La Stampa 16.5.12
Così i socialisti francesi e l’Spd hanno accerchiato la cancelliera
Il testo pro-sviluppo ideato insieme al neopremier Ayrault
di Alessandro Alviani
BERLINO La sfida Il leader della Spd Sigmar Gabriel (al centro) con gli altri leader del Partito Steinbrück (a sinistra) e Steinmeier presenta la proposta dei socialdemocratici per la crescita e lo sviluppo
Vogliamo che accanto al patto di bilancio ci sia anche un patto per la crescita e gli investimenti», spiegava ieri mattina alle 9 a Berlino il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel, illustrando le proposte della Spd per riportare l’Europa fuori dalla crisi. «Ai nostri partner europei proporrò un nuovo patto che associ la necessaria riduzione dei debiti sovrani agli stimoli per la crescita», prometteva un paio d’ore dopo a Parigi il neopresidente francese François Hollande durante la cerimonia di insediamento. La somiglianza delle due dichiarazioni non deve stupire: è voluta. È da mesi che la Spd sta lavorando a un rafforzamento della sua collaborazione con i socialisti francesi.
Il piano non passa solo attraverso gesti simbolici – la presenza di Hollande al congresso Spd di inizio dicembre a Berlino, quella di Gabriel alla convention della sinistra europea di metà marzo a Parigi, la loro intervista congiunta alla «Faz» e a «Libération» a fine marzo – ma si esplicita anche in proposte programmatiche concrete. Le richieste presentate ieri mattina a Berlino dalla Spd sono infatti il frutto di un intenso scambio tra Sigmar Gabriel e Jean-Marc Ayrault, l’ex insegnante di tedesco diventato ieri il nuovo premier francese. I due e i loro rispettivi staff si sono sentiti più volte nelle scorse settimane al telefono o per e-mail. Obiettivo: coordinare le proposte socialdemocratiche con i socialisti francesi e mettere nero su bianco una piattaforma comune alternativa al rigore targato Merkel.
Il risultato è un documento di cinque pagine che riassume la strategia per aumentare il pressing sulla cancelliera, con una spinta concentrica SpdPs: project bond, un programma immediato per combattere la disoccupazione giovanile, una tassa sulle transazioni finanziarie da utilizzare per rilanciare la crescita, l’uso più efficiente dei fondi strutturali, un fondo per l’estinzione dei debiti, un’autorità di vigilanza europea sulle banche, un’agenzia di rating europea.
«La politica di Merkel e Sarkozy è fallita su tutta la linea - spiega Gabriel -. Con Hollande abbiamo la grande opportunità di riportare insieme il governo tedesco sul sentiero della crescita». Ieri per un incontro Gabriel-Hollande a Berlino non c’è stato tempo. Ma i due si vedranno presto. In ogni caso la Spd vuole discutere le sue ricette anche con gli altri partiti della sinistra europea, sia al governo che all’opposizione.
Non siamo contrari al consolidamento, ma da solo non basta e spinge l’Europa nella recessione, è il messaggio che i socialdemocratici al completo lanciano da Berlino. Il tono è quello dell’offensiva. Steinmeier, capogruppo al Bundestag, dice che gli «dà sempre più fastidio» e «non sopporta quasi più» che Merkel dia consigli che non rispettano l’esperienza della Germania, la quale è uscita dalle crisi con una ricetta fatta di «disciplina fiscale e strumenti per la crescita».
La Stampa 16.5.12
“Troppi segreti in quella cripta” Via alle ispezioni con il georadar
Sant’Apollinare ristrutturata dopo la telefonata che legava De Pedis alla Orlandi
Verrà messo in campo lo strumento tecnologico utilizzato in molte indagini (ultimamente anche per la sparizione di Yara Gambirasio, nella foto) capace di individuare resti umani sotto i pavimenti e dietro le pareti
Nuova planimetria e nuovi rilievi Le carte fornite dal Vaticano agli inquirenti
di Giacomo Galeazzi
ROMA Mistero nei sotterranei di Sant’Apollinare: ci sono altri «locali non segnalati» nella cripta del boss. E quindi, probabilmente, là sotto restano ancora «molte ossa in più rispetto a quelle trovate lunedì nella prima ispezione». Alla «task force» dell’Ert (Esperti ricerche tracce) e alla squadra dei geologi forensi, la procura di Roma ha affidato un compito non previsto al momento dell’apertura della tomba del boss della Magliana, il «benefattore» Renatino De Pedis: stabilire se ci siano altri ambienti sconosciuti sotto il pavimento della centralissima chiesa di Roma, non indicati nelle cartine ricevute dagli inquirenti.
«Dobbiamo accertare se le pareti della cripta nascondono cavità e quindi ulteriori ossa, utilizzando i georadar e altre sofisticate apparecchiature», riferiscono fonti della polizia scientifica. «Lì sotto sono state fatte negli ultimi anni opere di abbattimento e, non disponendo di una mappa catastale, stiamo applicando il protocollo di polizia previsto negli ambienti interni di non certa individuazione - spiegano alla scientifica-. L’area dell’ossario è stata notevolmente modificata nel 2005». Cioè quando una telefonata anonima arrivata alla trasmissione «Chi l’ha visto? » esortò a controllare chi fosse sepolto a Sant’Apollinare per scoprire la verità sulla scomparsa della cittadina vaticana, Emanuela Orlandi. Ventinove anni fa fu notata per l’ultima volta a pochi passi da Sant’Apollinare: un vigile in servizio tracciò l’identikit del giovane con lei. In questura riconobbero subito De Pedis. Poi un vortice di depistaggi, rivendicazioni di sigle criminali, intrecci con l’attentato a Wojtyla e il crac Ambrosiano-Ior. In un colloquio in Turchia, Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, è stato invitato da Alì Agca a guardare dentro le Mura leonine. L’attentatore di Karol Wojtyla ha chiamato in causa direttamente il cardinale Re. Ieri gli investigatori della polizia scientifica e gli archeologi forensi hanno effettuato una serie di campionamenti su una parete della cripta dove lunedì, dopo 22 anni, è stata aperta la tomba del boss.
Il rettore della basilica affidata all’Opus Dei, padre Pedro Huidobro è anche medico legale. Gli esperti, che dopo l’ispezione del sepolcro avevano abbattuto lunedì un muro e trovato una nicchia dove erano riposte centinaia di cassette contenenti reperti ossei di diversa datazione, vogliono capire se una seconda parete della cripta sia in realtà una intercapedine con altrettante nicchie nascoste. Devono decidere se anche questa parete debba essere abbattuta. Le verifiche servono ad accertare la datazione del «manufatto» mentre fuori, in un tendone allestito nel cortile della basilica, il team «Labanof» (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) della consulente Cristina Cattaneo prosegue le operazioni di analisi. Sono state aperte e catalogate una cinquantina delle 200 cassette di ossa finora rinvenute. Cinque donne e due uomini sono al lavoro: in ogni cassetta sono custoditi resti ossei (dai tre ai cinque) e gli esperti li dividono in base alle caratteristiche morfologiche. Saranno svolti ulteriori accertamenti e il prelievo del Dna sui resti che per sesso, età e datazione hanno caratteristiche simili a quelle della Orlandi e che potrebbero essere astrattamente compatibili. Il primo passo è la separazione delle ossa più vecchie da quelle più recenti, poi si cercherà di individuare quelle di sesso femminile e quelle di sesso maschile. Infine sarà effettuato il prelievo del affinché possa essere comparato con quello di Emanuela Orlandi. L’apertura delle tomba di De Pedis potrebbe essere l’ultimo atto dell’inchiesta che si sta conducendo sulla scomparsa della ragazza. Nell’indagine ci sono cinque indagati con l’ipotesi di omicidio: tra loro Sergio Virtù, autista di De Pedis, Angelo Cassani, detto «Ciletto», Gianfranco Cerboni detto «Giggetto», che compaiono nelle varie fasi dell’indagine. Sabrina Minardi, anche lei indagata, è entrata nell’inchiesta da super testimone indicando il collegamento tra la sparizione di Emanuela e la banda della Magliana.
I pm che conducono l’inchiesta (Giancarlo Capaldo e Simona Maisto) si riservano una serie di accertamenti istruttori per decidere se i cinque indagati debbano essere accusati di qualche reato o se la loro posizione debba essere archiviata. «L’esame delle ossa è un lavoro piuttosto lungo - spiega il capo della squadra mobile di Roma, Vittorio Rizzi -. Nel 2005 c’è stata una ristrutturazione dell’intera basilica: è cambiato tutto». Il caso Orlandi sembra ancora lontano dall’uscire dal mistero.
l’Unità 16.5.12
I capi scout: «Non siamo antigay»
I capi scout non ci stanno a passare per omofobi: «Affermiamo che l’omosessualità non è un ostacolo né alla crescita delle persone come responsabili e felici, né ad un’azione educativa». È la presa di posizione di 460 capi, cui si aggiungono altre adesioni (http://sottoscrivi6maggio 2012.weebly.com/) a dimostrazione che Agesci è una realtà aperta. Le precisazioni nascono dal dibattito sollevato giorni fa da «Repubblica on line» in seguito agli atti del seminario sull’omosessualità pubblicati sul sito dell’Agesci. I capi criticano l’impostazione dell’articolo e sostengono il valore del coming out: «Al pari di qualsiasi altra scelta giuridicamente lecita, non vediamo il motivo per cui i ragazzi non possano venire a conoscenza dell’orientamento sessuale del capo». Sono certi che il confronto sarà sempre più aperto.
il Fatto 16.5.12
Il ministro Profumo alle scuole: “Celebrate la giornata contro l’omofobia”
“Le scuole favoriscono la costruzione dell’identità sociale e personale dei bambini e dei ragazzi, il che comporta anche la scoperta del proprio orientamento sessuale”. In una circolare inviata ai presidi, il ministro Profumo invita a celebrare in classe la Giornata internazionale contro l’omofobia il 17 maggio. Plaude l’Arcigay: “Segnale di discontinuità”.
l’Unità 16.5.12
Iniziative arcobaleno nella giornata mondiale «Basta omofobia»
Il 17 maggio 1990 l’Oms cancellò l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali
di Delia Vaccarello
COS’È L’OMOFOBIA? SE IL TERMINE È ORMAI DIFFUSO NEL LINGUAGGIO COMUNE NON VUOL DIRE CHE SE NE CONOSCA DAVVERO IL SIGNIFICATO. In genere è considerato un atteggiamento frutto di raptus e messo in atto da individui ai margini. Invece l’omofobia è un fenomeno culturale, che non si riduce all’aggressione o all’insulto, ma è una svalutazione, con conseguente automatica esclusione, delle persone che amano individui del proprio sesso. Un atteggiamento «culturale» che ci sovrasta e che, troppo spesso , viene ancora considerato la norma, pur con bizzarri distinguo tipo: ho tanti amici gay, che facciano le loro cose ma dentro le mura di casa.
INVITO DEL MINISTRO ALLE SCUOLE
Domani si celebra la giornata mondiale contro l’omofobia, una ricorrenza promossa dall’Unione europea ormai dal 2007. Il 17 maggio 1990 infatti l’Organizzazione mondiale della sanità cancellava l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Le iniziative sono già in campo da giorni. Sabato scorso un convegno organizzato da «Nuova Proposta» a Roma con tantissimi interventi di associazioni ed esperti coinvolti ha fatto il punto sulla situazione in campo educativo, politico, lavorativo. Domani alla Camera verranno fatti i numeri, verranno diffusi cioè i dati sulle convivenze di gay e lesbiche frutto dell’ultimo censimento. E il ministro Profumo ha invitato i presidi a celebrare la giornata. Sparsa in tutto il Paese, la mole di iniziative è impressionante. Si ripete con successo la serie di veglie in ricordo delle vittime dell’omofobia, a cominciare dall’incontro di preghiera che si terrà a Firenze organizzato dal gruppo Kairos per il sesto anno consecutivo ispirato al versetto della Prima Lettera di Giovanni, «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre» (1Gv 2,9). Iniziative simili si terranno in molte città, anche a Palermo e quest’anno in parrocchia (vedi www.gionata.org). Banchetti informativi, presentazione di libri, proiezioni, fiaccolate si alterneranno da Nord a Sud.
Sul sito di arcigay (www.arcigay.it) l’elenco, seppure incompleto, è lunghissimo. Tra gli altri, molto ricco il pro-
gramma di eventi culturali a Ferrara, che prevede anche dibattiti sui testi di Rigliano e altri «Curare i gay?» (Cortina) e di Margherita Graglia «Omofobia» (Carrocci).
Segnaliamo anche l’iniziativa di Venezia dal titolo «Parole d’amore», incontro e proiezione di una video-inchiesta realizzata con i ragazzi delle superiori, ne parlano tra gli altri Giovanni Bachelet, Gianfranco Bettin, Alberta Basaglia, Sara Cavallaro, Luca Trappolin. Si tratta di un evento che si inserisce nel progetto portato avanti ormai da anni di «educazione sentimentale come educazione alla cittadinanza»: una ricerca con gli studenti finalizzata a sensibilizzare i giovani sui temi dell’amore in tutte le sue espressioni, dando ad ognuna cittadinanza. Celebrazioni anche nel verde.
Domenica 20 maggio nei parchi di Avellino, Ferrara, Firenze, Genova, Milano, Palermo, Roma, Torino e Venezia, si svolgerà «Tutti uguali, tutti diversi», la festa di tutti i nuclei: omosessuali e eterosessuali, monoparentali, sposati e conviventi. Legambiente e Famiglie Arcobaleno organizzano giochi e laboratori creativi, favole e musica, spettacoli di burattini, cacce al tesoro, merende gustose per bambini, bambine e famigliari di tutte le età.
l’Unità 16.5.12
Desaparecidos, la Chiesa argentina sapeva tutto
di Luigi Cancrini in risposta a Fabio della Pergola
Uno scrittore argentino, Horacio Verbitsky, ha pubblicato un articolo in cui dice di aver visto un documento dell'epistolato locale in cui alti prelati e generali golpisti parlavano fra loro su come zittire le domande delle famiglie dei deparecidos che venivano narcotizzati e gettati in mare a decine di migliaia per farli sparire come se non fossero mai esistiti. La Chiesa argentina dunque sapeva. E il Vaticano? Sapeva e taceva?
Fabio Della Pergola
La notizia riportata dalla stampa argentina ha avuto poca èco in Italia anche perché non aggiunge molto a quello che tutti sapevano. La Chiesa argentina (per paura? per convivenza? per autentica preoccupazione contro le politiche della sinistra) ha appoggiato la dittatura di Varela nel modo in cui la Chiesa di Spagna appoggiò Franco quando uccideva tutti quelli che erano sospettati di simpatie repubblicane dando in adozione i loro figli a famiglie “timorate di Dio”: come ben documentato da Piero Badaloni nel bel libro degli Editori Internazionali Riuniti intitolato Una memoria squilibrata. In Argentina come in Spagna, dunque, la Chiesa ha scelto di sapere e di tacere benedicendo in pubblico i criminali di cui conosceva gli orrori e l’iniquità. Ce lo confermano oggi i documenti che la pazienza degli storici non smette di scoprire. Aiutando gli uomini a capire meglio quello che è davvero accaduto ma ponendo soprattutto un problema di fondo sulle ragioni per cui il discorso di Gesù viene dimenticato e tradito, a volte, proprio da quelli che dovrebbero diffondere la sua parola. Dai don Abbondio che non riescono probabilmente, a intenderne l’importanza e il senso.
La Stampa 16.5.12
Atene
L’incubo Grecia affonda le Borse
Si torna alle elezioni la grande favorita è la sinistra di Tsipras
L’addio all’euro costerebbe 11.500 euro a ogni greco
di Tonia Mastrobuoni
TORINO La Grecia sceglie la via dell’azzardo e torna alle urne, probabilmente il 17 giugno. Oggi il presidente della Repubblica, Karolos Papoulias, dopo l’ultimo tentativo fallito ieri di mettere insieme un governo tecnico e scongiurare il ricorso al voto, nominerà un premier che traghetterà il paese verso le elezioni. Si tratterà probabilmente del presidente del Consiglio di Stato Panagiotis Pikrammenos.
Ieri il leader del Pasok, Evangelos Venizelos ha commentato che «andiamo verso le elezioni in pochi giorni, in condizioni davvero difficili» e ha accusato per l’ennesima volta il segretario di Syriza, Alexis Tsipras di cinismo, accusandolo di mettere «i propri interessi di parte al di sopra di quelli nazionali». Tsipras è il favorito nei sondaggi: dopo le elezioni dei 6 maggio ha guadagnato tra il 4-10% in più e potrebbe diventare il primo partito. È il principale responsabile del ritorno alle urne: ha rifiutato qualsiasi proposta di governo di emergenza. Ma sarebbe complicato mettere insieme una coalizione anche per lui, vista l’insanabile spaccatura tra partiti che caratterizza il panorama politico ellenico a sinistra.
Intanto il direttore generale el Fmi Christine Lagarde ha detto ieri a chiare lettere che l’uscita della Grecia dall’euro è ormai una possibilità concreta. Parole di avvertimento sono giunte dal ministro delle Finanze tedesco e probabile successore di Juncker alla guida dell’Eurogruppo, Wolfgang Schäuble, che ha parlato ieri del voto a giugno come di un referendum attraverso il quale i greci sceglieranno se stare fuori o dentro l’euro.
Sullo scenario di un’uscita della moneta unica si stanno esercitando ormai in molti, ma la maggior parte delle analisi uscite in questi giorni sui giornali stranieri ricalca quella di settembre 2011 di Ubs che ha tentato di mettere insieme varie ipotesi, sia di un abbandono da parte di paesi forti come la Germania, sia dei “Piigs”.
La dinamica sarebbe devastante, soprattutto per un paese privo di materie prime e molto dipendente dalle importazioni come al Grecia (l’80-90 per cento dell’energia e dei beni alimentari viene da fuori). Tanto più con una montagna di debito pubblico come quella che grava su Atene. Il primo problema sarebbe il crollo della nuova moneta, la dracma. Se prendiamo a riferimento il noto default argentino, dovremmo contare su una svalutazione del 60-70%. E il governo sarebbe costretto a un immediato blocco dei capitali per tamponarne il tracollo.
A quel punto i greci si ritroverebbero in mano carta straccia per ripagare i debiti - mutui o qualsiasi bene comprato a rate e fallirebbero a catena, dietro allo Stato impossibilitato a ripagare un multiplo di quello che doveva e alle imprese, se indebitate nella valuta europea. Uno scenario da guerra.
Non potendo ripagare il debito, lo Stato rimarrebbe lontano dal mercato per anni, tagliato fuori da tassi di interessi alle stelle, e sarebbe costretto a battere moneta, creando un’inflazione a due cifre, aggravata anche dal bisogno di importare quasi tutto, a partire dal petrolio commerciato in dollari.
La Bce chiuderebbe i rubinetti alle banche greche che non potrebbero più approvvigionarsi presso la banca centrale in cambio di liquidità. È noto che dopo la ristrutturazione del debito di marzo gli istituti di credito ellenici sono ancora in enorme difficoltà. Quasi tutte fallirebbero. Anche perché a giudicare dai segnali di questi giorni-700 milioni di euro sono stati ritirati dalle banche solo negli ultimi dieci giorni - il rischio di una corsa di massa agli sportelli incombe sin da oggi.
Secondo studi riservati dell’Istituto internazionale di finanza (Iif) citati dal Wsj all’Eurosistema l’uscita della Grecia costerebbe 1.000 miliardi. Ma è altrettanto spaventoso quello che costerebbero a ogni greco secondo Ubs: tra 9.500-11.500 euro il primo anno, poi tra i 3.000-4.000 euro.
Il Nobel Paul Krugman ha messo in guardia da questo scenario anche per i riflessi sull’Italia, che potrebbe subire «enormi quantità di soldi ritirati dalle banche italiane e spagnole perché i risparmiatori tenterebbero di trasferirli in quelle tedesche». Alimentando la fervida fantasia dei complottisti di mezzo mondo.
Repubblica 16.5.12
"Non vogliamo morire per l’Europa" e la sinistra radicale conquista i greci
Banche prese d’assalto: ritirati 700 milioni in un giorno
Il partito Syriza, che i sondaggi danno al 20-23%, ora cerca la sponda politica di Hollande
Solo l’Iran vende il greggio a credito agli ellenici, tutti gli altri fornitori vogliono contante
di Ettore Livini
ATENE - La tana del lupo che fa tremare l´Europa e i mercati è un ufficio quattro metri per quattro, sei rose rosse e una decina di garofani in un vaso, la fedele segretaria Kostandina al lavoro e – alla parete – un manifesto della Giornata nazionale della gioventù cubana del 1997. La Grecia ha fatto harakiri. Il voto del 6 maggio non è servito a nulla, il Paese torna alle urne. E se i sondaggi saranno confermati, Alexis Tsipras - inquilino di questa stanza grigia al settimo piano di Elefterias 1 (Piazza della libertà, a volte il caso…) potrebbe essere l´uomo che cambierà per sempre il destino di Atene e quello dell´euro.
«E´ il nuovo Andreas Papandreou, lo rivoterò», garantisce entusiasta Pangiotis Mantzavelaki, anziano militante venuto fin qui per complimentarsi con lui. «E´ un giovane ambizioso ubriaco del suo successo», racconta in camera caritatis un autorevolissimo ministro socialista dell´ex governo Papandreou. Una cosa è certa: il 38enne carismatico leader di Syriza – la sinistra radicale anti-austerità che ha trionfato alle ultime elezioni quadruplicando i voti - è il grande favorito della nuova campagna elettorale trasformata da tre anni di crisi in un referendum pro o contro l´euro. «Come finirà? Non lo so – ammette preoccupato lo scrittore Petros Markaris tirando una boccata dall´immancabile pipa al tavolo del suo ristorante preferito a Kessariani – I greci vogliono voltar pagina su un passato da dimenticare. Ma spero che le urne-bis non trasformino il nostro futuro in un salto nel buio».
L´esito, in effetti, è incertissimo. Il fischio d´inizio arriverà solo oggi. Quando il presidente della Repubblica Karolos Papoulias, deluso per non essere riuscito a varare un governo d´unità nazionale, affiderà l´interim a un reggente incaricato di portare la Grecia al voto. Data probabile: il 10 o (più probabilmente) il 17 giugno. Poi partirà la bagarre. Tsipras, scommettono tutti, rafforzerà la sua posizione come stella polare (rigorosamente senza cravatta) del fronte anti-euro. Un´armata Brancaleone che va dalla sinistra più frammentata d´Europa - ad Atene ci sono quattro partiti comunisti - fino alla destra nazionalista degli Indipendenti greci e ai filo-nazisti di Chrysi Avgi. Sono i grandi vincitori del 6 maggio. Uniti da una sola cosa – cancellare il memorandum lacrime e sangue imposta dalla Trojka in cambio di 130 miliardi di aiuti – ma divisi su tutto il resto. Syriza – che per i sondaggi potrebbe diventare il primo partito con il 20-23% - ha le idee chiare: «Vogliamo mettere assieme tutta la sinistra compresi i verdi e le formazioni minori che non sono entrate in Parlamento», spiega l´ex deputato Vassilis Moulopoulos. L´euro? «Ci rimaniamo, ma ridiscutendo da zero il memorandum». Le due cose piacciono alla pancia del Paese (il 75% dei greci vuol restare nella moneta unica) ma sono in apparenza incompatibili. Tsipras però è certo che la Ue – pur di non far tornare Atene alla dracma – sarà costretta a venire a patti dopo le elezioni per non far crollare tutto il continente. E conta su un aiutino in questo senso dal nuovo presidente francese Francois Hollande.
Il fronte pro-euro invece è l´esercito un po´ incerottato (a Bruxelles incrociano le dita) uscito malconcio dal 6 maggio: il centrodestra di Nea Demokratia e i socialisti del Pasok, puniti per aver governato ilPaese per 38 anni, spingendolo nel baratro e poi cercando di rimetterlo in piedi con una cura da cavallo (-25% gli stipendi, -20% le pensioni) che ha fatto calare del 20% in un quadriennio il Pil. I loro consensi sono scesi dal 77,3% del 2009 al 33% di 10 giorni fa. Cosa cambierà un mese dopo? «Contiamo nel calo di un´astensione arrivata al 35% – dicono a Nd – e nell´effetto Tispras: il timore di un trionfo di Syriza potrebbe ridurre la dispersione dei voti a destra consentendoci di rimanere il primo partito». Obiettivo: unire le forze con i socialisti oppure con le altre forze di centrodestra – i due partiti liberali stanno alleandosi per arrivare al 3% necessario per entrare in Parlamento - per un governo che tenga il Paese nella moneta unica. Il Pasok di Evangelis Venizelos invece – crollato a maggio dal 43 al 13% - pare destinato a pagare un altro pedaggio salato agli ultimi tre anni di governo Papandreou.
Comunque vada a finire, per la Grecia sarà un mese di calvario. Il Pil nel primo trimestre 2012 è sceso di un altro 6,7%. Gli accordi con la Trojka prevedono 11,5 miliardi di nuovi tagli a giugno, senza i quali non arriveranno i 30 miliardi di aiuti previsti a fine mese per ricapitalizzare le banche e pagare stipendi e pensioni. Il denaro ad Atene è già merce rara. Ieri, in un solo giorno, i risparmiatori hanno ritirato dalle banche 700 milioni di euro. Solo l´Iran, secondo indiscrezioni, vende greggio a credito all´Hellenic Petroleum. Tutti gli altri fornitori vogliono essere pagati in contanti. Gli istituti di credito hanno chiuso i rubinetti e non finanziano più nemmeno le blue chip quotate in Borsa, scrive oggi Ekathimerini. Ieri Atene ha rimborsato al 100% un bond da 450 milioni in mano agli hedge fund per evitare il default. E Syriza è già partita all´attacco: «Si danno i soldi agli speculatori e si fanno morire di fame i greci». La campagna elettorale è iniziata. L´Europa la seguirà con il fiato sospeso.
La Stampa 16.5.12
I creditori non sono senza colpe
di Mario Deaglio
La rinuncia dei partiti politici greci a formare un nuovo governo è, nei fatti, un «no» al piano di rientro dal debito preparato a Bruxelles e proposto ad Atene dall’Unione Europea. Mentre il rifiuto veniva pronunciato, un Presidente francese appena insediato si preparava a incontrare il cancelliere tedesco Angela Merkel, uno dei pochissimi leader sopravvissuti al terremoto politico che, negli ultimi tre anni, ha fatto crollare pressoché tutti i governanti europei coinvolti nel tentativo, finora sostanzialmente fallito, di trovare una via d’uscita dalla crisi.
Ad aggiungere un tocco di drammaticità, caso mai ce ne fosse bisogno, l’aereo presidenziale francese è stato sfiorato da un fulmine e ha dovuto tornare indietro costringendo a rinviare l’incontro, sia pure solo di quale ora; si è così provocato l’ennesimo, sia pur quasi simbolico, ritardo europeo nell’affrontare i problemi dell’Europa. La politica torna così a recitare, per quanto in tono minore, il ruolo che la contrappone, spesso controvoglia, alla finanza internazionale. E questo avviene non solo a Parigi, Berlino e Atene.
Ma anche negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha lanciato accuse durissime a Wall Street e invocato regole più severe per le banche anche a seguito delle perdite impreviste di JP Morgan, uno dei colossi della finanza internazionale. Queste perdite sono la prova che le grandi banche internazionali non hanno imparato molto dalla crisi e si sono illuse di poter riprendere tutte le vecchie abitudini dopo essere state, in molti casi, salvate con soldi pubblici.
A spingere una classe politica riluttante a un confronto con la finanza internazionale c’è una società civile in ebollizione, con le manifestazioni degli indignados non solo in Spagna e Grecia ma anche a Londra e negli Stati Uniti. Il problema si può sintetizzare in una serie di interrogativi che stanno diventando sempre più pressanti: fino a che punto la società civile - e gli uomini di governo che la rappresentano - può accettare la «dittatura dello spread» per usare la felice espressione del Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, alla presentazione del suo rapporto annuale? Fino a che punto decisioni importanti per una collettività nazionale possono venir sottratte ai suoi organi politici e sommariamente decise dal «mercato» in sedi diverse dai Parlamenti, chiamati ormai solo a ratificare sbrigativamente intese che sono dei veri e propri «diktat»?
Quando si concedono finanziamenti «sbagliati» a Paesi che non sono in grado di restituirli, l’errore viene commesso da due parti, non solo dal debitore ma anche da chi concede il prestito. Non si vede perché quest’errore debba ricadere solo sul Paese debitore, ossia sulla parte normalmente più debole in questo tipo di transazioni, e non invece suddivisa tra quanti hanno sbagliato, ossia tra debitori e creditori in base a qualche criterio che non sia puramente finanziario. Alla dittatura dello spread occorrerebbe contrapporre una sorta di «democrazia del debito» in cui ciascuno paga per i propri errori. E questo dovrebbe valere in maniera del tutto particolare all’interno dell’Unione Europea, dove i greci furono indotti a contrarre debiti anche dalla facilità con la quale numerose banche europee e americane erano pronte a offrire loro credito.
Imporre alla Grecia (e forse domani ad altri Paesi) di pagare i debiti nei tempi stabiliti può significare una condanna di questo Paese - e domani forse di altri in Europa e altrove - a lunghi periodi non solo di incertezza ma perfino di povertà. Occorrerebbe considerare che un debitore esoso può attirare su di sé un risentimento molto maggiore di quello che si attira un nemico vincitore in guerra e che un simile risentimento è pericoloso per gli stessi creditori non solo sul piano civile ma anche su quello finanziario.
Non bisogna dimenticare, infatti, che, quando il deficit pubblico si azzera, il manico del coltello passa dal creditore al debitore. Non dovendo richiedere risorse aggiuntive, il debitore si rinforza mentre il creditore si indebolisce: il debitore potrebbe infatti decidere di ritardare la restituzione del debito o ridurre gli interessi sotto il livello pattuito. Una severità eccessiva nei confronti del debitore che non ce la fa rischia di porre le basi di risentimenti dai quali potrebbero sorgere nuovi, e più forti, motivi di instabilità. Nella storia i casi di questo genere sono piuttosto frequenti (i tedeschi dovrebbero rammentare che il risentimento contro le riparazioni di guerra successive alla Prima guerra mondiale spianò la strada a Hitler) ma - si sa nelle scuole alle quali si formano gli attuali uomini della finanza la storia non ha certo il posto d’onore.
E’ essenziale che il Presidente Hollande e il cancelliere Merkel superino il livello della miopia prevalente negli ultimi mesi nell’affrontare i problemi dell’euro, nel cercare di stabilire una posizione comune che tenga conto di giustificate riserve tedesche ma anche di un quadro più generale in cui queste riserve appaiono meschine. Sarebbe uno di quei piccoli miracoli ai quali l’Unione Europea ci ha abituato se dall’incontro scaturisse una posizione comune, flessibile e ragionevole, in luogo del pericoloso dogmatismo al quale i tedeschi ci hanno abituato negli ultimi tempi.
Repubblica 16.5.12
La preghiera di Aiace
di Barbara Spinelli
Ci abituiamo talmente presto ai luoghi comuni che non ne vediamo più le perversità, e li ripetiamo macchinalmente quasi fossero verità inconfutabili: la loro funzione, del resto, è di metterti in riga. Il pericolo di divenire come la Grecia, per esempio: è una parola d´ordine ormai, e ci trasforma tutti in storditi spettatori di un rito penitenziale, dove s´uccide il capro per il bene collettivo.
Il diverso, il difforme, non ha spazio nella nostra pòlis, e se le nuove elezioni che sono state convocate non produrranno la maggioranza voluta dai partner, il destino ellenico è segnato. Lo sguardo di chi pronuncia la terribile minaccia azzittisce ogni obiezione, divide il mondo fra Noi e Loro. Quante volte abbiamo sentito i governanti insinuare, tenebrosi: «Non vorrai, vero?, far la fine della Grecia»? La copertina del settimanale Spiegel condensa il rito castigatore in un´immagine, ed ecco il Partenone sgretolarsi, ecco Atene invitata a scomparire dalla nostra vista invece di divenire nostro comune problema, da risolvere insieme come accade nelle vere pòlis.
L´espulsione dall´eurozona non è ammessa dai Trattati ma può essere surrettiziamente intimata, facilitata. In realtà Atene già è caduta nella zona crepuscolare della non-Europa, già è lupo mannaro usato per spaventare i bambini. Chi ha visto la serie Twilight zone conosce l´incipit: «C´è una quinta dimensione oltre a quelle che l´uomo già conosce. È senza limiti come l´infinito e senza tempo come l´eternità. È la regione intermedia tra la luce e l´oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l´oscuro baratro dell´ignoto e le vette luminose del sapere». Lì sta la Grecia: lontana dalle vette luminose dell´eurozona, usata come clava contro altri. L´editorialista di Kathimerini, Alexis Papahelas, ha detto prima delle elezioni: «Ci trasformeranno in capro espiatorio. Angela Merkel potrebbe punire la Grecia per meglio convincere il suo popolo ad aiutare paesi come Italia o Spagna». Il tracollo greco è «un´opportunità d´oro» per Berlino e la Bundesbank, secondo l´economista Yanis Varoufakis: nell´incontro di oggi tra la Merkel e Hollande, l´insolvenza delle Periferie europee (Grecia, e domani Spagna, Italia) «sarà usata per imporre a Parigi le idee tedesche su come debba funzionare il mondo». Agitare lo spauracchio ellenico è tanto più indispensabile, dopo la disfatta democristiana in Nord Reno-Westfalia e il trionfo di socialdemocratici e Verdi, pericolosamente vicini a Hollande. La speranza è che Berlino intuisca che la sua non è leadership, ma paura di cambiare paradigmi.
Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l´articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c´è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell´austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all´orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all´austerità e all´Unione, e Tsipras è dipinto come l´antieuropeista per eccellenza.
La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall´Euro, né dall´Unione. Chiede un´altra Europa, esattamente come Hollande. Sa che l´80 per cento dei greci vuol restare nella moneta unica, ma non così: non con politici nazionali ed europei che li hanno impoveriti ignorando le vere radici del male: la corruzione dei partiti dominanti, lo Stato e il servizio pubblico servi della politica, i ricchi risparmiati. Tsipras è la risposta a questi mali – l´Italia li conosce – e tuttavia nessuno vuol scottarsi interloquendo con lui.
Neanche Hollande ha voluto incontrare il leader di Syriza, accorso a Parigi subito dopo il voto. E avete mai sentito le sinistre europee, che la solidarietà dicono d´averla nel sangue, solidarizzare con George Papandreou quando sostenne che solo europeizzando la crisi greca si sarebbe trovata la soluzione? Chi prese sul serio le parole che disse in dicembre ai Verdi tedeschi, dopo le dimissioni da Primo ministro? «Quello di cui abbiamo bisogno è di comunitarizzare il nostro debito, e anche i nostri investimenti: introducendo una tassa europea sulle transazioni finanziarie, e sulle energie che emettono biossido di carbonio. E abbiamo bisogno di eurobond per stimolare investimenti comuni». L´idea che espose resta ancor oggi la via aurea per uscire dalla crisi: «Agli Stati nazionali il rigore, all´Europa le necessarie politiche di crescita».
La parole di Papandreou, ascoltate solo dai Verdi, caddero nel vuoto: quasi fosse vergognoso oggi ascoltare un Greco. Quasi fosse senza conseguenze, l´ebete disinvoltura con cui vien tramutato in reietto il Paese dove la democrazia fu inaugurata, e le sue tragiche degenerazioni spietatamente analizzate. Sono le degenerazioni odierne: l´oligarchia, il regno dei mercati che è la plutocrazia, la libertà quando sprezza legge e giustizia.
Naturalmente le filiazioni dall´antichità son sempre bastarde. Anche la nostra filiazione da Roma lo è. Ma se avessimo un po´ di memoria capiremmo meglio l´animo greco. Capiremmo lo scrittore Nikos Dimou, quando nei suoi aforismi parla della sfortuna di esser greco: «Il popolo greco sente il peso terribile della propria eredità. Ha capito il livello sovrumano di perfezione cui son giunte le parole e le forme degli antichi. Questo ci schiaccia: più siamo fieri dei nostri antenati (senza conoscerli) più siamo inquieti per noi stessi». Ecco cos´è, il Greco: «un momento strano, insensato, tragico nella storia dell´umanità». Chi sproloquia di radici cristiane d´Europa dimentica le radici greche, e l´entusiasmo con cui Atene, finita la dittatura dei colonnelli nel 1974, fu accolta in Europa come paese simbolicamente cruciale.
Il non-detto dei nostri governanti è che la cacciata di Atene non sarà solo il frutto d´un suo fallimento. Sarà un fallimento d´Europa, una brutta storia di volontaria impotenza. Sarà interpretato comunque così. Non abbiamo saputo combinare le necessità economiche con quelle della democrazia. Non siamo stati capaci, radunando intelligenze e risorse, di sormontare la prima esemplare rovina dei vecchi Stati nazione. L´Europa non ha fatto blocco come fece il ministro del Tesoro Hamilton dopo la guerra d´indipendenza americana, quando decretò che il governo centrale avrebbe assunto i debiti dei singoli Stati, unendoli in una Federazione forte. Non ha fatto della Grecia un caso europeo. Non ha visto il nesso tra crisi dell´economia, della democrazia, delle nazioni, della politica. Per anni ha corteggiato un establishment greco corrotto (lo stesso ha fatto con Berlusconi), e ora è tutta stupefatta davanti a un popolo che rigetta i responsabili del disastro.
Le difficoltà greche sono state affrontate con quello che ci distrugge: con il ritorno alle finte sovranità assolute degli Stati nazione. È un modo per cadere tutti assieme fuori dall´Europa immaginata nel dopoguerra. Ci farà male, questa divaricazione creatasi fra Unione e democrazia, fra Noi e Loro. La loro morte sarebbe un po´ la nostra, ma è un morire cui manca il conosci te stesso che Atene ci ha insegnato. Non è la morte greca che Aiace Telamonio invoca nell´Iliade: «Una nebbia nera ci avvolge tutti, uomini e cavalli. Libera i figli degli Achei da questo buio, padre Zeus, rendi agli occhi il vedere, e se li vuoi spenti, spegnili nella luce almeno».
Repubblica 16.5.12
Atene, metà dei poliziotti anti-sommossa ha votato per il partito nazionalsocialista
ATENE - La Grecia uscita solo 37 anni fa dall´incubo dei Colonnelli ha visto rispuntare nelle urne del 6 maggio l´attrazione fatale delle sue truppe scelte per l´estrema destra. Incarnata questa volta dalle teste rasate di Chrysi Avgi (Alba d´oro), il partito nazional-socialita entrato in Parlamento con il 6,97% dei voti e 21 seggi. Il 50% dei poliziotti anti-sommossa di Atene, quelli che si scontrano quotidianamente con gli anarchici di Exarchia, hanno votato per il movimento guidato da Nikos Michaliolakos. L´uomo, tanto per dare un´idea, che in un´intervista di queste ore ha spiegato che «le camere a gas nei campi di concentramento sono una bugia. E i forni crematori pure». A fare i conti in tasca alle preferenze politiche dei nuclei scelti ellenici è stato il quotidiano Ta Vima, andando a curiosare nei seggi dall´800 all´816 nella circoscrizione di Atene. Quelli vicini alle caserme dei poliziotti del Mat. In tutti e 17, Chrysi Avgi ha fatto saltare il banco, ottenendo da un minimo del 18,6% a un massimo del 23,6%. Siccome gli uomini in uniforme che hanno votato nei seggi erano solo il 30%, più o meno la metà di loro - ha stimato Ta Vima - ha scelto Chrysi Avgi.
Ai poliziotti, evidentemente, piacciono, piacciono i metodi un po´ spicci dei giovani dell´estrema destra di Alba d´Oro. Accusati di organizzare vere e proprie squadracce per picchiare emigranti clandestini e militanti della sinistra ateniese. «Non è vero - si difende il fondatore Theodorso Koudounas - . Ma il milione di stranieri in Grecia sono un problema da risolvere. Dobbiamo prenderli e rispedirli a casa, mettendo mine anti-uomo alla frontiera per evitare che ritornino». Magari i poliziotti antisommossa potranno dare una mano.
(e.l.)
l'Unità 16.5.12
Il Pdl vuole la libertà di falso in bilancio
Anticorruzione e falso in bilancio. L’assalto del Pdl
Il blitz in commissione. Passa un emendamento per la depenalizzazione del reato, per non cambiare le norme varate dal governo Berlusconi
Pd e Idv si ribellano. Severino: «Rimedieremo»
di Maria Zegarelli
ROMA Si disintegra in Commissione Giustizia la strana maggioranza di governo. Pd e Pdl su fronti opposti: si discute del ddl anticorruzione e di falso in bilancio. Distanze siderali. Il Pdl cerca di assestare gli ultimi colpi di coda, avvia l’ostruzionismo sul ddl anticorruzione e poi poco più tardi assesta un colpo mortale al reato di falso in bilancio lasciando di fatto tutto come è. Pd e Idv, per la prima volta dalla nascita del governo Monti, salgono insieme sulle barricate mentre Fabrizio Cicchitto osserva e stupefatto commenta che «non è accettabile che esistano di fatto due maggioranze, una fra Pdl, Pd e Terzo polo sulle questioni economiche e sociali e altri temi; e un altro schieramento fra Pd, Idv ed eventualmente altre forze sulla giustizia, il falso in bilancio».
La bagarre in Commissione inizia con la discussione sul ddl anticorruzione quando il Pdl inizia a fare ostruzionismo dilatando i tempi al punto che in un’ora e mezza di discussione viene votato e bocciato soltanto un sub emendamento, firmato Pdl contrario all’aumento della pena minima per il peculato così come previsto dal ministro Severino a 4 anni. L’obiettivo, denunciano dal Pd, è quello di prendere tempo, non concludere nulla e dunque arrivare in Aula con il testo del Senato, firmato Alfano. Il clima si surriscalda, «vergogna», urlano da Fli, «becero ostruzionismo», secondo Antonio Di Pietro. «Un fort apache di giustizialisti», tuona l’azzurro Paolo Sisto. Donatella Ferranti, capogrupppo Pd in Commissione, dice che pur di arrivare in Aula il 28 maggio si lavorerà anche in notturna, intanto la seduta è rinviata a domani.
Si riparte con il falso in bilancio e sono di nuovo scintille. Per errore, fraintendimento o cosa altro? Passa (anche con i voti di Udc e Fli) l’emendamento presentato da Manlio Contento del Pdl sulla depenalizzazione e per il quale il sottosegretario alla Giustizia annuncia parere positivo del governo. Pd e Idv indicono una conferenza stampa insieme per denunciare la gravità di quanto appena accaduto: il governo ha dato parere positivo all’emendamento di Contento e a quello dell’Idv e del Pd di contenuto opposto. È stato proprio quel parere positivo illustrato dal sottosegretario Salvatore Mazzamuto, spiegano subito dopo Roberto Rao dell’Udc e Angela Napoli (Fli) ad aver generato confusione e ad averli spinti a votare a favore. «Sono stato tratto in inganno», dice il centrista, «è stato un errore» confessa la deputata Fli. Entrambi annunciano che in Aula voteranno per il ripristino del reato di falso in bilancio. Ma la frittata è fatta. «Vogliamo stigmatizzare la coincidenza per cui nel momento in cui è assente il ministro Severino dice Donatella Ferranti, capogruppo Pd in commissione si è realizzata una caduta pesante di coerenza del governo che ha portato a uccidere la riforma del falso in bilancio». Quanto al sottosegretario, «incoerente e contraddittorio il suo atteggiamento: non si possono dare due pareri favorevoli su due emendamenti opposti». Mazzamuto si tira fuori: «Mi sono limitato a dare i pareri formulati dall’ufficio legislativo. Per il resto si parli con il ministro». Di Pietro è furibondo: «Il governo dica se vuole ripristinare il falso in bilancio oppure no». Il responsabile Pd Giustizia, Andrea Orlando commenta: «In questo passaggio fondamentale è mancata a dir poco la regia del governo».
IL MINISTRO: CAMBIEREMO IN AULA
Il ministro Paola Severino precisa: «Al sottosegretario erano state fornite dall’ufficio legislativo tutte le schede necessarie a fornire i pareri agli emendamenti presentati. In particolare quanto all’emendamento Contento, l’Ufficio legislativo, su indicazione del ministro, ha fornito un parere favorevole solo al limite massimo di pena e dunque contrario quanto alla restante parte dell’emendamento». Conclusione: la formula non era in contraddizione con il parere positivo agli altri emendamenti. Quindi, «se errore c’è stato, nel senso che il sottosegretario Mazzamuto non ha letto per intero la scheda fornitagli, si porrà rimedio in aula». Ancora Cicchitto: «Inaccettabile una eventuale sconfessione del sottosegretario». «La reintroduzione del falso in bilancio ricorda Ferranti è un impegno che il nostro Paese ha preso in sede internazionale e che non può essere disatteso».
La Stampa 16.5.12
Rinvio del voto sul dimezzamento dei soldi ai partiti
Democratici infuriati, timori sul boomerang ai ballottaggi
di Carlo Bertini
ROMA Quando ieri mattina è stato informato, Bersani ha fatto un salto sulla sedia, «si è inalberato parecchio», racconta chi ci ha parlato. E infatti in serata a Porta a Porta il leader Pd ha alzato la voce: «Se la settimana prossima non c’è il dimezzamento del finanziamento ai partiti mi sentono!». Eh sì, il rinvio di un voto così atteso al 22 maggio è stata una mossa non gradita a molti nel Palazzo. Giustificato dai regolamenti che impongono 24 ore di pausa prima del voto di fiducia sul decreto per le banche; e dalla considerazione che fosse meglio far slittare una discussione così complessa dopo i ballottaggi, questo slittamento, secondo molti a destra e sinistra, avrebbe dovuto essere evitato. «Si poteva anticipare a questa settimana almeno il varo dell’articolo 1 che dimezza i rimborsi elettorali», ammette un altro dirigente del Pd e il concetto ricorre tra peones e graduati a destra e sinistra, preoccupati dell’effetto boomerang sui consensi pro-Grillo che lievitano ogni giorno nei sondaggi.
Fatto sta che ieri a creare tensione sulla legge che dimezza i rimborsi ai partiti ha contribuito pure la Ragioneria dello Stato. Che nel dare un parere al testo della Commissione ha certificato che si può parlare di dimezzamento solo per il 2012, con i rimborsi tagliati da 182 a 91 milioni di euro. Ma non a regime: nel 2015, quando la spesa era già previsto scendesse a 141 milioni, il risparmio si fermerà a 50 milioni, perché bisogna tener conto dei tagli progressivi introdotti dalle ultime manovre sugli stessi contributi. E poi la Ragioneria, che già aveva bocciato la detrazione fiscale al 38% dei contributi privati fino a 10 mila euro, ha bocciato pure la nuova versione con il 27% di sconto fiscale. La copertura dei costi dovuti all’aumento delle detrazioni per Onlus e partiti dal 19 al 27% sarebbe onerosa, va abbassata al 26%. Ed è partita così una guerra di cifre con i relatori. «Non si capisce come sia possibile che se l’aliquota fosse del 26% le detrazioni per le onlus possano costare 33 milioni di euro l’anno e quelle per i partiti 6 milioni, mentre se fissate al 27% dovrebbero costare 53 milioni...», si è infervorato Calderisi del Pdl. «Vogliamo chiarimenti dal governo», ha alzato il tiro il suo collega Bressa del Pd. E gli effetti di queste frizioni fanno gongolare le opposizioni che chiedono l’azzeramento dei rimborsi: «Alla faccia della velocità con cui la maggioranza ha propagandato questo provvedimento, i relatori ancora oggi hanno presentato una ventina di emendamenti al testo già trasmesso all’aula», attacca il leghista Pierguido Vanalli.
E se il taglio della spesa per i partiti tiene banco, non meno alta è l’attenzione sul taglio della spesa per la pubblica amministrazione. La spending review del governo, annuncia Patroni Griffi, interverrà anche sulla spesa sanitaria, sulle consulenze e sulle auto blu, per assicurare «risparmi certi entro l’estate ed evitare l’aumento di due punti dell’Iva». Sulle auto blu già si è calcolato un risparmio di 350 milioni di euro, la spesa per consulenze per il 2012 non potrà superare del 20% quella del 2009. «Ma visto che non tutte le amministrazioni mandano i dati l'idea è quella di istituire una task force con Corte dei conti, Ispettorato delle Finanze, Ispettorato della Funzione pubblica per verificare la correttezza dei dati per capire perché alcune amministrazioni non li hanno mandati».
il Fatto 16.5.12
Il fantasma dell’uguaglianza
di Paolo Flores d’Arcais
Sta per arrivare in libreria “Democrazia! - Libertà privata e libertà in rivolta” di Paolo Flores d’Arcais, concepito come un prontuario delle antinomie (Democrazia e legalità, Democrazia e verità, Democrazia e ateismo, Democrazia e illuminismo di massa, Democrazia e denaro, Democrazia e uguaglianza, Democrazia e morale, Democrazia privata, Democrazia e rivolta). Anticipiamo un passo del capitolo dedicato all'eguaglianza.
Tutti conoscono il motteggio infantile che recita «se mia nonna avesse un trolley sarebbe un tram». Troppi liberisti scambiano questo scherzo per un ragionamento: «se tua nonna avesse un trolley sarebbe libera di essere un tram» ha infatti l’identica struttura logica di «se tua nonna avesse i miliardi adeguati sarebbe libera di fondare la Fiat». Ma tua nonna ha il trolley? Se non lo ha, quella libertà è una irridente boutade, come sa perfettamente il bambino che la pronuncia e che scopre così precocemente l’ipotetica del terzo tipo o dell’irrealtà. Nessuno di noi è libero di fondare la Fiat. E portare in contrario le leggendarie imprese di chi «si è fatto da sé» mantiene il discorso nel girone dell’apologia anziché della logica, poiché in ogni ramo imprenditoriale l’Henry Ford o lo Steve Jobs di turno rappresenta il momento magico irripetibile di un «nuovo inizio», cui seguirà la normalità strutturale che vedrà invece l’imprescindibilità del trolley miliardario.
(…)
DI QUALI risorse ho bisogno per essere libero di fondare un giornale, una radio, una tv? Che libertà ho di praticare il «rischio di impresa» se non possiedo il necessario conquibus da arrischiare, o l’equivalente credito della banca? È dunque perfettamente liberista, ma prende sul serio la logica, l’articolo 3 della nostra Costituzione, che al secondo capoverso recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economica e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Che proprio tale articolo suoni affetto da socialismo al delicato udito di qualche liberale, ci dice solo come il privilegio di classe sia pronto a spingersi fino all’odio per la logica. (…)
La diseguaglianza, insomma, non va da sé, deve essere giustificata. E il liberale (non ancora ingaglioffito a liberista) può giustificarla solo qualora l’eguaglianza impedisca la «critica dell’esistente». Benedetto Croce – il maestro di libertà che per timore dei «rossi» preferì avallare il fascismo, dunque un liberale moderatissimo che «diede per viltade il grande assenso» – riconoscerà che il liberalismo non ha «legame di piena solidarietà con il capitalismo o con il liberismo economico o sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di produzione della ricchezza, con il solo limite … che nessuno [di essi] … impedisca la critica dell’esistente». La libertà liberale è perfettamente compatibile con politiche di limitazione anche radicale del diritto di proprietà (a cominciare dall’azzeramento della trasmissibilità ereditaria delle ricchezze), purché non incidano sulla capacità critica complessiva dei cittadini nei confronti dei poteri costituiti. Un liberale che non abbia in uggia la logica concluderà perciò con Rousseau: «È proprio perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l’eguaglianza, che la forza della legislazione deve sempre tendere a mantenerla». Invece, sempre più spesso, il cittadino è costretto ad ascoltare inverosimili analogie tra «mercato politico» e «mercato economico» (…)
METAFORE tipo «azienda Italia» possono perciò affiorare alla mente solo laddove ogni sinapsi sia satura di pulsione totalitaria. Del resto, il liberale Tocqueville già metteva in guardia (…): «È facile scorgere nei ricchi un grande disgusto per le istituzioni democratiche del loro Paese». (…) Se mettiamo in fila quanto fin qui acquisito, siamo costretti a concludere che la democrazia è in conflitto permanente col liberismo, poiché quest’ultimo, lasciato al suo istinto, è portato inguaribilmente all’aggressione contro ogni presupposto e conseguenza dell’eguale sovranità e dell’autonomia del ciascuno. Senza l’azione inesausta della politica per vincolare il capitale agli imperativi dell’eguale libertà civica, il liberismo conclude nella soppressione della democrazia. A questo punto scatta puntuale la geremiade d’ordinanza: ma con questi discorsi si finisce nel comunismo! Sì e no (soprattutto no). «Pretendere di arrivare a una perfetta eguaglianza nella distribuzione dei poteri di governo mi pare tanto assurdo … quanto è pernicioso in pratica il comunismo», sosteneva in effetti il baronetto George Cornewall Lewis, cancelliere dello scacchiere di Lord Palmerston. «Una democrazia non truccata … è già il comunismo», sintetizza giustamente Luciano Canfora citandolo. Sia però chiaro che l’approssimazione asintotica alle eguali chance di partenza non può avere nulla a che fare con gli esperimenti di socialismo reale che troppi popoli hanno dovuto subire. La pianificazione burocratica dei regimi dell’est (…) si colloca esattamente agli antipodi dell’eguaglianza democratica. (…) La totalitaria abrogazione di ogni libertà politica è infatti già una forma – e micidiale – di diseguaglianza materiale, sociale. Che, oltretutto, fa da incubatrice alle altre. I gerarchi di partito, ciascuno nell’asimmetrica proporzione del rispettivo potere, sono infatti gli effettivi padroni del sistema produttivo, banche, industrie, terre. Tanto è vero che saranno proprio loro a trasformarsi in «legittimi» proprie-tari, quando il crollo dell’Urss e delle democrazie popolari (iterazione per occultare negazione!) suonerà l’inevitabile fanfara delle privatizzazioni e trasformerà i più lesti degli apparatchiki in «oligarchi» delle ricchezze economiche.
Repubblica 16.5.12
Se la destra sceglie Grillo
di Curzio Maltese
La crisi che si abbatte con crescente ferocia sulla vita dei cittadini europei ha avuto negli ultimi mesi un solo effetto positivo.
È il ritorno sul tavolo dell´Unione del grande assente di questi anni, la Politica. La Politica con la maiuscola, quella che da quando esistono le democrazie si fonda sulla distinzione fra una destra e una sinistra. Il voto in Francia e in Germania, nel più popoloso e decisivo degli stati federali tedeschi, la Renania settentrionale-Westfalia, ha riportato al centro del dibattito pubblico, dopo anni di ambiguità, pensiero unico e fumose «terze vie» di fuga, un´alternativa secca e concreta fra l´Europa vista da destra o da sinistra. Insomma fra un´Europa ancorata alla visione liberista dominante nell´ultimo decennio, sia pure transitata dalle promesse e dai sogni di arricchimento collettivo allo spettro di un´austerità permanente, e un´idea di Unione più equa e solidale, impegnata a rilanciare la grande invenzione democratica del Welfare nella nuova realtà del mercato globale.
Questo confronto di grandi visioni alternative fra destra e sinistra, che pareva archiviato in politica, è tornato a dividere gli elettori francesi, chiamati a scegliere fra i programmi di Hollande e Sarkozy, e promette di essere il leit motiv della prossima campagna per il cancellierato in Germania fra Angela Merkel e Hannelore Kraft. Ma non in tutta Europa la crisi ha avuto questo effetto. Nelle ultime elezioni in Grecia il confronto politico storico fra destra e sinistra si è spostato su un piano del tutto diverso. E disastroso. Il confronto in Grecia non è politico, fra una sinistra e una destra portatrici di visioni alternative, ma post o piuttosto pre politico, fra un governo «tecnico» nel quale si confondono una destra e una sinistra percepite come uguali dall´opinione pubblica, e un´opposizione altrettanto indistinta, dove un comune linguaggio populista accomuna le estreme radicali. Un quadro politico devastante che a molti e purtroppo ragionevoli pessimisti ricorda la Repubblica di Weimar.
L´Italia è oggi, come quasi sempre nella nostra storia, a un bivio, al confine fra le due Europe. La crisi economica e la parentesi del governo tecnico può rivelarsi un´occasione straordinaria per la politica italiana di riformarsi e di tornare a offrire l´anno prossimo agli elettori un´alternativa chiara fra riformismo e liberismo, sinistra e destra. Oppure può diventare il definitivo pretesto per scivolare nel caos weimariano della Grecia, l’annichilimento della politica e la ricomposizione del conflitto sociale fra un indistinto rigorismo «tecnico» e un altrettanto indistinto populismo «né di destra né di sinistra».
La nostra scelta è decisiva per il futuro di tutti. Nel treno dell´Unione, più importante di qualsiasi Tav, l´Italia è il vagone che collega la locomotiva franco-tedesca al resto dell´Europa. Staccare il vagone italiano significa porre fine al viaggio. Ora, i piccoli segnali che arrivano in questi giorni, in queste ore, dalla provincia elettorale impegnata nel ballottaggio delle amministrative, sono inquietanti. A Parma, eletta dal movimento di Grillo a Stalingrado del movimento, i grillini si starebbero organizzando a ricevere sottobanco l´appoggio del moribondo partito di Berlusconi. In linea con una campagna elettorale condotta da Grillo sul filo di un assoluto cinismo. Il proprietario del marchio 5 stelle è stato capace in queste settimane di passare dall´elogio incondizionato del governo Monti al dileggio del medesimo come «servo delle banche» e «frutto di un golpe», dall´apologia degli evasori fiscali alla difesa d´ufficio di Bossi e «family» («vittime di un complotto della magistratura»), dal corteggiamento degli xenofobi («la cittadinanza ai figli d´immigrati non ha senso») a quello della mafia. Perché tutti votano, anche evasori fiscali, leghisti delusi, xenofobi e i mafiosi. E il voto, come la pecunia, non olet. Per contro, alle truppe del berlusconismo in rotta non par vero di salire su un altro carro populista, piuttosto che rimboccarsi le maniche e costruire la vera destra liberale assente in Italia dal Risorgimento.
Sia chiaro che l´eventuale e rovinosa deriva greca dell´Italia non potrebbe essere responsabilità esclusiva dei demagoghi. Almeno al cinquanta per cento sarebbe da condividere con una sinistra che non ha trovato il coraggio di rinnovarsi, nei programmi e negli uomini, come hanno saputo fare i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi dopo anni di sconfitte. Hanno, abbiamo tutti un anno di tempo. Una seconda chance, come dimostra la Grecia di oggi, non è prevista.
l’Unità 16.5.12
Ma su Israele la sinistra ha colmato ogni ritardo
di Bruno Gravagnuolo
«...ANCHE SE IL TIC DI CHIEDERE AI COMPAGNI EBREI di essere in prima fila quando c’è da attaccare Israele è ben lungi dall’essere scomparso del tutto». No, francamente a noi pare cancellato quel «tic» di cui parlava Paolo Mieli sul Corsera nel recensire il libro di Matteo Di Figlia edito da Donzelli con prefazione di Salvatore Lupo: Israele e la sinistra. Magari sopravvive in qualche anfratto della sinistra radicale dispersa, dove più o meno inconsciamente ancora possono venir sovrapposti «antisionismo» e «antisemitismo» (doppia damnatio che nasce a destra, comunque). Semmai il tic, il «crampo», è un altro, a sinistra. E sta nella domanda automatica, che ciascuno a sinistra si autorivolge, quando critica il governo di Israele: «C’è rischio di antisemitismo in questo?».
Eppure le cose dovrebbero essere chiare. E il criterio guida resta: il diritto di Israele ad esistere come «stato-nazione». Non come StatoMissione o Eretz-Israel (Grande Israele). In una col diritto allo Stato palestinese. Inficiato però di fatto ogni volta che la dirigenza palestinese non è chiara sul quesito: deve esistere Israele sicuro nei propri confini? Purtroppo su questo si è andati avanti e indietro sui due fronti, giungendo a un passo dalla soluzione più volte. Ma poi regredendo a Intifade e repressioni (e grande è la responsabilità non solo dell’ultimo Arafat ma anche di Bush jr. e di tutto il ciclo neocons).
E la sinistra? Vecchia storia...che comincia con Marx, con la Questione ebraica. Fin dall’inizio, sbagliando, si è infatti negata la questione nazionale ebraica in quanto tale. Reputandola «borghese e ristretta». E all’errore se ne aggiunse un altro, sempre in Marx: considerare gli ebrei come portatori della «mercatura e del denaro» (certo in chiave progressiva per Marx!). Si riapriva così la strada all’endiade «ebrei/denaro», strada altresì già spianata dall’antigiudaismo cristiano fin dall’alto Medioevo....
l’Unità 16.5.12
V day contro il femminicidio
I «monologhi della vagina» per dire no alla violenza
di Rossella Battisti
Iniziativa promossa da «Se non ora quando» al Quirino con i testi di Ensler recitati da uno stuolo di attrici e donne per fermare la mattanza
CHE COS’HANNO IN COMUNE L’IMPETTITA AVVOCATA PENALISTA GIULIA BONGIORNO E LA STRALUNATA ATTRICE COMICA LUNETTA SAVINO? La cantante Paola Turci e la giornalista Maria Luisa Busi o la deputata Paola Concia con Lella Costa? Unite i punti con un tratto di penna e otterrete la lettera D di donna, ovvero di V come vagina, ovvero V-day. Un giorno per ricordare, sottolineare, insistere sulla preziosa diversità della donna attraverso le testimonianze e le storie buffe e commoventi, tragiche e allegre che Eve Ensler ha raccolto ormai più di quindici anni fa. Una raccolta che ha fatto il giro del mondo a teatro e non solo -, tornata al Quirino di Roma per una serata speciale, accolta tra le braccia dell’Associazione «Se Non Ora Quando» e trasmessa a una platea partecipe e divertita dalle signore di cui sopra più tante altre, Lella Costa in testa a introdurre e chiudere.
Sono storie di «vagine», di donne, ragazzine e anziane viste dalla parte della natura, e su a risalire, a raccontare cosa significa essere il sesso represso e violentato in una società maschilista. La scrittrice newyorchese era partita nel 1996 da un rapporto dell’Onu in cui si riportava il dato inquietante che una donna su tre nel mondo avesse subito abusi. Ensler intervistò circa due-
cento donne di ogni età e razza, classe e professione a partire da quel particolarissimo punto di osservazione. Componendo quel mosaico squillante ed evocativo che è i Monologhi della vagina. Ancora oggi, manifesto insuperato nel descrivere un mondo arretrato nei comportamenti e nella mancanza di rispetto per l’altra metà del cielo.
La serata al Quirino lo riprende ed è quasi un controcanto, ironico e pungente, alla marcetta fuori tempo del giorno prima che,
sempre a Roma, capeggiata da Alemanno inneggiava all’abolizione della 194 e alle «donne assassine». Ma dove? Ma quando? I dati in Italia parlano chiaro, parlano male di maschi che odiano le donne. Le battono, le soffocano, le uccidono per impedir loro di non essere semplici oggetti di proprietà, ma persone dotate di pensieri ed emozioni. Di libertà, soprattutto. Anche quando si tratta di prendere decisioni gravi e severe sul proprio corpo.
Il tam tam mediatico funziona e il foyer del Quirino si riempie di ragazze di ogni età, in fila sventagliata davanti al botteghino. La maggior parte ha prenotato ed è lì solo per ritirare i biglietti per sé e per le amiche. Questo è uno spettacolo dove non si viene da sole: si solidarizza, si fa gruppo. Le mamme portano le figlie. E le nonne le amiche di gioventù. C’è anche qualche uomo sparuto, compagni di vita in versione dimessa e mansueta. Pochi i ragazzi, invece, forse messi in soggezione dalla prevalenza del femminino.
UN PALCO DIPINTO DI ROSSO
Cessato il brusio degli ingressi, il palco si accende di rosso con due schiere di donne sedute a semicerchio dirette dalla regia discreta e minimalista di Franza di Rosa. Davanti i leggii e i microfoni, arnesi del mestiere base per quella che diventa quasi seduta di autocoscienza. L’articolo di Sofri che commenta amaro i dati del femminicidio e che Lella Costa ricorda in apertura. Gli stupri come feroce arma di guerra in Bosnia e in Congo a cui sono dedicati monologhi come aghi di ghiaccio che si conficcano nell’anima. O pagine malinconiche, rimpianti di passioni umiliate come quella che interpreta, ironica e saggia, Lucia Poli di una vecchia signora a proposito del suo «là sotto», che dopo un paio di risvegli insurrezionali è stato chiuso «in cantina» per sempre. Paola Turci intona il canto triste delle violenze subite, Paola Concia e Giulia Bongiorno snocciolano dati. E su tutte si fa strada la strabordante simpatia di Marina Confalone, intenta a mimare l’alfabeto del piacere femminile. Altro che Harry e Sally, il campionario di gemiti e ululati, fermenti di piacere, le serpeggianti vocali lussuriose che modula la voce di Marina fanno due baffi all’orgasmino di Meg Ryan al tavolo del ristorante. Per favore, bis!
Corriere 16.5.12
La sanzione morale della Fao contro l'iniqua incetta di terre
di Giulio Sapelli
Nel primo trimestre del 2012, ben 2,5 milioni di ettari sono stati ceduti dalle comunità locali a grandi imprese multinazionali cinesi, brasiliane, francesi, inglesi, danesi, svedesi, nord americane, quatarine e thailandesi. Se si considera il periodo che va dal 2007 al 2011, nelle aree dell'Africa sub-sahariana, del Sud America, dell'Australia e dell'Oceania, le vendite o le espropriazioni sono avvenute per ragioni che le statistiche classificano come «alimentari» (il 52%), la coltivazione di colture per la produzione di bio-carburanti (20%) e, infine, l'allevamento (l'8%).
L'area sub-sahariana è quella più interessata da questo irrompere del mercato capitalistico: gli acquisti di terre sono stati il 54% di tutte le transazioni mondiali, connotando in modo esplicito il ruolo svolto in questo fenomeno dalla Cina, che mira chiaramente al dominio del continente africano. Segue a lunga distanza l'Oceania, con il 9,5% e l'America del Sud, con il 9,4%. Insomma, un fenomeno enorme, che per la prima volta nella storia la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l'agricoltura e l'alimentazione) ha affrontato per le rilevanti implicazioni che esso ha sui regimi alimentari dei popoli più poveri del pianeta. I 124 Paesi che fanno parte del Comitato per la sicurezza mondiale alimentare hanno adottato all'unanimità una risoluzione che mira a raggiungere una sorta di «regolazione globale della globalizzazione» in merito alle transazioni fondiarie. L'accordo è stato firmato venerdì 11 maggio a Roma. Sono stati due anni di negoziazione e di discussione e di ricerca accanita. Il documento redatto dovrebbe regolare le transazioni non solo dei terreni coltivabili, ma altresì delle foreste e delle aree di pesca nel mondo.
Tutto ha avuto inizio dalle accese proteste delle popolazioni più povere del pianeta e di quelle più legate alla risorse naturali per il loro sostentamento. Esse da circa un decennio hanno visto via via aumentare a dismisura la pressione diretta a far sì ch'esse abbandonassero le loro terre per un misero compenso, oppure addirittura attraverso atti di vera e propria espropriazione, non potendo opporre resistenza legale agli espropriatori, non possedendo una documentazione scritta del possesso medesimo. Le regole di un diritto ancestrale, agnatico e secolare comunitario si scontravano e si scontrano con lo scambio mercantile tipico dell'economia monetaria capitalistica, che distrugge i diritti non scritti e consuetudinari con una violenza spesso inaudita. D'ora innanzi sia gli Stati sia le imprese che non rispetteranno tali diritti arcaici e non scritti, così come le consuetudini colturali delle popolazioni che sono confinanti con le terre espropriate, verranno sanzionati. Solo moralmente, tuttavia, perché le regole adottate sono volontarie e non compulsive. Non sono previste, infatti, sanzioni se non morali; ma questo è di già, nonostante tutte le limitazioni, un grande risultato perché per la prima volta 124 Stati hanno firmato un documento che auspica un corretto comportamento reputazionale degli attori economici grazie al rispetto del diritto consuetudinario, invitando a consultare e a informare e a negoziare con le popolazioni locali, con l'assistenza dei tecnici della Fao e dei suoi comitati. Si obietterà che molte nazioni hanno firmato l'accordo perché nessuna sanzione è prevista. Ma ciò è vero solo in parte: in giudizio l'accordo potrà essere fatto valere come un elemento di forte difesa dei diritti delle popolazioni offese. Certo esse dovranno organizzarsi e darsi una rappresentanza politico-giuridica. Si potranno in tal modo costruire dei catasti della proprietà fondiaria in ogni angolo della terra e creare in tal modo una società civile in grado di far valere le regole del commercio regolato dalla legge e non dalla violenza.
Termina l'epoca della brutalità senza freni che ha dominato le transazioni fondiarie sì in lontane parti del mondo, ma anche in aree a noi più vicine. Un lungo cammino vero il diritto scritto sta per concludersi. Per questo l'accordo di Roma è storico ed è simbolicamente rilevante ch'esso sia stato firmato nella patria di tutti i diritti di proprietà: quello romano.
Repubblica 16.5.12
Nel 2011 le vendite delle Ferrari sono più che raddoppiate rispetto all’anno precedente.
La nuova passione Rossa della Cina
di Marco Mensurati
Prevista una versione speciale Una mostra a Shanghai celebra il rapporto tra la terra del Dragone e il Cavallino che lì conquista sempre più ragazzi
Chi guida Ferrari in Asia è giovane e spesso donna Mentre in Italia l´età media si alza
A un certo punto, a Maranello, se la sono vista brutta. È successo pochi giorni fa quando, a Nanchino, un collaboratore esterno della Ferrari ha scatenato un caso diplomatico. Alla vigilia dell´esibizione per il lancio di un nuovo modello (la 458 Italia) sul mercato cinese, il suddetto collaboratore ha pensato bene di improvvisarsi pilota acrobatico e ha cominciato a sgommare sulle mura antiche della città, ricoprendo un monumento risalente alla dinastia Ming con le tracce dei copertoni.
Lì per lì le reazioni sono state violente, in molti hanno protestato. Poi però la situazione è rientrata: la Ferrari ha chiesto scusa, ha fatto immediatamente restaurare il monumento e, con il monumento, anche il rapporto con quello che rappresenta il "secondo mercato" mondiale per la vendita delle sue auto (dopo gli Usa). Perché in Cina, da qualche anno a questa parte, imprenditori e uomini d´affari sono impazziti per le Rosse.
Ora, l´incidente di Nanchino difficilmente potrà alterare l´appeal della casa automobilistica del cavallino sul mercato cinese. Anzi, c´è chi scommette che prima o poi avverrà anche il "sorpasso", e cioè che la Ferrari riuscirà a vendere più macchine in Cina che in America. A questo sorpasso, se mai avverrà, contribuirà certamente anche la mostra che si aprirà venerdì nell´ex padiglione italiano dell´Expo di Shanghai, un allestimento di 900 metri quadrati richiesto ai vertici di Maranello espressamente dalle autorità cinesi per celebrare la ricorrenza dei 20 anni dallo sbarco rosso nel paese. La prima Ferrari "con gli occhi a mandorla" fu ordinata nel 1992, era un 348 ts e finì a un miliardario di Pechino. In pochi, allora, se ne accorsero ma quell´ordine fu l´inizio di una storia d´amore. Nel 2011 la casa italiana ha venduto in quell´area 777 macchine (+62 per cento rispetto al 2010) e adesso, per omaggiare i suoi clienti locali, ha pensato bene anche di proporre una versione speciale della 458 Italia, verniciata nel nuovo colore «Rosso Marco Polo». Sul cofano di questa vettura - che verrà prodotta con un´"edizione" limitata di 20 esemplari - comparirà un "longma" (un animale mitologico, metà dragone e metà cavallo) stilizzato. «Il dragone - spiegano da Maranello - simboleggia la cultura cinese mentre il cavallino richiama al nostro simbolo che, per altro, secondo uno studio del Politecnico di Milano è l´unico marchio riconosciuto dai cinesi come "italiano" e non confuso con altri». Il binomio Ferrari-Italia rimarrà esposto per tre anni a Shanghai: in mostra ci saranno alcune delle migliori collezioni del Museo Ferrari. La mostra è divisa in cinque aree tematiche: "Ferrari in Cina", "Prodotto", "Design", "Corse" e "Green Technology" con le ultime novità della casa di Maranello.
La scelta ha un´importante valenza politica, visto che rappresenta una vetrina eccezionale per il "made in Italy". Ma è evidente che potrebbe essere molto interessante il ritorno commerciale. Il mercato cinese ha infatti una particolarità molto ben definita rispetto a tutti gli altri nel mondo: l´età dei clienti. Chi guida Ferrari in Asia è giovane, ha spesso meno di quarant´anni mentre nel resto del mondo quasi sempre questa soglia è ampiamente superata. Inoltre, altro fatto singolare, vi è un´importante rappresentanza della clientela di donne con un profilo particolarmente elevato: sono imprenditrici e professioniste di successo. E amano la Ferrari.
Corriere 16.5.12
«Mein Kampf» in libreria. Divieto sconfitto dalla rete
risponde Sergio Romano
Dal 2016 il Mein Kampf sarà libro di testo in tutte le scuole tedesche, poiché, a fine 2015, il ministero delle Finanze tedesco perderà tutti i diritti su questo testo. Sembra che il ministro Soeder, voglia diffondere un testo commentato per evitare il proliferare dei libri commerciali. Vorrebbe naturalmente far capire a quali conseguenze catastrofiche ha condotto questa ideologia e quali assurdità sono contenute in questo testo. Apprezzerei molto una sua cortese risposta a due semplici domande, la prima: da chi fu ispirato il Führer, quanto alla formulazione del concetto di nazione, dell'antisemitismo e dell'apologia della guerra e della violenza come culto della forza? La seconda: come arrivò a quello che fu il pensiero politico e lo sviluppo del programma del partito?
Salvatore D'Acri
Caro D'Acri,
È possibile che la pubblicazione del libro, nell'edizione proposta dalle autorità bavaresi, serva per l'appunto a dare una risposta alle sue domande. Parecchi anni fa un editore italiano mi chiese se vi fossero testi politici del XX secolo che sarebbe stato utile ripubblicare. Risposi suggerendo Mein Kampf. Naturalmente occorreva una introduzione per ricordare al lettore quale importanza il delirante libro di Hitler abbia avuto nella storia mondiale. E occorreva smontarlo, un pezzo alla volta, per comprendere dove Hitler fosse andato a cercare gli ingredienti delle sue teorie sulla razza e sulla «missione» del Reich tedesco. L'editore sorrise, mi ringraziò per il consiglio e, beninteso, non ne fece nulla.
Per più di mezzo secolo Mein Kampf è stato dannato e bandito. Lo Stato della Baviera, proprietario dei diritti del libro dal giorno in cui, dopo la fine della guerra, aveva confiscato la sua casa editrice (Eher-Verlag), si è battuto tenacemente per evitarne la ristampa e la circolazione. Alcuni Paesi, come la Francia, hanno promulgato una legge che prevede un'azione penale contro l'eventuale editore o stampatore.
Il guaio, caro D'Acri, è che questo libro proibito ha avuto nel corso degli ultimi decenni parecchie centinaia di edizioni più o meno clandestine. Più recentemente è apparso sulla rete e può essere letto o scaricato da parecchi siti. Per molti aspetti la vicenda di Mein Kampf conferma il potere di Internet e dimostra quanto sia difficile porre limiti alla sua straordinaria capacità di trasmettere notizie, informazioni, sentimenti. Il fenomeno è preoccupante quando la rete è usata da pedofili, criminali, truffatori. Ma si è rivelato utilissimo per i dissidenti dei regimi autoritari o totalitari.
Anche prima di Internet, comunque, qualcuno pensava che la lettura di Mein Kampf fosse utile. Come è stato ricordato recentemente dal Wall Street Journal, Churchill, nella sua storia della Seconda guerra mondiale, scrisse che il libro permetteva di meglio comprendere le strategie naziste, e aggiunse: «È un nuovo Corano, fatto di fede e di guerra, ampolloso, verboso, informe, ma impregnato del suo messaggio». Non credo che l'uomo di Stato britannico manifestasse con la parola Corano un pregiudizio antimusulmano. Nella prefazione all'edizione americana del libro, apparsa nel 1939, Mein Kampf veniva definito il «Vangelo nazista». In ambedue i casi Corano e Vangelo erano espressioni «scorrette», ma metafore utili per mettere in evidenza il fanatismo religioso da cui il libro di Hitler è permeato.
Corriere 16.5.12
Eschilo e la maledizione dei presagi inascoltati
La reggia di Agamennone trasuda sangue
di Paola Casella
Fin dai primi versi, l'Agamennone è una tragedia annunciata. Primo elemento dell'Orestea di Eschilo, l'unica trilogia del teatro greco classico ad esserci stata tramandata nella sua interezza, l'Agamennone si sviluppa attraverso la realizzazione di una sequenza di presagi, e l'essenza tragica del testo sta proprio nell'incapacità degli uomini, pur abbondantemente avvertiti, di sfuggire al loro destino. Non a caso il personaggio più drammatico dell'opera è Cassandra, la profetessa condannata a non essere creduta.
Le prime parole della tragedia sono quelle di una sentinella che da un anno aspetta la notizia della caduta di Troia: e lo fa «sdraiato sulle braccia alla maniera di un cane», chiedendo agli dèi di liberarlo dalla fatica di una veglia che sembra interminabile, ma ignorando che il ritorno in patria di Agamennone dopo la vittoria sui Troiani sarà l'inizio della sua fine.
Il vincitore trova ad aspettarlo a casa la moglie Clitemnestra, che lo accoglie apparentemente a braccia aperte. Ma le parole della regina sono ambigue e ricche di doppi sensi, poiché Clitemnestra cova propositi di vendetta: non perdona al marito di avere sacrificato la loro bellissima figlia Ifigenia per ottenere dagli dèi venti favorevoli.
Eschilo descrive Agamennone come un sovrano saggio e morigerato, non insuperbito dalla vittoria ma al contrario stanco di guerra, e desideroso di tornare a governare il suo popolo con equilibrio e oculatezza. Ma Clitemnestra sa come ottenebrare il suo giudizio, spingendolo a celebrare il proprio ritorno su drappi rossi che sono già un presagio di morte, anticipatori della «pioggia di sangue» di cui parlerà più avanti Cassandra.
L'atmosfera lugubre e la tensione dolorosa permeano tutta la narrazione, che procede inesorabile verso il proprio compimento tragico, concretizzando la maledizione scagliata sulla casa di Agamennone che proseguirà il suo percorso di distruzione nei successivi tre elementi dell'Orestea, le Coefore e le Eumenidi, quando Oreste, il figlio più piccolo (l'unico maschio) di Agamennone e Clitemnestra, vendicherà il padre uccidendo la madre e il suo amante, Egisto. Un'ira che acceca tutti i protagonisti, una «follia di vicendevoli omicidi» che non si placa finché non ha completato il suo percorso.
Agamennone è stato cieco e sordo alle suppliche della figlia Ifigenia, la cui uccisione è descritta da Eschilo in toni strazianti: «Le grida con cui chiamava il padre e l'età virginale in nessun conto tennero i capi avidi di guerra», ricorda il coro, e a nulla vale lo sguardo disperato che Ifigenia lancia al «padre amato». Nella vendetta di Clitemnestra non c'è solo la disperazione di una madre, ma anche la rabbia contro l'insensatezza di un uomo che «tollerò di farsi sacrificatore della figlia come aiuto ad una guerra che puniva il ratto di una donna», un riferimento all'«incidente scatenante» della guerra di Troia: la decisione di Agamennone di aiutare il fratello Menelao a vendicare il «furto» della moglie Elena da parte di Paride. Il re «giusto» non appare affatto tale alla moglie, poiché ha innescato incautamente una catena di sventure. Eppure Clitemnestra ama suo marito, e l'ha a lungo atteso: «Ho rovinato i miei occhi che tardavano ad addormentarsi a forza di piangere per i segnali di fuoco che ti riguardavano, sempre trascurati», gli dice.
Agamennone è la tragedia dei segnali trascurati, e una delle scelte drammaturgiche più azzeccate di Eschilo è quella di far entrare in scena la profetessa Cassandra sul carro insieme ad Agamennone, di cui è amante e «bottino di guerra», tenendola però in silenzio per tutta la durata della conversazione fra marito e moglie. Quando finalmente Cassandra aprirà bocca, sarà per annunciare che «questa leonessa a due zampe, che dorme accanto al lupo mentre è assente il nobile leone, mi ammazzerà, me sventurata». Poi ucciderà anche il leone: Agamennone.
«Queste case spirano morte sanguinosa», dirà Cassandra, «Lo stesso tanfo che esce da una tomba». E sono ancora della profetessa inascoltata le parole che riassumono l'inconsistenza dell'esistenza umana: «O vicende dei mortali: quando sono felici si possono paragonare a un'ombra, e se sono sfortunate una spugna bagnata con un colpo cancella il disegno».
Corriere 16.5.12
Trionfano l'ira e la vendetta
La tragedia Agamennone di Eschilo, in edicola il 17 maggio con il «Corriere della Sera» nel volume arricchito dalla prefazione inedita di Giorgio Montefoschi, conduce nella dimensione arcaica del ciclo dedicato agli Atridi, i figli di Atreo, colui che, per punire il fratello, gli aveva dato in pasto le carni dei suoi figli. E dà il senso arcano, oscuro dello svolgersi dei destini umani, elemento classico della tragedia greca, qui in uno dei vertici più alti. Il ghenos, la stirpe, con la sua eredità di sangue (in tutti i sensi) pesa infatti sulla figura del re Agamennone, sulla caduta della città nemica, Troia, sul ritorno del guerriero in patria, sulla moglie Clitemnestra, sui figli, e il tributo di sangue che dovrà essere pagato attraversa tutta la tragedia, dal sacrificio dei bambini alla morte di Ifigenia, con brani lirici di profonda, aspra bellezza. Come Montefoschi chiosa efficacemente nella prefazione, «sulla scena già si affacciano le Erinni: le dee della vendetta e dell'ira. E così Agamennone finisce: nella cavea che immaginiamo muta, sotto il cielo notturno». (i.b.)
Corriere 16.5.12
L'indagine di Aristotele alla ricerca della verità
Un metodo per avvicinarsi alla conoscenza
di Chiara Lalli
Perché dovrebbe interessarci leggere o rileggere il libro I della Metafisica di Aristotele? «Il prefisso iterativo davanti al verbo "leggere" può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso» scriveva Italo Calvino in Perché leggere i classici, a commento della prima proposta di definizione dei classici, ovvero «quei libri di cui si sente dire di solito "Sto rileggendo..." e mai "Sto leggendo..."». E non c'è dubbio che la Metafisica sia un classico del pensiero, che sembra soddisfare molte delle ulteriori definizioni offerte da Calvino: ogni rilettura è una scoperta e persiste come un rumore di fondo.
Che cosa possiamo trovare o ritrovare in queste pagine aristoteliche? La meraviglia (thauma) della filosofia, la ricerca della verità, la scienza delle cause ultime, la risposta ai problemi che ognuno di noi si trova a risolvere. Certo, la scienza da Aristotele è molto cambiata: il suo universo era lo stesso di Tolomeo, il cosmo immaginato come costituito da cieli concentrici, uno incastrato nell'altro, mossi ognuno da quello precedente e infine dal Primo Mobile, il cielo verso cui tutti gli altri si muovono perché vi tendono, ne sono attratti. Certo, alcune formulazioni aristoteliche possono essere ostiche o quasi incomprensibili per chi non abbia familiarità con le discussioni filosofiche e con gli argomenti trattati.
Tuttavia c'è un primo livello accessibile a tutti: Aristotele ci prende per mano e ci conduce nelle viscere della filosofia, nella filosofia che cerca di definire se stessa e che si offre come metodo di avvicinare la realtà. Non solo: nel I libro, che esce sabato con il «Corriere», è lo stesso Aristotele a confrontarsi con chi lo aveva preceduto e a tracciare quella che potrebbe considerarsi la prima storia della filosofia. Quel colloquio virtuale con Parmenide, Platone, Empedocle e i Pitagorici è una vera e propria palestra mentale. Un invito a domandarsi il perché e una sfida a cercare ipotesi sempre più convincenti.
Una parte rilevante del libro I è dedicata alla definizione della filosofia come conoscenza delle cause e dei principi primi — il perché delle cose. «Diciamo di conoscere una cosa quando riteniamo di conoscerne la causa prima». Le cause prime sono quattro: materiale, formale, efficiente e finale. La forma e la materia sono profondamente intrecciate: in un tavolo la materia è ciò di cui è fatto, la forma è il modo in cui è realizzato. La forma ha una superiorità ontologica sulla materia, è causa prima dell'essere. Aristotele direbbe che la materia è desiderio della forma. Per gli oggetti artificiali la causa efficiente è l'agente — colui che costruisce il tavolo — ma per i fenomeni naturali? Il rischio è quello di rimandare all'infinito la causa motrice o di ipotizzare un Dio, che secondo Aristotele non basterebbe a spiegare il movimento e la pluralità delle sostanze. Ed ecco che arriviamo alla quarta causa, quella finale, la più affascinante: il movimento si spiega come movimento verso, come tendenza a, come attrazione che ci spinge a muoverci verso qualcosa che è immobile e non ha quindi bisogno di una causa efficiente.
Addentrandoci nel mondo aristotelico possiamo trovare zone d'ombra o formulare domande che non hanno una risposta. Sappiamo che quell'anelito finale è stato messo in crisi, ma il valore dell'ipotesi esplicativa rimane intatto, così come rimane intatta la seduzione di questa spiegazione. Non solo: se la visione teleologica del mondo fenomenico è stata spazzata via — pur permanendo nelle visioni del mondo connotate dalla religione — rimane senza dubbio attuale il metodo aristotelico, quella dialettica che permea non solo la Metafisica ma tutta l'opera di Aristotele. E se è vero che siamo in grado di godere dello spirito dialettico quanto più conosciamo gli argomenti di cui si discute, è innegabile che si può apprezzare — o cominciare ad apprezzare — il metodo anche non avendo familiarità né con la filosofia né con i temi trattati da Aristotele.
Ognuno di noi ha a che fare con la verità e, come dice Aristotele, la verità è alla portata di tutti e dobbiamo imparare a vederla, come gli occhi delle nottole devono abituarsi alla luce del giorno. E a riconoscerla, altrimenti rischiamo di fare come i pesci giovani che si sentono chiedere dal pesce anziano «Com'è l'acqua?» e rispondono «Che diavolo è l'acqua?» (David Foster Wallace al Kenyon College, 1995).
Corriere 16.5.12
L'angosciato stupore umano
Autore di estrema densità teoretica, Aristotele, nel primo libro della sua Metafisica (che sarà in edicola il 19 maggio con la prefazione nuova e inedita del filosofo Emanuele Severino) concentra già nei primi tre capitoli non solo le argomentazioni che poi saranno elaborate negli altri libri, quindi la summa della sua metafisica, ma anche un quadro dello stato della filosofia dell'epoca, un ritratto in cui, come illustra Severino nella prefazione, «la filosofia parla della filosofia». Aristotele indaga qui le radici del pensiero filosofico, il suo rapporto originario con il thauma, cioè la meraviglia, ma anche, al tempo stesso, il «mostro», o (come spiega Severino) «l'angosciato stupore» del sapere umano di fronte alla natura. Cosicché, se tramite il mythos l'uomo apprende «da quali Potenze siano prodotti il dolore e la morte, e il mondo stesso», afferma Severino, la filosofia è anche il modo che la sapienza umana ha escogitato per liberarsi dal thauma, dallo spavento, tramite «la conoscenza delle Potenze che producono il dolore». (i.b.)