delle due Rose che di complotti e tradimento fu un ricettacolo. Si sfiora Catilina, s´insegue nelle terzine dantesche il conte Ugolino della Gherardesca, passato dal partito ghibellino al guelfo, e questa fu certo la minore delle nefandezze che gli costarono una condanna tramandata nei secoli. Si fanno poi i conti con Rodrigo Borgia, divenuto papa Alessandro VI, e con il suo rampollo Cesare, detto il Valentino.
Eccoci qui giunti in pieno terreno machiavelliano. Mentre nell´Inferno dantesco in termini di tradimento si «giudica e manda» – e delle gesta esecrabili dei traditori risuonano i quattro cerchi della palude di Cocito – qui, al cospetto di Machiavelli, ciò che Giorello chiama «il nostro cammino per i sentieri del tradimento» conosce svolte imbarazzanti o, a seconda degli umori, luminose. È inevitabile accorgersi – non per l´autore di questo libro, che certo già lo sapeva, ma per eventuali lettori meno esperti – che l´autore del Principe si adoprerà a spogliare il tradimento delle vesti turpi e catastrofiche che gli ha cucito addosso una tradizione già ai suoi tempi inveterata. Almeno per chi voglia esaminarne l´essenza in chiave politica, quel presunto peccato non regge al vaglio della ragione. Se la fedeltà è un valore, è il caso di accogliere l´idea (così Giorello riassume la questione) «che la politica nulla abbia a che fare con quelli che chiamiamo valori». Così ragionando, il Segretario fiorentino ho rotto i ponti «con teologi ossessionati da Dio e con umanisti esaltati dalla "dignità" dei discendenti di Adamo». D´ora in poi, il tradimento si vedrà «legittimato». Al punto, scrive Giorello, «che possiamo sospettare che pensare fuori dal tradimento equivalga a pensare fuori dalla politica».
Abbiamo visto, echeggiati dall´autore, sant´Agostino, Giovanni Calvino, Joseph Ratzinger e perfino (con un suo taglio intelligente e paradossale) José Saramago misurarsi per iscritto su Cristo e su Giuda. Si è tentato più avanti di spiegarci come e perché Stalin, despota d´un paese dominato dall´ossessione del tradimento, ne avrebbe ordito a sua volta uno per liberarsi di Sergej Kirov, suo amico e seguace. Abbiamo visto mettere in scena un confronto tra lo stesso Stalin e Jago, sulla scorta, fra l´altro, di una pagina di Giorgio Manganelli. Lì lo scrittore cercò di ricostruire «il senso del letale labirinto» nel quale si aggiravano i loro sospetti, scrutando con ironia il repertorio dell´uno e dell´altro, attraverso «gli amori, le menzogne, le calunnie lavorate con perizia, con onestà, da umile artigiano; le feroci morti, infami o infamanti». Si racconta inoltre, in queste pagine di Giorello, la storia di quell´Adolfo Suárez, che, dopo essere stato per lunghi anni seguace di Francisco Franco, sarebbe diventato senza esitare primo ministro della Spagna «liberale» che gli subentrò al potere. Ma proprio la presenza di Suárez fu poi determinante nello sventare il tentativo di congiura militare ordita nel 1981 da Antonio Tejero, un tenente colonnello della Guardia Civil nostalgico del Caudillo.
In tal modo, ciò che l´autore chiama «il buon uso del tradimento» emergerà, a lettura ultimata, come una risorsa di libertà, come «la leva che può scardinare il conformismo della servitù volontaria». Di questi sforzi, perfino mentre scriviamo, ci capita di registrare vari esempi. Non che tutti i tradimenti riescano, o portino vantaggio ai loro autori. Ma a volte, grazie alla misteriosa perfezione del Caso, il prodigio può avverarsi.

Corriere 19.5.12
Le scuse dello psichiatra «Un errore la ricerca sui gay da curare»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «L'omosessualità di gay e lesbiche può essere curata». Era il 2001 quando, a un convegno della American psychiatric association (Apa) il dottor Robert Spitzer illustrò la sua controversa tesi secondo cui è possibile, per alcuni individui estremamente motivati, cambiare il proprio orientamento sessuale da gay a eterosessuale. Il fatto che a pronunciare quelle parole fosse il celeberrimo docente della Columbia University, considerato dai manuali il padre della psichiatria moderna e lo psichiatra più influente del 20° secolo, contribuì solo ad accreditare la legittimità di tale provocatoria argomentazione. Nessuno poteva accusarlo di pregiudizio anti-gay. Nel 1973 era stata proprio la crociata personale dell'allora 41enne Spitzer a indurre l'Apa a rimuovere l'omosessualità dalla lista dei «disturbi mentali». Poi, nel 2001, quello studio bollato come «un tradimento» dai gay di tutto il mondo. Undici anni più tardi, lo psichiatra ha chiesto loro scusa per l'errore commesso. Cercando persino, senza riuscirvi, di pubblicare una ritrattazione sulla stessa rivista scientifica che nel 2001 aveva ospitato il saggio originale, denunciato come «pericoloso» dall'Organizzazione mondiale della sanità. Il mea culpa di Spitzer, oggi 80enne e gravemente malato di Parkinson, è avvenuto in un'intervista al New York Times. «Giacevo sveglio nel letto alle 4 del mattino, quando ho deciso che era giunto il momento di farlo», afferma Spitzer, «mi alzai annaspando nel buio e con enorme difficoltà, data la mia condizione, raggiunsi la scrivania dove presi carta e penna». Quando il direttore della rivista Archives of Sexual Behavior si rifiutò di pubblicare la sua ritrattazione, Spitzer ha chiamato il Times. «Dovevo chiedere scusa alla comunità gay per i miei studi che sostengono tesi fasulle sull'efficacia delle terapie riparatorie», incalza, «e voglio anche chiedere scusa a tutte le persone gay che hanno perso tempo ed energia sottoponendosi per colpa mia a tali inutili terapie».