l’Unità 13.5.12
L’intervista
Bersani: Monti abbia coraggio il Paese non può più aspettare
«Dopo Monti saremo noi a governare»
di Simone Collini
«Alle elezioni il confronto sarà come quello visto
in Francia. Accesamente bipolare: non sarà
un pranzo di gala»
Le primarie? «Decideremo con i nostri possibili compagni di viaggio»
«Ho negli occhi ancora questa grandissima presenza popolare a Bologna». Pier Luigi Bersani rientra a casa dopo essere stato ai funerali di Cevenini, «che è anche il prodotto di quella città, civilissima, e anche una delle sue espressioni migliori». Il leader del Pd non è riuscito a trattenere le lacrime mentre prendeva parte al picchetto d’onore in Sala rossa. «Maurizio è stato la dimostrazione vivente di cosa intendo per partito popolare». Adesso c’è chi cerca di creare una distanza tra lui e il Pd.
«Non dicano questo perché lo farebbero star male dov’è. Io non ho mai visto una persona così aperta e così legata al suo partito».
La giornata è stata segnata anche dagli attacchi a Equitalia: cosa direbbe ai dipendenti della società di riscossione? «Che devono sentire da parte di tutti, a cominciare dal Pd, una solidarietà senza nessuna ambiguità».
Perché non sono loro i responsabili se si pagano così tante tasse?
«Non sono le tasse alte che stanno minacciando la vita dei dipendenti di Equitalia. È che nella tensione per le tasse alte, accanto ad episodi individuali, si può infilare la strategia di chi ha interesse a destabilizzare. Ricordo che Equitalia fu uno dei primi obiettivi del cosiddetto anarchismo insurrezionale, che a quanto pare sta molecolarmente cominciando a transitare verso l’azione armata. Ora bisogna tenere alta la guardia, il Paese ha già pagato troppo per questa deriva».
Dice che tutte le forze politiche siano consapevoli del rischio?
«Vedo rischi di sottovalutazione nel dare più o meno consapevoltemente copertura attraverso argomenti qualunquisti. Se paghiamo tasse troppo alte è perché c’è poca gente che paga, se tanta gente fa fatica a pagare è perché non c’è lavoro. I problemi devono essere affrontati con razionalità e non con qualunquismo».
Il governo sta affrontando con razionalità i problemi?
«Prima di tutto diamo uno sguardo all’Europa, perché la situazione resta delicata. La speculazione ha una forza tale che è in grado di togliere sovranità a decisioni prese dai singoli Paesi, a meno che non ci sia una sovranità condivisa in Europa. Il governo Monti, dopo la vittoria di Hollande, ha nuovi spazi di manovra, però bisogna sapere che non abbiamo molto tempo per agire. Già al vertice di giugno bisogna ottenere risultati, dovrà esserci la possibilità di non contabilizzare alcuni investimenti ai fini del deficit, ci dovrà essere una rilettura dell’approssimazione al pareggio di bilancio. Non è pensabile che l’Italia, che ha la recessione più alta d’Europa, si accosti al pareggio di bilancio più di quanto non facciano la gran parte dei Paesi comunitari». Che ne pensa dei provvedimenti sul Mezzogiorno approvati dal governo?
«È il classico esempio di come i miracoli non si possano fare ma che qualcosa di concreto sì. C’è un ministro che parla poco e fa dei fatti, si chiama Barca, che è riuscito a stoppare il rischio di perdere dei soldi e di investirli in un piano di spesa intelligente. Rispetto ai bisogni del Paese può sembrare una goccia nel mare, però è un fatto. E l’Italia ha bisogno di un certo numero di fatti, non risolutivi ma in grado di fronteggiare recessione in attesa di agganciare la crescita».
Il Pd è soddisfatto di ciò che fa il governo per fronteggiare la recessione?
«Il Pd, garantendo lealtà al governo, chiede altri fatti. Che la Pubblica amministrazione paghi le imprese, perché se lo Stato comincia a pagare anche il rapporto con le banche può migliorare e perché è meglio un po’ subito che tutto chissà quando. Il Pd chiede investimenti, e non c’è niente di meglio di sbloccare qualcosa agli enti locali. Chiede che si risolva adesso il problema degli esodati e che si modifichi l’Imu affiancandole un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari».
Berlusconi fa sapere che il Pdl voterà soltanto ciò che lo convince: vede il rischio che stacchino la spina al governo? «Non sono nelle condizioni di farlo ma vedo un atteggiamento rischioso. In Parlamento si sta discutendo una legge anticorruzione e una sulla Pubblica amministrazione, e sento dal centrodestra degli alt che non convincono. Non voglio accendere io una miccia ma non pensino che si possa imporre uno stop su questi temi. Non basta dire astrattamente sosteniamo il governo, bisogna fare in modo che non perda la faccia. E se si blocca la legge anticorruzione l’esito è questo». Si discute anche di finanziamento pubblico, di legge elettorale, di riforme istituzionali: in molti perderanno la faccia se non saranno approvate, non crede? «Noi incalziamo le altre forze politichee. A partire dal dimezzamento da subito del finanziamento pubblico, su cui abbiamo condotto un’iniziativa che non ha consentito divagazioni. Mi aspetto di vedere un passaggio dirimente entro i prossimi dieci giorni».
E sulla legge elettorale? La discussione sembra arrivata a un punto morto... «Torneremo a discutere partendo dai nostri paletti. La proposta del Pd è il doppio turno, e il voto amministrativo ha dimostrato che questo sistema consente una governabilità incomparabilmente migliore rispetto alla legge attuale, che ci ha portato soltanto guai enormi».
Ha ricevuto risposte da Pdl e Udc?
«Per ora ho ricevuto messaggi di diniego. Spero ci ripensino».
Prodi ha criticato la bozza di accordo a cui lavorano Violante ed esponenti delle altre forze che sostengono Monti.
«Il presupposto a ogni ragionamento è che il Pd non ha la maggioranza in Parlamento, che l’attuale legge non va bene e che bisogna trovare una soluzione, anche di mediazione, che permetta ai cittadini di scegliere i parlamentari e garantisca al meglio la governabilità. Si lavora per individuare un meccanismo che non sia puramente proporzionale, ma che partendo da quel sistema possa introdurre elementi che garantiscano stabilità e un assetto bipolare». Non sarebbe la bozza a cui lavorano Pd, Pdl e Terzo polo, per Prodi, che anzi parla del rischio di una deriva greca...
«Lo vediamo anche noi il rischio, tutti lo vedono, e sappiamo che bisogna evitarlo trovando soluzioni che mantengano un’impostazione bipolare».
E il Terzo polo, che come dice il nome lavora ad un altro progetto?
«Si è visto alle amministrative che ci può essere una funzione per una posizione centrale ma che in Italia non può esserci un centro che condizioni il tema politico di fondo».
Che sarebbe?
«Si è visto in Francia e si vedrà ancora, è il tema di come i progressisti siano capaci di rivolgersi a tutta la sinistra e a tutte le aree moderate e costituzionali, contro una destra esposta a regressioni di tipo populista e ripiegamenti antieuropei».
Dopo Monti il tema potrebbe ancora essere la Grande coalizione, non crede? «No, il termine del confronto sarà quello visto anche in Francia. Sarà accesamente bipolare, forse anche più accesamente di quel che sarebbe giusto. Non sarà un pranzo di gala».
Dopo il primo turno delle amministrative ha detto che toccherà al Pd scegliere chi guiderà il centrosinisitra alle politiche e Renzi ha chiesto la convocazione delle primarie: pentito di quell’uscita? «No, perché ho sentito l’esigenza di dire con nettezza che non è vero che tutti hanno perso, che non c’è niente. Qualcosa c’è in questo sbandamento, e siamo noi, che quindi dobbiamo assumerci le nostre responsabilità».
E le primarie chieste da Renzi?
«Non si venga a parlare a me di primarie, sono l’unico segretario al mondo eletto con questo strumento, ma adesso dobbiamo pensare ad altro».
Si faranno primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del centrosinistra?
«Ne discuteremo, come Pd, e vedremo anche quello che pensano i nostri possibili compagni di viaggio».
Cioè gli altri partiti?
«Non solo, perché come abbiamo visto anche dal voto amministrativo i rapporti politici sono un meno contenuto in un più.EilpiùèunPdcheinnomedella ricostruzione siglerà un patto con la società. Ci rivolgeremo a intellettuali, economisti, organizzazioni civiche, per aprire un confronto».
Sa di tentativo di arruolamento...
«Nessun arruolamento, chiederemo di darci una mano sul tema della ricostruzione del Paese, perché dobbiamo sapere che questo compito toccherà a noi». Un’alleanza tra progressisti e moderati dovrebbe affrontare anche temi civili: Obama ha aperto ai matrimoni gay, in Italia non sono passati neanche i Dico... «Una regolazione moderna delle convivenze stabili tra omosessuali è un elemento di civismo, che un governo deve affrontare. È chiaro che se la questione non verrà risolta da questo governo toccherà a noi farlo».
Come?
«Terrei fuori dal dibattito la parola matrimonio, che da noi comporta una discussione di natura costituzionale, al contrario di altri Paesi. Tuttavia dobbiamo dare dignità e presidio giuridico alle convivenze stabili tra omosessuali perché il tema non può essere lasciato al far west». Pare che a Parma la destra tenti di convergere i suoi voti sul candidato grillino. «È un gesto di grave irresponsabilità. È la stessa destra che ha portato il Comune ad essere commissariato, ad avere una montagna di debiti tale da mettere in discussione il pagamento degli stipendi. Sembra che l’idea sia “muoia Sansone con tutti i filistei”, ma stiamo parlando di una città. È un’ulteriore conferma del tipo di destra che abbiamo di fronte».
Corriere 13.5.12
Allarme Cgil: la cassa integrazione non rallenta
A fine aprile 322 milioni di ore autorizzate, in linea con l'andamento 2011
di Gabriele Dossena
MILANO — La crisi continua a mordere. Il mercato del lavoro è in sofferenza permanente. E oltre all'emorragia dei posti persi per strada, adesso arrivano anche i dati sull'utilizzo della cassa integrazione, spesso anticamera del licenziamento, che anche per questo 2012, il quarto anno consecutivo di crisi, sta marciando verso il miliardo di ore autorizzate.
Un segnale pericoloso, e un allarme, lanciato dalla Cgil, che ha rielaborato i dati diffusi nei giorni scorsi dall'Inps: da gennaio ad aprile, le aziende hanno utilizzato poco più di 322 milioni di ore di cassa integrazione, con 470 mila lavoratori coinvolti. «Lo stillicidio di dati negativi indica uno stato di profondissima crisi e di inesorabile declino del settore industriale denuncia il segretario confederale Cgil, responsabile Industria, Elena Lattuada -. Senza ripresa questi dati sono destinati a peggiorare, trascinandosi disoccupazione e desertificazione industriale».
E «sulla necessità di dare risposte al profondo malessere sociale, rimettendo al centro il lavoro», concordano tutti i sindacati. «È urgente arrivare all'approvazione in tempi rapidi della riforma del lavoro», ha detto il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini, ricordando che tra marzo 2011 e marzo 2012 sono stati persi 88 mila posti di lavoro, mentre la disoccupazione riguarda 2,5 milioni di persone. «È altrettanto urgente ha aggiunto che vengano ripartite tra le Regioni le risorse per la cassa in deroga per il 2012, in misura adeguata alle esigenze. Tuttavia questo sarà insufficiente senza interventi che possano compensare gli effetti negativi delle misure di austerità che stanno frenando la ripresa economica in un Paese in recessione».
E al coro delle preoccupazioni si è unito anche il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy: «Al dato generale delle ore autorizzate di cassa integrazione dei primi 4 mesi dell'anno, non può contrapporsi una politica economica che non vede nella crescita la vera ricetta da mettere in campo».
Nel dettaglio, l'analisi fatta dalla Cgil evidenzia che il totale delle ore di cig ordinaria è stato nei primi quattro mesi 2012 di 101 milioni di ore (+26,54% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso), mentre la richiesta di ore per la cig straordinaria (110,8 milioni) segna un calo del 18,6% nel confronto con il 2011. La cassa integrazione in deroga (cigd), con 110,9 milioni di ore autorizzate (+3,79%), risulta per la prima volta lo strumento più usato.
I settori che in questi quattro mesi presentano un maggiore volume di ricorso alla cassa straordinaria (cigs), sono il commercio (con 39,9 milioni, +31,16%) e la meccanica (21,9 milioni, in calo del 31,88%). Le Regioni più esposte con la cassa in deroga da inizio anno sono la Lombardia, con 20,5 milioni di ore (+19,70%), l'Emilia Romagna con 12,5 milioni di ore (+15,19%) e il Lazio con 11,7 milioni di ore (+154,18%).
Più in particolare, per quanto riguarda il solo mese di aprile, è ancora una volta la meccanica il settore in cui si conta il ricorso più alto alla cassa integrazione: sul totale delle ore del mese scorso, la meccanica pesa per 102.129.472 ore, coinvolgendo 148.444 lavoratori (prendendo come riferimento le posizioni di lavoro a zero ore), seguono il commercio, con 47.606.172 ore per 69.195 lavoratori coinvolti, e l'edilizia con 32.187.506 ore e 46.784 addetti.
«Considerando un ricorso medio alla cig, pari cioè al 50% del tempo lavorabile globale (9 settimane) afferma la Cgil sono coinvolti da inizio anno 938.525 lavoratori tra cassa ordinaria, straordinaria e in deroga. Se invece si considerano i lavoratori equivalenti a zero ore, pari a 17 settimane lavorative, si ha un'assenza completa dall'attività produttiva per 469.262 lavoratori, di cui 160mila in cigs e altri 160mila in cigd». Per migliaia di cassintegrati continua così a calare il reddito: dai calcoli dell'Osservatorio Cgil, si rileva come i lavoratori parzialmente tutelati dalla cig abbiano perso nel loro reddito 1,2 miliardi di euro, pari a 2.600 euro per ogni singolo lavoratore.
Repubblica 13.5.12
L’allarme del Garante per l’Infanzia "In Italia 2 milioni di bambini poveri"
di Giovanna Casadio
"Siamo senza sede e manca ancora il regolamento che ci permetterebbe di funzionare"
Vincenzo Spadafora: "Bene il piano del governo, ma bisogna vigilare su come saranno spesi i soldi"
ROMA - «Siamo contenti per il provvedimento del ministro Barca, per i soldi stanziati nel piano anti-povertà dal governo, ma pensiamo sia altrettanto necessario sorvegliare come saranno gestiti quei soldi, quali saranno i soggetti che potranno accedere ai finanziamenti e soprattutto per quali programmi li utilizzeranno. Troppe volte nel Sud arrivano soldi a pioggia che poi non producono benefici». Vincenzo Spadafora è il Garante per l´Infanzia. Più che un garante, un turista: ironizza. Nel senso che l´Authority, istituita nel novembre scorso per tutelare i diritti dei minori, è ancora ospite in cinque stanze del Ministero del Turismo.
«Sì, ma non è tanto questo il problema perché stiamo per trovare una soluzione». Premette Spadafora, che è stato a capo - il più giovane presidente - di Unicef Italia. La questione è che non è stato varato il regolamento. «L´Antitrust, l´Agcom si dotano di regole proprie, in piena autonomia; per noi invece è previsto un regolamento della Presidenza del Consiglio che ci consentirà di operare». Un atto atteso di giorno in giorno ormai da mesi; che permetterà di sbloccare anche un milione circa di euro a disposizione. L´appello è: metteteci nelle condizioni di lavorare.
Tanto più oggi, con la crisi che morde. Il governo ha stanziato 400 milioni di euro per nuovi asili nido in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia (18.500 posti entro il 2015) e allora ci vorrebbe un monitoraggio. «L´offerta di asili nido è la più bassa d´Europa - elenca il Garante - Soltanto il 12% dei bambini sotto i tre anni ha un posto in asilo nido. Senza andare nei Paesi nordici (con il 70%), anche la Francia ha una percentuale del 40%. Ben venga l´annuncio del governo, ma vorremmo evitare che agli annunci non seguano azioni concrete». Perciò il Garante chiede di «conoscere in tempi rapidi e in modo chiaro quali siano i soggetti e quali programmi si andranno a finanziare».
Lancia anche l´allarme: «C´è in Italia un´emergenza bambini poveri: un milione e 870 mila bambini vivono in famiglie con un reddito al di sotto della media nazionale, e di questi 700 mila sono i poveri tra i poveri, concentrati nel Mezzogiorno. Sappiamo dove sono queste sacche di povertà: il 44% in Sicilia, il 32% in Campania e quindi in Basilicata». Insomma, le politiche devono essere mirate in quei territori. «Più che mai necessario sarebbe un lavoro di coordinamento con le Regioni e i Comuni. Se oggi siamo in una situazione grave non è solo per effetto della crisi economica, ma anche dei mancati investimenti del passato». Al numero di bambini in famiglie povere, si sommano quelli a rischio povertà. Da qui, l´atto d´accusa: «Non ci siamo. La nostra Authority non vorrei fosse considerata minore, per diritti minori, come se i grandi temi fossero solo quelli condizionati dalla lobby, dai grandi interessi economici».
l’Unità 13.5.12
La destra chiede asilo a Grillo
di Maria Zegarelli
A Parma il Pdl e i centristi di Ubaldi aprono al candidato Cinquestelle per il ballottaggio
Il pd Bernazzoli: vogliono lasciare macerie, serve una svolta vera
Parma rischia di diventare il laboratorio di una inedita e incredibile alleanza. A una settimana dal ballottaggio il Pdl e il centrista Udc Elvio Ubaldi aprono al candidato di Grillo contro il pd Bernazzoli. Dicono: si può votare, è la vera novità. Il tam tam è già cominciato. Il candidato del centrosinistra accusa: vogliono lasciare macerie, Parma ha bisogno di una seria svolta di governo.
Da ABC (Alfano, Bersani, Casini) a CAG. Casini-Alfano-Grillo. Ve lo immaginate? Sarebbe una di quelle rocambolesche giravolte della politica italiana suggestionata, anzi no, terrorizzata, dalle urne. Non è fantascienza ma uno degli scenari che starebbe prendendo corpo a Parma, ex fortino Pdl, caduto in disgrazia per le vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ex sindaco Pietro Vignali. Al ballottaggio due candidati: Vincenzo Bernazzoli, Pd, e Federico Pizzarotti Movimento a 5 stelle. Evaporato il Pdl, inconsistente il centro, come ha dimostrato il posizionamento al terzo posto del suo candidato Elvio Ubaldi (lista civica e appoggio Udc), adesso sembra che l’obiettivo di quel che resta del centrodestra sia di non far arrivare primo il candidato Pd.
LA TENTAZIONE DEL CENTRODESTRA
«Al ballottaggio potremmo votare Pizzarotti. In fondo è lui la novità», ha detto Ubaldi l’altro giorno cogliendo di sorpresa non pochi elettori parmigiani. Ieri a domanda diretta ha risposto che no, indicazioni non ne dà, «non ho una posizione, però nei prossimi giorni mi vedrò con i miei e decideremo che fare». Insomma, si potrebbe decidere di appoggiare apertamente proprio il candidato grillino «ma anche no».
Il Pdl nicchia, ufficialmente «meglio fare una gita». Ufficiosamente giurano dal quartier generale di Bernazzoli «le cose stanno diversamente. C’è chi sta dando indicazioni di voto per Pizzarotti perché sanno che se vinciamo noi per un po’ possono dimenticarsi la guida di Parma». Filippo Berselli, coordinatore emiliano romagnolo del Pdl, se fosse un elettore di Parma andrebbe al mare, «non andrei a votare, tanto che non ho dato indicazioni». Certo, «non posso escludere che elettori Pdl preferiscano il candidato del Movimento 5 stelle, né posso lanciare un editto, ma a me come coordinatore l’unico ballottaggio che interessa è quello di Piacenza». Al punto che il coordinamento regionale l’ha fissato al sabato successivo al ballottaggio.
Da Roma l’onorevole Giorgio Stracquadanio opterebbe per una gita, «astensionismo, mi creda, ma non posso escludere che elettori del centrodestra vadano alle urne per sostenere Pizzarotti». Aggiunge: «Tuttavia mi chiedo quanti siano gli elettori Pdl, ormai è un partito morto. Sepolto. Non esiste più, anzi io lavoro perché esploda definitivamente, senza più leader, programmi, idee. A Parma poi è a meno del 4%, ma si rende conto?».
Vincenzo Bernazzoli guarda sì le macerie di quello che qui fino all’anno scorso era considerato un esercito invincibile, ma non nasconde le insidie: «Il loro tentativo dice è quello di far vincere il candidato del Movimento a 5 stelle sperando in una crisi di giunta al massimo fra un anno, il tempo che gli serve per cercare di riorganizzarsi». Riorganizzarsi e far dimenticare quella brutta storia di tangenti legate alla scuola, di assessori finiti sotto inchiesta, di cittadini arrivati sotto la sede del Comune a protestare con le pentole in mano. Tutto ancora troppo fresco nella memoria dei parmigiani, ma forse il tracollo di Pdl e Lega non si spiega solo così, forse è vero quello che dice Stracquadanio descrivendo senza troppi giri di parole quello che resta dei tempi andati. Un partito tenuto insieme dal suo leader indiscusso, Berlusconi, e sgretolatosi non appena il Capo si è fatto di lato, travolto dalla crisi di governo ed economica dalle olgettine, dalle Ruby di turno.
Cerca di spazzare lontano i dubbi Federico Pizzarotti: «Io non chiedo voti né al Pdl né all’Udc. Io chiedo il voto dei cittadini sulla base del mio programma. Niente apparentamenti, niente accordi in vista del ballottaggio». E se poi arrivano i voti anche da lì ben vengano. Intanto l’altra sera è stato al centro di una brutta polemica: su Facebook un utente con «avatar» col simbolo del Movimento 5 Stelle ha scritto «Bernazzoli sparati». E come se non bastasse sulla pagina dell'Associazione Gestione Corretta Rifiuti ne è comparso un altro il 17 marzo mai cancellato -non meno inquietante: «Chi appoggia Bernazzoli è peggio di un nazifascista». Bernazzoli ha denunciato la gravità di questi episodi e il candidato grillino ha preso le distanze e condannato le frasi contro il suo competitor. «Ho anche scritto al militante del Movimento 5 stelle racconta che peraltro non è di Parma, ma non mi ha risposto».
A sostenere Bernazzoli «nella sua azione di cambiamento», ieri è arrivato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che ha annunciato un asse tra Parma e Milano, in vista dell’Expo 2015, «una collaborazione intensa che porterà occasioni e sviluppo al territorio parmense».
il Fatto 13.5.12
“Matteo Renzi, il quaquaraquà”
di Lorenzo Conti
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera che Lorenzo Conti, figlio dell’ex sindaco di Firenze, Lando Conti (ucciso a 52 anni dalle Br, nel 1986), ha inviato al nostro giornale
Dieci febbraio 2011. A Firenze, nel “Salone dei Duecento”, si celebra il 25° anniversario dell’assassinio di mio padre Lando Conti (ex sindaco di Firenze) da parte delle Brigate Rosse – Partito comunista combattente. Alla presenza della famiglia, del Prefetto, delle cariche istituzionali della città e di tanti cittadini, il sindaco Renzi affermava: “Entro il 2012, un luogo simbolo di Firenze sarà intitolato alla memoria di Lando Conti... È dovere di questa amministrazione trovare un simbolo concreto in memoria di un fiorentino che amava la sua città e aveva voglia di proiettarla nel futuro, affinché la memoria non sia soltanto un optional di Firenze”. Bene, ormai sono passati 15 mesi e ancora non si è fatto niente e neppure si è iniziato a parlarne. Ancora oggi a Firenze, dopo 26 anni, a Lando Conti è intitolato uno squallido “largo” capolinea del bus n° 1 A. Era necessaria questa mancanza di rispetto al dolore altrui e alla figura di un uomo dello Stato? A cosa è servito tutto ciò? Non chiedo al sindaco Renzi delle eventuali spiegazioni né tantomeno pretendo delle scuse a noi figli, alle istituzioni e ai cittadini. Esigo però dal sindaco Renzi e, sottolineo ESIGO, il rispetto per la figura di un uomo che ha sacrificato la propria vita a difesa della Patria e delle Istituzioni. Tale rispetto lo deve a Lando e a noi figli, che in questi lunghissimi 26 anni abbiamo ascoltato soltanto tante, troppe promesse NON mantenute. Quindi, come diceva Sciascia ne Il giorno della civetta “Ci sono uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà”. Per quanto mi riguarda il Dott. Renzi è un “quaquaraquà” e questo deve essere portato a conoscenza di tutta la città. Colgo altresì l’occasione per ringraziare il Consigliere Comunale Marco Stella per aver richiesto al Consiglio Comunale l’intitolazione di una stanza all’interno di Palazzo Vecchio. Ecco la riprova di due volti e due concezioni di “Cultura dello Stato”.
il Fatto 13.5.12
L’armata cattolica si è dissolta
di Marco Politi
Si è persa per strada la riscossa cattolica annunciata con squilli di fanfare a Todi. Sette mesi dopo non c’è traccia di ripresa bianca nel microcosmo variegato delle elezioni comunali e provinciali. Anzi, molti esponenti anonimi, volonterosi e “normali” del Movimento 5 Stelle si sono impadroniti di temi antichi del cattolicesimo di popolo: risparmio, partecipazione, taglio delle prebende, etica di una buona amministrazione. La Chiesa italiana si dovrà interrogare un giorno sulle sue responsabilità nell’aver permesso che fosse logorato quello spazio “medio” del Paese, fatto di onestà e voglia di lavorare per il bene comune. In questi anni l’area moderata è stata distrutta dall’estremismo berlusconiano e leghista. E un ruolo non secondario nel tollerare la deriva verso lo sfascio è stata la copertura offerta al centro-destra dalla gerarchia ecclesiastica sotto la guida di Ruini. Al di là di qualche sporadica critica.
L’AREA moderata, quel ceto medio che costituisce il baricentro delle società occidentali, è stata distrutta dallo scardinamento del senso di legalità, dall’impoverimento delle famiglie – nonostante gli elogi all’istituto familiare usati per bloccare la legalizzazione delle coppie di fatto – dall’aver consentito alle imprese di creare precariato di massa, dall’aver lasciato decadere la scuola pubblica, dal non avere salvaguardato rigorosamente l’etica pubblica. Ora masse di uomini e donne in carne ed ossa, smarriti, arrabbiati, schifati, fuggono nell’astensione o usano il voto come grido di protesta o per indicare la prospettiva di una politica purificata. L’idea che il “soggetto cattolico” potesse ereditare il comando, approfittando del crollo del berlusconismo, svanisce in “quel cumulo di macerie” del moderatismo che Pier Ferdinando Casini ha avuto l’onestà di riconoscere. Se poi qualcuno fra i partecipanti di Todi – e ce n’erano – accarezzava il progetto di un movimento confessionale nuovo di zecca, può lasciare perdere. L’Italia resta bipolare. Dunque era motivata la prudenza del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, quando l’ottobre scorso in Umbria si attestò realisticamente sull’unica posizione possibile. Interloquire con la società così com’è. “La comunità cristiana – disse – deve animare i settori pre-politici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica”. Un approccio differente da certe frettolose indicazioni provenienti dal Vaticano, che pretendevano di decretare la fine della dispersione dei credenti nelle varie aree politiche per spingerli a una forzosa convergenza.
Il voto di maggio, invece, riconferma che i cattolici dividono il loro voto su tutto l’arco delle proposte elettorali. Da Pdl e Lega all’Udc, al Pd, ai partiti di Grillo, Vendola e Di Pietro. È un trend annunciato dalle inchieste sociologiche ripetutesi negli ultimi 15 anni. Soltanto che molti nella gerarchia ecclesiastica e fra gli aspiranti rifondatori di un cattolicesimo politico non ne hanno voluto testardamente tenere conto.
ANCORA nel dicembre scorso un’inchiesta Ipsos per conto delle Acli certificava che per il 61 per cento dei cattolici la propria coscienza prevale sulle indicazioni dei vescovi, mentre il 62 per cento ritiene che un’“organizzazione dei cattolici è sbagliata, non bisogna confondere religione e politica”. È tramontata perciò la prospettiva di un impegno dei movimenti cattolici nell’ambito socio-politico? Forse no. Piuttosto è mutato radicalmente lo scenario. Sepolta appare la stagione di un cattolicesimo politico guidato dai vescovi. Fuori dalla storia è la tendenza, tuttora perdurante in gran parte dell’associazionismo, di attendere l’imbeccata dalle gerarchie. L’unica strada percorribile appare quella del rischio e della responsabilità in prima persona. Come fanno i fedeli, che si danno alla politica negli Stati Uniti o in Francia, senza aspettarsi benedizioni dall’alto. Si apre lo spazio per movimenti che sanno mobilitarsi e mobilitare su tema precisi, unendo credenti e diversamente credenti. Come è stato il referendum sull’acqua, che ha visto lottare insieme l’associazionismo cattolico e laico. Lo stesso potrà o potrebbe accadere su questioni riguardanti il lavoro giovanile, il sostegno alla famiglia come nucleo sociale (nelle sue forme vecchie e nuove, senza fumisterie ideologiche), l’ambiente, la riforma dello Stato. Esistono sottotraccia nella galassia cattolica molte energie e idee. Il loro ruolo non è finito, a patto di rendersi conto che è finita l’epoca della delega. O delle timidezze. Come le Acli che hanno rinunciato a premere per il contratto d’ingresso prevalente per il lavoro giovanile.
Nelle urne gli italiani non si dividono più tra cattolici e non cattolici, ma in base alle richieste e alle proposte. Il “soggetto unico cattolico” è tramontato. Definitivamente. Resta la scena per tanti protagonisti cattolici. Se hanno qualcosa da dire. E magari evitano di ammantare di cristianesimo – come Formigoni e Cl – lobbismo e manovre di potere.
Corriere 13.5.12
Mondo cattolico, l'idea di una «Todi 2»
ROMA — Dopo il convegno di Todi dell'ottobre scorso, quando le reti cattoliche del mondo del lavoro, assieme alle associazioni, offrirono di fatto una piattaforma e, in gran parte, una premessa alla nascita del governo Monti, ora si parla di una «Todi 2». Lo scenario è però cambiato: tre protagonisti di quell'incontro (Passera, Riccardi e Ornaghi) sono diventati ministri, la Cisl si è riavvicinata a Cgil e Uil e anche la Chiesa non sembra più avere interesse a incoraggiare da vicino quell'esperienza. Il desiderio di continuare un discorso che non si limiti alla difesa dei valori ma abbracci anche il sociale e, quindi, si avvicini all'impegno politico, è però ancora vivo nelle sigle che affollavano il cartello di Todi. Anche se in modo frammentato. E si cercano nuovi punti di incontro. Il primo potrebbe essere, entro la fine di maggio, la pubblicazione di un «manifesto», il secondo dovrebbe riguardare un nuovo convegno per rilanciare il movimento. Ma all'interno delle associazioni si discute. Ieri il portavoce del Forum, Natale Forlani, in un'intervista a Radio Vaticana, ha sostenuto che il governo Monti «è un governo tecnico-politico», in quanto sostenuto dai parlamentari, «che inevitabilmente ha inserito un elemento di novità», ma anche di «disgregazione dei partiti». Non solo: «Ci si accorge che non è sufficiente ad affrontare i problemi strutturali del Paese: c'è bisogno di una nuova animazione politica». E spetta anche ai cattolici farsi avanti. Mentre sul Sole 24 Ore il presidente delle Acli, Andrea Olivero, invoca una «Todi 2» per «spingere il cambiamento dai territori» e sostiene che la «nuova fase» dei cattolici sarà caratterizzata da un «fiancheggiamento» di «chi rappresenta una novità, con grande libertà di interlocuzione con tutti» gli schieramenti.
l’Unità 13.5.12
Narcisisti, ma sbagliano pure il nome di Bakunin
di Toni Jop
«CON PIACERE ABBIAMO RIEMPITO IL CARICATORE», «IMPUGNARE UNA PISTOLA, SCEGLIERE, SEGUIRE... UN CONFLUIRE DI SENSAZIONI PIACEVOLI», «piombo nelle gambe», «imperituro ricordo»: qualcuno aveva scritto che la rivoluzione non è una passeggiata, nessuno aveva osato paragonarla ad un orgasmo. Men che meno l’aveva messa in pratica con la soddisfazione di chi “sente” di aver correttamente interpretato un manuale di piacere solitario. Ma loro l’hanno fatto, o almeno così scrivono, quelli del nucleo “Olga” (Fai-Fri), la sigla para-anarchica che si dichiara responsabile del ferimento di Roberto Adinolfi. Narcisismo e polvere da sparo: questa è la strada, annunciano gioiosi.
Intanto, per chi come noi ha seguito le comunicazioni ufficiali del vecchio terrorismo “di sinistra”, più che un documento, il loro messaggio pare una cartolina dalle vacanze. Teorizza poco e niente, trasmette un’appassionante esperienza. Cara mamma, qui è tutto bello, ho trovato la mia dimensione, avevi ragione tu, Stefania è una stupidina ma verrà il giorno... Il senso della scrittura sta un po’ qui. Solo che questo luminoso orizzonte di liberazione privato si attiva con grande esclusività se si delega l’iniziativa ad una risibile parte del corpo umano: l’indice, quello che, in genere, si incarica di premere il grilletto di una pistola. Quindi, con grande onestà, parte della cartolina viene impiegata per far sapere alla “mamma” quanto sia bello sparare. Lennon cantava «Happiness is a warm gun», la felicità è una pistola calda; ma non si riferiva all’attrezzo di morte che un giorno l’avrebbe bruscamente tolto dalla scena. Arrischiamo: neppure quelli dei Fai si limitano a rintracciare un freddo senso meccanico in una automatica madre di tutte le felicità. Molto lontani in questo dalla matrice anarchica che invocano e poi liquidano assieme agli anarchici di altre generazioni e componenti. Li accusano infatti di essere dei pavidi, li tacciano di «cittadinismo», di contribuire cioè «al rafforzamento della democrazia»: hanno scritto proprio così. Solenni, citano Bakunin, teorico dell’anarchia, come piace a loro, e cioè alla svelta, e lo battezzano “Michael”, lui che da buon russo non influenzato dalle anglicizzazioni on line, si chiamava Mikhail. Strafalcione o sgarbo? Che importa, se nella premessa epistolare si spingono a difendere «l’irrazionalità» dagli agguati del binomio «scienza-tecnologia»? Ma questa posizione che affida felicità e pistole calde al Caos, addolcito da un generico appello a «quant’è bell’a’natura», non appartiene forse al movimentismo anti-tecno dell’estrema destra? «Potevamo colpire alla ricerca del consenso», spiegano, ma non l’hanno fatto, sganciandosi così da un’economia dell’agire che considerano una maledizione. Confessano di aver scoperto che vincere la paura di impugnare una pistola rieccoci non è stato difficile. Ma non serve coraggio per impugnare un’arma che dà la morte; serve per deporla, per rinunciare a quel «piacere».
l’Unità 13.5.12
Prc, migliaia in piazza contro il governo
Adesioni anche da Sel e Idv
di Virginia Lori
In migliaia ieri hanno aderito alla manifestazione, contro il governo Monti e la politica europea, indetta dalla Fed di Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero, partita da piazza della Repubblica e conclusasi al Colosseo. Presenti anche rappresentanti dell’Idv e di Sel, tante bandiere rosse, i No Tav, rappresentanti dei sindacati di base e dei movimenti per la difesa dei beni comuni. Slogan contro Monti ma anche contro il Pd. «Oggi è un fatto storico: nasce l’opposizione sociale al governo Monti. In sei mesi abbiamo visto che abbiamo un governo didestra senza opposizione, che è peggio di un governo di destra ha detto Ferrero parlando dal palco -. Noi non cerchiamo uomini che fanno miracoli, il nostro miracolo è la gente che non piega la testa. Anche noi inquesti mesi abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta ma non è vero, le cose possono cambiare, bisogna crederci, è questo il messaggio di oggi: ce la si può fare. Da domani bisogna partire in tutti i Comuni a raccogliere la gente, dobbiamo costruire le lotte per mandare a casa il governo e cambiare la politica. Per farlo ha concluso il segretario del Prc proponiamo di costruire l’unità della sinistra, perché l’unità serve ad essere più forti. Bisogna smetterla di inseguire col cappello il Pd».
La proposta: una lista civica con Sel e Idv per mandare «a casa il governo Monti, amico dei finanzieri». Secondo Ferrero la grande affluenza in piazza «è un segno tangibile di quanto sia impopolare il governo Monti». Poi, l’invito «a tutte le altre forze della sinistra e in particolare Di Pietro e Vendola ad affrontare l’alternativa al governo Monti, che risponde solo ai poteri e alle esigenze dei forti».
Diliberto, leader del Pdci, ha ribadito il suo «no» al governo Monti perché ha sostenuto si tratta di un esecutivo «debole con i forti e forte con i deboli, con l’aggravante che a tanti muscoli si contrappone una totale inefficacia nel tentativo di risolvere i problemi del Paese, che sono anzi aggravati». Cesare Salvi, leader di Socialismo 2000, ha sottolineato che «il popolo unito della sinistra vuole superare il governo Monti, per intraprendere un’altra strada che tenga conto dei diritti dei lavoratori. Ci batteremo con forza per questo, anche grazie al successo di questa manifestazione».
il Fatto 13.5.12
Il Manifesto e la chiusura annunciata
Parlato: “È colpa della sinistra”
di Davide Vecchi
Questo è il momento più duro di sempre”. Cioè “dal 28 aprile del 1971, quando uscì il primo numero de Il Manifesto quotidiano”. Un “sempre” lungo 41 anni che il cofondatore Valentino Parlato ha vissuto tutti. Oggi è da solo. Non c’è più l’amico Lucio Magri, che lo scorso novembre ha scelto una clinica in Svizzera per una morte assistita; né Rossana Rossanda, compagna di lotte, vittorie e delusioni politiche, oggi “in esilio” a Parigi. Parlato è sempre qui. “I problemi ci tengono giovani”, sorride. E sembra vero, guardando questo 81enne con in mano una Marlboro sempre accesa. Anche ieri lui era in redazione. Non più quella storica in centro di via Tomacelli, lasciata quattro anni fa in un altro dei momenti di crisi del giornale, ma in quella a Trastevere, in via Bargoni, una stradina anonima che la domenica si trasforma nel mercato di Porta Portese.
Sono anni che il quotidiano più antico della sinistra radicale affronta difficoltà economiche, superandole tra campagne abbonamenti e sottoscrizioni, ma questa volta il rischio chiusura appare concreto. Nonostante ci siano in cassa 800 mila euro tra una settimana il quotidiano potrebbe non essere più in edicola: il giornale è in liquidazione e la gestione è nelle mani di tre commissari nominati dal ministero per lo Sviluppo economico lo scorso febbraio. Ogni mese i tre stilano una relazione sullo stato di salute del quotidiano. Quella di maggio non è andata per il meglio. Così venerdì i commissari hanno inviato in redazione un fax con oggetto “cessazione attività”.
Una “porcata, un gesto arrogante”, dice Parlato. “La crisi ci induce a precisare i nostri obiettivi, sicuramente saremo costretti a lasciare sul campo alcuni colleghi ma noi non molliamo”.
In redazione con Parlato ci sono appena una decina di giornalisti dei 45 in forza a Roma. Sembra di essere in un ufficio appena abbandonato. Percorrendo il corridoio si incrociano stanzoni vuoti, scrivanie senza computer, qualche scatolone e un carrello della spesa. “Stiamo liberando una parte di redazione per risparmiare sull’affitto”, spiega il direttore Norma Rangeri “perché una cosa è certa: noi siamo qui, restiamo qui e non molliamo”. Però certo, ammette, “siamo stanchi di vivere in stato di emergenza”. Venerdì prossimo ci sarà un incontro con i commissari. “Il braccio di ferro che stiamo portando avanti da mesi – spiega Benedetto Vecchi, componente del cdr – è sul come effettuare i tagli: diminuiremo l’organico ma vogliamo avere garanzie che siano usati gli ammortizzatori sociali adeguati”. E comunque andrà, ripete anche lui, “noi restiamo qui, possiamo anche occupare la redazione”. Le difficoltà si sono accentuate con i tagli ai fondi per l’editoria. Il Manifesto è passato da oltre 4 milioni di euro a riceverne poco più della metà. “Ma è un problema politico, viviamo una crisi della politica senza precedenti, non c’è più un partito né un esponente di sinistra in grado di rispondere alle richieste della società”. E i rottamatori? “Sono iperpolitica”. Mentre i grillini “sono una protesta ragionevole”. Ma “qui va rifatta una nuova sinistra, una nuova classe politica”, riflette Parlato. Poi alza lo sguardo verso Rangeri: “Anzi dovremo fare un editoriale, spiegare la situazione”... viene interrotto: nella stanza entra Vittorio Agnoletto “a portare solidarietà dice voi non potete chiudere”.
Repubblica 13.5.12
Parlato, uno dei fondatori: restiamo in edicola nonostante lo stop dei commissari liquidatori
"Il manifesto non si arrenderà mai noi comunisti utili per battere le crisi"
di U. R.
Siamo 70 tra giornalisti e poligrafici. Un po´ troppi, lo sappiamo. La riduzione è prevista e sarà concordata tra noi
ROMA - «Ma come si fa a chiudere il manifesto via fax? Un atto assurdo, irricevibile. Di dubbio valore legale. E infatti noi non lo riconosciamo».
Valentino Parlato, lotta dura senza paura ai tre commissari liquidatori?
«Gli accordi era altri. Andare avanti fino a settembre, e poi valutare insieme lo stato dell´arte. Invece ecco senza alcun preavviso materializzarsi il fogliettino, pochissime parole: dichiariamo cessata la vostra attività aziendale. Perfino su carta intestata del manifesto l´hanno confezionato, il fax tombale».
Il giornale che chiude se stesso. E voi?
«Mica ci arrendiamo. Ne abbiamo viste e superate di crisi, in quarantuno anni di esistenza, anche se questa è più brutta. Ci vogliono morti e invece il giornale continuerà a vivere. E´ la risposta alla serrata dichiarata dai tre liquidatori: il manifesto sarà regolarmente in edicola».
Rischiate che in via Bargoni si presenti qualcuno con i sigilli in mano?
«Sarebbe grottesco, ma certo tutto è possibile. Pure le guardie in redazione per chiuderci a forza».
Un piano pensato per mettervi a tacere?
«Non dico questo. Però è strana la spallata improvvisa. O quei tre semplicemente non sanno quel che fanno oppure è una prova di forza per costringerci a mettere mano ai licenziamenti. A questo punto, dobbiamo saltarli».
E in che modo?
«Rivolgendoci direttamente al ministero dell´Economia, al ministro Passera. Già domani forse avremo degli incontri. Rischiamo il paradosso di essere sopravvissuti all´era Berlusconi, al quale certo non dobbiamo dire grazie, e di morire al tempi dei Professori».
Però i vostri conti vanno male.
«Sì ma siamo in ripresa. 18 mila copie vendute, gli abbonamenti crescono, la rete di solidarietà resiste. L´altra sera a Perugia in poche ore abbiamo raccolto 3 mila euro. Lanceremo presto una sottoscrizione speciale».
E il finanziamento pubblico al vostro giornale, che è una cooperativa?
«Spero che finalmente qualcosa si muova, che il governo non tagli l´ossigeno, ma noi non possiamo toccare un euro. La gestione della cassa passa tutta quanta dai liquidatori, dalle penne agli stipendi».
Tagli?
«Siamo in 70, fra giornalisti e poligrafici. Un po´ troppi effettivamente, ma la riduzione è già prevista. Però valutando le singole situazioni personali, su base concordata, e con la cassa integrazione a rotazione per tutti. La crisi non è certo solo nostra, ma di tutta la stampa, e di quella di sinistra in particolare».
Non sarà colpa anche, come aveva suggerito pure la Rossanda, della vecchia etichetta "quotidiano comunista"?
«Rossana veramente non lo ha mai detto. La parola comunista non è un reperto archeologico, per me vale ancora come visione del mondo. Rimane uno strumento utile per tutta la sinistra. E Rossana, così come Luciana Castellina e tutto il gruppo dei fondatori del giornali, combatte strenuamente per la sopravvivenza del giornale».
Insomma il logo "quotidiano comunista" resta al posto suo, non si tocca.
«Esatto. Non mi pare del resto che la sinistra riformista se la passi tanto bene. Da noi le amministrative consegnano un quadro piuttosto cupo, anche se Bersani dice il contrario. Certo, il Pdl è crollato ma il Pd non è mica andato tanto bene. In Francia, vince Hollande ma la sinistra complessivamente non va avanti e c´è il boom Le Pen. Clima simile in Germania».
C´è ancora più spazio per un giornale radical?
«Ora più che mai, in questa stagione del governissimo, con pochissime voci fuori dal coro. E se spengono anche quella del manifesto...».
(u.r.)
Corriere 13.5.12
La politica interessa solo a tre italiani su dieci
Sei anni fa erano il 56%. E anche tra chi vota cresce la sfiducia nei partiti
di Renato Mannheimer
I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti.
Diversi esponenti politici avevano obiettato che, malgrado il consenso per l'insieme delle forze politiche si fosse costantemente ridotto, il supporto per i singoli partiti — ciascuno si riferiva in particolare al proprio — non aveva probabilmente subito un trend siffatto. I risultati delle elezioni hanno mostrato che le cose non stanno così. Ma lo hanno indicato, prima e dopo le consultazioni, anche le risposte ai sondaggi, che ci offrono una serie di indicazioni ulteriori a quelle emerse dal voto. Essi confermano ad esempio come anche la fiducia espressa per ciascun partito sia molto esigua. Ad esempio, dichiara di avere fiducia nel Pd, che è la forza che ottiene il maggiore livello relativo di consenso, solo il 16% dell'elettorato, mentre il 77% manifesta l'atteggiamento opposto. Naturalmente la maggioranza (67%) degli elettori di questo partito gli conferma il proprio supporto, ma ben un terzo di questi ultimi afferma invece di non nutrire fiducia.
Ancora più critica è la situazione del Pdl, verso il quale la fiducia espressa ammonta, nell'insieme dell'elettorato, al 9%, mentre assume un orientamento contrario l'85%. Anche in questo caso, la maggioranza (ma meno ampia, il 59%) dei votanti per Berlusconi e Alfano ribadisce il proprio consenso, ma il 40% degli stessi lo nega. Questi dati spiegano in larga misura il recente risultato elettorale negativo del Pdl, ma mostrano al tempo stesso come la crisi di questo partito perduri ben oltre il momento del voto.
Anche per le altre forze politiche, la grande maggioranza degli italiani esprime sfiducia. La forza in assoluto meno «gettonata» è, coerentemente con altre rilevazioni precedenti, la Lega. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatosi nelle ultime settimane. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico dal valore di 48,4 registrato lo scorso novembre al 25,5 di oggi.
A questo calo di fiducia complessiva corrisponde una altrettanto drastica diminuzione del livello di interesse verso gli avvenimenti politici. Anche questo è un trend in corso da molto tempo: sei anni fa, nell'aprile 2006, il 56% della popolazione dichiarava di essere in qualche misura («molto» o «abbastanza») interessato alla politica. Oggi questa percentuale si è drasticamente contratta, superando di poco il 30%, ciò che significa che il 70% degli elettori — era il 43% nel 2006 — afferma di non occuparsi di vicende politiche. Insomma, la politica è seguita oggi da meno di un italiano su tre. Appare relativamente più interessata la generazione di età centrale (35-55 anni), specie tra coloro che si collocano nel centrosinistra o nella sinistra tout court. L'interesse è poi notevolmente più alto (61%) tra i laureati.
D'altra parte, il calo di attenzione per la politica è percepito anche soggettivamente dagli stessi cittadini. Ben il 43% dichiara infatti di avere ridotto il proprio interesse per le tematiche politiche anche (per alcuni, specialmente) a seguito dei numerosi scandali che hanno coinvolto in questi mesi svariati partiti ed esponenti politici. Un fenomeno siffatto si è manifestato con particolare intensità tra i meno giovani, tra le casalinghe e, ovviamente, tra i meno partecipi politicamente.
Il quadro complessivo che emerge da questi dati è dunque assai critico. I risultati del primo turno della amministrative non sono che un segnale evidente del clima di opinione del Paese. Alla sfiducia nelle istituzioni — e nei partiti in particolare — corrisponde un senso di impotenza (e talvolta, ma in modo minoritario, di rabbia) tra i cittadini che finisce col tradursi nella scelta di forze politiche che «rappresentino» la protesta o, più spesso, in un disinteresse per quanto accade nel mondo politico che si traduce nell'astensione. E persino per il governo Monti — che ha assunto inizialmente l'immagine di reazione «tecnica» ai partiti tradizionali — si registra in queste settimane un drastico calo di consensi.
il Fatto 13.5.12
Siena strozzata dalla lotta (tutta) interna al Pd
Da una parte gli ex Margherita, dall’altra i “figli” dei Ds
Poltrone, nomine, soldi. Sullo sfondo c’è MPS
di Alessandro Agostinelli
Da un anno a Siena c’è un nuovo sindaco, Franco Ceccuzzi, ex-segretario dei Ds senesi ed ex-deputato Pd. Il 27 aprile scorso sette consiglieri comunali di maggioranza gli hanno votato contro sul rendiconto del consuntivo 2011. Non c’era niente che non andasse in quel bilancio. Il voto contrario è stato soltanto un avvertimento di una delle due anime del Pd senese, quella dell’ex-Margherita, controllata da Alberto Monaci, attuale presidente del Consiglio Regionale della Toscana. Adesso Ceccuzzi sa di poter contare con certezza solo su 13 voti, e non più 20, in un consiglio comunale di 32 membri.
I due politici sono andati a braccetto per tanti anni, ma adesso siamo arrivati alla resa dei conti. L’ex uomo forte della Dc senese (corrente De Mita), acquistò nel 1999 tramite la moglie Anna Gioia, la sede della Dc: 14 stanze in un palazzo signorile in piazza del Campo, 309 metri quadrati su due piani.
VALORE REALE dell’immobile circa 2 milioni di euro, prezzo per il fido democristiano 570 milioni di lire. Un bel risparmio, di cui il liquidatore nazionale Dc dell’epoca, Gian-franco Rotondi, disse di non sapere molto. Alberto Monaci è stato deputato Dc alla fine degli anni 90 e poi plenipotenziario della Margherita toscana. La moglie Anna Gioia, fisioterapista all’Asl locale, diventò consigliera comunale per la Margherita. Alessandro Pinciani, suo figlio di primo letto, è stato segretario cittadino del Ppi e della Margherita e adesso vicepresidente della Provincia di Siena. Mentre il fratello di Alberto, Alfredo Monaci, è stato vicepresidente della Sansedoni, la società immobiliare della Fondazione Monte dei Paschi, poi nel cda di Banca Monte dei Paschi, presidente di Biverbanca e di Mps Immobiliare spa e presidente di Fabrica Immobiliare Sgr. Ai tempi della Margherita, in Toscana, Alberto rappresentava gli ex Ppi e Alfredo i rutelliani: una spartizione di correnti intrafamiliare. Più di Rosy Bindi, sua avversaria storica, Alberto Monaci è il vero democristiano entrato nel Pd: di Sinalunga lei, di Asciano lui, due paesini della provincia senese. Gli ex-Ds di Siena, soprattutto con la segreteria di Franco Ceccuzzi, hanno fatto necessari patti con questa famiglia. L’accordo regge da oltre un decennio: Mussari presidente di Banca Monte dei Paschi (area ex-Ds) ; Gabriello Mancini (uomo di Alberto Monaci) alla Fondazione; Alfredo Monaci in Banca e in alcuni cda del Monte. Quando nasce il Pd, questo patto, che prima era tra due partiti (Ds e Margherita), diventa una convivenza interna a un partito solo, con molti mal di pancia degli ex-Ds. Poi in questi ultimi due anni, l’accordo Ceccuzzi-Monaci decreta la candidatura a sindaco di Ceccuzzi, senza primarie, e la carica di consigliere regionale per Monaci. Ed è proprio agli inizi del 2011 che si salda maggiormente questo ticket che prevede un avanzamento in tandem dei due politici senesi. Ad ogni scadenza Ceccuzzi e Monaci si siedono a un tavolo e trovano la quadra. Si mettono d’accordo nel voto per il segretario nazionale: Ceccuzzi fa votare Bersani ai suoi, Monaci fa votare Franceschini. Ma sul presidente della Regione Toscana e sul segretario regionale Pd i due decidono di votare e far votare all’unisono due ex comunisti: Enrico Rossi governatore; Andrea Manciulli segretario toscano. Alberto Monaci è fedele al patto, perché gli offrono la poltrona di consigliere regionale inserendolo nel listino del governatore Rossi che garantisce l’elezione sicura e poi da lì punta alla poltrona di presidente del Consiglio regionale. Ma si tutela, portando nel Consiglio comunale del sindaco Ceccuzzi sei suoi uomini.
Sono loro (assieme a un altro) che il 27 aprile scorso sparigliano il Comune di Siena, mettendo in minoranza Ceccuzzi. Perché? Perché Ceccuzzi, che ha rinunciato allo stipendio parlamentare per andare a fare il sindaco nella sua città, non vuole certo durare poco. Il suo problema oggi non è Alberto Monaci, ma i miliardi di deficit del Monte dei Paschi. Ceccuzzi sa che non si possono fare due mandati da sindaco con una situazione così grave del “babbo senese”, il Monte. Così, stavolta, decide da solo e senza sedersi al tavolo con Monaci lancia la ristrutturazione del Monte. Chiama Alessandro Profumo alla presidenza e salta la vicepresidenza del Monte promessa al fratello di Monaci, Alfredo. Gli ex-Ds esultano: “Finalmente ci togliamo dalle scatole i monacini”. Ma ci sono sei “monacini” che tengono appeso Ceccuzzi a un filo, in consiglio comunale. Alla pugnalata di Ceccuzzi, Monaci ha risposto con un’altra pugnalata, minacciando un trambusto nazionale.
LA GUERRA, che infuria mentre il Monte dei Paschi appare travolto dall'inchiesta sull'acquisto dell'Antonveneta, turba il Pd renale, mentre quello nazionale finge di non vedere. Il segretario Manciulli, in questi giorni, è spesso a Siena a chiedere buonsenso.
Il governatore Enrico Rossi, da parte sua, pochi giorni fa ha provato a buttare un po’ di acqua sul fuoco, nominando (dopo personaggi come Omar Calabrese o l’ex-rettore della Iulm di Milano, Marino Livolsi) un emerito sconosciuto come nuovo presidente del Core-com toscano: il signor Sandro Vannini, nel cui curriculum brilla solo un incarico di ufficio stampa alla Camera di commercio di Siena, ma anche l'amicizia di Alberto Monaci.
il Fatto 13.5.12
Il latte d’oro che Alemanno non vuole
Il sindaco di Roma svende l’Acea ma lascia la Centrale a Parmalat
di Daniele Martini
Il Comune di Roma è con l’acqua alla gola per il bilancio, ma se si mettono a confronto le storie parallele di due grandi aziende comunali, Acea (acqua e luce) e Centrale del latte, sembra che il sindaco Gianni Alemanno sia in preda a una specie di sindrome di dissociazione. Con l’Acea vorrebbe fare cassa vendendo ai privati il 21 per cento del capitale, scontentando gli industriali capitolini che con il loro presidente, Aurelio Regina, vorrebbero di più, e nello stesso tempo sfidando 1 milione e 200 mila romani che nel referendum avevano detto che l’acqua doveva restare pubblica. Sempre con l’Acea il sindaco, però, spende e spande per i manager, con compensi fuori quota, come ha rivelato Repubblica: 842 mila euro all’anno al direttore Paolo Gallo più appartamento al residence Aldrovandi da 4.300 euro al mese, 476 mila all’amministratore Marco Staderini, oltre 400 mila al presidente Giancarlo Cremonesi, 2 milioni ai 7 dirigenti di vertice.
NELLO STESSO tempo con la Centrale del latte, che un paio di mesi fa è potenzialmente tornata di proprietà comunale, Alemanno non sa o non vuole far valere neppure i diritti di possesso che gli sono stati regalati su un piatto d’argento da una sentenza del Consiglio di Stato. Pur accogliendo a parole con favore la sentenza e pur sapendo che la Centrale sarebbe manna per il bilancio, essendo un pezzo economico pregiato, una delle poche aziende sane della capitale, con un patrimonio del valore di oltre 100 milioni di euro e un attivo di bilancio di circa 18 milioni.
Dopo che il 20 marzo i giudici amministrativi avevano deciso che la vendita di 14 anni prima della Centrale ai privati era nulla e che quindi il proprietario legittimo restava il Campidoglio, Alemanno avrebbe dovuto semplicemente far valere il diritto di proprietà all’assemblea degli azionisti riunita per l’approvazione del bilancio. Ma non lo ha fatto. Invece di presentarsi all’appuntamento, quella mattina il sindaco ha preferito partecipare all’imperdibile congresso del sindacato di destra Ugl, un tempo diretto da Renata Polverini.
Alemanno ha delegato due suoi rappresentanti, ma entrambi, chissà perché, sono arrivati fuori tempo massimo, con un’ora di ritardo, quando era già tutto bello e impacchettato, il bilancio approvato, distribuiti i dividendi e rieletto il Consiglio di amministrazione.
IN ASSENZA di contestazioni, la Centrale è rimasta a Parmalat che a buon diritto ha fatto valere il suo 75 per cento circa. Per il Comune di Roma è stata una figuraccia storica. E ora è lecito chiedersi perché con la Centrale Alemanno è indecisionista estremo e con l’Acea decisionista per l’incasso? L’impressione è che la sua bussola più che gli interessi della città, segua quelli delle lobby: favorevoli alla vendita nel caso dell’Acea, propense al mantenimento delle cose come stanno con la Centrale. Pur di non rivendicare titoli sulla Centrale, Alemanno si sottrae perfino al diritto-dovere di dare seguito ad una sentenza arrivata a conclusione di una complicata vicenda cominciata ai tempi di Francesco Rutelli sindaco, con la vendita a Sergio Cragnotti. I termini della transazione risultarono subito assai dubbi e dopo molte vicissitudini la Centrale alla fine passò a Parmalat, la multinazionale poi saltata a gambe all’aria per le scorrerie finanziarie di Cali-sto Tanzi, ma restata valida da un punto di vista industriale. Con la cura Parmalat, la Centrale romana è cresciuta e neanche il passaggio ai francesi di Lactalis ha cambiato le cose.
Di fronte al risanamento avviato e in presenza di un complicato contenzioso giudiziario in corso, in passato più volte Alemanno aveva manifestato la volontà di chiudere la partita una volta per tutte con un accordo con Parmalat fuori dai tribunali. Ma se ne è sempre dimenticato. La recente sentenza del Consiglio di Stato lo ha completamente spiazzato, costringendolo a diventare una sorta di asino di Buridano del Campidoglio tra Acea privata e Centrale del latte rifiutata.
il Fatto 13.5.12
Marcia per la vita
Cattolici e fascisti col patrocinio del Comune di Roma
I cattolici accanto a Militia Christi e Forza Nuova, con tanto di patrocinio del Comune di Roma. In un clima teso, sfila oggi per le vie di Roma la “marcia per la vita”, la manifestazione anti-aborto organizzata dall’Associazione Famiglia Domani e dal Movimento Europeo Difesa Vita. L’iniziativa intende “deplorare l’iniqua legge 194 che ha legalizzato l’uccisione di 5 milioni di innocenti”. E il Campidoglio ci ha messo il cappello. Anzi, il sindaco Alemanno ha annunciato la sua partecipazione. Decisioni che hanno suscitato le polemiche dei Radicali e del Pd. All’alba di ieri, ad opera degli attivisti per i diritti della donna, Roma si è riempita di cartelli a favore dei consultori.
Repubblica 13.5.12
Quei tremila primari di troppo "Uno su sei perderà l´incarico"
Piano di tagli del Ministero. Campania: 800 in eccesso
di Michele Bocci
L´indicazione riguarda anche i responsabili di "strutture semplici"
La Cgil: "È inaccettabile l´azzeramento automatico di tante strutture"
UN INCARICO di prestigio e responsabilità. Il nome fuori dal reparto, la fama che porta clienti in libera professione ma anche la difficoltà di organizzare l´attività dei propri medici tra tagli alla sanità e pazienti sempre più battaglieri. Sui primari si abbatterà un riduzione senza precedenti. Per ministero e Regioni quasi 3mila sono da eliminare.
Ad indicare la strada è un documento del comitato che valuta gli standard organizzativi di Asl e ospedali composto da esperti di Regioni e ministeri della salute e dell´economia. Intanto si individua il numero di primariati adesso presenti nelle varie Regioni: 19mila. Ci sono quelli ospedalieri come la chirurgia o la medicina interna (12mila) e quelli territoriali, cioè gli uffici di igiene, i servizi contro le dipendenze, la psichiatria ed altri ancora. I tecnici dettano quali criteri seguire: un primario ospedaliero deve avere almeno 17,5 letti, uno territoriale deve lavorare su un´area dove vivono almeno 13.500 persone. Le Regioni si metteranno in regola tagliando circa 1.100 responsabili delle unità operative degli ospedali e 1.800 di coloro che lavorano fuori. Per farlo andranno preparati, ad esempio, piani per non sostituire il primario che va in pensione e accorpare il suo reparto ad un altro. Del resto già oggi ci sono moltissime unità operative, anche più del 20% del totale, dirette da un facente funzioni in attesa che si svolga il concorso.
La stretta riguarda anche i direttori delle "strutture semplici", cioè medici responsabili di settori particolari dei reparti che però non sono primari. In Italia ce ne sono la bellezza di 35mila, di cui 15mila vanno tagliati.
Nel documento, che parla di «finalità di contenimento dei costi» e razionalizzazione, si spiega che le 8 Regioni con piano di rientro per i conti in rosso (Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) devono emanare entro il 31 dicembre 2012 direttive per «contenere il numero delle strutture semplici e complesse (i reparti, ndr) entro i limiti previsti dagli standard». Qualcuno si sta già muovendo. Nel Lazio che ha 241 primari più del previsto, il San Filippo Neri di Roma ha comunicato la soppressione di 6 strutture complesse e 54 semplici, come spiega Stefano Mele della Cgil. Alle Regioni che invece hanno bilanci a posto «ai fini della verifica degli adempimenti, a partire dal 2012 sarà chiesto di relazionare in merito alle iniziative adottate ai fini di adeguamento graduale ai predetti standard». Non c´è un termine perentorio ma l´indicazione di mettersi comunque in regola. Chi faticherà più di tutti è la Campania, che ha la bellezza di 795 primariati di troppo. La Lombardia invece rispetta già i canoni e anzi teoricamente dovrebbe assumere.
Massimo Cozza, segretario di Cgil medici, ha studiato attentamente i dati. «È inaccettabile l´azzeramento automatico di migliaia di strutture con criteri ragionieristici, senza tenere conto delle prestazioni essenziali per i cittadini e senza un confronto sindacale», attacca. Cozza riconosce comunque la necessità di alcune razionalizzazioni. «Certamente non sono più tollerabili unità operativa complesse con pochi letti, come accade nei policlinici universitari, né che la maggioranza dei medici di qualche reparto abbia incarichi di struttura semplice a discapito economico e professionale di altri colleghi che fanno lo stesso lavoro. Non vorremmo inoltre che per salvaguardare le baronie si lascino in vita piccole strutture, aumentando i numeri di altre per rispettare la media di 17,5 letti a primario». Giovanni Monchiero, presidente di Fiaso, la federazione delle Asl, dice: «Può darsi che ci siano troppi primari. In qualche caso si è cercato di accontentare le persone più che organizzare in modo opportuno gli ospedali. Non bisogna però attaccare la categoria, che ha qualche privilegio e grandi responsabilità». Monchiero punta il dito verso i policlinici. «Con la necessità delle facoltà di Medicina di dare posizioni apicali ai professori si sono creati molti reparti. Per risparmiare davvero bisognerebbe fare un´altra cosa: tagliare gli ospedali».
l’Unità 13.5.12
Femminicidio
Delitti di genere. Le donne vengono uccise proprio in quanto donne
Al di là della polemica sull’uso del termine che indica l’uccisione delle «femmine», madri, figlie, mogli e fidanzate vengono ammazzate perché hanno detto «no»
di Grazia Basile
LE AGGHIACCIANTI CRONACHE DEGLI ULTIMI MESI E DEGLI ULTIMI ANNI RIGUARDO ALL’UCCISIONE DI DONNE DI QUALSIASI ETÀ, PROVENIENZA, STRATO SOCIALE ECC... NON LASCIA SPAZIO A DUBBI: più di 56 donne uccise in Italia dall’inizio del 2012 ad oggi, 137 uccise nel 2011 e 127 nel 2010 (per limitarci agli ultimi due anni e mezzo) mettono tutti noi davanti a un dato di fatto, ossia che il femminicidio rappresenta in Italia un’emergenza sociale che non può (e non deve) più essere ignorata. A questo proposito Se non ora quando, Loredana Lipperini e Lorella Zanardo il 27 aprile scorso hanno lanciato un appello dal titolo «Mai più complici» che in pochissimi giorni ha raccolto sul web una mole di firme che, per quantità (finora sono oltre 38mila) e qualità, ha innescato ci auguriamo un profondo cambiamento culturale. L’appello è stato firmato da rappresentanti del mondo politico, della cultura, dello spettacolo ecc. (da Rita Levi Montalcini a Suor Rita Giarretta, da Giuliano Amato a Ernesto Galli della Loggia, da Roberto Saviano a Luca Sofri, dalla FIGC a Josefa Idem, da Gianna Nannini al giovane rapper Mirko Kiave), ma soprattutto da donne e uomini mossi dall’intento di dire «basta» alla violenza contro le donne e a qualsiasi sistema culturale che preveda che le donne siano oggetti a disposizione degli uomini, senza alcuna possibilità di decidere liberamente della propria vita. Si è aperta insomma una discussione importante, che ha coinvolto figure autorevoli e la lingua è stata tirata in ballo in vario modo, innanzi tutto nell’uso del termine femminicidio.
Ad alcuni questo termine non piace: Isabella Bossi Fedrigotti, ad esempio, sul Corriere della sera del 30 aprile 2012 dichiara espressamente di non gradire il termine femminicidio in quanto evoca una «vaga intenzione di svilimento se non di disprezzo». La ragione di ciò è probabilmente legata al fatto che femminicidio deriva direttamente da femmina, vocabolo a sua volta derivato dal latino femina a indicare l’«essere di sesso femminile» (in opposizione a quello di sesso maschile) per riferirsi sia agli esseri umani che agli animali, cosa che ha fatto sì che già in latino a femina fosse associata una connotazione negativa.
Nella lingua italiana però, nonostante la connotazione negativa che si può associare alla parola femmina, il neologismo femminicidio a seguito, purtroppo, di questa tragica escalation di omicidi rivolti contro le donne sta prendendo sempre più piede al punto che, se lo si digita su Google (rilevazione del 12 maggio 2012), viene fuori un numero di occorrenze pari a circa 335.000. Questo accade perché come diceva il poeta latino Orazio si volet usus, ossia è l’uso a regolare le nuove acquisizioni e il venir meno di alcuni vocaboli.
Le parole terminanti con l’elemento -cidio non lasciano spazio ad ambiguità: vogliono dire «uccisione», in particolare «uccisione di una persona», così che si va dal vocabolo più generico omicidio («uccisione di una o più persone») ai più specifici genocidio, parricidio, fratricidio, infanticidio ecc. Per quanto riguarda le donne, in particolare, abbiamo matricidio «uccisione della propria madre», sororicidio «uccisione della propria sorella» e uxoricidio «uccisione della propria moglie», che in uso estensivo vuol dire anche «uccisione del coniuge», manca però un vocabolo specifico per «uccisione del proprio marito» (sarà un caso?).
La cronaca ci mostra che non vengono uccise solo madri, sorelle o mogli, ma anche figlie, fidanzate o ex fidanzate, conviventi o ex conviventi, ecc. e poi, fuori dall’ambito parentale, il ventaglio si allarga ancora. Spesso la colpa di queste donne è stata quella di aver trasgredito al ruolo imposto loro dalla cultura di appartenenza, in sostanza di essersi prese la libertà di decidere che cosa fare della propria vita, di aver detto qualche deciso «no» al proprio padre, marito, amante ecc... e per questo sono state punite con la morte. Ciò che accomuna tutte queste donne è che vengono uccise come è riportato sotto la voce femminicidio in Wikipedia in quanto appartenenti al genere femminile. Si tratta di delitti di genere dunque, con una loro specificità.
Negli ultimi anni si è iniziato a parlare di femminicidio (in spagnolo femicidio) negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez (città al confine tra Messico e Stati Uniti), dove dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 sono state stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate. In Italia il termine femminicidio ha iniziato a circolare in riferimento alle cronache di Ciudad Juárez e analogamente, in lingue a noi vicine, si sono diffusi termini simili (in inglese femicide, in francese fémicide, in tedesco feminizid) ad indicare come si è detto un delitto con una sua specificità di genere.
Il problema non è tanto nella scelta del termine da usare non sta a nessuno di noi, presi singolarmente, decidere la fortuna di un termine piuttosto che di un altro ma nell’acquisire innanzi tutto la consapevolezza della specificità di genere di questi efferati delitti. Per quanto riguarda la lingua, è e sarà soprattutto l’uso di cui parlava Orazio a sancire o meno il triste ingresso del termine femminicidio nell’italiano, a condizione che si diffonda nella coscienza di tutti i cittadini e le cittadine italiane la consapevolezza che non siamo di fronte a omicidi generici, ma a omicidi contro le donne «in quanto donne», dunque a omicidi di genere.
l’Unità 13.5.12
Le piccole mamme
Storie di adolescenti che restano incinte
di Paolo Calcagno
Sul canale Babel di Sky, dedicato ai «nuovi italiani»
da stasera un docu-reality in 10 puntate su una realtà in crescita
LA STORIA INIZIALE CI RACCONTERÀ DI EYVERIN, ECUADORIANA MAMMA A 15 ANNI; POI, VEDREMO LE STORIE DI JOANNE, FILIPPINA MAMMA A 17 ANNI; CHARLY, IVORIANA MAMMA A 17 ANNI; GIOVANA, PERUVIANA MAMMA A 17 ANNI. Piccole mamme crescono andrà in onda ogni domenica, a partire da stasera, alle 21, su Babel (canale 141 di Sky), e in 10 puntate approfondirà il tema de «Le nuove italiane e l’esperienza della maternità in età adolescenziale». Il docu-reality è firmato da Beatrice Coletti che è anche direttore di Babel, il canale televisivo che dal novembre del 2010 offre a 5 milioni di immigrati (i «nuovi Italiani») «una finestra aperta sulle storie delle principali comunità di stranieri che vivono nel nostro Paese».
SOTTOVALUTAZIONE
«Abbiamo deciso di realizzare Piccole mamme crescono per raccontare una realtà poco conosciuta in Italia commenta Beatrice Coletti -. In altri Paesi il fenomeno delle madri adolescenti è sicuramente più diffuso e riceve una maggiore attenzione dai media. In Italia, spesso, il fenomeno è sinonimo di una differenza socio-culturale e di “baby mamme” se ne parla poco. Durante le riprese del programma siamo rimasti stupiti perché, oltre alla questione della maternità, sono emersi temi che non immaginavamo, come il punto di vista sulla cittadinanza delle mamme teenager e sul futuro anche “giuridico” dei loro figli. Tutto ciò ci fa riflettere sul futuro che attende i bambini nati in questo periodo: la terza generazione di “nuovi italiani”».
Il programma (scritto da Elena Parati, per la regia di Gisella Bianchi e Monica Onore) è stato ispirato da «Piccole mamme», il rapporto di Save The Children sulle mamme adolescenti in Italia, secondo il quale, nel 2008, le «baby mamme» nel nostro Paese erano oltre 10.000, di cui il 18% di origine non italiana. «È un’ incidenza quantitativamente circoscritta che merita però un’attenzione particolare per la rete di persone che coinvolge, figli, madri, padri, le famiglie dei genitori, e per le cause che ne stanno all’origine aggiunge la direttrice di Babel -. Partendo dallo studio di questa statistica Piccole mamme crescono intende dare un volto e una voce ad alcune di queste giovani e raccontare il contesto in cui avvengono le loro scelte di maternità».
Il docu-reality di Babel, realizzato interamente nell’area di Milano, si propone anche di verificare se l’incontro degli usi e costumi dei Paesi di origine con le abitudini di vita italiana può aver contribuito a trasformare delle adolescenti in «piccole mamme».
«Ogni puntata ha inizio quando la gravidanza e la nascita del bambino sono già avvenute e le giovani mamme stanno vivendo l’esperienza dell’accudimento e della crescita del piccolo spiega la Coletti -. Conosceremo, inoltre, tutte le figure fondamentali nella vita delle “baby mamme”: il papà del bimbo e la sua famiglia, la famiglia della ragazza, gli amici, gli insegnanti, i datori di lavoro, gli operatori sociali e i medici».
CONFRONTO FRA CULTURE
Il programma vuole far riflettere su come l’impatto culturale che affrontano i giovani venuti in Italia per vari motivi, tra i quali il ricongiungimento familiare, possa influenzare le loro scelte, come conferma Arianna Saulini, responsabile Advocacy di Save the Children Italia-Europa: «La tendenza occidentale a protrarre l’età per diventare genitori, la rappresentazione culturalmente adeguata che una gravidanza va scelta in modo consapevole, il ruolo genitoriale e materno, sono impliciti nel nostro modo di operare scelte personali e professionali».
«In altre culture, invece, aggiunge Arianna Saulini vi sono altre rappresentazioni della genitorialità e altre idee socialmente condivise sui tempi della gravidanza. Inoltre, gli eventi migratori che generano fratture nella continuità fra le generazioni e i ricongiungimenti in età adolescenziale sono spesso connotati da ambivalenze profonde e da conflittualità. Il programma di Babel Piccole mamme crescono rappresenta in maniera accurata uno scenario di maternità complesso con un taglio centrato sulla giovane mamma di origine non-italiana, che contestualmente ai problemi di essere una mamma “teen”, purtroppo, deve affrontare anche quelli dell’integrazione nel nostro Paese».
il Fatto 12.5.12
I blog non sono “stampa clandestina”
I blog non sono assoggettabili alla legge sulla stampa del 1948, in particolare non hanno l’obbligo di registrarsi presso il tribunale come testata giornalistica, a meno che non ricevano finanziamenti pubblici. Lo ha stabilito la III sezione della Corte di Cassazione (presidente Saverio Felice Mannino) con la sentenza storica che ha assolto con formula piena (“il fatto non sussiste) il blogger siciliano Carlo Ruta, che era stato condannato in primo e in secondo grado per il reato di stampa clandestina. “È la fine di un incubo iniziato sette anni fa”, ha commentato Ruta. La sua vicenda nasce infatti da una contrapposizione fra Ruta, che è storico e saggista, e l’allora procuratore della Repubblica di Ragusa Agostino Fera. Ruta ha criticato il modo in cui Fera, 40 anni fa, condusse le indagini su due omicidi compiuti a Ragusa a distanza di pochi mesi: l’assassinio dell’ingegnere Angelo Tumino, recentemente archiviato, e l’assassinio del giornalista Giovanni Spampinato. Fera ha trascinato Ruta in Tribunale e lo ha fatto condannare per diffamazione. Inoltre anni fa ha
chiesto e ottenuto l’oscuramento del blog in cui Ruta scriveva i suoi commenti. Dalle richieste del procuratore offeso è nata anche la contestazione del reato di stampa clandestina. Poiché il blog è periodicamente aggiornato, era la tesi accusatoria, il blog è un giornale soggetto alla legge sulla stampa. Tesi accolta nel 2008 dal giudice Patricia di Marco del Tribunale di Modica e il 2 maggio 2011 dalla Corte d’Appello di Catania, che hanno condannato Ruta a 150 euro di multa. Ieri, infine, l’assoluzione. La condanna di Ruta aveva creato una sollevazione di protesta dal mondo dei blogger, che ora possono tirare un respiro di sollievo. “Si tratta di una sentenza importante e che stronca sul nascere qualsiasi tentativo di tornare a colpire nel futuro blog e siti” afferma, in una nota, il portavoce di Articolo21 Giuseppe Giulietti. “È una sentenza – commenta invece l'associazione Agorà Digitale – che deve far riflettere sulla giusta tutela della stampa non professionale e sulla necessità di garantire un’ampia circolazione dei contenuti su Internet”.
Corriere 13.5.12
Da Mao a Bo Xilai: quando la resa dei conti è spettacolo pubblico
di Ian Buruma
La Cina sta vivendo un'epoca assai interessante: di recente un alto funzionario del partito comunista è stato esautorato con l'accusa, tra l'altro, di aver fatto intercettare alcuni politici, tra cui il presidente cinese. La moglie del politico caduto in disgrazia è lei stessa sotto indagine per l'assassinio di un uomo d'affari inglese. Nel frattempo, il dissidente cieco Chen Guangcheng si sottrae agli arresti domiciliari e trova rifugio nell'ambasciata americana a Pechino, per abbandonarla solo quando le autorità cinesi minacciano di uccidere sua moglie. Malgrado i fittissimi reportage mediatici apparsi negli ultimi giorni su questi avvenimenti, è davvero sorprendente quanto frammentarie siano le informazioni giunte fino a noi. Pare che la salma dell'imprenditore inglese sia stata cremata ancor prima che arrivasse la richiesta dell'autopsia. Inoltre, non è stata finora confermata ufficialmente nessuna delle voci scandalose che si rincorrono sul conto della moglie del politico e i motivi della rovina politica del marito restano avvolti nel mistero. Le cose, in Cina, diventano sempre interessanti in vista del Congresso nazionale del popolo, nel corso del quale vengono annunciati i nuovi leader del partito. I cambiamenti al vertice della leadership, in gran parte delle democrazie, sono un processo relativamente trasparente, a seguito di elezioni nazionali. Certo, anche nelle democrazie più aperte sussistono giochi di potere e scambi di favori dietro le quinte. È un fenomeno che si riscontra di frequente nell'Est asiatico, vedi il Giappone, ma in Cina tutto si svolge lontano dallo scrutinio dei cittadini. Siccome i leader non possono essere dimissionati attraverso le elezioni, ecco che occorre scovare altri sistemi per risolvere i conflitti politici. Talvolta questi sistemi si traducono in spettacoli pubblici attentamente orchestrati. La caduta di Bo Xilai, già leader del partito a Chongqing, rientra sicuramente in quest'ultima categoria. Populista carismatico e di bell'aspetto, nato nell'élite del partito, Bo si era fatto una reputazione di leader intransigente, i cui metodi per contrastare la criminalità organizzata erano spesso al di fuori dei dettami della legge. L'ex capo della polizia di Bo, che a quanto pare ha fatto il lavoro sporco, ha causato non poco imbarazzo al partito comunista andando a rifugiarsi nel consolato americano a febbraio, dopo aver litigato con il suo protettore. Malgrado la nostalgia di Bo per la retorica maoista, il nostro è un uomo ricchissimo. Lo stile di vita dispendioso del figlio, quando ha studiato nelle università di Oxford e Harvard, è stato illustrato in tutti i particolari dalle cronache mondane. In altre parole, Bo Xilai aveva tutte le caratteristiche di un gangster: corrotto, spietato verso i nemici, sprezzante della legge, ma nel contempo amava presentarsi come paladino della moralità. Lo stesso, tuttavia, potrebbe dirsi di quasi tutti i leader politici cinesi. Tutti sembrano disporre di molti più soldi rispetto ai loro compensi ufficiali; gran parte di loro hanno figli che studiano presso costose università inglesi e americane, e tutti si comportano come se fossero al di sopra delle leggi che vincolano i comuni cittadini. L'aspetto più insolito di Bo era la sua ambizione dichiarata. I politici cinesi, come quelli giapponesi, e come i boss della mafia, a quanto pare, nascondono con discrezione la loro sete di potere. Ma Bo si comportava piuttosto come un politico americano, gli piaceva farsi notare in pubblico, e forse questo è bastato a infastidire altri politici. Nell'impossibilità di gestire con discrezione tanta faziosità all'interno del partito, forse i suoi rivali hanno capito che era venuto il momento di scaricare Bo. E il metodo migliore, in Giappone come in Cina, per sbarazzarsi di rivali pericolosi è quello di disonorarli attraverso scandali pubblici, grazie a soffiate a media compiacenti. E un fenomeno molto comune in Cina, in questi scandali pubblici, è la figura della moglie malvagia. Quando Mao Zedong eliminò il suo superiore nel partito, Liu Shaoqi, durante la Rivoluzione culturale, la moglie di Liu venne fatta sfilare per le strade con palline di ping pong appese al collo, come simbolo di infamante bizzarria e decadenza. Alla morte di Mao, la moglie Jiang Qing fu arrestata e presentata in pubblico come una nuova Lady Macbeth. È possibile che le pesantissime imputazioni di omicidio mosse contro la moglie di Bo, Gu Kailai, facciano parte di questo teatro politico. E difatti la caduta di Bo non coinvolge solo la moglie, ma tutta la sua famiglia. E anche questa è una ben nota tradizione cinese. La famiglia deve accollarsi la responsabilità dei crimini commessi dall'individuo. Ma sul versante opposto, quando l'individuo riscuote successo, anche la famiglia ne trae cospicui vantaggi, come si è visto nel caso di molti parenti di Bo e di sua moglie, le cui imprese hanno prosperato mentre Bo era al potere. Non sono mancate le speculazioni sulle conseguenze della scomparsa di Bo dalla scena politica, e ci si è spinti a ipotizzare un qualche nesso con la rocambolesca fuga dell'attivista Chen Guangcheng. La sua richiesta di asilo nell'ambasciata americana rischia di inasprire l'atteggiamento dei leader cinesi? Costringerà Washington a essere più intransigente sul rispetto dei diritti umani in Cina? E se così è, che cosa accadrà? Considerando il fatto che Bo Xilai si è presentato come un critico populista del capitalismo cinese contemporaneo, e un sostenitore autoritario dell'etica maoista, i suoi nemici naturali nella leadership del partito sono senz'altro i capi più «liberali», favorevoli cioè al libero mercato e persino all'introduzione di qualche riforma politica. Il premier in carica, Wen Jiabao, pare essere il leader di questa fazione. Nei suoi discorsi, si è espresso a favore delle riforme democratiche e ha criticato apertamente Bo, mentre Chen Guangcheng gli ha chiesto di indagare sugli abusi subiti da lui e dalla sua famiglia per mano di Bo. Ci si chiede pertanto se la caduta di Bo Xilai condurrà a una società più aperta, meno ostile alle voci dei dissidenti. Si potrebbe sostenere che i comunisti cinesi a favore di un'economia liberale siano anche più propensi a spianare la strada verso una società più aperta. Ma anche il contrario potrebbe essere vero. Più grande si fa il divario tra ricchi e poveri, più si diffonde la protesta popolare contro le disuguaglianze sociali e più il regime tenterà di imbavagliare i dissidenti. Queste azioni repressive non hanno lo scopo di proteggere il comunismo, né quel poco che resta del maoismo. Al contrario, devono proteggere il capitalismo, quello introdotto dal partito comunista cinese. Per questo motivo, forse, Bo doveva essere spodestato, e per questo motivo certamente i dissidenti come Chen — con le loro famiglie — sono vessati al punto tale che cercar rifugio in un'ambasciata straniera appare ai loro occhi come l'ultimo, disperato tentativo di salvezza.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
Repubblica 13.5.12
Algeria, la rivoluzione rosa nel nuovo Parlamento il 30 per cento di donne
Ma gli islamici denunciano brogli. Onu: più trasparenza
Le deputate diventano 148 mentre cinque anni fa erano poche decine
di Fabio Scuto
Nella fretta di dare un nome a una vittoria che nessuno s´aspettava, in Algeria l´hanno chiamata la "rivoluzione rosa", perché l´Assemblea Nazionale uscita dalle urne del gigante del Maghreb ha il più alto numero di deputate di tutta la regione. Grandi feste e celebrazioni per la vittoria dell´alleanza presidenziale (Fln e Rnd) nelle delicatissime legislative, dove due partiti della vecchia maggioranza hanno tenuto e conquistato seggi (220 il Fronte di liberazione nazionale e 68 per gli alleati dell´Rnd, su un totale di 462), che consentono loro di potere rivendicare la continuità nella guida del Paese. Bruciante sconfitta per i tre partiti islamici dati per favoriti che uniti nella "Alleanza verde" speravano di strappare la maggioranza e prendere in mano le redini del governo, in un paese che non ha mai cessato da vent´anni di essere minacciato dall´islamismo armato di marca jihadista, che invece hanno conquistato solo 48 seggi. Denunciano brogli le formazioni islamiche, ma per i 500 osservatori stranieri invitati dal presidente Abdelaziz Bouteflika - Nazioni Unite, Ue, Lega Araba e Ua - il voto si è svolto sostanzialmente in maniera corretta, anche se il capo della missione dell´Onu, Josè Ignacio Salafranca, ha suggerito per il futuro «una maggiore trasparenza nello spoglio».
Per le donne algerine impegnate nella difficile realtà politica di un Paese che non è mai uscito dall´incubo del terrorismo è stato un vero e proprio successo, nell´Assemblea siederanno in 148 su 462 parlamentari, oltre il 30% degli eletti è donna. Un record nella storia del paese nord-africano, dove le parlamentari dell´ultima legislatura nell´austero palazzo sulle colline di Algeri, erano una sparuta pattuglia che toccava solo il 7% dei seggi. Il risultato è stato possibile grazie anche alla riforma elettorale del 2011 che ha imposto ai partiti una quota rosa di almeno il 30% tra i candidati e all´impegno delle formazioni politiche di inserire in lista il maggior numero possibile di donne. Il partito ad aver eletto il maggior numero di deputate è quello di governo, l´Fln con 68 parlamentari, seguito dal Rnd con 23 e il cartello di partiti islamici con 17. La partecipazione alle elezioni è stata molto più corposa stavolta, andando intorno al 40 per cento con poco più di 9 milioni di votanti su 21 milioni chiamati ai seggi, mentre nel 2007, era stata del 36 per cento. Resta il fatto significativo che quasi il 60 per cento degli algerini continua però a non credere nel voto come strumento per l´espressione della propria volontà, abbandonandosi al fatalismo tipico di chi non crede che qualcosa possa cambiare. Quel sentimento complesso e contraddittorio che nel dialetto algerino viene chiamato "hogra", il disprezzo misto a rabbia e rassegnazione. Le "rivoluzioni arabe" dello scorso anno hanno appena sfiorato l´Algeria.
Con il voto, anche se timidamente, qualcosa sembra muoversi rispetto alla cristallizzata liturgia politica dell´Algeria. Da parte dell´Fln - il partito-Stato al potere dagli anni Sessanta - ci sono state delle aperture significative, perché ipotizzano che in Parlamento ci possano essere delle alleanze allargate rispetto a quella del passato. Più che prove di dialogo, sembra un tentativo di restyling da parte di una classe politica alla quale la maggioranza degli algerini, visto l´astensionismo, non crede. La prossima maggioranza resterà disegnata sulla vecchia, con possibili inserimenti di partiti minori, che visto lo scarso peso non potranno condizionare Fln e Rnd, chiamati ad avviare una vera politica di riforme economiche e politiche - con una revisione della Costituzione nei prossimi mesi per consolidare la democrazia e lo stato di diritto - che facciano uscire il paese da una crisi che non trova giustificazioni, l´Algeria è un paese ricco di risorse e naviga nel petrolio.
Repubblica 13.5.12
Guardare oltre il velo. La lezione del Maghreb
Si può indossare l’hijab e lottare per la pari dignità in politica e nella società
di Michela Marzano
Nonostante molte di loro siano velate, sono tutte laureate e lavorano. E ci costringono oggi ad interrogarci su molti stereotipi che circolano in Occidente sulle donne musulmane. Come se il fatto di portare il velo fosse automaticamente un sinonimo di segregazione e di assenza di diritti. Come se solo la cultura occidentale permettesse alle donne di riappropriarsi del proprio destino e di non essere sottomesse agli uomini. In quanti paesi occidentali esiste oggi un Parlamento in cui più del 30% dei deputati sono donne?
Proprio mentre in molti paesi dell´Europa non si cessa di utilizzare l´argomento del velo per mostrare come questa «aberrante imposizione» sia un modo per mettere le donne al margine della società rendendole anonime e trasparenti, è proprio da un paese del Maghreb che arriva un segnale forte per le donne. Si può portare un velo per conformarsi alle aspettative di un marito o di un padre che non accettano che la donna partecipi alla vita pubblica e resti sottomessa al proprio volere. Ma lo si può anche portare per scelta o per pudore, soprattutto per non attirare lo sguardo sul proprio aspetto fisico, e contribuire poi ai dibattiti pubblici e alle lotte per l´uguaglianza e la pari dignità utilizzando le proprie competenze e le proprie qualità. Basti pensare a Naïma Madjer, il cui velo non le impedisce di essere stata una vedette della televisione algerina.
Come spesso accade, anche la scelta del velo non ha un significato unico: tutto dipende dal contesto e dalle motivazioni personali di chi fa una scelta di questo genere. E non spetta certo all´Occidente di giudicare il valore delle altre culture e tradizioni. Soprattutto quando nella maggior parte dei paesi occidentali il numero di Parlamentari donne è decisamente più basso e in molti non si riesce nemmeno a far passare la logica delle quote rosa. Per non parlare poi dell´Italia, dove tante donne continuano a pensare che la bellezza sia l´unico modo per farsi avanti nella vita e ottenere posti di responsabilità.
Certo, sarebbe un errore idealizzare i risultati elettorali dell´Algeria. Esiste sempre una differenza tra l´immagine che si può avere di un Paese attraverso i propri rappresentati politici e la realtà, che è spesso molto più complessa e contraddittoria, come osservano numerose militanti dei diritti umani che si sono presentate in Algeria con una lista indipendente, Égalité et Citoyenneté, per bloccare l´avanzata dell´oscurantismo. Ciò non toglie che è proprio da un paese arabo che giunge un segnale importante per tutte le donne. La libertà femminile e l´uguaglianza non possono essere solo dei valori astratti. Devono sempre, prima o poi, incarnarsi nella realtà politica.
Corriere 13.5.12
Alle origini del comunismo Babeuf, Buonarroti, gli «Eguali»
risponde Sergio Romano
Rileggendo alcuni testi sulla Rivoluzione francese ho avuto modo di conoscere François-Noël Babeuf, detto il Gracco. Egli sosteneva idee radicali di democrazia politica ed era fautore dell'egualitarismo sociale. I problemi legati alla lotta di classe e alla proprietà privata sarebbero già presenti nelle sue riflessioni. In rapporto anche alle idee di Babeuf, mi piacerebbe se lei potesse esporre qualche riflessione sul legame fra la Rivoluzione francese e le origini del Comunismo. In che misura è lecito vedere nella rivoluzione giacobina l'embrione degli ideali socialcomunisti?
Francesco Candolfi
Caro Candolfi,
Allo scoppio della rivoluzione, nel 1789, Babeuf non aveva ancora trent'anni e aveva condotto una vita poco rivoluzionaria. Era stato scrivano perché aveva una bella scrittura. Era stato perito agrario in Piccardia e conosceva bene la mappa delle signorie feudali della regione. Si era sposato all'età di ventidue anni e aveva allevato i suoi figli, come scrive François Furet, «da padre tenero e sentimentale, alla maniera di quella generazione di fine secolo che aveva letto l'Emilio di Rousseau e credeva nei moderni principi pedagogici dell'intellettuale ginevrino. Era quindi quello che potrebbe definirsi un moderato riformatore sociale».
La rivoluzione lo trasformò in un riformatore radicale. Accolse entusiasticamente la fine del feudalesimo e quando le folle insorsero, in luglio, massacrando due pubblici funzionari, commentò l'avvenimento, in una lettera, con queste parole: «I padroni, invece di civilizzarci, ci hanno reso barbari, perché lo sono essi stessi. Raccolgono e raccoglieranno quello che hanno seminato». Nei mesi seguenti tornò in provincia e fu da allora un sanculotto, vale a dire un militante dell'ala più rivoluzionaria, nello spirito di Marat e di Robespierre.
Dopo l'avvento del Direttorio e la fine del Terrore fondò un giornale, Le tribun du peuple, che gli procurò qualche mese di prigione per «istigazione alla ribellione, all'omicidio e alla dissoluzione della rappresentanza nazionale». Quando ne uscì, raddoppiò il suo impegno rivoluzionario e lo annunciò anzitutto ribattezzando se stesso Gracchus, dal nome di Tiberio Sempronio Gracco, tribuno della plebe e autore di una contestata riforma agraria che toglieva terre ai ricchi per distribuirle ai poveri. Nacque allora, contro il vero Direttorio, un «Direttorio segreto di salute pubblica» che si componeva di sette membri fra cui, per l'appunto, il «comunista» Babeuf. La cospirazione, destinata a scatenare una nuova rivoluzione, fu scoperta e i congiurati vennero arrestati nel maggio del 1796. Quando furono processati, un anno dopo, Babeuf venne condannato a morte e ghigliottinato.
Probabilmente Babeuf-Gracchus sarebbe stato ricordato da una nota a piè di pagina, nel grande libro della rivoluzione, se un altro congiurato, compagno di prigionia e mente della cospirazione, non ne avesse raccontato la storia in un libro apparso nel 1828. L'autore è Filippo Buonarroti, rivoluzionario pisano di buona famiglia, e il suo libro (Conspiration de l'Egalité dite de Babeuf, suivie du procès auquel elle donna lieu) fu letto da Marx che ne scrisse così: «Il movimento rivoluzionario che iniziò nel 1789 al Circolo sociale, che ebbe come principali rappresentanti, a metà della sua evoluzione, Leclerc e Roux, e finì per soccombere momentaneamente con la cospirazione di Babeuf, aveva fatto nascere l'idea comunista che Buonarroti, l'amico di Babeuf, reintrodusse in Francia dopo la rivoluzione del 1830. Quest'idea, sviluppata in tutte le sue conseguenze, costituisce il principio del mondo moderno». Lo studioso italiano che si è maggiormente occupato di questa vicenda è Alessandro Galante Garrone, autore di Buonarroti e Babeuf, pubblicato a Torino nel 1948.
Corriere 13.5.12
«Non dimentico le censure ma la Cina è il futuro»
Ang Lee: un ponte tra Hollywood e l'Asia
di Giovanna Grassi
LAS VEGAS — «Tutti ora vogliono andare a girare in Cina, non solo per le avventure di Iron-Man 3. L'apertura della Grande Muraglia a scambi e produzioni internazionali è importante quanto quella di Hollywood, che considera il mercato asiatico uno dei più vasti per il boom del suo box office. Il che non significa che in Cina non ci saranno controlli severi sul libero mercato, sul business, future censure e problemi di democrazia».
Parole di Ang Lee, il regista taiwanese (Oscar per La tigre e il dragone e per Brokeback Mountain) netto anche nel dire: «Saranno i giovani a fare sentire in Cina l'influenza del cinema americano mentre la comunità artistica cinese e le forze imprenditoriali daranno molto a quanti andranno a girare in Asia. Volevo mettere Taiwan nella mappa di tanti futuri progetti e ci sono riuscito con il mio ultimo film».
Così, dopo The Flowers of War di Zhang Yimou con Christian Bale (malmenato dalla polizia perché voleva incontrare un dissidente), in attesa di vedere Keanu Reeves che è stato a Pechino e a Hong Kong quasi un anno per una coproduzione Usa-Cina, Ang Lee si è battuto affinché la Century Fox di Murdoch girasse in Oriente Vita di Pi, il suo film in 3D. «Taiwan ci ha offerto il massimo, come faranno altre località della Cina per svariate produzioni di tutto il mondo e, d'altro canto, anche il recente Festival di Pechino ha confermato il boom del mercato cinese. L'assestamento sarà lungo, ma ormai esiste un ponte creato proprio dal cinema che porterà tanti progetti nella Cina dalle infinite risorse. La Fox ha lavorato bene con il governo locale e persino un aeroporto abbandonato è stato trasformato in un cine-studio».
Ang Lee da sempre si muove tra due culture, quella asiatica e quella occidentale e certo non ha dimenticato le censure subite da Pechino per i cowboy gay di Brokeback Mountain e per le scene di sesso del più recente Lussuria. Al Cinema-Con ha presentato in anteprima mondiale alcuni spezzoni in 3D e la lunga sequenza di un naufragio di Vita di Pi uno dei film più attesi dell'anno, tratto dal bestseller omonimo dello scrittore canadese Yann Martel. Un libro amato lettori di tutte le età e che per le ultime generazioni è una sorta di moderno Piccolo Principe. Numerosi registi (Cuaron, Shyamalan, Jeunet) avevano tentato l'impresa abbandonando tutti il progetto «impossibile». Ma da sempre le sfide piacciono ad Ang Lee che oltre agli Oscar ha conquistato due Leoni d'oro ed è uno dei registi più eclettici: ha girato western e ha raccontato supereroi e sbandati, amori omosessuali, donne dell'Ottocento, conflitti familiari e politici...
«Vita di Pi — spiega — incrocia molte culture e una parte è anche ambientata in India. È stata una avventura fantastica dare vita e inquadrature a un film che come il libro doveva essere visionario. Ed ecco la vicenda del ragazzino che, dopo il naufragio della nave sulla quale viaggiava con la famiglia e con gli animali dello zoo dei genitori, si ritrova nell'Oceano Pacific, su una barca con una tigre del Bengala, unica compagna di viaggio e predatrice, visto che sbrana le altre bestie superstiti. Ero rimasto affascinato dal libro perché nella storia, che ha un finale aperto, ci sono temi umanistici e religiosi. In fondo, tutta la lotta per la sopravvivenza del ragazzo e la sua caparbia volontà di un rapporto con la tigre sono un atto di fede».
Variety e il New York Times hanno già dato in lizza per i prossimi Oscar il film i cui spezzoni del naufragio della nave, di una zebra che cerca di salvarsi, e dell'unico superstite in compagnia della tigre hanno lasciato esterrefatta la platea per ricchezza di mezzi, colori, emozioni. Lee ha spiegato: «Ho fatto centinaia di provini prima di scegliere il ragazzino protagonista Suraj Sharma. Un personaggio che mescola nel suo bisogno di spiritualità e di risposte l'induismo, il cristianesimo, l'Islam. C'è amore universale nel racconto metaforico della forza dei sentimenti e del pensiero».
Il film si vedrà a Natale in tutto il mondo: anche in Cina? Con l'abituale ironia, Ang Lee risponde: «Lo spero. Vita di Pi è un viaggio esistenziale straordinario e cinematograficamente unisce continenti, oceani, culture, tecnologia e narrazione. E' un racconto di amicizia e coraggio, sospeso tra modernità e tradizione, avventure e realismo, senza confini ideologici o religiosi. Nel mondo è necessario tutto ciò. E di dialogo culturale ha bisogno soprattutto la Cina».
La Lettura del Corriere 13.5.12
Eurasia, l'alternanza delle civiltà
Il primato della modernità occidentale non era scritto nel destino Ci sono state fasi di superiorità dell'Oriente, che ora torna in auge
di Antonio Carioti
Siamo abituati a considerare la modernità e l'Europa come un binomio inscindibile, frutto di una lunga, graduale marcia verso il progresso, cominciata nell'antichità classica (Atene, Roma e Gerusalemme), proseguita con qualche difficoltà nel Medioevo, ripresa con maggior lena nel Rinascimento, giunta al suo logico sbocco con la rivoluzione scientifica, quella industriale, quella democratica. Un percorso che ha lasciato indietro i popoli extraeuropei, costretti a imitarci, con grande fatica e molti insuccessi, per sottrarsi a una dolorosa subalternità.
In particolare si è discusso a lungo del «modo di produzione asiatico» e del «dispotismo orientale» come freni atavici allo sviluppo di alcune zone del pianeta, in contrapposizione al «miracolo europeo» del capitalismo. Concetti assai poco convincenti, secondo un «grande vecchio» dell'antropologia come Jack Goody — classe 1919, noto per i suoi studi su scrittura e oralità, cibo e sesso, fiori e culture —, che propone invece, anche alla luce delle vicende recenti, un'interpretazione diversa, che mette in scacco (parole sue) «l'etnocentrismo europeista e la storiografia teleologica».
Nel suo libro Eurasia. Storia di un miracolo (il Mulino), lo studioso britannico non nega certo che l'Occidente abbia conquistato una salda egemonia planetaria tra il XVI e il XX secolo, ma la inquadra in un fenomeno ben più vasto, che a suo avviso coinvolge l'intera Eurasia, cioè l'immensa area tra l'Atlantico e la Cina che conobbe, a partire dal 3000 a.C., la rivoluzione urbana dell'età del bronzo, con lo sviluppo delle città e del relativo artigianato, oltre che dell'agricoltura basata sull'aratro. Da allora, sostiene Goody, l'Oriente e l'Occidente euroasiatici hanno proceduto su binari paralleli, mantenendo sempre aperti canali di comunicazione reciproca.
Le due aree non si sono mosse alla stessa velocità nel corso del tempo, ma non si può considerare scritta nel destino una progressiva accelerazione lineare dell'Europa a scapito dell'Asia. Goody ritiene invece che si debba parlare di «superiorità temporanea», nel contesto di un meccanismo di «alternanza» che non comporta alcuna «supremazia permanente». Ad esempio l'Europa occidentale, dopo le invasioni barbariche, conobbe una fase in cui «restò notevolmente indietro» e riuscì poi a recuperare terreno «mutuando frequentemente invenzioni e prodotti dall'Oriente, come la stampa, la carta, la porcellana, il cotone, la tessitura della seta, la bussola, la polvere da sparo, gli agrumi, il tè, lo zucchero e numerose specie di fiori». Il fattore decisivo della rimonta e del sorpasso europei, secondo Goody, fu l'ascesa di istituzioni culturali indipendenti dalle autorità ecclesiastiche, soprattutto grazie all'influenza della borghesia mercantile: «La maggior parte delle università occidentali — scrive — secolarizzò il proprio programma di studi in modo significativo, cosicché l'insegnamento e la ricerca in campo scientifico e umanistico si svilupparono e finirono per rafforzarsi, e la componente religiosa divenne sempre meno importante, al contrario di quella laica».
Per quanto discutibile come ogni altra ricostruzione storica, specie se di lunghissimo periodo, questa lettura ha il pregio di spiegare le capacità di rapida modernizzazione esibite negli ultimi decenni dai giganti asiatici.
Un tempo l'unica eccezione da capire era il Giappone, di cui alcuni studiosi enfatizzavano le differenze rispetto alla Cina, in particolare per la fase di «feudalesimo» che il Sol Levante aveva vissuto e che, a loro avviso, ne faceva quasi «un ramo orientale dell'Europa». Oggi tuttavia pare più stimolante la tesi avanzata da Goody, per cui il ruolo acquisito dall'Estremo Oriente in campo industriale «non rappresenta un fenomeno nuovo legato all'adozione del "capitalismo" occidentale, ma il recupero di una posizione in campo manifatturiero che aveva già occupato molto tempo prima».
La stessa crisi in cui l'Occidente si trova da tempo invischiato può alimentare il sospetto che sia alle porte una nuova fase di alternanza a favore dell'Asia, mentre la persistente arretratezza del mondo islamico potrebbe derivare dagli ostacoli enormi che incontra in quelle terre il processo di secolarizzazione.
Fare previsioni ovviamente è un esercizio ad alto rischio. E Goody non intende certo atteggiarsi a profeta. Ma è certamente da accogliere l'accento che questo autore pone sulla permeabilità delle diverse culture e sul vantaggio che di volta in volta esse hanno tratto dall'interscambio mercantile e culturale. Se ieri l'Oriente poteva apparire chiuso in un desolante immobilismo letargico, refrattario allo spirito stesso della modernità, non è affatto detto che adesso l'Europa sia condannata a un declino irreversibile. Perché la storia, sottolinea giustamente Goody, «non si è mossa e non si muove in linea retta».
La Lettura del Corriere 13.5.12
Avere figli per egoismo
Non è facile argomentare la scelta procreativa (che può apparire irrazionale o sbagliata)
di Chiara Lalli
«Naturalmente non ti serve la patente per avere figli. Non devi dimostrare nulla. Ti serve una licenza per pescare, ti serve una licenza per fare il barbiere, ti serve una licenza per vendere hot dog. E poi leggi di questi poveri bambini, maltrattati e denutriti, e ti chiedi: perché a questi genitori è stato permesso di averli?». Così Boris Yelnikoff/Larry David spegne l'entusiasmo della sua giovane e allegra fidanzata durante un giro in bicicletta nel film Basta che funzioni di Woody Allen.
Yelnikoff è un eccentrico e un misantropo ma senza dubbio coglie un punto: fare il genitore è molto complicato, eppure non esiste nessuna patente genitoriale. Ma c'è di più: perché avere un figlio?
Ci sono alcune questioni che siamo abituati a non mettere quasi mai sotto esame: tra queste una è proprio la ragione per avere figli. È più facile che si chieda a qualcuno perché non ha figli, e spesso si avverte un rimprovero taciuto o dichiarato: hai qualcosa che non va, sei egoista o magari malato se non li hai. Per quale ragione invece non ci si interroga sul perché fare figli?
Fare un figlio è forse l'atto letteralmente più egoistico che possa esistere. Decidiamo noi per lui senza potergli chiedere il consenso e quando potremmo farlo la decisione è stata già irrimediabilmente presa: è impossibile retrocedere alla non esistenza.
Ogni tanto qualche filosofo e scrittore si è avventurato in questo terreno, ma le discussioni più numerose riguardano alcuni aspetti e modalità della riproduzione — come l'ammissibilità morale delle tecniche riproduttive o la composizione della famiglia — piuttosto che l'avere un figlio come una questione di per sé moralmente rilevante. Avere un figlio sembra essere considerato un fatto, qualcosa che accade e su cui non c'è tanto da scervellarsi e da domandare.
Nel suo ultimo libro, Why to Have Children? («Perché avere figli», Mit Press), la filosofa canadese Christine Overall parte proprio dalla sorpresa per questa incompletezza: l'avere figli — scrive — dovrebbe richiedere una giustificazione razionale, non foss'altro perché decidiamo di portare all'esistenza un altro essere umano.
Overall ci porta per mano in un'analisi affascinante e inconsueta, ci costringe a riflettere e a interrogarci su questioni che spesso diamo per scontate. E ci avverte: se basta non desiderare un figlio per non farlo, desiderarlo non è una condizione sufficiente per rendere morale la decisione opposta. Quali sono le buone ragioni per avere figli? Molte di quelle comunemente addotte, secondo Overall, sono fallaci.
Invocare l'orologio biologico, per esempio, sembra davvero insoddisfacente in un contesto ove le presunte spinte biologiche sono tanto mischiate ad altri tipi di molle decisionali: sociali, emotive, culturali. Ma soprattutto ammettere una ragione evolutiva non spiegherebbe perché non sottoponiamo questo desiderio ancestrale ad analisi razionale: lo facciamo con l'amore e con il sesso, perché non con l'essere genitori?
Non solo: sottrarre la decisione di riprodursi al campo della morale significherebbe ridurla a un destino biologico, a qualcosa che ci accade indipendentemente da noi, un accidente tra i tanti slegati dal nostro volere. Se a lungo è stato così — e se in alcuni luoghi e circostanze lo è ancora — è vero che per molte persone oggi la riproduzione è diventata sempre più una scelta, a volte contro il nostro destino biologico: ricorrere alle tecniche riproduttive e adottare sono modi per aggirare un ostacolo naturale alla riproduzione biologica.
L'intento di Overall non è quello di diventare un giudice o un controllore morale, né tantomeno di suggerire un divieto giuridico, ma solo di esplorare un terreno trascurato dal punto di vista della moralità della scelta: un esercizio di responsabilità. Ogni scelta ha come prerequisiti la libertà e l'essere informati delle opzioni. Nelle azioni non scelte non c'è alcuno spessore morale.
Tra le domande riguardo al fare o non fare figli ce ne sono due particolarmente controintuitive e per questo interessanti: per quali ragioni sarebbe morale farli? In quali circostanze non esiste una giustificazione razionale? Siamo abituati a pensare che sì, certo che è morale — o addirittura siamo abituati a non porci proprio la domanda. Se proviamo a rispondere potremmo avere delle sorprese.
È sempre preferibile l'esistere al non esistere? Quante persone fanno figli per ragioni sbagliate? Storicamente ci sono ragioni che oggi forse fanno storcere il naso: avere un figlio per continuare la dinastia o per usarlo per stringere alleanze e come forza lavoro. Oggi possono presentarsi in forme diverse: lasciargli lo studio da avvocato, il cognome importante o investirlo delle nostre insoddisfazioni. E ancora: affidargli l'incarico di badare a noi quando saremo anziani. Non potrebbero essere ragioni immorali?
Overall analizza poi un altro possibile ostacolo: essere troppo giovani o troppo vecchi — quest'ultima è una variabile cangiante a seconda del sesso. Si pensi infatti alle controverse gravidanze in età avanzate per le donne, considerate vecchie dai 35 anni in poi, e alle paternità di 60enni, 70enni o uomini più anziani.
La filosofa affronta anche molte obiezioni, come la possibile estinzione della specie umana. Nonostante le apparenze, non può essere facilmente usata come controargomento. Sarebbe un male? Solo dal nostro punto di vista, che però è uno tra i tanti. Come il tardo Lev Tolstoj aveva scritto, l'estinzione della specie umana potrebbe essere addirittura giusta, se considerata dal punto di vista del pianeta e delle altre specie.
La decisione di avere figli ha una vaga somiglianza con la scommessa di Blaise Pascal sul credere o no in Dio. Soprattutto per un aspetto: non si può non decidere, o meglio non ci si può illudere che non decidere sia moralmente neutrale. Se scegliamo di astenerci, quella sarà una risposta connotata moralmente.
Overall ci aveva avvertito fin dall'introduzione: se aspetti di essere del tutto convinto che sia il momento giusto per fare figli, potresti attendere per sempre. Fare figli è una decisione spesso profondamente irrazionale. Ma non per questo automaticamente immorale, e il libro si chiude con l'invito — dopo tutto questo pensare — a farne magari più di uno.
La Lettura del Corriere 13.5.12
Le emozioni arrivano sempre prima dei sentimenti
di Antonio Pascale
Prima di appassionarmi ai temi della neuroscienza, consideravo interrogativi come «chi siamo?», «da dove veniamo?» e «dove andiamo?» né più né meno che frasi comiche. Voglio dire: è davvero una questione di punti di vista. Quindi, se l'interrogativo lo pongo io, ne viene fuori una discussione da bar. Se lo pone, invece, Antonio Damasio, cambia tutto. Il suo libro Il sé viene alla mente (Adelphi, trad. Isabella C. Blum, pagine 463) è un emozionante e struggente viaggio alla ricerca di quel particolare modo di sentire che chiamiamo coscienza. Gli studi e gli esperimenti di neuroscienza rappresentano una integrazione, anzi, un ottimo correttivo alle discipline filosofiche. Rispetto a queste ultime dimostrano una base scientifica più solida, riducono il rischio di chiacchiericcio spinto, tamponando le ipotesi astratte e forniscono più risposte. Il libro comincia con la descrizione di un fenomeno ovvio quanto misterioso: il risveglio. Che meraviglia, sottolinea Damasio. Meraviglia perché assieme al risveglio c'è stato il ritorno della nostra coscienza. «Colui che ha inventato la coscienza, avrebbe molto da essere rimproverato» dice F. S. Fitzgerald. Vero, senza coscienza non proveremo dolore, ma nemmeno gioia, non proveremo amore. La coscienza è stata un mistero fin dagli albori della filosofia. Mistero che, secondo alcuni, dovrebbe restare tale. Non sappiamo ancora cos'è la coscienza, però forse è solo questione di metodo. Un po' come Galileo quando smise di chiedersi perché si muovono gli oggetti — domanda difficile, e poi tutte quelle rigide e incorruttibili risposte di stampo aristotelico — e allora operò uno spostamento: come si muovono gli oggetti? Dal perché al come. Fu una rivoluzione che mutò profondamente la percezione delle cose — oltre a far scoprire una nuova e anomala generazione di filosofi, meccanici, ingegneri, tecnici. Ora, siamo di fronte a una situazione analoga: invece di chiederci cos'è la coscienza, possiamo cercare di capire come, dal punto di vista evolutivo, si è formata. I neuroscienziati rappresentano la nuova generazione di filosofi della mente, a volte forniscono punti di vista contro-intuitivi. Il libro Decisioni intuitive di Gigerenzer Gerd (Raffaello Cortina Editore) è illuminante in tal senso: quante scelte facciamo senza pensarci troppo (anche quelle politiche). Fondamentale è l'indagine sulle emozioni e sui sentimenti. Quale di questi due stimoli reattivi è nato per primo? Prima le emozioni, poi i sentimenti. La vita è un albero, più che un'essenza vitale. Un insieme di stratificazioni, tronco e rami che le esigenze evolutive hanno composto. Dunque, al principio, più che la luce, ci furono reazioni semplici: avvicinamento e allontanamento a un oggetto o un altro organismo. Negli esseri umani le reazioni di avvicinamento e allontanamento sono associate all'idea di piacere e del dolore. Ancora, a livello superiore gli impulsi e le motivazioni, poi le emozioni, il capolavoro della regolazione automatica: gioia, dolore, paura, vergogna, compassione. Al gradino superiore, i sentimenti. Questo albero ramificato e complesso è tutto ciò che chiamiamo coscienza. E allora, perché dovremmo interessarci a come si è formato? Risponde Damasio, primo: per curiosità. I primati sono estremamente curiosi. Secondo: per studiare alcune malattie. Terzo: per comprendere cultura e società. La coscienza serve a regolare i nostri processi omeostatici, e questi sono profondamenti intrecciati con l'ambiente in cui viviamo. Ogni nostro comportamento è un atto culturale, capire come i rami si intrecciano e si evolvono e si autoregolano è l'unico modo per rimanere vitali e inquieti, dunque vivi.
La Lettura del Corriere 13.5.12
Cvetaeva, poesie in memoria di Rilke Scarponi chiodati per scalare il vuoto
Escono i poemetti e le prose della scrittrice russa per l'Orfeo tedesco
Un viaggio dantesco verso l'amato, una liberazione dello spirito
di Roberto Galaverni
Come chiamarlo? Rapporto, sodalizio, corrispondenza, legame, fraternità, amore? Mi sto riferendo alla relazione indistintamente spirituale, intellettuale e poetica tra Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke, che costituisce uno dei punti di maggiore incandescenza dell'intera civiltà letteraria del secolo scorso. Dapprima quindici lettere, a partire dal maggio del 1926, tra la poetessa russa esule in Francia e il nuovo Orfeo tedesco, come lo considerava la stessa Cvetaeva, che, malato di leucemia, si sarebbe spento solo qualche mese dopo nel sanatorio svizzero di Val-Mont. Quindi, di fronte al vuoto seguito alla scomparsa del poeta, una coda di cinque testi della Cvetaeva che non solo lo riguardano, ma, alla lettera, che a Rilke vogliono riportare. Si tratta dei tre poemetti e delle due prose ora riuniti nel volume A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea (Passigli Editori). Il titolo viene dall'ultimo verso della Lettera per l'anno nuovo, il componimento forse più noto della scrittrice russa, a cui Josif Brodskij dedicherà poi una formidabile lettura critica.
Ho parlato di una coda, ma in realtà avrei dovuto dire di un inizio. Ci troviamo così già nel cuore poetico e concettuale dei versi e delle prose qui riuniti. Infatti, nelle rime in morte di Rilke, o ancor meglio, come voleva la Cvetaeva, scritte per Rilke, la terminologia della tradizione poetica del lamento funebre e dell'epicedio (ma anche lo statuto del celeberrimo «tu» dei poeti) viene come rovesciata da dentro e sottoposta a un processo di ridefinizione semantica. Non più il dialogo a distanza con l'assente ma la sua inedita presenza, non il vuoto ma la pienezza, non memoria ma eternità, non il tempo ma una contingenza assoluta, non il silenzio quanto una rinnovata fertilità creativa. «Che fortuna / in te finire, in te iniziare!», recita un passaggio della Lettera per l'anno nuovo, la cui pietra angolare è costituita proprio dall'idea del nuovo o, più precisamente, dalla prospettiva di «una terza cosa nuova». Sulla strada della compiuta acquisizione di ciò di cui Rilke, detto in termini scritturali, è stato figura, la Cvetaeva si confronta qui con i limiti stessi del linguaggio. La parola «morte», ad esempio, che Auden considerava irredimibile e dunque proscritta per la lingua della poesia, nella Lettera viene in un primo tempo richiamata per assenza attraverso i puntini di sospensione, quindi distanziata con la citazione tra virgolette, infine ammessa senza timore, in quanto superata e trascesa dalla nuova verità attinta dal discorso poetico. Come se il genere fosse andato al di là di se stesso, non si può più parlare di elegia, di una poesia di compianto e di rimpianto. Il modo della Cvetaeva, la sua lingua ad alta tensione drammatica tutta strappi, lampi e scalinature, è assurta a questo punto a espressione di gioia.
Il fatto è che nel suo viaggio a Rilke (esiste dunque un viaggio a Rilke com'è esistito un peraltro ineguagliabile viaggio a Beatrice), nel furore e insieme nella lucidità di un'estrema espansione interiore la Cvetaeva mette alla prova se stessa e i suoi interlocutori. «La sua morte? Significa che loro hanno davvero creduto in lei, che l'hanno accettata?», scrive di quanti intendevano pubblicare le lettere del poeta dopo la sua scomparsa. La sua fede è invece per una diversa realtà dell'essere e per un diverso tipo di discorso: «La prima lettera per te dalla tra-/ scorsa patria, dove languo senza te, / patria di ieri, oggi una tra le / stelle…». Nuova realtà, «nuove rime», indistintamente. «In fondo se tu sei vero — si avvera / il verso!», scrive ancora.
Nelle lettere indirizzate a Rilke in vita, pur tra momenti d'inusuale profondità, la scrittrice non era apparsa immune da una certa invadenza, da un desiderio di possesso totale ed esclusivo (scritte in tedesco, queste lettere sfruttano le possibilità del gioco linguistico fino ai limiti del calembour), a cui per parte sua il poeta aveva risposto con qualche reticenza, senza tuttavia mai sottrarsi alla sostanza più vera del loro rapporto. Con le lettere poetiche e i testi in prosa successivi, invece, la Cvetaeva sembra essere entrata in una costellazione ulteriore, come se il confronto con Rilke fosse stato davvero il tramite di una liberazione dello spirito. Non vi compare più nulla di privato, nessun sé da gratificare. Certo, per intransigenza etica, qualità e integrità di coscienza, aspirazioni espressive, con queste poesie ci si trova lanciati verso altezze siderali. Del resto, l'intero discorso postumo su Rilke fa riferimento a un viaggio ascensionale: «Salto // più in alto! / Tutti noi "all'altro mondo" / scaleremo il vuoto con scarponi / chiodati» (Tentativo di stanza). Altezze ardue, difficili, irraggiungibili, forse. Non per la poetessa russa, comunque. Marina Cvetaeva quella «lingua» l'ha «appresa», lei il suo salto lo ha fatto.
Corriere 13.5.12
I colori di Rothko e la dignità dell'artista
di Magda Poli
Un uomo in poltrona contempla una grande tela dai colori accesi, la guarda significare, espandersi, agire, vibrare con se stesso in un rapporto intimo e misterioso, ne assorbe il respiro profondo come vorrebbe avvenisse a chiunque la guardi. Quest'uomo, che ha cambiato il corso della storia dell'arte, è Max Rothko, protagonista di «Rosso» commedia dell'americano John Logan dai dialoghi vivaci, ironici, intelligenti, portata in scena con bella misura da Francesco Frongia, nel ruolo del pittore Ferdinando Bruni, Alejandro Bruni Ocaña è Ken suo giovane assistente. Nella corsa di questo filosofo della pittura verso l'assoluto del colore, i suoi quadri diventano rivelazioni di sentimenti, anch'essi assoluti, intrappolati in una luce emozionale, fino a divenire quasi emersioni di zone d'ombra della coscienza. Logan fa il fuoco su un periodo della vita del grande pittore quando nel 1958 gli vennero commissionati dei «murals» per il ristorante Four Seasons di New York. Rothko accetta ma, disgustato dalle «fauci» che lo frequentano, ricomprerà i dipinti. Il rapporto tra Ken e il pittore è aspro, all'inizio il giovane è quasi paralizzato, ma un giorno dirà a Rothko quello che veramente pensa. Con intelligenza il pittore lo licenzierà: Ken è maturo per uscire nel mondo, combattere e trovare la sua strada espressiva. Lo spettacolo si snoda carico di sollecitazioni, si parla di estetica, etica, percezione, apollineo e dionisiaco, necessità dell'arte, molto ben sorretto dal bravo Ferdinando Bruni, stretto in una misura di rigore interiore che non lo fa mai cadere nello stereotipo del «genio e sregolatezza», non banale e interiorizzata anche la recitazione di Alejandro Bruni Ocaña, quasi fosse sempre talmente turbato d'avere la voce rotta di paura, malinconia, affetto. E il nero, come temeva il pittore, si è mangiato il rosso il 25 febbraio del 1970 quando Rothko si è suicidato.
Repubblica 13.5.12
Polanski: da Auschwitz al carcere tutti i demoni della mia vita
“La mia versione”
di Curzio Maltese
L´infanzia e il nazismo, il successo e la caduta, Sharon e Samantha, la prigione, la fuga e l´arresto Memorie e confessioni del grande regista
Il Ghetto di Varsavia e la conquista di Hollywood L´assassinio di Sharon Tate e il caso Geimer La prigione, la fuga dagli States e l´arresto in Svizzera Il grande regista si confessa in un film e in esclusiva a "Repubblica". "Perché devo raccontare la mia storia: la memoria è amore e con la morte svanisce "
Cielo Drive Sharon rimase incinta Avrei potuto avere una vita normale Quando mi dissero che erano morti pensai a una frana, la casa era sotto una collina Poi seppi e tutto crollò
Auschwitz Molto tempo dopo la guerra scoprii che mia madre era morta L´avevano portata direttamente alla camera a gas ad Auschwitz
Gstaad Ero sbalordito, ma anche molto calmo Fu del tutto diverso dalla prima volta Ricevevo solidarietà dal mondo intero Fu più doloroso per la mia famiglia
Samantha La famiglia di lei voleva restare anonima Abbiamo fatto tutto il possibile Ma l´hanno trovata i giornali e l´hanno perseguitata per quarant´anni
Parigi. L´appuntamento è alle 10 dell´8 maggio, festa nazionale, nella casa vicino agli Champs Elysées, dove mezza Parigi aspetta il passaggio del nuovo presidente Hollande. Il guardiano non c´è e ad aprirmi il portone del palazzo semi deserto arriva lui. Da lontano un ragazzo di quattordici anni, minuto, magrissimo, in jeans e maglietta bianca. Da vicino, il più incredibile quasi ottuagenario mai conosciuto. Roman Polanski. Ho trascorso decenni a guardare i suoi film e a leggere cronache sulla sua vita, più sbalorditive di qualsiasi sceneggiatura. La casa, la stessa dove si è rifugiato dopo la fuga dall´America, non è enorme come si può pensare, lo studio è affollato. Foto di una vita, con chiunque, da Otto Preminger a Keith Richards, locandine teatrali, manifesti dei film, quadri pop alle pareti. Montagne di libri di ogni genere, ordinati per argomenti, sormontati da una monumentale raccolta di riviste scientifiche americane. «Vuole un caffè all´italiana? Niente da bere, tanto zucchero». L´avvio non è promettente: «Vede, ho fatto questa lunga intervista con Andy per non dover mai più parlare coi giornalisti», ride. Ma per tre ore risponderà a qualsiasi domanda, sulla sua vita e il suo cinema.
A Film Memoir è una lunga conversazione con il suo amico Andy Braunsberg, dove Polanski accetta di parlare di tutte le tragedie della sua vita. La morte di sua madre ad Auschwitz, la deportazione di suo padre a Mauthausen, il massacro di Sharon Tate da parte del gruppo di Manson, l´arresto e la prigione con l´accusa di aver abusato di una minorenne, la fuga dall´America, l´ultimo arresto a Zurigo due anni e mezzo fa. Se pure non fosse la vita di uno dei più grandi geni della storia del cinema, sarebbe comunque un documento straordinario sui miti e la storia degli ultimi settant´anni, dall´Olocausto al dopoguerra, al comunismo sovietico, la swinging London degli anni Sessanta, il ´68, l´epoca d´oro di Hollywood e la fine del sogno americano, la terribile bellezza dei Settanta, la restaurazione degli Ottanta, fino all´alba incerta del nuovo millennio. È un racconto quasi insopportabile anche soltanto da ascoltare, e lui l´ha vissuto. In molti punti s´interrompe per la commozione. Che cosa ha spinto Polanski, a parte la molestia di noi giornalisti, ad affrontare questo calvario?
«Voglio mostrarle qualcosa». Si alza, mi indica due scaffali densi di volumi. «Questi sono tutti libri scritti sulla mia vita. Migliaia di pagine e neppure un dieci per cento di verità. Non parlo soltanto di interpretazione di fatti, ma di nomi, luoghi, fatti inventati. Lei è un giornalista. Muoviamo entrambi dalla stessa idea, che da qualche parte debba esistere una verità. Milioni di persone nel mondo hanno sentito parlare di me non per i film, come avrei voluto, ma per la vita privata, attraverso l´immagine distorta che hanno dato i media. Non posso cambiare questo, ma prima di morire volevo raccontare la mia versione. Non in quaranta minuti di talk show, ma in giorni di dialogo con qualcuno che mi conosce».
Una volta visto A Film Memoir mi trovo davanti un uomo di 77 anni che ne dimostra venti di meno, impegnato a scrivere un nuovo film. Come ha potuto resistere? Non ha mai avuto la tentazione di farla finita?
«Non una, molte volte. Mi ha aiutato Faulkner. Ricorda il racconto Le palme selvagge? Alla fine il protagonista, che ha vissuto una tragica storia d´amore, in prigione medita il suicidio, guarda la finestra della cella e pensa: se io mi ammazzo la sola memoria di questo amore sparirà per sempre con me. Quando un uomo muore, il suo mondo, il pensiero se ne va con lui. A parte questo, la mia vita non è stata soltanto una discesa. Vi sono state compensazioni, stagioni di assoluta felicità»
Parliamo di questa stagione felice, la metà degli anni Sessanta. A soli trent´anni raggiunge il successo internazionale con Repulsion, protagonista Catherine Deneuve…
«Il mio peggior film!», ride.
Nei tre anni successivi una serie di capolavori, Cul de sac, Il ballo dei vampiri (sciaguratamente tradotto in italiano Per favore non mordermi sul collo), Rosemary´s Baby, che la consacrano il genio nascente del cinema mondiale. Conosce Sharon Tate, diventate la coppia più amata di Hollywood. Sono gli anni della swinging London, dove lei vive, quelli della speranza, della rivolta giovanile e della liberazione sessuale.
«Erano anni fantastici, ci si conosceva tutti. Andavi in un locale e ti trovavi accanto i Beatles o i Rolling Stones, Peter Sellers…»
Ho visto le sue foto con Keith Richards. Era per i Beatles o i Rolling Stones?
«Beatles, tutta la vita!»
In quegli anni lei gira il suo film più felice, Il ballo dei vampiri, una commedia di uno humour fulminante, e sul set s´innamora di Sharon. Il tutto in Italia.
«A Ortisei, un luogo incantato. Non ho più avuto la forza di tornarci. Sì, fu il mio film più felice. C´erano l´amore per Sharon, l´amicizia con Gérard (Gérard Brach, sceneggiatore di molti film di Polanski, ndr) e la magia di un´epoca irripetibile. Avevo vissuto il nazismo, il comunismo e si spalancava una stagione di assoluta libertà. Allora sembrava che quel progresso civile sarebbe continuato all´infinito, ma non fu così. Se penso a quanto siamo tornati indietro nel costume in questi quarant´anni... Le è capitato di recente di vedere un mio film alla tv americana?»
Sì e capisco cosa vuol dire. Ogni minuto c´è un beep al posto di parole "politicamente scorrette": bitch, goddamned, fuck. Ridicolo. Gli ultimi trent´anni sono stati la rivincita del conservatorismo, il classismo, il puritanesimo, ora perfino il razzismo. Perché?
«Me lo sono chiesto spesso e ho trovato una risposta nel lavoro dello storico William McNeill, che spiega l´alternarsi di progresso e regressione con l´avvento delle grandi epidemie. Si tende a sottovalutare l´impatto delle epidemie rispetto alle guerre. Ma per fare un esempio, la Prima guerra mondiale ha fatto otto milioni di morti e subito dopo la "spagnola" ne fece quaranta milioni. Questo per dire che gli anni Sessanta sono stati una parentesi liberatoria fra l´invenzione della pillola e l´esplosione dell´Aids, vissuta o usata come una specie di punizione divina. Credevamo che la storia, la società sarebbero cambiate per sempre e invece era soltanto un´epoca troppo bella per durare».
La data che mette fine agli anni Sessanta coincide con la più grande tragedia della sua vita. Il massacro di Cielo Drive, l´assassinio di Sharon Tate, incinta di otto mesi, e di quattro amici. Nei venti mesi prima di scoprire gli autori, Charles Manson, i media la sbattono sul banco degli imputati.
«Ero annichilito dal dolore e dovevo per giunta difendermi. Ero a Londra il giorno del massacro, ma ero il sospettato. Scrissero che c´era stato un rito satanico. La prova era una tavola "Ouija" trovata nella villa. A un certo punto ho chiesto io stesso alla polizia di sottopormi alla macchina della verità. Ma tutto questo lo racconto nel film».
Non le farò altre domande. Ma mi colpisce che Manson condividesse un tratto con Hitler. Erano due artisti falliti. L´ho vista recitare a teatro in Amadeus la parte di Mozart avvelenato dall´invidia di Salieri e l´identificazione era totale.
«Sono molto pericolosi gli artisti mancati. Alla fine si scoprì che il movente era quello. Manson mandò i suoi a uccidere perché quella era stata la casa di un produttore che aveva rifiutato le sue canzoni. Avevamo affittato la casa sbagliata».
Passano anni bui, di lutto, ma nel ´74 torna al successo mondiale con un capolavoro, Chinatown. Un enorme successo anche di pubblico, nonostante quel finale disperato. Sarebbe possibile oggi?
«Forse no. Già all´epoca litigai con lo sceneggiatore che voleva un lieto fine. Ma non avrebbe avuto senso. Volevo lasciare il senso dell´ingiustizia. È l´unico modo che ha l´arte per sperare di convincere le persone a cambiare le cose. A quattordici anni avevo visto al cinema Uomini e topi di Steinbeck ed ero uscito devastato, non riuscivo a darmi pace. Poi mi dissi: se non ci fosse stato quel finale ora non sarei qui a pensarci da ore. Fu una lezione per la vita».
L´ultima frase «lascia perdere Jake, è Chinatown» condensa la filosofia di tanto suo cinema, l´idea che i sistemi siano sempre più forti degli individui. Qualcosa che subito dopo avrebbe sperimentato sulla sua pelle nel caso di Samantha.
«Ho fatto un terribile errore, che continuo a pagare. Ma non sono scappato, ho ammesso le mie colpe. Ero a Tahiti per le riprese di un film, sono tornato in America per consegnarmi, confessare e andare in galera. La mia confessione era l´unica vera prova. Mi mandarono in un carcere dove si uccidevano detenuti ogni giorno. Ne uscii vivo, convinto di aver espiato la pena. Ma il giudice ci ripensò e disse di volermi rimandare in galera con una pena indeterminata, insomma avrebbe poi deciso lui. A quel punto lasciai l´America per sempre»
In quei giorni, a propria discolpa, lei disse una cosa ferocemente stupida: «Tutti vogliono scoparsi una ragazzina». Nel corso di un controverso colloquio, lo scrittore Martin Amis gliela rinfacciò duramente. Non tutti vogliono scopare ragazzine e in ogni caso fra una fantasia erotica e un vero atto criminale corre un abisso.
«Certo, non lo direi ora e neppure allora, se non fossi stato sconvolto. Una cosa che non perdono ai giornalisti è di aver usato frasi dette in momenti di debolezza, rabbia, dolore, come dopo la morte di Sharon o l´arresto, per avvalorare l´immagine di mostro che mi avevano disegnato addosso. Ma tutto il mio agire concreto, il rientro in America, la confessione, la volontà di scontare la pena, sono più importanti delle parole sfuggite, non le pare?»
Ma perché l´America non l´ha mai perdonata?
«L´America? Direi piuttosto un giudice e i media. Una volta assunte le mie responsabilità, non ho avuto mai problemi con Samantha Geimer. Mentre entrambi ne abbiamo avuti con la persecuzione dei media».
Nel settembre del 2009, a settant´anni esatti dall´invasione nazista della Polonia, il destino le si presenta ancora all´aeroporto di Zurigo, dove viene portato in carcere per un mandato d´arresto americano di trentadue anni prima. Qual è la sua reazione?
«Ero completamente sbalordito, ma anche molto calmo. Fu molto diverso dalla prima volta. Il direttore del carcere di Zurigo, un carcere di massima sicurezza, mi accolse con un´aria imbarazzata. Nei mesi successivi mi aiutò molto, era evidentemente convinto che non avrei dovuto stare lì o comunque restarci il meno possibile. Da tutto il mondo arrivarono attestati di solidarietà. Certo fu molto doloroso per mia moglie Emmanuelle e soprattutto per i miei figli, Morgane ed Elvis. Alla fine fu Elvis a tagliare il braccialetto elettronico, il giorno che il governo svizzero rifiutò l´estradizione».
Con una vita come la sua è paradossale che lei abbia spesso raccontato drammi chiusi nelle quattro mura di un appartamento, con protagonisti dall´esistenza anonima, comune.
«L´immagine che mi ha più influenzato è il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck. È una scena all´apparenza semplice, un uomo e una donna che si tengono per mano al centro di una stanza da letto di un ricco appartamento borghese. Eppure è una delle opere più enigmatiche della storia dell´arte. La normalità è piena di mistero».
A giudicare dallo humour sulfureo dei suoi film, che balena sempre nel mezzo dell´angoscia più totale, si direbbe che nella scrittura l´abbia influenzata Franz Kafka.
«È stata la prima vera scoperta dell´arte. Avevo tredici anni e avevo visto e letto soltanto brutti film e mediocri romanzi. A un tratto, nel grigiore della letteratura ufficiale comunista, scoprii che si poteva scrivere il quel modo. Un fuoco d´artificio, una fantasia sconfinata e uno humour inarrivabile. In Polonia si discuteva molto della comicità di Kafka. Quando sono venuto in Francia gli intellettuali sgranavano gli occhi. Non avevano capito niente».
A quasi settant´anni firma il suo capolavoro assoluto e forse l´opera definitiva sul tema dell´Olocausto, Il pianista. A Braunsberg racconta che molte delle scene più terribili del film sono in realtà suoi ricordi dell´infanzia nel ghetto. Ma ancora una volta le chiedo di un finale. Quell´ultimo scambio di sguardi fra il protagonista, ormai libero, e l´incredulo, terrificato del tedesco rinchiuso in un campo di prigionieri. Che cosa significa?
«Questo: mi sono battuto per che cosa? Per quale ideale? È importante che qualcuno allevato dentro un certo pensiero si renda conto dell´orrore, della follia».
La pietas del finale è molto laica, non ha nulla a che vedere con un´idea religiosa, come qualcuno ha voluto interpretare, o no?
«Non sono un credente. Sono stato cattolico per un periodo dell´infanzia, quando ero rifugiato presso una famiglia di contadini cattolici. Neppure la mia famiglia era religiosa. Ho saputo di essere ebreo dai nazisti. Del resto, come scrive Dawkins, che cosa significa per un bambino essere ebreo, cattolico, protestante, musulmano, induista?»
Non ha potuto ricevere l´Oscar per Il pianista e soprattutto da trentacinque anni non può girare negli Stati Uniti, che l´hanno eletta a genio del cinema. Le è mancato?
«Non ci ho più pensato. Il vantaggio di girare in America era di avere mezzi enormi, impensabili in Europa. Ma il sistema è anche assai più pericoloso e crudele. Pensi alla parabola di Orson Welles, il più grande talento del cinema, da Quarto potere al non trovare i soldi per finire gli ultimi film».
Compirà 78 anni ad agosto, continua a fare film importanti, come Carnage - a proposito, il primo happy end della sua filmografia - è felice con Emmanuelle Seigner, dalla quale ha avuto due bellissimi figli. È forse per la prima volta un uomo sereno. Come guarda al futuro?
«Sono sempre stato ottimista, altrimenti non sarei qui. Sono curioso del futuro, dei progressi tecnologici. Divoro libri di scienza da sempre. Uno di questi ha cambiato il mio modo di pensare e intaccato il mio ottimismo: Il secolo finale di Martin Rees. L´ha letto?»
Il grande astronomo che, con un calcolo di probabilità, sommando i potenziali distruttivi delle nuove tecnologie, l´ipotesi di catastrofi ambientali e il rischio crescente di terrore o errore nucleare, pronostica la fine dell´umanità nei prossimi cento anni? No, ho cercato di evitarlo.
«Io sì ed è disgraziatamente assai convincente. Da padre sono preoccupato. E mi chiedo perché non lo siano tutti i genitori. Si discute soltanto di economia, viviamo questa dittatura dell´economia. Ma è la scienza che sta cambiando il mondo».
Forse anche l´arte, il cinema, un po´ l´ha cambiato e potrebbe cambiarlo, non le pare?
«Forse, un poco. Qualche mio film è servito a far venire dei dubbi a qualcuno. E tanto mi basta».
Repubblica 13.5.12
Il neo spontaneismo
Si ammira la messa a nudo di sé e si capiscono i gesti plateali in risposta ai torti subiti. C´è fame solo di carne viva
di Miguel Gotor
C´è chi capisce l´allenatore che reagisce e chi si confessa in tv o sui libri. Lo sfogo è il fenomeno del momento Ma dietro c´è un´idea profonda dove la sincerità occupa il vuoto lasciato dalla verità
Il vento dello spontaneismo soffia impetuoso perché risponde a un bisogno di autenticità ritornato in auge come reazione all´artificiosità della civiltà tecnologica. L´atto dimostrativo, lo sfogo, la reazione imprevedibile si caratterizzano come prove di apprezzabile e legittima autenticità dal momento che il valore della sincerità ha preso il posto tradizionalmente occupato dalla verità. E dunque la reputazione e i processi di certificazione (che autentichino il vero o il falso poco importa) stanno avendo la meglio. Gli esempi sono tanti e diversi tra loro. Si ammira la messa a nudo di sé e si capiscono i gesti plateali in risposta ai torti subiti. Molti hanno detto di aver compreso l´allenatore Delio Rossi che ha reagito violentemente alle offese di un suo giocatore dopo il cambio. Un uomo vero – qualcuno ha aggiunto – si comporta così.
Il fenomeno del neo-spontaneismo riguarda anzitutto la televisione, avendo condizionato l´imperante etica del "reality show" che ha dominato l´ultimo decennio con i suoi riti di confessione pubblica. Un pulviscolo di narrazioni che possono esprimersi a patto di accettare l´esibizione della propria coscienza emotiva, tra gioie e dolori. C´è fame solo e soltanto di carne viva, meglio se cotta al sangue. Il fenomeno è globale, ma esiste un nesso, particolarmente pronunciato in un Paese ad antica antropologia cattolica come il nostro, tra tali manifestazioni e l´esigenza di una confessione in cui l´autenticità corrisponde a un discarico di coscienza e la mancanza di sincerità a un peccato da espiare. Appunto, nell´italico "confessionale" secolarizzato del "Grande fratello".
Questa esigenza condiziona anche l´uso pubblico della storia, sempre più coincidente con la narrazione di memorie e di testimonianze, e la letteratura in cui l´autore si trasforma in personaggio e garantisce con il suo vissuto l´autenticità del suo racconto. Ci devono essere un volto, un´esperienza, una ferita ad attestare la legittimità della narrazione: non l´irripetibile individualità di uno stile, non l´estenuante ricerca di una lingua, non l´energia sempre rivoluzionaria della finzione sembrano interessare il pubblico dei lettori, ma la pertinenza di una storia veridica e credibile. Come un tatuaggio.
Per non dire della politica che vive un ritorno in auge delle forme tradizionali della democrazia diretta: la piazza, i referendum, i movimenti civici, l´associazionismo diffuso, il volontariato, l´impegno personale e a progetto intorno a un bene comune da tutelare. Si tratta di una forma di spontaneismo preziosa ed efficace che aiuta a recuperare e a irrobustire i fili sfibrati della nostra rappresentanza.
La pervasività di questi fenomeni culturali è un´ulteriore spia della crisi degli intermediari tradizionali, attraverso i quali, sino agli ultimi anni del Novecento, si sono modulate le relazioni tra capitale e lavoro, individuo e società, verità e finzione. Come sempre, è una rivoluzione tecnologica, in questo caso quella di internet, ad avere fatto germogliare siffatte nuove esigenze. Non a caso è proprio il vento dello spontaneismo a far garrire la bandiera della disintermediazione, una parola difficile che spiega però un concetto semplice. Oggi le nuove tecnologie web 2.0 permettono agli utenti di compiere direttamente e in modo relativamente autonomo alcune funzioni che prima richiedevano l´intervento e il lavoro di appositi intermediari. I social network si trasformano in comunità virtuali che consentono un´espressione immediata della persona e in cui la partita si gioca sulla capacità, che richiede una particolare miscela di istinto e di scaltrezza, di raccontare se stessi secondo le forme e le retoriche dell´autenticità.
Ma il web è soltanto l´epifenomeno di precise condizioni materiali. Da un lato l´identità è sempre più incerta e la sincerità ne diventa un garante, dall´altro le vite sono sempre più controllate dalla tracciabilità e accompagnate da una rarefazione dei contatti reali. La spontaneità, pertanto, diventa un modo per raccontarsi e autorappresentarsi così da superare l´assenza di fisicità e l´impalpabilità che caratterizza in prevalenza il nostro universo relazionale.
Naturalmente, la questione condiziona anche la qualità e la forma del nostro linguaggio. Tanti post, blog, tweet, sms raccolgono in un oceano virtuale manifestazioni spontanee e viscerali che equivalgono alle vecchie scritte sui muri. Lo si dice con il massimo rispetto per questo tipo di espressioni che gli studiosi delle scienze sociali hanno da tempo imparato a conoscere e a valorizzare. Prima lo spazio dello sfogo era clandestino, mentre ora è diventato pubblico grazie al fatto che è virtuale e può essere protetto dall´anonimato. Di conseguenza, il web scarica di continuo uno straordinario flusso dialogico, alimentato da passioni, desideri, ideali, frustrazioni, risentimenti, odi tutti vissuti nel segno dello spontaneismo e della deresponsabilizzazione. Un flusso narcisistico poiché ciascuno vi getta dentro soltanto la parte che vuole rendere visibile della propria identità e rispecchia in esso la sua immagine: comunico ergo sum.
La complessità e le implicazioni di questi fenomeni culturali neo-spontaneistici sono analizzati in modo assai interessante dal filosofo Andrea Tagliapietra nel libro Sincerità (Raffaello Cortina editore, pp. 182 euro 12). Sincerità: una parola e un´aspirazione «splendida e terribile», «pretesa dagli amanti e giurata nei tribunali», che oggi non descrive più una relazione con una verità data che si dovrebbe testimoniare con i detti e con i fatti, ma è «l´autorispecchiamento del soggetto nelle azioni e nelle parole, ossia la piena coincidenza dell´individuo con se stesso». Essa finisce, dunque, per identificarsi con l´autenticità, intesa come spontaneità del volere. Il filosofo riflette sulla drammaturgia della sincerità che viene messa in scena nel teatro della vita e che la capillarità digitale della tecnica ha trasformato in richieste di trasparenza sempre più pressanti.
Vi è però un problema che riguarda il funzionamento della nostra civiltà: se lo scopo è la libera manifestazione della propria spontaneità, le regole diventano un impiccio e vanno sempre più ridotte, fino a scomparire. La libertà dei moderni che ha fatto coincidere la libertà della persona con i limiti di quella altrui rischia di trasformarsi così in una rivendicazione senza freni di poter fare ciò che detta il proprio istinto dentro una cornice anomica in cui, al di sopra e al di fuori della legge, finiscono per prevalere soltanto la brutalità dei rapporti di forza e di dominio. Come scrive Tagliapietra: «La società sottile della democrazia consumistica del capitalismo realizzato e del catastrofico programma della crescita infinita in un pianeta finito, con la sua confortevole e prepotente dolcezza, getta sull´individuo tutto il peso di definirsi, di capirsi, di giudicare e di essere giudicato, ma, al contempo, lo priva di peso, lo infantilizza, rende la realtà dell´io sempre più incerta, immatura, ansiosa ed evanescente».
Una tendenza alla regressione e alla labilità che discende dal tempo inquieto che viviamo in cui è difficile capire dove stiamo andando anche perché cambiano di continuo gli strumenti e la velocità con cui lo interpretiamo. La spontaneità si trasforma così in un estremo baluardo che serve a rendere tollerabile l´incertezza del mutamento. Spontaneamente, quindi, ma che fatica.
Repubblica 13.5.12
Fenomenologia dell’autenticità da Rousseau a Sloterdijk
Come hanno visto bene sia Hegel che Marx, il cuore che si sente puro e indenne è una mina vagante perennemente esposta al narcisismo
Il mito della "schiettezza" è da sempre al centro dell’interesse di filosofi e scrittori Fino al movimento della New Sincerity esploso in America già negli anni Ottanta
di Maurizio Ferraris
La sincerità è una bella cosa, ma a volte ci si chiede se un po´ di dissimulazione onesta non potrebbe contenere i profluvi di sincerità che affollano la rete, dove talvolta si manifesta quella che potremmo chiamare "sindrome di Rousseau", che nelle Confessioni pretende – con una sorta di arrivismo dell´autenticità – di essere l´unico uomo sincero sulla faccia della terra. Al di là delle innovazioni tecnologiche, l´enfasi sulla sincerità si spiega come reazione allo scetticismo e all´antirealismo postmoderni. Edward Docx nell´articolo sulla fine del postmoderno pubblicato su La Repubblica (3 settembre 2011) parlava di "nuova autenticità". Ma già negli anni Ottanta si era sviluppata, in America, la "new sincerity", un movimento – autorevolmente teorizzato in letteratura da David Foster Wallace, e con svolgimenti nei cultural studies e nella letteratura comparata – a molte facce ma con una tonalità emotiva dominante: una reazione all´ironia e al cinismo punk o new wave in musica; un recupero del classicismo contro il citazionismo postmoderno nel cinema; e in poesia (appunto in coincidenza con la fioritura dei blog) una reazione alla frigida ironia della poesia canonizzata da giornali e riviste letterarie.
Ma a ben vedere il tema della sincerità (o meglio, della strutturale insincerità del postmoderno) è quello del bestseller filosofico di Sloterdijk Critica della ragion cinica (1983), che però evitava la trappola della sincerità e proponeva una diversa strategia: combattere il cinismo del tardo capitalismo con un altro cinismo, rivoluzionario. Indipendentemente dalla terapia, Sloterdijk su un punto aveva ragione: non puoi opporre al cinismo la sincerità. Casomai, si può opporre all´antirealismo la realtà. Per almeno due motivi. Anzitutto, l´ironia e la decostruzione sono una conquista, che dunque va integrata, e non abbandonata: una delle cose buone del postmoderno è stato proprio riconoscere gli inganni dell´autenticità, che non ha niente a che fare con l´elogio del fasullo e dell´inautentico che pure c´è stato.
In secondo luogo, e lasciando da parte il postmoderno, la sincerità, così come il suo contrario, è un abito soggettivo. Siamo convinti di essere sinceri ma, in buona fede, possiamo fare il peggio, come quello che ammazza "per troppo amore", con un effetto indesiderato della massima di Agostino "ama e fa´ ciò che vuoi". Come hanno visto bene sia Hegel sia Marx, il cuore che si sente puro e indenne è una mina vagante, sempre esposta al narcisismo. Di questa sindrome abbiamo un esempio classico in Heidegger, che rivendica l´esigenza di una "esistenza autentica", contro l´inautenticità della gente comune, con una attitudine che da una parte (hanno notato bene sia Derrida sia il Thomas Bernhard di Antichi maestri) richiama l´elogio del "fatto a mano" e del biologico contro l´industriale, e che dall´altra sembra nascere da una automistificazione radicale. Di Heidegger, infatti, Hannah Arendt ha detto: "Finché può, mente". E la moglie Elfride ha postillato una appassionata lettera sulla autenticità mandatale da Martin in giovinezza osservando che era il modello di infinite lettere successivamente mandate alle sue amanti.
Diversamente da "Io ho mal di denti", "Io sono sincero" è una frase che nessuno può pronunciare in piena tranquillità. L´autoinganno e l´ideologia sono sempre all´orizzonte, ed è per questo che piuttosto che puntare sul soggetto contrapponendo la sincerità al cinismo conviene lavorare sull´oggetto e contrapporre la realtà all´antirealismo. Ovviamente ci sarà sempre chi obietterà che anche sul reale ci si può mistificare, ma attenzione, il reale ha un gran gusto nello smentirci, attraverso la resistenza e la frustrazione delle trappole del narcisismo. Dunque, nuovo realismo non è nuova autenticità o nuova sincerità. Ben vengano autenticità e sincerità come abito personale, ma l´essenziale è la realtà con la sua durezza. Che – contrariamente a quello che si dice, confondendo l´essere con il pensiero – non è affatto prodotta ideologicamente. Perché non ha bisogno di essere detta, c´è, resiste e spezza, affanna e consola, senza bisogno di sincerità, di confessione, di cuori messi a nudo.
Repubblica 13.5.12
Perché i rotoli dipinti cinesi sono gli antenati dei blog
Lo scrittore indiano racconta la sua passione per le lunghe pagine web ricche di foto Che preferisce ai rapidi tweet
di Amitav Ghosh
Il blogging cominciò a interessarmi solo quando aveva cessato di essere la cosa più nuova e incandescente. Fino a quel momento le sue potenzialità erano oscurate dalla tempestività che da esso si esigeva. Tutti i blog si occupavano del Qui-e-Ora; ci si aspettava che fornissero l´equivalente degli aggiornamenti in diretta e dei reality tv. I post erano flussi di parole abbreviate, la punteggiatura veniva ignorata e il carattere usato era di solito uno sgraziato sans-serif. Il formato sembrava voler mimare una concezione del "mondo reale" in cui i fatti e i sentimenti rotolano oltre lo spettatore come i detriti disordinati di un fiume in piena. Si potrebbe anche dire che quell´incompiutezza era per i blog ciò che la scansione è per un certo tipo di versi: una condizione del formato stesso. Il "look" costituiva la prova grafica di urgenza e autenticità. I post spesso erano concepiti per essere letti come dichiarazioni, o testimonianze, e le loro parole dovevano apparire come uscite di getto, sotto la spinta del tempo, di una profonda emozione, o di qualche incontenibile stimolo esterno.
Ma quei giorni ormai sono lontani. Oggi la funzione di testimoniare e fornire aggiornamenti in tempo reale è stata assunta dalle reti sociali e dagli sms. Dopo tutto i post di un blog, quale che sia l´urgenza con cui vengono composti, richiedono un uso esteso del linguaggio e una qualche formattazione. Tweet e sms sono comunque un´altra questione, i blog non possono sperare di competere quanto a sveltezza e tempestività. Né possono competere con Facebook e Twitter come forum di discussione. Inoltre i troll di Internet hanno parecchio contribuito a fare dello "spazio commenti" un lusso che solo i siti web economicamente solidi possono permettersi.
Questi cambiamenti hanno avuto un effetto selettivo nella blogosfera. Alcuni siti conosciutissimi hanno chiuso. Tra essi Sepia Mutiny (sepiamutiny.com), un sito estremamente popolare, specializzato in Asia meridionale. Ai primi di quest´anno, il sito ha lasciato di stucco i suoi utenti con il seguente annuncio: «Dopo approfondite riflessioni, abbiamo deciso di mandare in pensione Sepia Mutiny e sospendere i nuovi post dal 1° aprile 2012, a quasi otto anni dal nostro esordio, nell´agosto 2004. (...) Sebbene continuiamo ad amare il nostro lavoro con SM, la blogosfera si è parecchio evoluta rispetto a quando abbiamo cominciato (...). Gran parte degli scambi che un tempo avvenivano nei blog, adesso avvengono sui vostri account Facebook e Twitter. Cercare di contrastare tale tendenza è una causa persa».
Una tendenza in cui c´erano tuttavia altri elementi. Non si potrebbe dire, per esempio, che fu in qualche modo la pressione dell´urgenza a rendere stentata la vita dei blog? Perché solo dopo aver accantonato l´urgenza i blogger cominciarono a prestare più attenzione a ciò che fa del blog un particolare tipo di manufatto, un oggetto che viene forgiato con cura prima di metterlo in mostra. E proprio questo è l´aspetto più entusiasmante del blog: non la sua immediatezza, bensì il fatto che offre la possibilità di tornare a una forma più antica di rappresentazione, che permette di accostare senza soluzione di continuità parole e pittura o disegni, immagini e testo.
Quando pensiamo alla tecnologia della stampa a caratteri mobili, lo facciamo con spirito di gratitudine, ed è giusto che sia così. Ma, pur con tutti i suoi pregi, la stampa è responsabile anche dell´accentuarsi della linea di demarcazione fra parole e immagini. Prima dell´invenzione della stampa, parole e immagini erano di solito strettamente connesse, non importa se su carta o papiro, su pergamena o corteccia. I manoscritti miniati univano lettere e immagini in modo che si potenziassero a vicenda.
L´efficacia di tale connubio era tale che anche dopo l´invenzione della stampa si fecero grandi sforzi per ricreare l´aspetto delle forme precedenti di libro. Non solo i caratteri imitavano la calligrafia, ma molti libri continuarono ad essere dipinti a mano. I libri miniati erano però terribilmente costosi, e ben presto i "cliché" divennero lo strumento principale per riprodurre immagini su libri a stampa. Ma la preoccupazione per i costi prevalse anche sulle potenzialità dei cliché, e in breve tempo si rinunciò a una delle qualità più vitali dell´immagine – il colore.
La stampa divenne adulta in un´Europa sconvolta dal fervore puritano e dal fanatismo iconoclasta, e un sentimento di ostilità verso le immagini è forse una componente del suo patrimonio genetico. Ciononostante, per parecchi secoli le immagini serbarono un ruolo centrale nella stampa. Fino agli inizi del XX secolo, la presenza di tavole fuori testo era considerata un pregio. Fu la produzione industriale a rovesciare i criteri con cui si erano fino a quel momento giudicati i libri. L´accessibilità divenne il nuovo criterio per stabilire l´attrattiva di un libro: si cominciò a considerare stravagante e inutile, perfino frivolo, tutto ciò che aumentava i costi di produzione. Con ciò confermando i pregiudizi dei puritani che avevano sempre guardato con sospetto alla commistione di immagini e testo. A metà del XX° secolo il trionfo del testo era completo. Per Dickens era normale che in un romanzo si includessero immagini, non così per Joyce o per Hemingway. "Arte" e "Letteratura" presero strade separate e si finì per considerare pericoloso ogni scambio fra le due. Un tipo di rapporto riassunto alla perfezione dalla parola preferita dai media per le immagini: illustrazioni. Quanto suona diversa la connotazione del termine illumination, miniatura.
È utile riflettere su quanto fossero profondi e potenti questi pregiudizi. Quando ero ragazzo i fumetti erano visti come una debolezza che impediva alla mente di svilupparsi appieno. Si poteva essere puniti se scoperti a leggerli. Ciò perché si pensava che una mente abituata al figurativo sarebbe stata meno capace di vedersela con idee difficili o astratte. E perché mai? I matematici non si affidano forse a simboli e figure? I dipinti di Caravaggio, o i bassorilievi di Angkor Wat, non vanno forse "letti" con modalità che richiedono ragionamenti approfonditi?
Il trionfo del testo fu totale ma di breve durata. Internet avrebbe assestato il colpo mortale al puritanesimo della Parola. A differenza dei suoi antenati, neppure il più fanatico wahhabita può oggi sperare di purificare il suo mondo dalle immagini e l´iconografia.
Per me, l´attrattiva più immediata del blog sta nella sua ospitalità per le immagini. Ho un´inveterata passione per le istantanee e nel corso degli anni ne ho accumulato un´enorme quantità. Ma per nessuna ragione mi definirei un "fotografo" – le mie foto sono nel migliore dei casi delle buone foto e di solito molto meno. Ma spesso, mentre scatto fotografie, prendo anche appunti. Di per sé, né le une né gli altri hanno particolare valore, ma messi insieme si rafforzano. Assemblarli è un modo di conoscere il mondo – un modo che mi viene naturale. A parte il blog, non esiste altro medium in cui sarebbe possibile la loro pubblicazione. Stamparli insieme avrebbe costi proibitivi.
A parte ciò, l´esperienza di girare una pagina o scorrere uno schermo non è la stessa. Anzi, quel che fa del blog una forma a sé è proprio la sua resistenza alla stampa. La versione a stampa di questo articolo, per esempio, avrà un contenuto considerevolmente inferiore a quello del post che apparirà nel blog del mio sito web. E questo perché la versione a stampa non sarà corredata di immagini. Ciò implica che il significato delle due versioni sarà diverso? La risposta è sì, almeno nel senso che la forza dell´argomentazione non sarà la medesima. Solo un fanatico del logocentrismo potrebbe sostenere il contrario.
I blog indipendenti sono diversi anche da Facebook, MySpace e altre pagine ospiti. Queste pagine utilizzano modelli grafici forniti dalle grandi compagnie, pesantemente condizionati da funzioni di utilità commerciale e sociale. Un blog invece è forgiato assai di più dai gusti di chi lo tiene. Venuta meno la pressione del Qui-e-Ora, è anche una delle poche forme virtuali ormai priva di scopi eminentemente pratici.
Se il blog, come forma, ha un vero predecessore, è il rotolo dipinto cinese. Non solo l´occhio segue il "contenuto" in modo analogo, ma anche i rotoli dipinti servivano come documentazione, racconto, comunicato, eccetera. Nei rotoli dipinti c´era perfino l´equivalente dello "spazio commenti", dove nel corso dei secoli venivano aggiunte interpolazioni e sigilli. Ma soprattutto, i rotoli dipinti costituiscono quello che forse è l´esempio più squisito di abbinamento testo e immagine che sia mai stato creato. Hanno stabilito lo standard al quale i blog devono aspirare.
Nulla di ciò che ho detto intende negare o diminuire la forza dei media cartacei. Il processo di pubblicazione consiste nella collaborazione tra gli autori e molte altre persone: editor, agenti, grafici, iconografi, correttori di bozze e così via. Ognuna di queste persone aggiunge qualcosa e proprio per questo i lavori finiti sono, senza dubbio, assai migliori. È un processo che migliora enormemente la qualità, il valore e il significato dei libri. Ecco perché le istituzioni della stampa non spariranno: sono insostituibili.
E i libri non sono i soli beneficiari del processo di pubblicazione: anche gli autori ne traggono grande vantaggio. Collaborando con redattori, traduttori, agenti, fact-checker, correttori di bozze, ho beneficiato di una continua educazione che è durata per decenni, e senza la quale il mio blog non sarebbe stato possibile.
Ma detto tutto ciò, devo ammettere che uno degli aspetti più divertenti del blogging è che non ha bisogno di intermediari. È una forma di espressione che non richiede né ragione né ricompensa, né pubblico né causa – e come tale è quanto di più puro e piacevole si possa immaginare.
Avendo sperimentato questa libertà, trovo che sia diventato più difficile scrivere per quotidiani e periodici. Trattare con il direttore di un giornale, anche con il più comprensivo e accomodante, è comunque più complicato che aver che fare con se stessi. L´intervallo di tempo fra scrivere e pubblicare, anche se è solo questione di un giorno o due, sembra lunghissimo rispetto al piacere di postare un pezzo nel giro di pochi minuti dopo averlo scritto e editato.
Ma non è solo questo: nulla nel tenere un blog è sorprendente quanto il puro piacere di farlo.
© 2012
(Traduzione di Anna Nadotti)