l’Unità 17.5.12
Francia, nasce il governo della parità. Ma non c’è Aubry
Fabius agli Esteri, entra anche Filippetti
Polemiche per l’assenza dell’ex sfidante di Hollande alle primarie
di Umberto De Giovannangeli
Di 34 tra ministri e vice, 16 sono donne.
Il fidato Moscovici alle Finanze, Sapin al lavoro
Alla fine, Martine rimase senza poltrona. ll segretario del partito socialista francese, Martine Aubry, non farà parte del nuovo governo guidato da Jean-Marc Ayrault. Fra lei, 62 anni, figlia di Jacques Delors, tre volte ministra e numero 2 del governo di Lionel Jospin, e il neo presidente, François Hollande, non è mai corso buon sangue. Aubry ha perso la corsa alla candidatura all’Eliseo, poi è stata messa da parte a favore di Ayrault per la poltrona di primo ministro, infine anche il superministero della Cultura più Educazione è sfumato per una sfuriata di Peillon, che si prepara da anni a riformare la scuola. Spazientita, ieri mattina è risalita in auto ed è partita per Lille infilandosi rabbuiata in auto: «Abbiamo convenuto che in questa configurazione il posto dove sono più utile è alla testa del partito». Non è stata una impresa agevole per il neo premier definire la lista dei ministri, tant’è che l’annuncio è stato rimandato dal primo pomeriggio alla tarda serata. Infine, però, la squadra è stata varat: il primo governo dell’era Hollande è un mix di esperienza e di nuove energie: vecchia guardia e i volti più affermati della «Generazione H». Ed è il governo della parità uomo-donna e della multietnicità.
Complessivamente, il nuovo governo francese è composto da 34 ministri, 17 dei quali donne. I nomi sono stati annunciati dallo stesso premier, che ieri mattina aveva trascorso 4 ore a colloquio con Hollande. Agli Esteri, va l’ex premier del governo Mitterrand, Laurent Fabius; il capo della campagna del presidente, Pierre Moscovici, è invece il nuovo ministro dell’Economia, delle Finanze e del Commercio estero. Manuel Valls ex possibile candidato premier va all’Interno; mentre al Lavoro s’insedia Michel Sapin, uno dei più stretti collaboratori di Hollande, mentre alla Cultura, va una delle animatrici della campagna elettorale del neo capo dell’Eliseo, Aurèlie Fillippetti, scrittrice e parlamentare di origini italiane. Vincent Peillon è il nuovo ministro dell’Educazione, Michel Sapin, altro fedelissimo di Hollande, va al ministero del Lavoro, mentre alla guida del dicastero della Reindustrializzazione va Arnaud Montebourg, esponente della sinistra del partito socialista. La Verde Cecile Duflot è stata nominata ministra dell’Eguaglianza dei territori e dell’Alloggio, Nicole Bricq ministra dell’Ecologia. Alla Difesa Jean-Yves Le Drian, all’Università Genevieve Fioraso, ai Diritti delle Donne e portavoce del governo Vallaud Belkacem, all’Agricoltura Stephane Le Foll, alla Riforma dello Stato Marylise Lebranchu; Territori d’Oltremare, Victorin Lurel; Sport, Valérie Fourneyron, Bilancio, Jerome Cahuzac, Relazioni con il Parlamento, Alain Vidalies, Affari europei, Bernard Cazeneuve, Anziani, Bernard Delaunay, Economia sociale, Benoit Hamon, Famiglia, Dominique Bertinotti, Disabili, Marie-Arlette Carlotti, Sviluppo, Pascal Canfin, Francesi all’Estero, Yamina Benguigui, Trasporti, Frederic Cuviller, Innovazione, Fleur Pellerin, Reduci di guerra, Kader Arif.
È anche un governo espressione di una Francia multietnica: uno dei suoi volti più significativi è Christiane Taubira, 60 anni, deputata della Guiana, neo ministra della Giustizia. Il governo risulta senz’altro più malleabile di quanto non sarebbe stato con la presenza della «dame delle 35 ore», quasi tutti i ministri importanti sono di stretta osservanza socialista, Manuel Valls all’Interno è l’alfiere dell’ala destra, Arnaud Montebourg al Rilancio produttivo è il rappresentante degli «antagonisti», che alle primarie predicava la «demondializzazione». Rappresentati in modo importante gli strausskahniani, con il premio a Pierre Moscovici (Economia) per la fedeltà in campagna elettorale a Hollande, finiscono in cassaforte anche i vecchi fabiusiani, con il Quai d’Orsay all’uomo che rappresentò più di tutti il «no» vincente della sinistra alla Costituzione europea.
Che quella della crescita sia la grande sfida della presidenza Hollande, che riunirà l’esecutivo oggi alle 13, lo rimarca lo stesso Ayrault, che in diretta tv afferma che l’esecutivo da lui diretto si concentrerà sul riassetto dei conti pubblici, e sul bilanciamento delle nuove spese con tagli dei costi. Gli uomini del presidente, però, non dormono sonni tranquilli. L’ombra lunga di Martine Aubry, che ha in mano il partito, si allunga sul futuro della compagine appena nata e sulle legislative, anche se lei ha assicurato fedeltà. E il malumore di chi è stato tagliato fuori («Francois ha preferito qualche traditore a chi è stato al suo fianco», ha protestato un hollandista rimasto a bocca asciutta) rischia di accendere la mischia ancora prima di aver portato a casa la maggioranza in Parlamento.
La Stampa 17.5.12
Un’anima da “duro” per Hollane
di Cesare Martinetti
E se questo Hollande, definito un «molle», soprannominato «budino» e come tale raccontato con un po’ troppa leggerezza prima della sfida con il «bulletto» Sarkozy, fosse in realtà un «duro»? La prima mossa non è stata tenera: trentaquattro ministri, 17 donne ma non la più importante: Martine Aubry, segretaria socialista e sua rabbiosa sfidante nelle primarie, non fa parte del governo. Madame Aubry, a giudicare dalle acide dichiarazioni rilasciate ieri sera a Le Monde, non l’ha presa benissimo. Ha detto: si sapeva che avrebbe scelto tra i suoi fedelissimi, io ho fatto la numero due del governo (con Jospin, tra il ‘97 e il 2000) non mi metto certo a negoziare un posto qualunque da ministro. Ma intanto, racconta il sito del Nouvel Observateur, si sarebbe già vendicata silurando due candidati hollandisti alle prossime legislative.
L’esclusione di Martine Aubry non è però soltanto la manifestazione di una rivalità personale, è soprattutto uno scontro politico e diventa una specie di manifesto. Aubry (che è figlia naturale di Jacques Delors, il più illustre ex presidente della Commissione europea ed anche il più importante maestro di politica di Hollande) era ed è la sinistra della sinistra del Ps, ministra del Lavoro del governo Jospin e autrice della legge sulle 35 ore che hanno segnato un’epoca. Sconfitta alle primarie, ma leale supporter nella campagna elettorale, sembrava naturalmente destinata a Matignon come primo ministro, dove invece è andato Jean-Marc Ayrault, un super riformista, un «socialdemocratico», parola che nel Ps francese non è tuttora percepita senza qualche sussulto.
Trentasei ore non sono niente, ma François Hollande le ha a tal punto infarcite di parole, simboli e gesti da aver già rovesciato quella sua immagine caricaturale di «molle». È chiaro che il neo presidente ha studiato con attenzione ogni passaggio facendo tesoro del disastro di Sarkò che, al di là di altri meriti o demeriti, si è giocato il tono della sua presidenza nelle primissime ore all’Eliseo: la festa nel locale dei miliardari, la vacanza relax sullo yacht del finanziere amico, l’esibizione sguaiata di una vita famigliare esagerata, con una moglie che tutti sapevano che lo stava mollando e la passerella dei figli di primo, secondo e altrui letto. Il resto, la politica e le sue incertezze, sono venute dopo.
François Hollande ha fatto esattamente il contrario esibendo modestia e misura. Viaggia su un’auto normale ed ecologica, ha chiesto all’autista e alla scorta di rispettare i semafori nel tragitto che lo portava all’investitura al palazzo dell’Eliseo. Ma poi, qui, ha tirato fuori la grinta. Inappuntabile formalismo con il suo avversario che lasciava la carica sconfitto, ma niente di più: non lo ha accompagnato (come aveva fatto per esempio Chirac con Mitterrand) sul tappeto rosso fino all’auto. E poi, quando si è trattato di citare i predecessori, Hollande ha avuto una parola buona per tutti (compresi gli avversari Giscard e Chirac), per Sarkò invece semplicemente un gelido augurio per «la sua nuova vita».
E non si può dire che sia arrivato impreparato a quel discorso. Nel libretto pubblicato all’inizio di quest’anno («Changer de destin», editore Robert Laffont) si imparano un sacco di cose su François Hollande. Mentre giornalisti un po’ sbrigativi si chiedevano come avrebbe potuto affrontare, lui così «molle» il ciclone Sarkozy, il candidato presidente raccontava che nulla di casuale c’era in quell’appuntamento: «Tutta la mia vita mi ha preparato a questa scadenza... È stata una lunga strada, intrapresa molto tempo fa e che arriva oggi alla sua destinazione... ».
Una determinazione e una sicurezza che si sono subito viste all’opera. Anche nell’omaggio a Jules Ferry, il «padre» della scuola pubblica e gratuita, ma anche controverso sostenitore del colonialismo. Hollande non l’ha nascosto, ma ha voluto ribadire che l’Éducation Nationale è uno degli obiettivi principali della sua presidenza.
Esclusa la Aubry, nel governo sono rappresentate le varie anime della sinistra, ma nei posti chiave ci sono i suoi fedelissimi, riformatori dichiarati. Ayrault primo ministro, Manuel Valls all’Interno, Michel Sapin al Lavoro, Pierre Moscovici (che era l’uomo di Strauss-Kahn) all’Economia, Laurent Fabius (ora il più anziano ma che fu il più giovane primo ministro della storia francese con Mitterrand) agli Esteri. Eta media dei ministri 52 anni.
La Stampa 17.5.12
Hillary con Hollande per l’asse anti-Merkel
L’impegno al G8 per promuovere crescita e lavoro
di Maurizio Molinari
Hillary Clinton tende la mano a Francois Hollande, identificandolo come un alleato privilegiato nel summit del G8 che si apre domani a Camp David. «Il nuovo presidente francese ha un diverso approccio politico alla crisi economica» afferma il Segretario di Stato in un’intervista a UsaToday nella quale dà «il benvenuto» alla svolta avvenuta a Parigi perché «alcune posizioni a favore della crescita potranno essere più forti rispetto a quanto avvenuto in passato».
Sono parole che aprono la strada a Hollande, atteso domani mattina alla Casa Bianca da Barack Obama, identificando una convergenza di intenti fra Washington e Parigi che Hillary riassume così: «Da tempo riteniamo che l’austerity debba andare incontro a un aggiustamento affinché possa esserci anche della crescita, per ragioni economiche così come per motivi politici». La mano tesa di Hillary verso Hollande segue di poche ore la telefonata di Obama al premier italiano Mario Monti nella quale è stato concordato un impegno comune al G8 per «promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro».
Washington guarda ai due leader europei nell’ambito di un approccio teso a convincere la Germania ad accettare di investire nella crescita le risorse frutto del rigore finanziario: se Hollande è il contraltare di Angela Merkel, Monti può vestire i panni del mediatore in ragione della credibilità finanziaria di cui gode in entrambi i Paesi. Sulla direzione di marcia che il G8 deve intraprendere Hillary ha pochi dubbi: «Il presidente Obama e il nostro team economico da tempo stanno affermando che la crescita è un fattore nella ripresa dell’Europa, così come l’austerity è servita a modificare un tipo di gestione dei bilanci durata troppo a lungo. Adesso è arrivato il momento di rimettere la gente a lavorare, a cominciare dai giovani».
Il Segretario di Stato assicura che l’amministrazione Obama «ha trasmesso tale messaggio, in pubblico e in privato, in numerose occasioni» in ragione dei timori che la recessione in Europa possa avere ripercussioni negative sulla debole ripresa Usa. «La crisi dell’Eurozona spiega Jay Carney, portavoce di Barack Obama - è uno dei venti contrari che ci troviamo ad affrontare e che monitoriamo con grande attenzione, e questo è un altro motivo del nostro impegno per continuare a favorire la ripresa in Europa».
In concreto ciò significa che sebbene la capacità di pressione di Obama sulla Merkel sia «limitata», come osserva Matthew Goodman ex consigliere della Casa Bianca per il G8, «il presidente non avrà esitazioni nel far conoscere la propria posizione sull’Eurozona» perché consapevole che dei rischi che la crisi del debito pone alla sua rielezione alla Casa Bianca.
Ma Obama deve guardarsi le spalle dai leader repubblicani, che scelgono proprio la vigilia del G8 per aprire un insidioso fronte di scontro sull’economia. A farlo è John Boehner, il presidente della Camera dei Rappresentanti, ammonendo la Casa Bianca ad evitare un nuovo aumento del tetto dell’indebitamento pubblico alla fine dell’anno. E’ sulla base degli accordi raggiunti la scorsa estate fra Casa Bianca e
Congresso che il tetto del debito verrà innalzato in dicembre di 1,2 trilioni di dollari ma Boehner ora sembra voler ridiscutere il compromesso per riproporre la pressione su Obama affinché tagli la spesa durante la fase finale della campagna elettorale.
L’inatteso affondo dei repubblicani, di cui ieri i leader del Congresso hanno lungamente discusso alla Casa Bianca, punta anche ad ammonire il presidente a non concordare al summit del G8 pacchetti di stimoli a sostegno della crescita che comporterebbero un ulteriore aumento della spesa. Da qui la forbice in cui si trova stretto in questo momento il presidente americano: si trova tutto proteso a spingere la Germania a varare misure pro-crescita mentre a Washington i repubblicani vogliono impedirgli di fare lo stesso in patria.
l’Unità 17.5.12
Merkel perde pezzi e il governo trema
La sfida della Spd
Il programma alternativo dei socialdemocratici
di Paolo Soldini
Nel documento della Spd una dura critica alla linea di austerità: sì ad una unione «sociale»
Misure forti contro la disoccupazione giovanile, agenzie di controllo sulle banche, eurobond
«Un buon inizio», nulla di più. Il giudizio della cancelleria sul primo tête-à-tête con il nuovo presidente francese è prudente e un po’ riduttivo. Le differenze con Parigi ci sono eccome, e sforacchiando l’involucro della diplomazia sono affiorate anche durante l’incontro. Ma ad Angela Merkel non conviene drammatizzare. Ieri ha dovuto incassare un’altra botta e anche in questo caso ha cercato di fare l’indiana. Norbert Röttgen, l’uomo della Cdu fatto a pezzi dalla socialdemocratica Hannelore Kraft nelle elezioni in Renania-Westfalia, ha mollato il ministero federale dell’Ambiente, da cui avrebbe dovuto gestire il delicatissimo capitolo della fuoriuscita dal nucleare. Ebbene, presentando il successore Peter Altmaier, la cancelliera è riuscita a non dire una sola parola sulla batosta di domenica scorsa. Un silenzio che ha fatto mormorare i giornalisti e che è un segnale inequivocabile dell’imbarazzo che regna alla cancelleria sulla Sprea. È sempre più evidente che Frau Merkel sta soffrendo molto l’isolamento crescente sulla sua strategia anti-crisi. Soprattutto ora, che il fronte ostile si è saldato anche all’interno, con la presentazione pubblica, da parte di tutto lo staff dirigente della Spd, di un vero e proprio programma alternativo sul quale il governo dovrà trattare per forza, avendo bisogno dei voti dell’opposizione per far passare al Bundestag il Fiskalpakt.
Il programma Spd è l’esatto contrario delle linee di austerity policy dettate finora dal centro-destra e ha, invece, molte analogie con gli impegni dichiarati da Hollande. È diviso in due grandi capitoli: il primo è dedicato alla crescita, all’occupazione e a «un nuovo ordine dei mercati finanziari»; il secondo al rinnovamento dell’Ue «mediante un’unione economica, finanziaria e sociale». Si apre con la proposizione di «un programma urgente contro la disoccupazione giovanile», che dovrebbe portare a dimezzare nei prossimi 5 anni il numero dei giovani senza lavoro in tutta Europa. Il piano prevederebbe misure obbligatorie per gli Stati e sarebbe finanziato dal Fondo sociale europeo (Esf) e misure vòlte a favorire la mobilità intereuropea dei giovani in cerca di occupazione, ampliando i riconoscimenti internazionali delle qualifiche, creando un fondo di garanzia sulla formazione professionale.
Tra le misure proposte in materia di «lotta alla crisi dei mercati finanziari e delle banche», l’introduzione della tassa sulle transazioni, la responsabilità bancaria sugli investimenti (chi si espone a grandi rischi non deve poter contare sugli aiuti pubblici per evitare il fallimento), un’agenzia di controllo sulle banche e una di rating, tutte e due europee, la separazione giuridica delle banche d’investimento dalle banche commerciali. Quanto alle misure specifiche in materia di lavoro, andrebbe realizzato velocemente un «programma europeo per la crescita e l’occupazione» che invece di puntare sulla deregulation e sull’abbattimento delle garanzie sociali valorizzasse l’innovazione, il rinnovamento ecologico e gli investimenti sull’economia reale. Così bisognerebbe puntare su programmi specifici di investimenti rafforzati, pubblici e privati, nella formazione e nella ricerca. Previsti anche stimoli a una politica industriale ecologica nonché allo sviluppo di una moderna rete di infrastrutture transeuropee nel campo dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni.
RESPONSABILITÀ COMUNE
Per tutto ciò servono risorse. La Spd propone la creazione di un fondo per gli investimenti e lo sviluppo che non gravi sui bilanci nazionali ma sulla riprogrammazione di risorse comunitarie già esistenti, con il rafforzamento della Banca europea degli investimenti (il cui capitale dovrebbe essere aumentato), o da creare, come i project-bond e la Tobin tax. Inoltre dovrebbero essere riqualificate le risorse attribuite attualmente ai Fondi strutturali (232 miliardi), al Fondo sociale (75 miliardi) e ai Fondi regionali e di coesione (308 miliardi di cui più di 200 non sono ancora erogati).
Nel secondo capitolo è indicata la necessità di costruire una vera unione economica e finanziaria, coordinando e europeizzando le politiche nazionali, evitando concorrenze fiscali che favoriscano i trasferimenti di capitali. Il piano Spd sostiene che «una comune responsabilità europea per una parte dei debiti nazionali non può essere elusa a lungo». Gli eurobond dovrebbero garantire i debiti fino al 60% del Pil e sarebbero comunque essere legati a piani obbligatori di rientro. L’unione economica e finanziaria dovrebbe essere affiancata da una «unione europea sociale», nella quale tendenzialmente valgano gli stessi diritti per tutti i lavoratori: salari uguali per gli stessi lavori, anche per evitare il dumping sociale, e uguali normative e garanzie. In tutti i Paesi i lavoratori dovrebbero avere la possibilità giuridica di veder rappresentati i propri diritti europei.
l’Unità 17.5.12
Ricostruzione, identità del Pd e questione antropologica
di Giuseppe Vacca
L’emergenza educativa è un grande tema nazionale che il programma per il 2013 deve affrontare con forza
Non si tratta solo dei fondi da destinare alla ricerca ma di assumere impegni sul profilo culturale del Paese
Le turbolenze dell’economia mondiale e l’incertezza sul se e quali riforme si potranno varare in questo scorcio di legislatura fanno pensare che l’emergenza nazionale, da cui ha avuto inizio il governo Monti, non sarà superata con le elezioni del 2013. Tralascio gli aspetti internazionali, sui quali l’Italia può influire in misura limitata: la molteplicità dei fenomeni che sinteticamente chiamiamo crisi, origina, in ultima analisi, dalla insostenibilità per l’Occidente del dualismo competitivo fra euro e dollaro. Ma, quanto alla politica italiana, che situazione si profila sei mesi dopo la nascita dell’attuale governo?
Mi pare che i risultati delle elezioni amministrative rivelino la profondità della crisi del centrodestra: la rivelano, non la generano, e fanno comprendere meglio perché si sia giunti a un governo di emergenza nazionale. Tutti sembrano riconoscere che il Partito democratico sia il solo partito rimasto in piedi. Ma perché? Una prima risposta è nella centralità conquistata dal Pd nel gioco politico fin dall’estate del 2010: una centralità che continua e lo ha portato a essere il principale sostegno del governo attuale. Quando, nel 2010, il Popolo della libertà perse le elezioni regionali a vantaggio della Lega, originando una crisi d’egemonia di Berlusconi nella sua stessa coalizione, fu a mio avviso determinante che il Pd, appena uscito dal travaglio della successione dei suoi due primi segretari, si proponesse come forza politica essenziale per qualunque soluzione della crisi della Seconda Repubblica: fossero le elezioni anticipate, ovvero un governo di Grande coalizione senza Berlusconi, come poi sarebbe avvenuto.
Questa sommaria ricapitolazione mostra anche quale sia oggi la sua missione: quella di indicare un cammino che, attraversando le elezioni del 2013, consenta innanzitutto alle forze che sostengono il governo Monti, comunque riconfigurate dal passaggio elettorale, di condividere chi dal governo, chi dall’opposizione gli oneri di una situazione di emergenza di cui nessuno può prevedere la fine.
Naturalmente la sorte della prossima legislatura non dipende solo dal Partito democratico, ma qui mi preme porre l’accento su quanto esso può contribuire a determinarla. La sfida chiama in causa la sua ispirazione originaria, ovvero le ragioni per cui è riuscito ad operare come un partito nazionale e popolare. Io credo che fra queste abbia un ruolo determinante la sua matrice di partito laico fondato sulla collaborazione di credenti e non credenti. Il paesaggio politico e culturale della Seconda Repubblica appare sempre più simile a un territorio devastato da una guerra. Non può sorprendere, quindi, che il mondo cattolico sia riemerso come grande riserva intellettuale e morale della vita del Paese. Ma se la Chiesa italiana ha potuto assumere con rinnovata energia una funzione nazionale, se ha potuto essere un fattore determinante della fine di Berlusconi, a me pare che la sua azione sia stata favorita dalla presenza di un nuovo partito riformista, in cui il riformismo cattolico ha un ruolo significativo e che, nel suo insieme, è orientato a valorizzare il contributo del cattolicesimo politico alle sorti dell’Italia.
Nella messa a punto della proposta politica per la prossima legislatura a me pare che questo elemento fondamentale della figura del Pd debba esprimersi con ricchezza. Un primo tema riguarda la possibilità che sia una legislatura costituente, ma di questo mi propongo di parlare in un’altra occasione. Qui vorrei soffermarmi, invece, su un tema sensibile della ricostruzione culturale e morale della vita nazionale: il tema dell’«emergenza educativa». È auspicabile che sia un tema centrale nella messa a punto del programma annunciato da Bersani per l’autunno. Credo che sia il tema che meglio di qualunque altro può manifestare quale sia la nostra visione della società italiana e la nostra capacità di renderla concreta.
In estrema sintesi, non si tratta solo delle risorse che ci proponiamo di destinare alla ricerca e alla formazione, né delle priorità che scandiranno la nostra agenda della spesa. Si tratta di assumere impegni chiari sul profilo culturale della nazione italiana, che potrebbero riassumersi in un progetto per una società educante. Istruzione e educazione non si possono separare. La formazione della persona è una combinazione di conoscenze e motivazioni dipendenti dall’equilibrio fra autorità e libertà nel processo educativo. La concezione e il ruolo della famiglia è quindi centrale, ma dipende a sua volta dalla sintonia o dalla disarmonia morale che determina i rapporti fra tutte le «agenzie» educative e formative.
Un progetto di «società educante» esige, quindi, una nuova alleanza tra la famiglia, la scuola, le confessioni religiose, i mezzi di comunicazione sociale, le organizzazioni del tempo libero. Ne abbiamo parlato, giorni fa, in un incontro dedicato ai temi dell’emergenza antropologica, sui quali suscitò una certa attenzione la lettera aperta sottoscritta da Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e da me lo scorso ottobre. Mi auguro che la discussione possa proseguire in pubblico.
l’Unità 17.5.12
La scelta disperata del Pdl: contro il Pd vota Grillo
Il Pdl sceglie Grillo. Nei ballottaggi in Emilia Romagna gli uomini di Berlusconi orientati a sostenere il candidato «5 stelle» pur di fermare il Pd. Accade a Parma dove si sta svolgendo la battaglia più dura. Ma anche in altri comuni come Budrio e Comacchio. Una scelta disperata dopo la sconfitta del primo turno. Bersani: ormai si muovono in modo scompaginato.
il Fatto 17.5.12
E ora la riforma elettorale
di Gustavo Zagrebelsky
Pubblichiamo l’appello del presidente di Libertà e Giustizia a favore della riforma elettorale e contro il progetto di riforma della Costituzione
Disaffezione politica e riforma elettoraleIl risultato delle elezioni amministrative, con la conferma dell’elevata disaffezione degli elettori per gli attuali partiti, rende sempre più indispensabile l’approvazione di una nuova legge elettorale, che quantomeno ripristini la possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Si tratta di restituire agli elettori una concreta possibilità di partecipazione alla vita politica, che è stata loro sottratta nelle due precedenti tornate elettorali.
LIBERTÀ e Giustizia ritiene questo passaggio una vera e propria precondizione per riavere un Parlamento all’altezza della “disciplina ed onore” richiesti dalla Costituzione e in grado di affrontare le emergenze del paese con l’autorevolezza che è necessaria. D’altro canto, le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato senz’ombra di dubbio ciò che da tempo avrebbe dovuto essere sotto gli occhi di tutti: il Parlamento attuale e i cittadini sono distanti l’uno dagli altri, quanto forse non è mai accaduto nei trascorsi decenni di vita repubblicana. In questa condizione di difetto di rappresentatività, non è pensabile che i partiti in Parlamento si arroghino il compito di intervenire sulle strutture istituzionali del paese modificando la Costituzione, addirittura puntando a ottenere quella maggioranza dei due terzi che impedirebbe il ricorso al referendum confermativo.
L’abuso di maggioranza contro il referendum. L’esclusione del referendum quando le Camere si pronunciano a maggioranza dei due terzi è stata prevista e vale in base alla presunzione che a un sì largo consenso parlamentare corrisponda necessariamente un consenso tra gli elettori tanto diffuso da rendere superflua la loro consultazione. Presuppone cioè un certo grado di rappresentatività delle Camere. Se ciò viene a mancare, la modifica della Costituzione con esclusione del referendum costituisce un’espropriazione di democrazia. Perché sia possibile questa verifica, ecco che occorre prima rinnovare il Parlamento, applicando nuove regole elettorali.
Come rispondere a chi dice: se il Parlamento non ha l’autorità per riformare la Costituzione, perché l’avrebbe per cambiare la legge elettorale? Perché la riforma elettorale non è una riforma come tutte le altre. Si tratta dell’adempimento d’un dovere democratico: la restituzione ai cittadini elettori di quella sovranità, che oligarchie di partito hanno voluto trasferire a se stesse, trasformando gli eletti in Parlamento in loro appendici. Per mettere fine a un abuso che si è commesso, non c’è bisogno di avere chissà quale autorità. Basta e avanza il riconoscimento dell’abuso commesso e della perdita di autorità che ne è conseguita. La riforma elettorale deve essere intesa come doveroso atto d’umiltà e sottomissione, quell’umiltà e quella sottomissione ai diritti dei cittadini che ogni vera riforma della politica in senso democratico presuppone.
AL CONTRARIO, la riforma della Costituzione – prima ancora che se ne discutano i contenuti – comporta un esercizio di sovranità che necessita d’un Parlamento in sintonia con i cittadini: necessita d’un Parlamento che non abbia da fare nessun atto di contrizione e che sia, al contrario, pienamente legittimato dal voto popolare, espresso secondo una legge elettorale accettabile, che non faccia a pugni con la democrazia.
La Stampa 17.5.12
Nuovi misteri a Sant’Apollinare. Spostato il terreno nella cripta
I georadar evidenziano altri lavori attorno alla bara di De Pedis
Durante la ristrutturazione del 2005 gli operai trovarono due scheletri di donna
di Giacomo Galeazzi
Proseguono e si intensificano i controlli nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare
Caccia ai reperti, i magistrati hanno disposto «analisi sul terreno della cripta». In seguito all’ispezione con i georadar nell’ossario di Sant’Apollinare, la procura di Roma ha ordinato ieri il prelievo di campioni di terreno per capire se «la superficie sia stata modificata» e se «del terreno sia stato aggiunto», riferiscono fonti della polizia scientifica. Sarà necessario almeno un mese di tempo per sapere se tra le ossa trovate nel sotterraneo della basilica dove è stato seppellito il 24 aprile 1990 il capo della banda Magliana, Renatino De Pedis, ci sono anche quelle di Emanuela Orlandi, la figlia di un dipendente del Vaticano scomparsa 29 anni fa. Polizia scientifica e archeologi forensi stanno analizzando i resti portati finora alla luce e ne cercano di ulteriori. Da lunedì la cripta è un laboratorio: simbolo di un passato da chiarire. Don Pietro Vergari, l’amico del boss ucciso durante un regolamento di conti, è stato parroco a Sant’Apollinare fino al
31 agosto 1991, poi è stato sostituito da un rettore dell’Opus Dei che ha trasformato la chiesa in cappellania dell’università della Santa Croce. Nel ‘97 finì per la prima volta sui giornali la sepoltura imbarazzante del boss. In quello stesso periodo furono progettati i lavori di ristrutturazione (avviati otto anni dopo) della basilica, per la quale dal 18 dicembre 1990 l’Opus Dei paga l’affitto al Vaticano (precisamente all’Apsa, l’amministrazione per il patrimonio della Sede Apostolica). L’umidità creava problemi di stabilità alla cripta e nel 2002 il Vicariato di Roma autorizzò lo spostamento delle ossa. Le cavità sono prese d’aria e le mura dividono l’ossario dai magazzini sotterranei. Adesso quei resti sono in cassette e sacchi di juta. Dalle ossa «compatibili per età, sesso e datazione» sarà prelevato il Dna e comparato con quello di Emanuela Orlandi. «Lavoriamo su quello che troviamo oggi dopo anni di ristrutturazione che ha riguardato anche i locali dell’ossario: è stato tutto ristrutturato», afferma il capo della squadra mobile di Roma, Vittorio Rizzi. Durante i lavori «furono trovate in una porzione di terreno alcune ossa umane, probabilmente appartenenti a due donne», ha testimoniato ieri a «Chi l’ha visto? » una persona che lavorò al restauro della basilica. «Un giorno eravamo a ridosso della pausa di pranzo, quando l’escavatorista aveva intaccato una porzione di terreno portando alla luce delle ossa umane. Gli scheletri si trovavano all’interno di due porzioni di un muretto, interrati - spiega il testimone -. Un operaio andò a toccare e fare emergere quelle ossa, appariva chiaro che fossero gli scheletri di due persone. Uno degli operai, disse che secondo lui erano gli scheletri di due donne».
Nel ‘97 le prime rivelazioni giornalistiche su De Pedis a Sant’Apollinare, poi nel 2005 a mettere in moto i pm è una telefonata anonima a «Chi la Visto? ». L’indicazione è precisa: «Per trovare la soluzione al caso Orlandi guardate chi è sepolto nella cripta di Sant’Apollinare e il favore che Renatino fece al cardinale vicario Ugo Poletti». In seguito anche l’ex amante del boss, Sabrina Minardi rivelò che a sequestrare la ragazza era stato il boss. Ieri, in un’intervista al sito «blitzquotidiano», la sua vedova ha annunciato la cremazione per «evitare atti di vandalismo» e ha protestato l’estraneità del marito: «Con Orlandi non c’entra. Non accetto certo che me lo deportino con un colpo di mano in un cimitero di periferia scelto chissà da chi, come quello di Prima Porta deciso dal Vicariato e dal Comune. Lo riporto nella tomba di famiglia al Verano». Lunedì è stata per lei «una giornata terribile. In quella chiesa «ci siamo sposati e andavamo a messa». E lamenta: «Se ne sono andati lasciando la bara di mio marito in uno stanzone del sotterraneo, su una specie di treppiede, l’hanno mollata lì come fosse roba vecchia, ormai inutile, di quella che si accatasta per buttarla». E due domande: «Perché tutto questo fracasso contro mio marito? ». Intanto nelle vie del centro sono comparsi volantini «omaggio» a De Pedis con l’appello «Lasciate riposare in pace unico l’unico vero boss romano». In memoria e «con immenso rispetto», viene riportato un sonetto del Belli («La corda ar Corzo»). E la scritta: «La chiesa sapeva e sa, ma lo Stato ha preferito disturbare l’eterno riposo di un uomo morto».
Corriere 17.5.12
Le carte segrete sul tavolo del Papa
Su «Sette», lettera di Boffo a Padre Georg accusa «L'Osservatore Romano»
di Pier Luigi Vercesi
Il «caso Dino Boffo» con le accuse all'Osservatore Romano, Emanuela Orlandi, l'ex ministro Tremonti e l'Ici, l'incontro riservato con Napolitano. Documenti segretissimi, fino a oggi. E cominciano tutti così: «Beatissimo Padre...». Sono centinaia, tra lettere e dossier, posati la mattina alle 6.45 da padre Georg Gänswein sulla scrivania di Benedetto XVI.
Li ha raccolti il giornalista de La7 Gianluigi Nuzzi, instradato da una «gola profonda» d'Oltretevere, e li pubblicherà nel libro-inchiesta Sua Santità (Chiarelettere) che domani sarà ampiamente anticipato nel numero in edicola di Sette. Ne esce una ricostruzione minuziosa delle guerre di potere che ogni giorno si consumano nei sacri palazzi vaticani. Nessuna illazione, solo documenti, come le lettere inviate per fax da Dino Boffo a padre Georg dalla sua casa di campagna di Oné di Fonte (Treviso). Cominciano così: «Sono venuto a conoscenza di un fondamentale retroscena e cioè che a trasmettere al dottor Feltri il documento falso sul mio conto è stato il direttore dell'Osservatore Romano, professor Gian Maria Vian, il quale non ha solo materialmente passato il testo della lettera anonima ma ha dato ampie assicurazioni che il fatto giudiziario da cui quel foglio prendeva le mosse riguardava una vicenda certa di omosessualità...». Boffo, travolto dalle accuse pubblicate da Il Giornale diretto da Vittorio Feltri, si era dovuto dimettere. Ora, nelle lettere spedite al Papa attraverso il suo segretario particolare, cerca un «mandante morale». Il nome che emerge è quello del segretario di Stato, Tarcisio Bertone. A sostegno delle sue accuse, però, solo deduzioni e indizi: «Non credo, per essere con Lei schietto fino in fondo, che il cardinale Bertone fosse informato fin nei dettagli sull'azione condotta da Vian, ma quest'ultimo forse poteva far conto di interpretare la mens del suo Superiore: allontanato Boffo da quel ruolo, sarebbe venuto meno qualcuno che operava per la continuità tra la presidenza del cardinale Ruini e quella del cardinale Bagnasco...».
Nuzzi trascrive, nel libro, anche la nota preparata in occasione di una cena in Vaticano, rimasta riservata, tra papa Ratzinger, Giorgio Napolitano e la moglie Clio. Il presidente è presentato come interlocutore strategico «pur essendosi sposato con rito civile». Tra i temi suggeriti, la famiglia tradizionale: il rapporto sottolinea i tentativi di porre le altre unioni sullo stesso piano, visto che «due esponenti del governo (Brunetta e Rotondi) hanno fatto annunci in tal senso». La linea è chiara e ferma: «Si devono evitare equiparazioni legislative o amministrative fra le famiglie fondate sul matrimonio e altri tipi di unione». In questa ottica, «potrebbe risultare utile un sistema di tassazione del reddito delle famiglie che tenga conto, accanto all'ammontare del reddito percepito, anche del numero dei componenti della famiglia».
Sempre sul tema delle imposte, ambasciatore dei sacri palazzi è Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, che fa pervenire relazioni scritte al Papa: «Ho cominciato a discutere con il ministro Tremonti le soluzioni di un prossimo problema che potrebbe preoccuparci e riguarda i problemi fiscali. Potrebbe esser utile pensare a un trattato sulla tassazione...». Il rischio è che «il laicismo potrebbe profittarne per creare una seconda Questiona Romana di aggressione ai beni della Chiesa (attraverso tasse, cessazione privilegi, esasperazione controlli ecc.)».
Infine, il caso Orlandi: il prelato veneto Giampiero Gloder, capo dei ghost writer del Papa sconsiglia al Santo Padre di intervenire sulla vicenda della ragazza: «Il fratello della Orlandi sostiene fortemente che ai vari livelli vaticani ci sia omertà. Il fatto che il Papa anche solo nomini il caso può dare un appoggio all'ipotesi».
l’Unità 17.5.12
Bianchi e Cacciari rilanciano la sfida evangelica: ama il prossimo tuo
di Giuseppe Cantarano
MA PERCHÉ DOVREMMO AMARE IL NOSTRO PROSSIMO? NON HA FORSE CESSATO DI ESISTERE – COME CI HA SPIEGATO LO PSICANALISTA LUIGI ZOJA ( LA MORTE DEL PROSSIMO, EINAUDI, PP. 128, EURO 10,00 ) dopo la novecentesca «morte di Dio»? E poi, chi mai sarebbe il prossimo che dovremmo amare? Nostro fratello? L’Abele di cui Caino si rifiutò di essere il custode? Oppure lo straniero? Quello che si presenta con il volto scavato del povero? O con i vestiti sudici del migrante che ci chiede ospitalità?
Il priore di Bose, Enzo Bianchi, e Massimo Cacciari hanno provato a rispondere a questi interrogativi. Commentando il mandatum novum ( Ama il prossimo tuo, il Mulino, pagine 141, euro 12,00 ). Che recita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27 ). Un comandamento la cui effettiva applicabilità risulta da sempre molto difficile.
Ebbene, il prossimo che dovremmo amare – ci ricordano Bianchi e Cacciari – non è solo colui che ci sta vicino. Il nostro fratello, l’amico. Ma l’altro, chi è lontano, lo straniero. È questo l’inaudito insegnamento evangelico. Ma c’è di più. Perché le «scandalose» parole di Gesù non ci invitano soltanto ad amare chi ci è vicino e lo straniero. Ma addirittura chi ci è ostile. Cioè il nostro nemico: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,44 ).
LA PARABOLA DEL SAMARITANO
Nel prossimo, insomma, dobbiamo sempre vedere anche il nemico. Non solo perché l’inimicizia abita dentro ciascuno di noi. Ma perché ciascuno di noi pur nella comune Paternità celeste è inassimilabile all’altro. Come nella parabola del samaritano. Che soccorre l’uomo che trova mezzo morto ai bordi della strada. Facendosi lui stesso prossimo a quel sofferente. Ma poi se ne va. Torna sui suoi passi. Procede verso la sua strada.
Enzo Bianchi e Massimo Cacciari proponendoci questa forma di prossimità che deve mantenersi sempre straniera ci rilanciano la «rivoluzionaria» sfida evangelica. La sola in grado di liberarci da ogni egoistico possesso. Anche dal possesso più geloso, quello della nostra psyché. Per diventare – come San Francesco – davvero poveri. Poiché la povertà francescana – l’Altissima pauperitas – non è soltanto svuotarsi di qualche bene materiale. Il vero povero – scrive Cacciari ( Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, pp. 86, euro 7,00 ) non si svuota solo per accogliere il Signore. Ma per accogliere l’altro, in tutti i suoi volti: «Farsi poveri significa liberarsi per poter perfettamente amare».
AMA IL PROSSIMO TUO, Enzo Bianchi e Massimo Cacciari pagine 141 euro 12,00 Il Mulino
La Stampa 17.5.12
Lusi spara a zero: “Ho dato soldi a Renzi Rutelli e Bianco”
di Francesco Grignetti
Ha deciso di giocarsela alla grande, il senatore Luigi Lusi, la sua
ultima partita. Era apparso contrito, quando ha fatto ingresso alla
Giunta per le Immunità del Senato, chiamato a spiegare ai colleghi la
vicenda penale che lo vede protagonista. Ne è uscito fremente dopo aver
tuonato contro Rutelli, Renzi ed Enzo Bianco. Lui, il tesoriere infedele
della Margherita, s’è scagliato contro i maggiorenti del suo ex partito
per dire che assolutamente non si sentiva «colpevole da un punto di
vista etico». E forse neanche dal punto di vista penale, ma su questo
aspetto ha preferito glissare.
L’autodifesa di Lusi era partita in sordina. Un’ora e mezza per leggere
una voluminosa memoria, scritta in tutta evidenza dai suoi avvocati, con
cui chiedeva di non autorizzare il suo arresto perché non c’è alcun
pericolo di fuga, né tentativo di inquinamento della prova. Ma alla
prima domanda più politica, del senatore Ferruccio Saro, Pdl, è venuto
fuori il Lusi vulcanico che è in lui. «Io ero il tesoriere, ovvero il
bancomat del partito. Io il garante di una spartizione 60/40 tra
popolari e rutelliani». Ha ribadito accuse che finora erano state
ambigue e velate. «A Enzo Bianco davo tremila euro al mese, poi
diventati cinquemila». Ad una società di Catania legata al marito della
segretaria di Bianco, invece, sempre secondo Lusi, tra il 2009 e il 2011
sarebbero stati forniti circa 150mila euro. «A Renzi ho pagato tutto
quel che mi hanno detto di pagare: Renzi aveva richiesto circa 100 mila,
anzi 120 mila euro suddivisi in tre fatture, poi Rutelli mi ha chiesto
di non pagargli la terza e così ho dato a Renzi solo 70 mila euro». «Lo
stesso per Rutelli. Io non facevo domande. Pagavo e basta. Lui era il
presidente, io il tesoriere». E così andava per le assunzioni. «Rutelli
mi diceva di assumere tizio e caio; io eseguivo. Me lo diceva il mio
presidente. E io assumevo».
Quanto alle case acquistate con i fondi della Margherita, Lusi ha
ribadito la sua tesi, già esposta ai magistrati, e contestata dai big
del partito: «Erano acquisti fiduciari per mettere al sicuro i fondi del
rimborso elettorale. Gli immobili risultavano a mio nome, ma ero pronto
a restituirli quando me li avessero chiesti». E per concludere ha
ripetuto una frase che ha detto spesso in questi cinque mesi: «È ben
difficile che io abbia fatto tutto da solo per undici anni come si è
detto. Ma davvero credete che le cose siano andate così? ».
l’Unità 17.5.12
Libertà religiosa
Serve subito una legge Non si può più aspettare
di Gian Mario Gillio
FELICE COINCIDENZA. IERI LA COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI DELLA CAMERA HA DISCUSSO DUE INTESE, quella con la Sacra Arcidiocesi d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale (ortodossi) e quella con la Chiesa apostolica in Italia. Il giorno prima, sempre alla Camera dei deputati, si è discusso per l’intera giornata proprio di libertà religiosa. Promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) in collaborazione con la Commissione delle chiese evangeliche per i rapporti con lo stato e con il Dipartimento per la libertà religiosa dell’Unione delle chiese avventiste, si è tenuto il convegno «Una legge sulla libertà religiosa. Urgente, inutile, impossibile?» che ha messo assieme mondo delle religioni, della politica e della società civile. In tre tavole rotonde che potremmo definire «ecumeniche» per la convergenza di intenti, si sono confrontati esperti del diritto, esponenti delle comunità religiose e rappresentanti del mondo della politica. L’intento lo ha sottolineato Massimo Aquilante, presidente della Fcei: «È ora di tornare ad alzare il livello di attenzione sulla necessità che si arrivi finalmente a una legge quadro che superi quella sui “culti ammessi”, la legge del 1929 approvata durante il ventennio fascista ed ancor oggi in vigore per quel che riguarda le comunità non dotate di Intesa».
È stata la coordinatrice dell’Ufficio studi e rapporti istituzionali della Presidenza del Consiglio, dottoressa Anna Nardini ad annunciare la discussione sulle due nuove Intese. Ai lavori sono intervenuti anche il prefetto Sandra Sarti, direttore centrale degli affari dei culti del Ministero dell’Interno e i giuristi Francesco Margiotta Broglio, Silvio Ferrari, Marco Ventura e Gianni Long. Il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, ha affermato che «il prossimo governo dovrà impegnarsi a sostenere la libertà religiosa e siglare le intese mancanti». Anche il senatore Vincenzo Vita ha richiamato «l’urgenza e l’utilità di una legge sulla libertà religiosa». «Sostenere il pluralismo delle culture e le religioni è un imperativo democratico, ma sappiamo bene ha rilevato il politologo Paolo Naso, coordinatore delle Commissione studi della Fcei che non sarà l’attuale legislatura a compiere il passo decisivo. Ma proprio per questo vogliamo sensibilizzare le forze culturali e politiche su di un tema di grande rilievo costituzionale e democratico».
«Una storia senza fine». Così i rappresentanti delle “minoranze religiose” presenti hanno definito l’attesa pluriennale per una legge sulla libertà religiosa, che dovrebbe garantire pari diritti alle diverse confessioni religiose in Italia. Sono stati sottolineati i ritardi di «una cultura politica predominante e trasversale ai diversi schieramenti» che fatica a misurarsi con la grande sfida democratica rappresentata dalla “uguale libertà” delle varie comunità religiose, sempre più urgente in una Italia pluralista e multiculturale.
Corriere 17.5.12
Non sta succedendo a me
Donne maltrattate dai partner: perché non denunciano subito?
La fatica di convincere sé e gli altri, la «normalità» come sfondo
Quando i vicini di casa sono entrati, Luisa aveva il viso sul tavolo
della cucina, il suo ex compagno le impediva di muoversi. «Ricordo che
uno di loro ha guardato il coltello del pane sul lavello: ha pensato che
il mio uomo avrebbe potuto ammazzarmi». Luisa, 38 anni, toscana, lo
racconta «senza vergogna». Nel momento peggiore aveva addirittura perso
la voce. «Un'afonia senza spiegazioni, secondo i medici. Non riuscivo a
dire a nessuno quello che mi era capitato. Non riuscivo nemmeno a
capacitarmi che fosse successo a me: noi eravamo persone normali».
Spesso i maltrattamenti vanno avanti per anni, prima che le donne
riescano a lasciarsi alle spalle queste situazioni angosciose. Oppure si
concludono con un omicidio: succede ogni tre giorni, in Italia. I
cosiddetti «raptus» sono rari: nel 70% dei casi gli uomini uccidono dopo
lunghi periodi di vessazioni e stalking.
Il compagno di Luisa è un dirigente d'azienda. All'inizio è un idillio,
poi arrivano le botte: «La prima volta è stato perché avevo messo al
posto sbagliato un mestolo. Sento ancora il rumore dei colpi sulle
orecchie. Dopo mi ha detto: mi devi ringraziare, ti ho picchiata dove
hai i capelli, così non si vede». Luisa chiama il numero antiviolenza
della Casa della donna. Ha paura. «Il primo istinto è startene buona: ti
convinci che se non fai storie lui si calmerà, che devi solo aiutarlo a
cambiare». Poi arriva il sostegno del centro: «Non mi hanno mai detto
"lascialo", ma mi hanno dato le informazioni e gli strumenti per farlo».
Denunciare è il passo successivo. Una scelta difficile, che viene fatta
solo dal 7% delle donne. E solo tre su dieci ne parlano con qualcuno.
Solitudine e isolamento, dunque, sono tra le cause del silenzio.
«Spesso le donne non osano denunciare i loro compagni perché non
incontrano sul loro cammino avvocati o operatori sociali preparati»,
spiega Marzia Ghigliazza, avvocatessa specializzata in diritto di
famiglia. E spesso le denunce non si concludono con condanne perché gli
avvocati non portano in aula le testimonianze giuste». La storia di
Giovanna, in questo senso, è classica. «Ho sottovalutato i segnali»,
racconta. Si tormenta le mani questa donna di 50 anni, mentre torna
indietro con la memoria. Buona famiglia, studi nelle migliori università
d'Europa, conosce il suo futuro marito quando è un giovane in carriera.
Si amano, si sposano, lei rimane incinta. Al settimo mese di gravidanza
Giovanna scopre il tradimento. Chiede spiegazioni. In cambio riceve
calci che le lasciano lividi sulle gambe. «Sono scappata di casa, mi
sono nascosta di notte in una cabina telefonica, accucciata per non
farmi trovare. Non potevo andare dalle mie amiche, mi avrebbero
giudicata». Giovanna va in un centro di aiuto della città dove abita:
«Ci ho provato tre volte: era sempre chiuso».
Oggi sono passati otto anni, Giovanna guarda indietro, non l'ha
denunciato: «È il padre di mio figlio, continuavo a ripetermi». A tratti
si assolve. A tratti si condanna. «Speravo rinsavisse, che la nascita
del bambino cambiasse le cose. E non ho fatto attenzione ai campanelli
d'allarme: anche prima delle botte era violento verbalmente. Sbottava
per un nonnulla». Poi la paura più grande: «Non essere creduta». Un
timore che si avvera: perfino le persone più vicine all'inizio faticano
ad accettare che quell'uomo giovane e bello sia un violento.
«Le donne che trovano il coraggio di denunciare sono delle eroine», dice
Angela Romanin, operatrice del Centro per non subire violenza di
Bologna. «Affetto e senso di vergogna si mescolano alla paura di
ritorsioni. E soprattutto c'è la consapevolezza di una giustizia che non
le protegge abbastanza. Prima che lui sappia che lei lo ha denunciato
c'è la corsa a mettersi in salvo. E tra la denuncia e il processo passa
un tempo infinito, almeno 5 o 6 anni. In Italia poi i dati anagrafici
sono pubblici, ho seguito casi in cui lei ha dovuto cambiare città, ma
lui si è licenziato e ha cominciato a cercarla in tutt'Italia. E alla
fine l'ha trovata, perché un comune ha dato al marito l'indirizzo della
nuova scuola dei bambini».
Tra le donne che hanno sopportato per decenni c'è Sara, romana, 50 anni.
«I primi tempi prendevo le botte come un gesto d'affetto: sono
cresciuta con una padre violento, credevo che anche il mio ex lo facesse
perché mi amava». La reazione di Sara è stata una profonda depressione,
che l'ha portata a un ricovero e poi alla psicoterapia. Finita il
giorno in cui il marito l'ha seguita, è entrato nello studio della
psicologa e ha spaccato tutto. La dottoressa lo ha denunciato, poi ha
telefonato a Sara e le ha detto che non poteva più seguirla. Sono
iniziati anni di sevizie, minacce di morte o di suicidio (da parte di
lui), referti in ospedale, denunce poi ritirate. «I carabinieri mi
mandavano a chiamare e chiedevano: cosa vuole fare, proseguire o
mettersi d'accordo? E io ritiravo», dice Sara. Anche questo succede
spesso: «Senza una formazione specifica, le forze dell'ordine tendono a
trattare le violenze come un fatto privato, che i coniugi devono
risolvere da soli. Alcuni assistenti sociali li chiamano “conflitti”,
invece che reati», spiega Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa.
Solo nel 2005, dopo quasi dieci anni di sevizie, Sara ha trovato la
forza di chiedere di nuovo aiuto e si è rivolta al Centro antiviolenza
della Provincia di Roma. Lì ha incontrato l'avvocatessa Teresa Manente,
che un anno dopo ha portato il caso a processo. Sembrava fatta. Invece
la mattina dell'udienza Sara ha mandato un fax in tribunale, per
ritirare il mandato e la richiesta di costituirsi parte civile. «Ero in
preda al panico: mio marito aveva bruciato il negozio di mia mamma». È
il terrore, non il dolore, il nucleo delle violenze domestiche: le donne
vivono nella paura costante, pensano soltanto a sopravvivere, tornano
sui loro passi. Così danno forza ai persecutori. Sara ha vissuto in una
bolla per anni. Finché un'amica le ha detto: «Tu hai paura di morire, ma
sei già morta». Qualcosa è scattato: Sara ha cambiato la serratura di
casa e ha scritto su tutti i muri, con il pennarello rosso: «Sono uscita
dal cancro». A fine 2010 ha convinto l'avvocatessa Manente a riprendere
il suo caso. Nel frattempo l'uomo è stato condannato per maltrattamenti
a un anno (con l'indulto non farà carcere); è in corso un processo per
stalking e gli è stato notificato il divieto di dimora nel Lazio. Sara
non ha più paura: «Se la legge funziona, se non sei sola, puoi provare a
rinascere a una vita (davvero) normale».
Corriere 17.5.12
I centri di aiuto: ecco come funzionano
Dovrebbero essere più di 5.000 in Italia i posti letto pronti ad
accogliere le donne che cercano un rifugio, in realtà ce ne sono appena
500, un dato che ignora le raccomandazioni dell'Unione Europea. «Se una
donna arriva in un centro già pieno, attiviamo la rete di contatti per
trovare una struttura adatta, anche fuori regione», spiega Luigia Barone
dell'Associazione «Differenza donna». Ma non tutti i centri hanno
case-rifugio; tra quelli che hanno la possibilità di ospitare, alcuni
tengono l'indirizzo segreto, mentre altri preferiscono «non nascondere
le donne», perché chi vuole ribellarsi alla violenza non deve scappare.
La mappa degli aiuti è complessa e disomogenea: ai 60 centri che
aderiscono a «Donne in rete contro la violenza» se ne aggiungono altri
(quasi un centinaio), punti di aiuto, sportelli ospedalieri, telefoni
rosa, coordinati dal numero verde 1522 del ministero delle Pari
Opportunità. La scommessa è creare una rete e formare gli operatori.
Spiega Luigia Barone, che guida 5 centri finanziati dal Comune e dalla
Provincia di Roma: «Sono strutture dove le donne iniziano un percorso di
ricostruzione, con supporti legali, psicologici e di orientamento
professionale. Nove donne su dieci poi hanno figli, spesso minorenni,
che vanno inseriti in nuove scuole, per cui l'ospitalità in genere dura
almeno 5 o 6 mesi».
l’Unità 17.5.12
Basaglia per le scuole
«Salute/malattia» un libro storico da rileggere
di Pier Aldo Rovatti
Il Festival. Di follia e delirio, di sintomi e diagnosi si parlerà a Gorizia, dove parte oggi «èStoria», con tanti appuntamenti e oltre 150 ospiti, da Luciano Canfora a Margherita Hack
ESCE IN QUESTI GIORNI IL TERZO TITOLO DELLA COLLANA «180. ARCHIVIO CRITICO DELLA SALUTE MENTALE» (EDIZIONI ALPHA BETA, MERANO), che fa seguito al Marco Cavallo di Giuliano Scabia e a C’era una volta la città dei matti (il film televisivo di Marco Turco sulla vita di Franco Basaglia). Si tratta del volume Salute/malattia firmato da Franca Basaglia (ed. Alphabeta Verlag collana 180 diretta da Peppe Dell’Acqua e Pieraldo Rovatti, 272 pagine 16 euro), in prima presentazione domani sera al festival èStoria di Gorizia), compagna di Franco, sua stretta collaboratrice a Gorizia e anche in seguito, coautrice di molti suoi testi. Ma molto di più, poiché la biografia intellettuale di Franca Ongaro Basaglia (anche senatrice della Sinistra indipendente tra gli anni Ottanta e i Novanta) resta ancora tutta da valorizzare per l’impegno civile, l’ampiezza di orizzonte, la finezza critica, la ricchezza delle proposte. Nel libro, che sostanzialmente raccoglie alcune ampie «voci» apprestate per la prestigiosa Enciclopedia Einaudi alla fine degli anni Settanta (quando la legge «180» cominciava a prendere vita), troviamo ora un apparato critico e informativo che ci permette di capire chi era Franca Basaglia e cosa è stata la sua opera, dalla sostanziale partecipazione agli ormai mitici «libri di Gorizia» (Che cos’è la psichiatria?, L’istituzione negata), a La maggioranza deviante del 1971, ai lavori meno noti dedicati al rapporto tra donne e follia, o rivolti a spiegare ai giovanissimi la realtà del manicomio, infine alla monografia del 1991, Vita e carriera di Mario Tommasini (l’eccezionale «burocrate scomodo» di Parma, un protagonista oggi quasi dimenticato). La bibliografia completa è uno di questi preziosi apparati messi a punto da Maria Grazia Giannichedda (presidente della Fondazione Basaglia di Venezia e curatrice del volume); ma bisognerà ricordare almeno l’appendice dedicata alla lezione magistrale tenuta da Franca Basaglia a Sassari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, documento inedito di grande interesse culturale e politico, e naturalmente l’introduzione della stessa Giannichedda («La voce di Franca Basaglia»), ritratto profondo da cui emerge la peculiarità di una donna di grande intelligenza, a un tempo schiva e pungente. Ce n’era bisogno poiché, se lei aveva scelto di stare in qualche modo all’ombra dell’importante compagno, donandogli la sua capacità di pensiero critico e di scrittura, adesso è giunto il momento di darle la visibilità e l’autonomia che le spettano.
Basta scorrere i temi che si snodano in Salute/malattia per capire al volo la loro importanza e l’attualità che conservano: cura/normalizzazione, esclusione/integrazione, farmaco/droga, follia/delirio, medicina/medicalizzazione, normale/patologico, sintomo/diagnosi. Ricordo che il sottotitolo del libro è: «Le parole della medicina». L’impianto critico complessivo potrebbe essere allora condensato nel modo seguente: una lotta culturale (e pratica) per liberare queste parole, che restano decisive per noi, da ogni incrostazione naturalistica. Esse non rimandano a qualcosa di «naturale» ma sempre a esperienze storiche e ogni volta a dei dispositivi che le incapsulano e le fanno diventare oggettività insormontabili, pareti che sembrano imprigionare la nostra soggettività.
A ben vedere, non si tratta solo di temi attuali ma di questioni che sono state oscurate, rese «inattuali» dal montare trionfante dei processi di medicalizzazione. Franca Basaglia ha dunque anticipato tempi che devono ancora arrivare: quello che non poteva prevedere è che gli orizzonti già allora angusti sarebbero diventati i tempi bui della restaurazione che stiamo vivendo. Faccio solo l’esempio della malattia. Lei propone di guardarla dal lato di un soggetto che riesca a vivere il suo essere malato anche come un’opportunità di consapevolezza e di crescita, un’occasione di soggettivazione. Oggi, invece, la medicalizzazione della società ha fatto piazza pulita di simili discorsi (poco «realistici»?) e marcia, senza troppi intralci, verso la naturalizzazione della malattia come semplice «oggetto» del sapere medico, nel quale la soggettività interferisce poco o nulla. Perciò, io credo che Salute/malattia sia un libro da far leggere ai giovani e magari da portare dentro le nostre scuole come contributo di educazione per costruire una cittadinanza attiva.
Corriere 17.5.12
il peso delle tasse? su dipendenti e pensionati
Il gettito cresce di 3 punti e cala per autonomi e imprese
di Enrico Marro
ROMA — La pressione fiscale è aumentata nell'ultimo decennio (dal 40,5% del Prodotto interno lordo nel 2002 al 45,1% previsto per quest'anno) arrivando a livelli altissimi: ovviamente per chi non evade o non può evadere a causa del prelievo alla fonte. Se si prende l'andamento dell'Irpef, l'imposta sui redditi delle persone fisiche, che è la principale fonte di prelievo del sistema (vale circa 150 miliardi di euro), si osserva un incremento del contributo dei redditi di lavoro dipendente e pensioni mentre cala quello di lavoro autonomo, impresa e partecipazione. Questa la conclusione alla quale giunge il rapporto sull'Irpef (anni d'imposta 2003-2010) di Lef, l'Associazione per la legalità e l'equità fiscale, animata tra gli altri da Massimo Romano, già direttore dell'Agenzia delle entrate dal 2006 al 2008, e da altri collaboratori dell'ex ministro delle Finanze Vicenzo Visco (Pd). Il documento, curato da Lelio Violetti, ex responsabile dell'Ufficio studi della Sogei, la società pubblica per l'Anagrafe tributaria, mette a confronto sei tipologie di reddito dichiarato negli otto anni presi in esame (2003-2010) e la corrispondente Irpef pagata.
Il reddito totale dichiarato ai fini Irpef passa da 655 miliardi nel 2003 a 792 miliardi nel 2010. Di cui quello da lavoro dipendente da 344,5 a 418,1 miliardi. Quello da pensione da 177,3 miliardi a 228,2. Insieme, i redditi da lavoro dipendente e da pensione, rappresentavano, nel 2003, il 79,66% di tutto il dichiarato e nel 2010 l'81,55%, cioè quasi due punti in più. Nel frattempo però l'Irpef versata da queste stesse categorie aumentava di circa tre punti, passando dal 75,59% al 78,42%, interamente dovuti al maggior contributo dei pensionati la cui Irpef è passata dal 21,1% del totale nel 2003 al 23,8% nel 2010, mentre i lavoratori dipendenti sono rimasti stabili intorno al 54,5-55%. Al contrario, nello stesso periodo, il peso degli altri redditi sia sul totale dichiarato sia sull'imposta pagata è sceso.
In particolare, il lavoro autonomo è rimasto a poco più del 4% del reddito totale dichiarato a fini Irpef e l'imposta pagata di poco superiore al 6%. Il reddito d'impresa ha invece subito un andamento altalenante: rappresentava il 4,5% del totale nel 2003, era salito al 5,07% nel 2006 e poi è costantemente sceso fino al 3,81% del 2010. E così l'imposta versata: dal 4,6% del totale nel 2003 al 5,1% del 2007 al 3,9% del 2010. In calo anche l'Irpef pagata sui redditi da partecipazioni: il 6,4% del totale nel 2003, il 5,3% nel 2010. È chiaro che la crisi ha colpito artigiani, commercianti, imprenditori, ma è anche vero che per queste categorie è più facile evadere non avendo il prelievo alla fonte. Così mentre per i dipendenti il reddito, nel periodo 2003-2008, è salito del 21,4% e l'Irpef pagata del 25,7% per gli autonomi il reddito è cresciuto più dell'imposta: il 25% contro il 22%.
«È significativo notare — si sottolinea nel rapporto — che il peso del lavoro dipendente e delle pensioni resta dominante anche nelle classi di reddito più elevate. In particolare, nella classe con aliquota al 41% (da 55 mila a 75 mila euro), le due componenti ammontano a circa il 70%». E anche nella fascia oltre i 200 mila euro di reddito la metà è rappresentato da dipendenti e pensionati.
L'aumento del gettito Irpef dai redditi di questi due gruppi di contribuenti, ha detto Visco intervenendo alla presentazione del rapporto, è dovuto al fatto che «salari e pensioni sono aumentati più del prodotto interno lordo» mentre sugli altri redditi «probabilmente è cresciuta l'evasione». Lo studio sottolinea anche l'effetto negativo sui redditi fissi del fiscal drag, le maggiori imposte pagare a causa dell'aumento nominale dei guadagni che fa ricadere il contribuente in scaglioni ad aliquota superiore. Che fare? Secondo Lef bisognerebbe appunto ridurre il peso dell'Irpef su dipendenti e pensionati. Per Visco, in particolare, si dovrebbe tagliare la prima aliquota dal 23% al 20% e la terza dal 38% al 36% perché «il problema dell'Irpef è l'eccessiva incidenza sulle classi medie, compresi gli operai pagati bene, cioè i redditi fino a 55 mila euro».
La Stampa 17.5.12
Spese folli in Sicilia La Regione assume i “camminatori”
Avranno il compito di “trasferire i documenti”
di Mattia Feltri
Sono trenta i nuovi posti da «camminatore» disponibili
Il welfare alla siciliana dà una speranza a tutti. Il modello era emerso nella sua sferica perfezione poco più di un mese fa quando l’assessorato regionale ai Beni Culturali aveva deliberato l’assunzione di cinquantacinque addetti alla sorveglianza dei musei palermitani. Un numerello, effettivamente, che però andava assommato ai circa mille e seicento custodi già ingaggiati negli anni. Un numerello e per uno stipendiuccio, niente più che cinquecento euro al mese, e un arguto cronista del luogo aveva spiegato che se non altro si trattava di alimentazione della speranza.
E da ieri, infatti, possono sperare anche i pretendenti a una trentina di posti da commesso di piano. In gergo meno cancelleresco, i commessi di piano sono i camminatori. Questi signori riceveranno la giusta retribuzione in cambio dell’instancabile opera delle loro gambe che li conduranno da una stanza all’altra di Palazzo d’Orleans (la sede della Regione) a trasferire documenti, cartellette, incartamenti, faldoni, pratiche, fascicoli e dossier dal mittente X al destinatario Y, poiché il mittente X e il destinatario Y hanno già il loro bel daffare. Una mansione certamente di responsabilità, ma anche piuttosto suggestiva in tempi di crisi e di internet.
Le periodiche polemiche attorno alla Regione Sicilia per i suoi strabocchevoli organici hanno perlomeno raggiunto il risultato di un credibile censimento secondo cui nell’amministrazione lavorano oltre sedicimila dipendenti e oltre mille e duecento dirigenti (la Lombardia ne ha in tutto tremila e qualcosa). Una quota in continuo aggiornamento poiché arrivano i trenta camminatori ma anche sessanta funzionari direttivi e venti collaboratori preferibilmente - si segnala - con esperienza acquisita nei servizi di protocollo e archivio, per un totale provvisorio di centodieci new entry. Si premette che anche stavolta, come nelle volte precedenti, dalla Regione specificheranno che a loro carico c’è una pletora di dipendenti, più o meno i due terzi del totale, che altrove sono a carico dello Stato (e qualcuno replicherà citando per esempio il caso di una scuola di formazione pubblica che si chiama Cefop e ha ottocento dipendenti, pari a quelli del comune di Varese). E rimane così inspiegabile l’infittirsi di assunzioni a ridosso delle elezioni, a meno che non le si interpreti come occasioni di assistenzialismo.
E così tocca rifarsi a una recente indagine del governo (conclusa nello scorso ottobre) per raccattare qualche evidente esuberanza nella selezione del personale. In Sicilia sono in otto a occuparsi di «relazioni diplomatiche internazionali» e in ventuno che da mattina a sera si applicano alla «promozione dell’identità siciliana», mentre la signora Alessandra Russo, capo dipartimento del Lavoro, ha preso la funzione in senso estensivo e il lavoro lo dà a trentadue collaboratori. L’ufficio di presidenza onora il blasone di cui è portatore con una squadretta di centocinquantasette chauffeur. Poi ci sono certi uffici che tirano avanti con un solo dipendente (e un’imprecisabile quantità di precari) come l’Ufficio sismico regionale, il Servizio liquidazioni enti, il Servizio gestione interventi post diploma e università e il Servizio isole minori dell’assessorato alla Salute.
E per tornare alla cinematografica vicenda dei cinquantacinque custodi museali e dei loro mille e seicento colleghi, nelle cronache palermitane si leggono notizie prossime alla mitologia, come quella dell’area archeologica di Ravanusa che nel 2009 contò il totale lordo di un visitatore accolto con tutti gli onori dai dieci custodi (diciamo lordo perché, narra la leggenda, l’arrivo del turista fu salutata come quella del messia, e si celebrò l’evento offrendogli ingresso gratuito) ; o come quella del museo archeologico di Marianopoli che 2008 ebbe trentaquattro turisti per un incasso di sessantatré euro (e quindi anche qui ci è scappato qualche portoghese). Chissà che nei pomeriggi meno impegnativi i camminatori non vadano a far due passi anche a Ravanusa e a Marianopoli.
La Stampa 17.5.12
Se la vendita degli ovuli diventa risarcimento
di Eugenia Tognotti
Se non si trattasse di una questione maledettamente seria e con importanti risvolti etici e bioetici, si potrebbe persino ironizzare sull'idea dell'Associazione di intermediazioni «Altrui» con sede nel North Yorkshire, specializzata nell'ovodonazione. Perché l'invito alle studentesse di Cambridge di «donare» i loro ovuli - con una ricompensa di circa mille euro - sembra un frutto inedito e anomalo della crisi, capace di configurare una sorta di lavoro, quello di «donatrice di ovuli».
Ma, comunque la si voglia considerare, questa iniziativa - che ha avuto una vastissima eco sui media - non può che suscitare inquietudine e ripulsa, da molti punti di vista. Intanto, s'impone il fatto che il volantino sia stato recapitato alle studentesse di quella prestigiosa università, cosa che rappresenta già una scelta precisa e con chiare implicazioni eugenetiche, data la possibilità di selezionare le donatrici, giovani donne, studiose e brillanti, che possono assicurare al «figlio della scienza» migliori prestazioni scolastiche e, quindi, superiori chance lavorative e sociali. In altre parole, l'intenzione, per quanto ben nascosta, è quella di comprare un vantaggio selettivo, di predeterminare le caratteristiche genetiche del figlio, di violare, in qualche modo, il principio delle pari opportunità di chi nasce. Ma donare gli ovuli non è - naturalmente - come tagliare e cedere una ciocca di capelli: la procedura richiede l'assunzione di farmaci e trattamenti che possono anche rappresentare dei rischi per la salute, senza parlare di altre implicazioni. Inoltre, a dispetto dei toni felpati - cercasi ragazza compassionevole, gentile, - la richiesta di «aiutare» due ex laureati di quell'università che non possono avere figli, a causa di una grave malattia genetica, si caratterizza, di fatto, come una compravendita, capace di attirare ragazze «finanziariamente vulnerabili». Contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti, dove esiste un fiorente mercato di ovuli e spermatozoi, considerati non come organi, ma come cellule, e quindi commerciabili, in Gran Bretagna pagare per gli ovuli è severamente vietato. Sennonché ad aprile l'Human Fertilisation and Embryology Authority ha reso legale la pratica del «risarcimento»: insomma, le 750 sterline che le donatrici ricevono non rappresentano il prezzo degli ovociti, ma il corrispettivo che si ritiene più adeguato a remunerare il tempo, i fastidi, il coinvolgimento fisico ed emotivo che la procedura - che dovrebbe svolgersi in centri specializzati - comporta.
Ora, non c'è dubbio che il verbo «risarcire» sia meno odioso e d'impatto del verbo «pagare», che significa mettere sullo stesso piano il prodotto e il denaro, farne un equivalente neutro e impersonale. Ma qualche dubbio su questo spiraglio aperto in Gran Bretagna è lecito coltivarlo. Le reazioni indignate sollevate dall'iniziativa dell'Associazione «altrui» fanno, comunque, sperare che in Europa continui ad essere proibita la compravendita di gameti, spermatozoi e ovuli, che svaluta il valore stesso del corpo umano e alimenta un mercato che è inevitabilmente basato su un dislivello di ricchezza e di potere tra chi compra e chi vende. Non c'è nulla di più «naturale», di più legittimo, di più profondamente radicato nell'antropologia dell' umanità, del bisogno di una discendenza. E, per converso, di più doloroso del fallimento di una capacità biologica, dello scacco psicologico della coppia «sterile». Detto questo restano sul tappeto questioni cruciali che riguardano non solo il «vendere» e il «comprare» gli ovociti, ma i confini fra corpo e tecnologia e tra natura e legge, il destino delle generazioni presenti e future, il senso della paternità e della maternità, l'architettura dei sentimenti.
La Stampa 17.5.12
La Cina scopre il lato negativo di uno yuan più libero
di John Foley
La Cina non ha una valuta convertibile ma sta vivendo alcune frustrazioni tipiche di chi ce l’ha. Forti segnali indicano che molti investitori e aziende stanno abbandonando lo yuan a favore di altre valute. Non è una vera e propria fuga di capitali, ma una tendenza che può creare pressione sulle banche e ostacolare i tentativi del governo di stimolare la crescita economica. Poiché la Cina registra abitualmente un surplus commerciale, le aziende si trovano in cassa un eccesso di valuta estera che vendono alle banche, a una media di 31 miliardi di dollari al mese nel 2011. Ad aprile, tuttavia, alla banca centrale cinese risulta che le aziende abbiano acquistato 9,6 miliardi. Questo dato è in linea con l’incremento dei depositi in valuta estera presso le banche cinesi, il cui aumento di 90 miliardi tra gennaio e aprile è stato nettamente superiore ai 19,2 miliardi del surplus commerciale.
La spiegazione più plausibile è il cambiamento delle aspettative sulla moneta. I clienti delle banche sembrano credere a quanto viene preannunciato dal mercato offshore dei cambi a termine, un deprezzamento dell’1% dello yuan nel prossimo anno. Ogni giorno la banca centrale fissa il valore di scambio dello yuan. Per la maggior parte del 2012, questo valore si è indebolito verso la fine della giornata di contrattazione – la settimana scorsa addirittura dello 0,6%. In condizioni normali, tutto questo importerebbe poco. Ma ora che l’economia cinese sta rallentando, il governo avrebbe interesse a che le banche concedano più prestiti. Il problema è che molti degli istituti di credito più piccoli sono troppo vicini al rapporto prestiti-depositi minimo per poterlo fare. Allo stesso tempo, se le aziende continueranno a preferire i depositi in dollari, i depositi in yuan diventeranno sempre più scarsi, facendo così diminuire ulteriormente la capacità di credito delle banche. Per ora, lo scambio tra yuan e dollari è disponibile solo a pochi. Il governo ha ancora un controllo sui capitali. Questa disaffezione per lo yuan è un segnale che fa riflettere su ciò che potrebbe avvenire.
Corriere 17.5.12
La povertà culturale dell'Europa
L’orchestra senza musica
di Gian Arturo Ferrari
Dopo essersi ammazzati con entusiasmo per oltre duemila anni e aver pacificamente convissuto per poco meno di settanta, gli europei tornano a manifestare qualche reciproca inquietudine. Non è più il sangue e il suolo — o il desiderio di sangue e di suolo — a dividerli, ma un'alchemica mescolanza di cifre, percentuali e termini arcani: rating, spread, bond (o bund? o eurobond? mah...). Smarriti in questo labirinto e costretti su due piedi a maneggiare un po' di macroeconomia per poter sostenere una decente conversazione, gli europei danno il peggio di sé e riscoprono non le identità nazionali (non parliamo di quella europea), ma i pregiudizi nazionalistici. I meridionali lazzaroni, i tedeschi autoritari, gli inglesi che vogliono stare per loro conto, i francesi arroganti. E più di tutti i greci, poveri greci, felicemente ignari di manifattura, mediterranei vispi, non incupiti dalla criminalità organizzata, illusi che l'Europa fosse una specie di paese di Cuccagna che elargiva fondi, strade, emolumenti e restauri a volontà. Certo, non si poteva fare l'Europa democratica senza il Paese che la democrazia l'aveva inventata, anche se qualche tempo fa. Ma inserire quella fragile economia (e quella fragile democrazia) nel tritacarne dell'euro non è stata una gran trovata.
Mentre noi europei rimuginiamo polverosi stereotipi — ma con acidità, come dopo una cattiva digestione — gli altri attori principali sulla scena mondiale procedono spediti ad applicare e tradurre in pratica i loro principi, le idee costitutive del loro modo d'essere. Gli americani continuano a ragionare in termini di libertà, quella vera però, e di sicurezza: to be free and to be safe restano i loro fari, i loro caposaldi. Gli aspiranti presidenti gareggiano essenzialmente sul tema di chi è più americano. I cinesi applicano con risolutezza spietata i principi del comunismo confuciano e mandarino di loro invenzione, mentre rinsaldano, come tradizionalmente prescritto, i confini dell'impero. Gli islamici perseguono con varietà di mezzi — nucleari, petroliferi, movimentisti, terroristici — l'idea di una teocrazia di cavallo e di spada, com'era all'origine dell'Islam, opportunamente adattata al terzo millennio.
Insomma, sembrano tutti aver ben chiaro che cosa stanno a fare al mondo e che cosa vogliono. Certo, si dirà, ma sono facilitati gli uni dall'unità statuale e gli altri da quella religiosa, mentre la nostra Unione non è nè carne né pesce e quanto alla religione meglio lasciar perdere. Ed è anche vero che in forme diverse — tradizione isolazionista per gli Stati Uniti, comunità dei credenti per l'Islam, sudditanza al Figlio del cielo per la Cina — la chiusura su se stessi ha molto agevolato la determinazione di identità. Mentre l'Europa, nel suo tentativo di comprendere tutto e tutti, di allungarsi su ogni remoto angolo del globo terrestre, ha finito per perdere il senso del proprio baricentro, della propria ragion d'essere. Altro che eurocentrismo!
Soprattutto, quel che i nostri per così dire concorrenti hanno ben chiaro e su cui noi invece annaspiamo, è che la prosperità economica è una conseguenza e non una causa. Che gli uomini fanno l'economia e non l'economia gli uomini. E che per fare una economia prospera gli uomini hanno bisogno di realismo certamente, di coesione senz'altro, ma prima ancora di consapevolezza di se e del proprio ubi consistam.
Un europeo apostata, Henry Kissinger, in alcune pagine lucide e sprezzanti ha asserito che l'Europa non ha più, non avrà mai più, la forza di pensare a un proprio compito, di darsi un destino. Può essere. Ma se così non fosse, e noi vogliamo e dobbiamo pensare che così non sia, non c'è dubbio che il nostro asset principale per scavarci un posto al sole, il fulcro su cui far leva, il tratto identitario fondamentale, è precisamente la cultura, la cultura europea. Non solo e non tanto nel senso patrimoniale ed ereditario, ma più ancora per la sua plasticità, per la sua elasticità, per l'ampiezza e pienezza dei registri. Non è tanto questione di pluralismo, termine tanto abusato da essere ormai vuoto, quanto di ricchezza: la cultura europea è una grande orchestra, la più grande orchestra, in attesa di compositori e di musiche degne di essere suonate.
Più che di un fiscal compact l'Europa ha bisogno, necessità urgente, di un cultural compact, di ritrovarsi, di ritrovare nella propria cultura la ragione profonda del suo essere. La cultura non si mangia, è stato incautamente detto. È vero, non si mangia oggi. Ma se non investiamo oggi in cultura è difficile che i nostri figli e i nostri nipoti possano mangiare qualcosa d'altro domani.
Corriere 17.5.12
Democrazia
Sono le battaglie sociali che la fanno avanzare
di Luciano Canfora
«Non solo democratici e socialisti, ma gli stessi comunisti, non sono necessariamente illiberali, come vorrebbe l'utopia che essi vagheggiano, e come son diventati nel fatto sotto l'efficacia materialistica del marxismo, che neppur esso era tale nella logica dei suoi concetti economici» scriveva Benedetto Croce nell'aprile 1943 (L'idea liberale, Bari, Laterza 1944, p. 12). Questa notevole riflessione ci sovviene nel leggere l'ultimo, scattante, pamphlet di Paolo Flores d'Arcais: Democrazia! Egli compie, nel corso di tale opuscolo, una operazione che potrebbe anche definirsi un esperimento filosofico-politico: provare a studiare le condizioni sostanziali necessarie affinché possa essere effettivamente (non cioè in modo truffaldino o apparente) attuato il presupposto minimo sul quale è difficile non dirsi d'accordo, e cioè «una testa, un voto». Presupposto che qualcuno potrà anche sgradire in cuor suo ma che nessuno più oserebbe contestare apertamente, frontalmente.
Affinché quel presupposto — così universalmente assodato — non venga svuotato, impegnative pre-condizioni di carattere economico-sociale e culturale sono imprescindibili. Il concetto è sintetizzato, del resto, magistralmente nell'articolo 3, comma 2, della nostra Costituzione, là dove si parla di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che «limitano di fatto la libertà» dei cittadini (cioè, nella fattispecie, la loro possibilità di esprimere la volontà politica attraverso il voto in condizioni pari: cioè di pari libertà da condizionamenti culturali, economici o mafiosi etc.). Il liberale Epicarmo Corbino s'inalberò e disse, nel dibattito alla Costituente su quell'articolo: «Che cosa significa rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale?». E Meuccio Ruini, che non era certo un bolscevico, autorevolmente gli replicò: «Anche un liberista dice e sostiene che bisogna rimuovere gli ostacoli alla libera concorrenza!».
Flores d'Arcais approda, al termine del suo ragionamento, ad una formula interessante: la democrazia consiste (o si attua con) la lotta per la democrazia. Piero Calamandrei nel celebre suo discorso sulla Costituzione elogiò precipuamente l'articolo 3 proprio per quella «direttiva» di battaglia costante («rimuovere gli ostacoli»): battaglia che non può essere intermessa mai, pena il deperimento della democrazia stessa. A me piace di più un'altra formulazione (che credo di aver adoperato in più occasioni): la democrazia è prodotto chimico instabile, c'è o invece arretra a seconda dei rapporti di forza in campo tra i ceti e gruppi sociali (tra ricchi e poveri, avrebbe detto Aristotele). John Dewey diceva l'analogo in altro modo quando poneva l'accento sul nesso indispensabile tra democrazia ed educazione ininterrotta alla consapevolezza della sua necessità. Ecco in che senso l'osservazione crociana che riconduce, in nuce, al principio di libertà non solo la democrazia ma anche il comunismo mi è parsa — leggendo il pamphlet di Flores — meritevole di ricordo e di apprezzamento.
Repubblica 17.5.12
Chi è l'anarchico che spara in strada
Quei nemici del potere tra violenza e pacifismo
di Carlo Galli
Gli "informali" rivendicano l´attentato ad Adinolfi e tornano in primo piano le divisioni e le contraddizioni di una tradizione con profonde radici storiche e teoriche
L´emancipazione dal dominio e l´idea di uguaglianza lo avvicinano al socialismo da cui lo divide però il concetto di partito
Con il liberismo condivide il primato dell´individuo ma non accetta la proprietà privata e il principio della concorrenza
Non è per nulla detto che la crisi economica sia il terreno più propizio per la nascita di movimenti sovversivi; ma evidentemente qualcuno pensa sia così, che cioè le persone in difficoltà si sentano risarcite da ferimenti e attentati di presunti responsabili, grandi o piccoli manovratori del sistema. Che colpirne uno significhi educarne cento, e preparare le condizioni della rivoluzione. Quel qualcuno e´ un terrorista, figura ben nota al nostro passato e, pare, anche al nostro presente. Ma mentre un tempo si qualificava ‘comunista´, oggi quel terrorista si presenta come ‘anarchico´. In realtà, come un anarchico speciale, che nell´immancabile documento di rivendicazione polemizza ferocemente - con un linguaggio ricco di venature irrazionalistiche quasi di destra - anche contro i suoi compagni anarchici non violenti, o meno violenti, o meno dissennati.
Ma che cosa è l´anarchia, che ora viene alla ribalta dopo essere stata quasi dimenticata, o associata, nell´immaginario collettivo, a un passato remoto, quasi favoloso, di dinamitardi e di tirannicidi?
Che si possa e si debba fare politica contro l´arché, contro il principio e contro il potere – cioè contro l´ordine gerarchico, la sua origine e la sua pretesa necessità – , è il cuore dell´idea anarchica. Un´idea che si basa sullo sviluppo estremistico delle categorie che costituiscono l´architettura della modernità: libertà, uguaglianza, fraternità. L´estremismo sta nel fatto che l´anarchico pensa che la natura umana sia buona in sé, e che il potere sia un artificio derivante dalla violenza, dalla corruzione, dall´alienazione; che la politica possa essere in perfetta continuità con la morale, e non debba sovrapporsi ad essa o contraddirla.
Dall´illuminismo in poi, mescolandosi e scontrandosi con il liberalismo, con il socialismo e con il marxismo, ma nutrendosi anche di spirito religioso (cristiano come in Tolstoj, induista come in Gandhi), l´anarchismo si è presentato come un movimento non certo unitario ma riconoscibile per obiettivi – la lotta contro ogni forma di dominio, per l´affermazione della libertà – , se non per metodi e per organizzazione. Anche se, per l´accentuazione del primato dell´individuo e della sua libertà, l´anarchico ha qualcosa a che fare col liberalismo, se ne distingue sul tema dello Stato (che è per lui il male assoluto – gli uomini possono esser vincolati solo da obbligazioni liberamente scelte da ciascuno – ) e sul tema della proprietà e della concorrenza, che l´anarchico vuole sostituire con la cooperazione. D´altra parte, se per l´orientamento all´uguaglianza e all´emancipazione dal dominio e dallo sfruttamento, l´anarchico è vicino al socialismo, tuttavia non è innamorato della rivoluzione in sé o del partito che disciplina i militanti, ma solo della libertà; ovvero, è un rivoluzionario che porta con sé, sempre, anche la rivolta soggettiva contro ogni potere istituzionale e oggettivo. Dai borghesi e dai comunisti gli anarchici si distinguono per l´incapacità di darsi una linea politica, per la volontà di fare subito piazza pulita col passato, con la tradizione del potere e con la sua autoriproduzione.
In questa sua utopicità, l´anarchia è spiazzante, perché nega ogni stabilizzazione – a cominciare dallo Stato – . Ed è anche provocatoria, in quanto rifiuta il potere appunto perché lo fiuta da lontano, sotto ogni travestimento, e lo smaschera. Così Proudhon lo vede nella proprietà, e Stirner nel diritto e nella legge; così Bakunin lo vede nel comunismo di Marx, nel suo autoritarismo pedagogico-scientifico, che genererà la nuova classe dei rivoluzionari di professione e dei burocrati del dominio; così fino agli anni Trenta i sindacalisti anarchici catalani e spagnoli (una delle poche occasioni in cui l´anarchismo assume un volto di massa) ribadiscono che l´obiettivo della loro azione è la totale e assoluta liberazione dell´umanità, cioè appunto il comunismo anarchico.
Impegnato a prendere sul serio la politica moderna per realizzarla compiutamente, l´anarchismo la critica dall´interno mostrandone i limiti e le contraddizioni; ma al tempo stesso riduce all´assurdo lo stesso impulso moderno all´emancipazione, e, pretendendo che questa si affermi in assoluta purezza, sembra volerne testimoniare l´impossibilità pratica. Se c´è un´antipolitica, questa è proprio la politica anarchica.
Un insieme di paradossi e di contraddizioni, dunque, di nobili impulsi e di realizzazioni necessariamente mancate. A cui corrisponde un destino non solo di sconfitte, ma anche di divisioni interne ferocissime, all´insegna di un´etica della convinzione che rinuncia alla responsabilità, all´efficacia dell´azione – che si risolve in gesto dimostrativo, o in insurrezione momentanea – e anche al confronto col resto del mondo. L´universo anarchico è infatti settario, chiuso in sé; e vede in ogni avversario un simbolo – il simbolo del Male, del Potere – ; questo è il motivo della più grande contraddizione di questo movimento, che cioè dal suo proclamato umanesimo si genera la violenza più astratta e dogmatica (anche in questo caso, fra grandissime polemiche interne all´anarchismo, una parte del quale se ne dissocia), e che il suo libertarismo si rovescia in nichilismo. La sequenza di attentati che dagli anni Settanta dell´Ottocento in poi hanno scosso l´Europa e l´America e che sono costati la vita a re e presidenti, a imperatrici e a uomini politici, avevano la pretesa di colpire non tanto la persona quanto ciò che essa simboleggiava; e in realtà davano così alla vita umana un valore pari a zero, proprio facendone qualcosa di sacrificabile per un´idea – il che è paradossale, per il movimento che si proclama umanitario – .
E´ la mancanza di rapporto con la politica, l´urto frontale contro la sua costitutiva dimensione di potere, a rendere l´anarchismo non solo inefficace ma anche estraneo al comune sentire; è questo il motivo per cui l´anarchismo è generalmente associato non alla speranza di liberazione ma a un´incomprensibile e cieca violenza – non un sogno ma un incubo – ; è questo il motivo per cui la sua possibile funzione di coscienza critica si rovescia in fissazione – una fissazione anti-potere, che fissa e stabilizza a sua volta il potere contro un nemico interno pericoloso e sprovveduto al tempo stesso – . E´ questo il motivo per cui la generosità che dovrebbe far parte dell´originaria idea anarchica si rovescia in spietatezza, e il suo dinamismo diventa sterile immobilità. Cosi´ si dimostra che il potere politico fa male non solo quando è idolatrato o lasciato fuori controllo, ma anche quando è combattuto come il male assoluto. E´ molto meglio riconoscerne l´esistenza e addomesticarne la forza: la via della democrazia, appunto, che gli anarchici (e non solo loro) disprezzano.
Repubblica 17.5.12
Scapigliati
Le vite avventurose dei protagonisti del movimento
Gli angeli neri del passato
di Filippo Ceccarelli
Le foto d´epoca li ritraggono scapigliati con lunghe barbe e pizzetti mefistofelici Le loro storie sono fatte di confino, esilio galere, manicomi e tentati suicidi
Addio Lugano bella. Quando nel 1895 Pietro Gori, elbano, criminalogo, penalista e poeta già pluricondannato e riparato in Svizzera, compose le parole della celebre canzone, aveva poco più di trent´anni. Il suo giornale, L´amico del popolo, vantava il record di 27 numeri e 27 sequestri. In tribunale toccò a lui difendere Sante Caserio, un lombardo che da ragazzo voleva farsi prete, ma poi divenne infervoratissimo anarchico e scappò in Francia. Dove un giorno, salito al volo sul predellino di una carrozza, con una sola pugnalata uccide il presidente francese, Comot.
Era il fascino dannatissimo del più "dimostrativo" e sanguinario dei gesti: il regicidio. Tre colpi di rivoltella nel 1900 sparò Gaetano Bresci a Umberto I, sempre in carrozza, a Monza. Bresci era un operaio di Prato emigrato in America. Biondo, bello, girava sempre, anche quel giorno, con una macchina fotografica a tracolla. Dopo qualche mese lo ritrovarono impiccato all´asciugamano nella sua cella.
A quel punto Gori, che per sfuggire a poliziotti e spie, tisi ed esaurimenti nervosi, si era imbarcato come semplice marinaio, viveva in Argentina, ma sempre da forte propagando le verità sociali e la fiaccola dell´anarchia, da Buenos Aires fino al Polo sud (dove arrivò con il poeta Pascarella).
Per finanziare la rivoluzione, d´altra parte, Errico Malatesta, il più grande teorico libertario, fece anche il cercatore d´oro nella Terra del Fuoco. Oltre a congiurare in Siria, Egitto, Belgio, Romania, insomma dappertutto, avendo un po´ di pace solo a Parigi e a Londra e in Svizzera, ma poi pure lì con gli sbirri alle calcagna. Erano davvero "cavalieri erranti" gli anarchici di quel tempo, agitatori cosmopoliti del libero pensiero anti-autoritario, puri e ingenui, appassionati fino all´autolesionismo.
"Angeli neri" come il cappellaccio e il mantello che indossavano, e il fiocco alla Lavallière, e la bandiera. Le foto d´epoca li ritraggono dovutamente scapigliati, con lunghe barbe incolte e pizzetti decisamente mefistofelici. Vite esaltate, romantiche, eroici furori: confino, esilio, espulsioni, galere, manicomi, tentati suicidi. Carlo Cafiero, ricchissimo di famiglia, in carcere cercò di tagliarsi la gola con il vetro degli occhiali. Materialisti e mistici, cocciuti e litigiosi, però avvolti da un alone poetico che in politica è raro incontrare. Così, per farsi un´idea del movimento anarchico in Italia occorre rivolgersi alla letteratura (Il diavolo di Pontelungo di Bacchelli), ai ricordi musicali (La locomotiva di Guccini) e magari pure al cinema (il babbo del protagonista di Amarcord).
Allo stesso modo, più che una storia, vale forse inseguire delle esistenze. Come quella di Amilcare Cipriani, già garibaldino, cospiratore in Grecia, rivoltoso alla Comune di Parigi ed esploratore alla ricerca delle sorgenti del Nilo, quindi deportato dai francesi addirittura in Nuova Caledonia. Ma quando anni dopo riapparve in Italia e venne eletto in Parlamento, rifiutò il seggio perché non volle giurare.
Michele Schirru, nel 1931, cercò di far la pelle a Mussolini e venne fucilato per ordine del Tribunale speciale. Camillo Berneri, autentico intellettuale amico di Salvemini e in prima linea nella guerra civile spagnola, cadde a Barcellona per mano degli stalinisti. Poi di colpo, nel dopoguerra gli anarchici sparirono, come inghiottiti una vicenda di perenni liti e scissioni. Riapparvero, pallide ombre della loro tradizione, intorno ai fatti del dicembre 1969, Pinelli, Valpreda. Poi il nulla o quasi. Addio Lugano bella, o dolce terra pia, scacciati senza colpa, gli anarchici van via. Ma in un modo o nell´altro evidentemente ritornano.
Repubblica 17.5.12
Un saggio di Carola Barbero sceglie un titolo ideale per ogni sentimento
Se Il canone emotivo è scritto nei romanzi
Perché cerchiamo nell’arte passioni negative che fuggiamo nella vita? (e qui Aristotele, Hume e Freud hanno molte e convincenti risposte)
di Maurizio Ferraris
A>lla domanda "quanto si impara dalla letteratura?" la risposta che darei senza esitazione è: "dipende dall´età". Da giovani moltissimo, con il passare del tempo molto meno. Il motivo si spiega con una seconda domanda: "che cosa si impara dalla letteratura?", la cui risposta sarebbe: essenzialmente, emozioni. Perciò c´è una prima parte della nostra vita in cui la letteratura agisce come educazione sentimentale e preparazione a situazioni future, e poi una seconda, più pura e disinteressata, in cui agisce come rievocazione e confronto tra le nostre emozioni e quelle che vengono narrate nel romanzo.
È avendo presenti queste coordinate che la filosofa del linguaggio Carola Barbero ha scritto La biblioteca delle emozioni (Ponte alle Grazie), con un procedimento molto semplice: si prendono undici romanzi, rigorosamente contemporanei (il più antico è Zazie nel metrò, 1959) probabilmente per evitare i timori reverenziali che provocano i classici e il ricorso alla categoria un po´ iettatoria di Grande Arte. Perché il punto non è trovare i vertici del Canone Occidentale, ma piuttosto quei libri che leggiamo non per darci delle arie, ma perché ci suscitino dei sentimenti e soprattutto ce ne facciano fuggire uno insopportabile, la Noia. Così le opere sono classificate e analizzate in base alla emozione fondamentale che trasmettono: Tristezza (Mazzantini, Non ti muovere), Stupore (Nothomb, Stupore e tremori), Allegria (Pennac, La fata carabina), Paura (King, Misery), Speranza (Queneau, Zazie nel metrò), Potere (Süskind, Il profumo), Amore (Grogan, Io e Marley), Rimorso (Giordano, La solitudine dei numeri primi), Rispetto (Murgia, Accabadora), Attesa (Veronesi, Caos calmo), Erotismo (Grandes, Le età di Lulù).
Aprire un romanzo è dunque come aprire la porta di un laboratorio in cui si fabbricano artificialmente emozioni, proprio come in altri laboratori si simula l´assenza di rumore o di gravità. Il fatto di trovarsi in un laboratorio sottolinea due presupposti essenziali di cui si è molto sentita la mancanza nei tempi, non lontani, in cui si sosteneva che tra finzione e realtà non ci sarebbe alcuna differenza. Primo, che per godere davvero dei benefici del laboratorio non si soffra della stessa sindrome di cui erano afflitti Emma Bovary, Don Chisciotte e i teorici della realtà come finzione, e cioè che l´attrazione sentimentale del romanzo poggia proprio sulla distinzione tra vero e fittizio. Secondo, che proprio per questo il laboratorio può essere rilassante e tonificante, perché nei romanzi, diversamente che nella vita, possiamo sapere che cosa ci aspetta e a cosa andiamo incontro. La premessa teorica di tutta l´impresa non è che non c´è differenza tra finzione e realtà, ma semmai che le emozioni sono un elemento imprescindibile per la nostra comprensione e il nostro stare nel mondo reale.
Abbiamo così un approccio alla letteratura che è insieme il più inerme (non si parla di cultura, di teorie, di registri stilistici, ma proprio e solo dei sentimenti) e il più sofisticato. Perché sotto l´apparente semplicità ci sono tutti i classici interrogativi della filosofia intorno alle emozioni: Che rapporto c´è tra emozioni e ragione? Perché cerchiamo nell´arte sentimenti negativi che fuggiamo nella vita? (e qui Aristotele, Hume e Freud hanno molte e convincenti risposte). Perché ci piace sentire o leggere delle storie non vere, che cosa ci aspettiamo? (e qui le risposte vengono da Leibniz e dai mondi possibili).
Ma, al di là della filosofia delle emozioni, di cui Carola Barbero è una esperta accademica, come ha dimostrato (in particolare in Chi ha paura di Mr. Hyde?, il Nuovo Melangolo), questo laboratorio sembra suggerire anche un buon uso pedagogico della letteratura: leggere i romanzi in classe, o far fare dei temi, in cui al centro ci sia proprio la descrizione del sentimento. È vero che Nabokov diceva che questa è la più ingenua delle maniere a cui ci si rapporta a un romanzo. Ma non risulta da nessuna parte che abbia detto che sia sbagliata. Anzi, probabilmente è tra le più esatte, perché coglie un movente fondamentale e non culturale del nostro rapporto con la finzione, la ricerca di quell´emozione sublimata e trasognata che si legge così bene sulla faccia dei bambini quando guardano un cartone animato.
l’Unità 17.5.12
Web e social network
Facebook: la Rete ha un’ideologia
Come cambia la politica ai tempi di Facebook
di Massimo Adinolfi
Il declino dei mediatori esterni ha già modificato lo spazio pubblico. La democrazia non è in pericolo ma è bene usare Internet con spirito critico
ABBIAMO UN PROBLEMA POLITICO CON FACEBOOK. NON SI TRATTA DELL’ASSETTO PROPRIETARIO, DEL VALORE STIMATO DELLA SOCIETÀ O DI PREOCCUPAZIONI PER LA CONCORRENZA. Si tratta proprio di come è organizzato lo spazio virtuale del social network più diffuso al mondo. Se ne è occupato di recente un ricercatore senese, Riccardo Castellana, con l’aiuto degli strumenti della critica letteraria e della ricerca antropologica. In particolare, di René Girard. A Girard dobbiamo infatti una distinzione fondamentale per capire come funziona la creatura di Mark Zuckerberg. Lo studioso francese l’ha applicata fra l’altro ai personaggi di Dostoevskij, di Stendhal o di Flaubert, ma non troppo sorprendentemente torna utile anche a noi. Si tratta della differenza fra mediatore esterno e mediatore interno, e del modo in cui orienta il desiderio umano. Quel che viene mediato è infatti il desiderio, che si dirige su questo oggetto o su quello solo perché qualcun altro vuole questo o quello, rendendolo così desiderabile per noi.
Ma, ecco il punto, un conto è se la mediazione è esercitata da un soggetto ben distante, magari irraggiungibile e idealizzato un mediatore esterno, appunto -, un altro è se invece si tratta di un soggetto a noi vicino, anzi prossimo, così tanto da essere proprio come noi. Un friend, insomma
Su Facebook è questo, infatti, che accade. Niente mediatore esterno, niente figure terze, niente relazioni “verticali” con un ideale lontano, ma una miriade di piccole relazioni orizzontali con individui insieme ai quali condividiamo interessi, scambiamo poke, linkiamo pagine. Sheryl Sandberg, Chief operating officer di Facebook, l’ha spiegata così: «Non importa se a 100.000 persone piace x: se alle tre persone a te più vicine piace y, a te piacerà y». Le tre persone più vicine stanno per l’appunto nella posizione di mediatori interni, e in grazia di questa posizione risultano maledettamente più credibili, diretti, autentici. In una parola, la sola che quando si fa business veramente conta: efficaci.
Ora, se si trattasse solo di strategie di marketing e volumi di vendita, poco male: ci si potrebbe fare ben presto l’abitudine. Ma il fatto è che attraverso questa diversa strutturazione delle relazioni sociali passano profonde modificazioni dello spazio pubblico, e non basta quindi limitarsi ad osservarle con distaccato spirito scientifico. E, si badi, non si tratta nemmeno di rilevare soltanto fenomeni come la spudorata esibizione della vita privata (Facebook è zeppo di fotografie), dalla quale si può dire che quasi più nessuno è
immune, o della infantilizzazione dei comportamenti, ossia di quello che Benjamin Barber ha chiamato il nuovo “ethos infantilista” del capitalismo contemporaneo. Il fatto è che in tutti questi casi viene palesemente contraddetto il profilo dell’uomo pubblico così come è stato definito in età moderna.
La sfera pubblica andava infatti rigorosamente distinta dalla sfera privata o familiare della casa: un conto è l’oikos, un altro la polis. La modernità politica nasce anzi proprio quando riesce a spezzare definitivamente ogni parentela o commistione fra quegli spazi e le relazioni che in essi si istituiscono. Ma questa distinzione cede ormai il passo alla confusione, ed è sempre più difficile tracciare in rete i confini del pubblico e del privato.
Quanto all’infantilizzazione degli stili di vita (e delle scelte di consumo): non contraddice forse la figura del cittadino autonomo e responsabile, qualificato giuridicamente e politicamente in virtù della raggiunta maggiore età? Ma ancora più significativa, perché gravida di conseguenze, è la caduta verticale del mediatore esterno: quella infatti era la posizione, il luogo terzo tradizionalmente occupato dalle figure istituzionali: dal maestro, per esempio, o dall’uomo politico. La crisi di autorità del mediatore esterno, il fatto che i nostri sguardi e i nostri desideri si rivolgono in rete molto più facilmente a mediatori interni non a figure idealizzate ma proprio a persone come noi di colpo rischia di invecchiare tutta la comunicazione istituzionale, ma anche di ridefinire i luoghi stessi di formazione e di esercizio della soggettività politica.
Dunque un problema ce l’abbiamo, con Facebook. James Gibson, fondatore della teoria ecologica della percezione, diceva: chiediti non cosa c’è dentro la testa di colui che guarda, ma cosa c’è intorno. Se cambia il paesaggio, cambiano infatti pure le teste e i pensieri. E il paesaggio, indubbiamente, sta cambiando. Dopodiché non si dirà certo che per questo la democrazia è in pericolo, ma perlomeno non si esalteranno acriticamente le nuove forme della partecipazione online o della vita in diretta come straordinari avanzamenti democratici.
Noi conosciamo storicamente la democrazia come luogo della mediazione e della rappresentanza, e certo non è detto che sia l’unica modalità possibile. Poiché però sappiamo anche, grazie a Girard, che assenza di mediazione esterna significa pure possibilità di contagio mimetico e innesco incontrollato di rivalità, abbiamo tutte le ragioni per nutrire simpatia per il nuovo, ma anche per coltivare qualche sana diffidenza e un po’ di spirito critico.
Corriere 17.5.12
Se Facebook va in Borsa con la storia delle nostre vite
E Google migliora il motore di ricerca con l'aiuto della Cia
di Massimo Gaggi
NEW YORK — Arriva il «giorno x» per la quotazione di Facebook: stasera, a tarda ora, la fissazione del prezzo (probabilmente vicino ai massimi della nuova «forchetta» alzata da 28-35 a 34-38 dollari, sull'onda di una domanda che pare sia di molte volte superiore all'offerta di titoli). Poi, domani, l'inizio delle contrattazioni al Nasdaq, la Borsa tecnologica di New York.
Sarà un successo perché Facebook in questo momento è l'azienda più popolare del mondo e molta gente è pronta a scommettere sul «social network» proprio perché, visto che riempie la sua vita, ritiene che non possa non avere un elevato valore intrinseco. Gli altri giganti dell'economia digitale hanno tentato fino all'ultimo di tagliarle la strada tirando fuori novità a raffica per mettere un po' in ombra quello che comunque sarà l'Ipo tecnologica più ricca di tutti i tempi. La settimana scorsa Google ha annunciato una nuova versione della piattaforma Google+, il suo «social network», per l'iPhone. Poi è toccato a Microsoft presentare una versione aggiornata del suo motore, Bing. E ieri è toccato di nuovo a Google annunciare il lancio immediato di Knowledge Graph, il più importante aggiornamento del suo motore di ricerca da quando, nel 2007, fu introdotta la versione «Universal Search».
Il nuovo strumento amplia le capacità di ricerca del motore offrendo nuove opzioni quando si digita, ad esempio, il nome di un architetto o di un pittore. Ci sentiremo chiedere se ci interessano i loro progetti, le loro opere, i rapporti con altri artisti, la storia del loro movimento culturale. Nuove associazioni rese possibili dall'integrazione nel motore Google di altre banche dati come Wikipedia e perfino il World Fact Book della CIA, l'agenzia Usa di «intelligence», che offrono 500 milioni di nuove combinazioni di personaggi, luoghi e fatti. Una novità importante per gli utenti, ma è in cantiere da due anni e gli esperti ne attendevano da tempo il lancio. Che arriva, a poche ore dall'Ipo Facebook.
Che, come detto, agita gli investitori: mentre quelli professionali, pur vedendo la possibilità di un rapido guadagno, restano alla finestra o progettano un «mordi e fuggi» (il 71% degli operatori, secondo un'indagine indipendente, non pensa a Facebook come a un investimento di lungo termine), nel pubblico non specializzato fioriscono gli entusiasti. Molti dei quali, racconta il «Wall Street Journal», sono ponti a investire nella società di Mark Zuckerberg i soldi accantonati per il «college» del figlio (e ormai insufficienti), semplicemente perché trovano naturale scommettere sullo strumento del quale questi ragazzi si servono in continuazione.
Raramente ci si interroga su come possa fare a remunerare un capitale di oltre 100 miliardi una società che l'anno scorso ha registrato un fatturato di 3,7 miliardi di dollari e un miliardo di profitti e che nella prima parte di quest'anno ha addirittura denunciato un calo tanto degli utili quanto del giro d'affari. Momentanea coincidenza di fattori negativi, sostiene Facebook. L'idea di fondo è che un'impresa che è entrata nella vita di oltre 900 milioni di persone prima o poi troverà il modo di monetizzare questa posizione.
Un ragionamento non molto diverso, del resto, fu fatto nel 2004 quando ad andare sul mercato fu Google. Anche la società di Page e Brin allora registrava incassi pubblicitari crescenti ma ancora magri. Google, però, disponeva del motore di ricerca di gran lunga migliore, usato dalla grande maggioranza degli utenti di Internet. Nel lungo periodo quella scommessa ha funzionato, anche se all'inizio l'attesa esplosione del titolo non ci fu: qualche settimana dopo la quotazione si poteva ancora comprare l'azione Google al prezzo d'emissione.
Ma Google vendeva una tecnologia, un sistema di ricerca, un algoritmo. Facebook vende un sistema di socializzazione e un modo di accedere ai dati privati di tutti noi, nella speranza che imprese e inserzionisti pubblicitari attribuiscano un elevato valore a questa montagna di informazioni personali. I critici più polemici sostegno che i «fan» dell'investimento delle reti sociali versano soldi a una società che si sta arricchendo frugando nei loro stessi cassetti per acquisire informazioni da rivendere alle imprese che vogliono costruire profili sempre più precisi dei consumatori.
E non è nemmeno detto che tanta spregiudicatezza paghi: ieri la General Motors ha annunciato che non farà più pubblicità su Facebook: la considera poco efficace, anche se le dichiarazioni ufficiali sono più diplomatiche.
Quello che colpisce di più, però, è che, mentre il pubblico si affolla per conquistare titoli Facebook, diversi dei grandi investitori che hanno comprato in passato pezzi della società a trattativa privata, ora rivendono le loro quote in misura superiore a quanto stabilito finora: la banca Goldman Sachs rivenderà la metà del suo pacchetto (23% del capitale), mentre il «tycoon» russo Yuri Milner mette sul mercato il 40 per cento delle sue azioni: incasserà più di 2 miliardi di dollari.
Repubblica 17.5.12
I graffiti rupestri più antichi del mondo sono anche "hot"