La Stampa TuttoLibri 12.5.12
Dai «Pugni in tasca» al «Diavolo in corpo», a «La bella addormentata», il film sul caso Englaro ora in montaggio
«Con l’Oreste di Euripide ripasso il matricidio
«Da adolescente, scuola, casa, parrocchia, mi isolavo leggevo la Terra desolata di Eliot»" di Mirella Serri
Fracasso, grida. Un violento alterco irrompe nello studio romano di Marco Bellocchio che a Venezia si è conquistato il Leone d'oro alla carriera consegnatogli da un commosso Bernardo Bertolucci. Chi urla? Nessuna paura. E' una scena di Bella addormentata , il suo ultimo film, dedicato al caso di Eluana Englaro, che si sta montando nella stanza a fianco. Una pellicola che ancora non è uscita e già divide. «E' solo un'opera di invenzione e di fantasia ambientata nei giorni in cui la Englaro, in stato vegetativo per 17 anni, fa il suo ultimo viaggio verso la clinica per l'interruzione dell'alimentazione forzata», obietta il gran maestro della cinepresa. Capelli a spazzoletta, giacca sportiva, ancora oggi sembra quel tormentato «enfant prodige» che a 26 anni faceva la sua prima apparizione con I pugni in tasca . Da quell'esordio in cui non mancavano incesto e matricidio fino a Vincere , Bellocchio ha continuato a sconcertare e a scandalizzare. Adesso viene pubblicata la sceneggiatura del «Diavolo in corpo» (Mani editore), un'altra pellicola che accese gli animi, realizzata in un clima caliente, con il produttore che accusava di plagio lo psicoanalista Massimo Fagioli presente alle riprese. «Nel film che, quando apparve nelle sale ottenne grandi consensi anche a livello internazionale, ero come l'apprendista stregone: volevo raccontare un amore senza essere mai stato innamorato e così chiesi aiuto al mio terapeuta. Sollevare un polverone è poi il destino del romanzo di Raymond Radiguet a cui solo in parte mi sono ispirato: sconvolse il pubblico degli Anni Venti con la passione tra un liceale e una giovane donna sposata. Anche l'opera per il grande schermo con Gérard Philipe ebbe un effetto dirompente». Il background culturale che ha alimentato il suo spirito ribelle? «Non ero un gran consumatore di libri da piccolo. Salgari e il cinema, Torna a casa Lassie oCuore , mi appagavano. I risultati di liceale presso i Barnabiti sono stati modesti. Il realismo di Zola, Dostoevskij e la teorizzazione del delitto gratuito di Raskol' nikov, Gide e il cinico personaggio de L'immoralista , sono stati i capisaldi di quegli anni». Sentiva il bisogno di fuga dalla severa educazione ricevuta in famiglia? «Scuola, casa, parrocchia: da adolescente non ero felice. Mia madre, nonostante fossimo benestanti, non riusciva a organizzare i suoi otto figli. Io mi isolavo dipingendo, scrivendo poesie e leggendo La terra desolata di T. S. Eliot. Poi arriverà il suicidio del mio gemello nel 1968. Un trauma. Comunque ero riuscito a realizzare il mio primo film che non mi liberò dall'ossessione della famiglia ma mi proiettò fuori di casa». I libri che l'avvicinarono alla scoperta della sessualità? «I ragazzi più grandi avevano fidanzate che volevano arrivare al matrimonio illibate. La “prima volta” di solito era con una bella di giorno anche perché l'idea del sesso come sfogo e peccato ben si confaceva alla mentalità cattolica. Con un gruppo di compagni del collegio andammo in una casa di piacere ma solo uno ebbe il coraggio di salire in camera con una gentile fanciulla. I casini chiusero prima che io avessi l'età per omologarmi agli altri e mi rifugiai in Stendhal, Flaubert, Kafka, Hemingway, Tolstoj, Joyce, Moravia che parlavano di amore, eros e prostituzione». Poi arrivò il gran momento della politica militante e della psicoanalisi. «Il Capitale lo leggevo nel compendio di Carlo Cafiero. A influenzarmi furono i Quaderni Piacentini , rivista creata da mio fratello Piergiorgio a cui si affiancarono, con il loro radicalismo anarchico e antipartitico, Franco Fortini, Cesare Cases, Goffredo Fofi. Mi iscrissi all' Unione dei marxisti-leninisti e il filo rosso, è il caso di dirlo, furono il libretto del presidente Mao e Bertolt Brecht. Nonostante il successo mi sentivo smarrito e per due anni abbandonai il set. L'approccio a Freud non mi liberò dalle mie angosce ma fu uno strumento di conoscenza».
Ultimi libri e spettacoli? «Il regista sudcoreano Park Chan-wook con la sua trilogia della vendetta e Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Ho riletto l' Oreste di Euripide dove il matricidio mi riporta ai miei inizi e a questo tema forse dedicherò un mio nuovo film».
Corriere 12.5.12
«Non cancellate i centri antiviolenza»
Appello della Camusso contro gli abusi sulle donne. «Più fondi»
di Rita Querzé
MILANO — Dopo una ventina di violenze sessuali nel giro di un mese solo nel capoluogo lombardo, i soprusi sulle donne diventano un'emergenza riconosciuta (e temuta). A Milano e non solo.
L'ultimo caso è stato, giovedì scorso, quello di una maestra scampata per un soffio allo stupro da parte di un giovane magrebino, nella periferia Sud della città. Il fenomeno esiste da sempre, più o meno sottotraccia. Ma questa volta c'è una consapevolezza nuova e condivisa dal basso. Ieri a palazzo Marino — il municipio di Milano — si e riunita la rete di associazioni che si riconosce sotto il cappello di Se non ora quando Milano. Sala piena, donne e uomini e qualche passeggino. Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, sostenitrice del movimento fin dai primi passi, ha scelto la platea milanese per chiedere fondi e risorse per i centri antiviolenza. «È necessario mettere i soldi per queste iniziative così preziose. Molte sono sull'orlo della chiusura — va al sodo Camusso —. Lo sappiamo, le risorse sono scarse. Ma il contrasto alla violenza sulle donne non può aspettare».
Gran parte dei centri antiviolenza in Italia sono organizzazioni non profit, che si finanziano per la metà attraverso donazioni di privati e per il resto con contributi pubblici, spesso finalizzati al raggiungimento di obiettivi concreti. Poi ci sono gli «sportelli istituzionali», come quelli legati alle Asl.
«I fondi devono servire a mettere in rete le diverse iniziative. È necessario unire gli sforzi, da una parte. Dall'altra contribuire al disvelamento del problema», continua Camusso.
Manuela Ulivi, coordinatrice della Casa per le donne maltrattate di Milano che fa parte della rete Dire, comprensiva di 60 associazioni non profit in giro per l'Italia, ha preparato una lettera che martedì sarà consegnata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Secondo la nostra triste contabilità, dal 2005 alla fine del 2011, quindi senza tenere conto di quanto avvenuto negli ultimi mesi, sono state uccise 777 donne. Questa strage silenziosa va fermata. Ma più cresce il bisogno, più il senso di impotenza diventa difficile da sopportare. Alcuni dei nostri centri, come quello di Mantova, sono sull'orlo della chiusura».
«Agli uomini chiediamo di interrogarsi senza limitarsi a esprimere solidarietà», dicono le donne di Se non ora quando, rete che a Milano raccoglie esclusivamente associazioni vicine al centrosinistra. Nonostante ciò, il loro appello contro la violenza sulle donne ha raccolto anche le firme di esponenti del centrodestra lombardo tra cui Ombretta Colli, assessore della giunta di Roberto Formigoni. Proprio la regione Lombardia sta faticosamente mettendo a punto una legge contro i maltrattamenti sulle donne. Ma ancora un volta il problema sono le risorse. E i criteri di assegnazione.
l’Unità 12.5.12
Bersani ai giovani: nella sfida del 2013 servite voi
Il leader Pd sprona i ragazzi dell’Officina politica
«A destra il vuoto lo può riempire il populismo»
di Simone Collini
Le prossime elezioni non saranno un voto «qualsiasi» ma una «battaglia» da cui dipenderà la «ricostruzione» e la «riscossa civica e morale» del Paese. E il Pd avrà bisogno dei giovani. Pier Luigi Bersani chiude l’ultima lezione dell’anno dell’«Officina politica», la scuola di formazione del Pd, vestendo un po’ i panni dello Zio Sam col dito puntato: «I want you».
Certo, nell’arruolare le ragazze e i ragazzi in vista delle politiche del 2013 ricorre al suo linguaggio: «Ci vuole un pattuglione che “batta pari”».
IL GERGO DELLA MORRA
Ma il senso, benché mutuato dal gioco della Morra (battere pari significa giocare con chi si ha di fronte) è chiaro. «Adesso dovete restituire un po’ l’investimento dice sorridendo a chi ha frequentato la scuola democratica inizia la battaglia del 2013 e intenderei che voi foste un’ossatura di questa operazione. Vedrete che non sarà un’elezione qualsiasi, dovremo avere gente in campo che ci dà una mano».
La sfida sarà contro una destra che per Bersani, nonostante i tentativi di restyling in atto, non sarà migliore di quella conosciuta in questi anni. «C’è un vuoto nell’area di centrodestra che è in cerca di autore. Che cos’è questa “cosa” dei moderati? Forse sbaglio ma l’ipotesi prevalente sarà riorganizzare un campo di posizioni regressive e con qualche populismo di troppo. Verrà a galla una corrente contestataria, anti europea, anti tasse e via dicendo».
Anche il presente non è rassicurante, per il leader del Pd. A Berlusconi, che propone un dialogo sulle riforme, Bersani manda a dire che «c’è poco da trattare, le riforme sono in Parlamento e noi siamo lì».
LE PROPOSTE
Il Pd ha avanzato proposte di legge sia sul riassetto istituzionale che sulla legge elettorale e sul finanziamento pubblico ai partiti. Ma per ognuna di queste riforme il Pdl ha trovato il modo di frenare, di porre il confronto in salita, di dilazionare i tempi. «In Parlamento c’è la riforma costituzionale, ai tavoli tecnici si discute la legge elettorale, poi c’è la riforma dei partiti. È tutto in Parlamento, non c’è altro da discutere che questo».
Il problema è che il Pdl è in difficoltà, scosso dal voto amministrativo e
percorso da lotte intestine. Anche sulla riforma elettorale è diviso tra chi guarda con favore a un sistema tendente al presidenzialismo e chi (come gli ex An) vuole mantenere il sistema proporzionale correggendolo con l’introduzione delle preferenze.
Una discussione in cui il Pd si inserisce rilanciando il doppio turno di collegio. «L’esito delle amministrative suggerisce di riflettere sul doppio turno, un meccanismo che tende a unificare gli elementi di frammentazione ma pare che non ci sentano», dice Bersani riferendosi al Pdl, che ogni volta si presenta con posizioni «variabili a seconda dell’interlocutore e a seconda dei giorni»: «È un errore, ma noi in ogni caso continuiamo a discutere perché non può rimanere il Porcellum».
l’Unità 12.5.12
Il Pd col leader: «Primarie ora? Un errore»
di Simone Collini
Ma come si fa a parlare di primarie con quello che sta succedendo in Italia?». Pier Luigi Bersani scuote la testa di fronte alla richiesta di Matteo Renzi di convocare per ottobre le primarie per decidere chi sarà il candidato premier del Pd. Il sindaco di Firenze, che dopo la nascita del governo Monti aveva bloccato le operazioni partite dalla Leopolda, ora è tornato a spingere sull’acceleratore, lanciando una «sfida» al segretario: «Ricercare la sua legittimazione su primarie di tre anni fa dice in un’intervista al Corriere della Sera cioè di un’era geologica fa, perché in politica è cambiato tutto, sarebbe assurdo».
Bersani, che per il prossimo autunno sta preparando un ben diverso appuntamento, che coinvolgerà ampi settori del mondo della cultura e dello spettacolo, della formazione e dell’associazionismo, e che avrà come obiettivo quello di scrivere insieme un’«agenda per la ricostruzione e la riscossa civica e morale» e di siglare un «patto con la società» in vista delle politiche del 2013, legge e sorride sornione: «È vero che dal 2009 ad oggi è cambiato tutto.
Il mondo, non la sola politica, è cambiato. L’unico che non è cambiato è Renzi, che parla sempre di primarie».
Una battuta, scambiata con i suoi, perché il leader del Pd non pensa sia il caso di ingigantire la faccenda, visto quel che sta attraversando il Paese. «Ho in testa altre questioni e non queste», dice non a caso poco dopo, arrivando alla scuola di formazione politica del Pd e rispondendo ai giornalisti che gli chiedono se raccoglierà la «sfida» di Renzi. «Sono l’unico segretario al mondo eletto con le primarie, quindi per me problemi zero. Ma in questo momento il Paese ha altre preoccupazioni, e io non ho la testa per pensare alle primarie».
PATTO UNITARIO AL VERTICE
Ma non è solo questione di tempistica, anche se Walter Verini dice che così si va «fuori tema», anche se Dario Franceschini è molto critico con Renzi e ritiene che si debba subito chiudere su Bersani candidato premier, e anche se un esponente del Pd come Beppe Fioroni, che in passato non ha nascosto di apprezzare l’attivismo del sindaco fiorentino, fa notare che «chiedere le primarie mentre siamo in piena tensione sociale non è buona politica». Parole che segnalano il patto unitario siglato dal gruppo dirigente democratico, consapevole del fatto, come è stato evidenziato alla riunione svolta all’indomani delle amministrative, che il Pd è in questo momento il solo «presidio» in un sistema politico terremotato. O, come dice Fioroni inviando un chiaro messaggio a Renzi: «Siamo l’unica grande forza politica nazionale, occorre responsabilità, bisogna anteporre il bene comune al proprio interesse».
Per Bersani, al di là dell’inopportunità di aprire ora il percorso delle primarie, c’è anche una questione di metodo con cui fare i conti. Il leader del Pd da tempo ha fatto sapere che non si nasconderà dietro lo Statuto del partito, che prevede che sia il segretario il can-
didato premier dei Democratici, che lui è «a disposizione» e nel caso non si candiderà «dal notaio» ma dopo che ci sarà stato un nuovo pronunciamento. Il seguito del ragionamento lo fa di fronte ai giovani che ieri hanno partecipato all’ultima lezione dell’anno della scuola di formazione politica: «Ribadiamo testardamente che la politica è un esercizio collettivo. Chi non percepisce questo ha in testa qualcosa di diverso dalla politica».
CON INTELLETTUALI
Il discorso sul «collettivo» vale per il partito ma vale anche per la futura coalizione. Sarà infatti chi ne farà parte, è il ragionamento di Bersani, a decidere quale sia la strada migliore per scegliere il candidato premier. Se tutti saranno d’accordo sul ricorso alle primarie, ben vengano. A meno che in quel momento si riterrà più opportuno scegliere un’altra strada per definire la premiership.
Tra l’altro Bersani sta lavorando non solo per arrivare alle politiche del 2013 con un’alleanza tra progressisti e moderati, ma per aprire quanto più possibile questa formazione a personalità della società civile. Per questo ha deciso di lanciare un «appello» per organizzare in autunno «un appuntamento con gli intellettuali italiani». Il leader del Pd, che punta a siglare «un patto con chi crede nelle riforme e vuole combattere le diseguaglianze», sta pensando a un incontro con storici, filosofi, sociologi, personalità anche del mondo dello spettacolo, dell’associazionismo, per scrivere insieme un’«agenda» che dovrà essere sì di governo, ma anche «per la ricostruzione e la riscossa civica e morale del Paese». Bersani chiederà insomma un contributo alla definizione programmatica. Ma è chiaro che l’operazione, se a rispondere all’appello saranno personalità di alto profilo, potrebbe anche avere il sapore di un’investitura e non sarà indifferente per la definizione della premiership.
Corriere 12.5.12
I democratici: «Altre priorità» Civati: «Il partito si confronti»
ROMA — «Mi pare che il Paese abbia altri problemi, ora non ho la testa per pensare alle primarie». Pier Luigi Bersani risponde con poche parole a Matteo Renzi che sul Corriere lo aveva sfidato invocando le primarie per la candidatura del Pd alle prossime politiche. Ieri il sindaco di Firenze ha detto che gli basterebbe anche solo una «data» per la consultazione tra gli elettori del Partito democratico. E accanto ai tanti «no», come quello di Giuseppe Fioroni, ha trovato una sponda in Pippo Civati: «Secondo me, a questo punto, è il caso che ne discuta la direzione nazionale, la prossima settimana». Anche il veltroniano Walter Verini è favorevole alle primarie. Sostiene però che sarebbe meglio affrontare il tema più avanti: «Se ne può certamente parlare, ma in questo momento si rischia di andare fuori tema».
Corriere 12.5.12
«Renzi? Nel Pd ci sono troppi galli»
Franceschini: il candidato è Bersani, il nostro Hollande. Le primarie dopo le politiche
Scende in campo il grande «rottamatore»... Un trauma, per il Pd?
di Monica Guerzoni
«Una cosa è il confronto fisiologico di idee e personalità che c'è dentro tutti i grandi partiti, altra cosa quel virus che ci ha indebolito, dall'Ulivo in poi».
Matteo Renzi portatore di un virus, presidente Dario Franceschini?
«Il tema è che dal 1996, dopo aver scelto un leader, invece di lavorare come una squadra si fa di tutto per indebolirlo. Io sono stato l'avversario di Bersani alle primarie, ma proprio perché conoscevo quanto quelle ferite fossero già vive nella pelle degli elettori, dal 2009 ho preso l'impegno di lavorare per la squadra. Quando penso al virus che ha contagiato il Pd mi viene sempre in mente la battuta di un militante, che secondo me è più efficace di tante letture politologiche».
Quale battuta?
«Nel Pd ci sono troppi galli, convinti che il sole sorga solo quando cantano loro. Non è stupenda?».
Nel 2009 furono gli elettori a decidere tra lei e Bersani, perché ora non possono scegliere tra Bersani e Renzi?
«Le primarie per scegliere il segretario del Pd ci saranno alla scadenza fissata dell'autunno 2013, dopo le politiche».
Intanto vi tocca fare i conti con i risultati delle ultime elezioni, che non sono trionfali.
«I dati delle amministrative dicono che, in una situazione di crollo generale, il Pd ha un risultato positivo. E adesso deve proporsi, senza timore, come baricentro di un'alleanza tra progressisti e moderati».
Perché Bersani non dimostra la sua forza raccogliendo la sfida di Renzi, invece di stopparlo dandogli del «nuovista»?
«Matteo è un giovane effervescente, con delle qualità. Ma non ho capito, francamente, su che linea si candidi a guidare l'Italia, se non su un dato anagrafico di giovinezza, tra virgolette. Mi pare un po' pochino. Con quali idee si candida? Per quali alleanze? In questo momento di crisi mi sembra più giusto proporre agli italiani di mettersi in mani esperte e rassicuranti. Come quelle di Bersani».
Eppure con Prodi decideste di affidare a un cattolico, com'è Renzi, la guida dell'alleanza, per intercettare i voti moderati. Questo schema non può essere vincente?
«La divisione tra elettori laici e cattolici in politica non c'è più, gli italiani votano secondo coscienza, con molta mobilità. Per governare serve una personalità che abbia la forza di confrontarsi, al posto di Monti, con la Merkel, con Hollande, con i problemi europei. Bersani, com'era per Prodi, ha esperienza, ha fatto bene il ministro e guidato una grande regione come l'Emilia Romagna».
Vi appellerete allo Statuto?
«Non è per una regola statutaria, che pure c'è. È che in questo momento la scelta giusta per il nostro Paese può assomigliare a quella francese. Tra l'istrionismo di Sarkozy e la serietà di Hollande i francesi hanno scelto l'esponente socialista, che ha conquistato consensi anche oltre i tradizionali confini fra destra e sinistra».
Voi però, con Bersani leader, non siete riusciti a prendere voti nel centrodestra.
«Sì, ma si vota tra un anno e a ogni elezione è come se si votasse per la prima volta. L'offerta che devono mettere in campo i progressisti si declina in affidabilità e diversità dalla destra. Per il Pdl gli italiani devono arrangiarsi finché non si raggiunge la meta della crescita, per noi invece l'obiettivo immediato è aiutare quei milioni di persone che ad aspettare la crescita non ce la possono fare. Per questo insisto che il ricavato della lotta all'evasione dovrebbe andare non a ridurre l'aliquota sui redditi più bassi, ma a chi il reddito non ce l'ha proprio, a cominciare dai disoccupati e dagli esodati».
Renzi sostiene che Bersani non è legittimato dalle primarie 2009. Il segretario avrà il coraggio di affidarsi al responso degli elettori, per sapere se sarà lui a correre per Palazzo Chigi?
«Non ci si deve mai coprire dietro norme statutarie, ma quella regola ha un senso. Quando Bersani vinse le primarie votarono più di tre milioni di persone e tutti sapevano che andavano a scegliere il segretario del Pd, che sarebbe stato anche il candidato premier alle successive elezioni. Non è che ora si possono cambiare le regole per soddisfare le proprie aspirazioni».
Sembra di capire che le primarie per la premiership non si faranno. È così?
«Al momento non sappiamo con che legge elettorale si va a votare e il tema delle alleanze si affronta quando si sa con che legge elettorale si va al voto. Poi decideremo, con le forze alleate, se le primarie servono oppure no. Mi sembra un percorso logico».
Qual è la strategia per evitare che Bersani, che anche lei ritiene destinato a vincere, si schianti come capitò alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, nel '94?
«Tutti citano questa gioiosa macchina da guerra, ma parliamo di un'altra era. Sono cose non paragonabili. Oggi il Pd è il più grande partito italiano che legittimamente si candida a governare, dopo i disastri di Berlusconi e dopo la transizione di Monti».
Repubblica 12.5.12
Parma, il Pdl punta sui grillini ultima trincea contro il Pd
L’ex sindaco: si può votare il candidato 5 Stelle
Pizzarotti: "Noi non chiediamo niente a nessuno, chi ci sostiene fa una sua scelta"
di Francesco Nani
PARMA L´ultima tentazione di un centrodestra in forte emorragia di voti si chiama Movimento 5 Stelle. I grillini come ultima spiaggia per arginare l´avanzata del Pd alle amministrative. Una convergenza che potrebbe concretizzarsi a Parma, dove i seguaci di Grillo hanno ottenuto un clamoroso 19,5% e si giocheranno al ballottaggio la poltrona di sindaco col centrosinistra.
Sel ha già fiutato l´aria: «Tra i sostenitori del Movimento 5 Stelle si stanno accalcando tutti i personaggi e i partiti più compromessi del centrodestra. Dopo l´appoggio dichiarato da Elvio Ubaldi, Pizzarotti e soci sono stati abbracciati dal Pdl». Ubaldi è il primo cittadino che nel 1998 salì in municipio a capo di una lista civica sostenuta da Fi e Udc. A farne le spese l´allora Pds. La bandiera civico-berlusconiana ha sventolato, nell´unico Comune capoluogo azzurro della rossa Emilia, per 14 anni. Una stagione politica chiusa domenica scorsa quando Vincenzo Bernazzoli (Pd) ha sfiorato il 40% e Federico Pizzarotti ha soffiato a Ubaldi il sogno di approdare al secondo turno. L´obiettivo, svanito, era far dimenticare le inchieste e i debiti che hanno affossato la Giunta guidata dal suo ex delfino Pietro Vignali, dimessosi a settembre per fare posto al commissario. Ora Ubaldi gioca l´ultima carta: «Non andare a votare è un favore a Bernazzoli. Al ballottaggio potremmo votare Pizzarotti. In fondo è lui la novità, potremmo dargli un´opportunità, anche per vedere cosa sono capaci di fare i grillini».
E un pensierino lo starebbe facendo anche il Pdl, che ufficialmente bolla le insinuazioni di Sel come «farneticazioni». «Lasciamo libertà di voto» replica Polo Buzzi, ex vicesindaco spazzato via dal voto, con un posto tra i banchi dell´opposizione come unico orizzonte. «Decideremo cosa fare ma non me la sento di dire di andare al mare, il diritto di voto va pur sempre esercitato» aggiunge il dominus locale Luigi Villani. Ma tra i militanti e non solo c´è chi ha già deciso. E´ il caso dell´ex consigliere Davide Morante che scrive su twitter: «Siccome non posso più scegliere Buzzi, al ballottaggio voglio scegliere Pizzarotti». Copione simile a Comacchio, dove il grillino Marco Fabbri, autore di un ragguardevole 22% al primo giro, se la giocherà col democratico Alessandro Pierotti. D´altra parte a Piacenza il candidato sindaco Andrea Paparo del Pdl, in gara con Paolo Dosi del Pd, chiede esplicitamente il voto grillino e parla di «proposte in comune con il Mov5Stelle».
Così Paparo sembra suggerire cosa scegliere anche agli elettori parmigiani del Pdl, il partito che più di tutti ha sofferto nelle urne a causa di scandali, manette e indignati in piazza. Gli azzurri sono sprofondati dal 29% del 2008 al 4,7. Rispetto alle regionali 2010 il partito ha lasciato per strada 16.400 voti e la Lega 9.400. Non è un caso se i 5Stelle ne hanno incassati 8400 in più. «Il voto ai grillini è solo una provocazione, ma quei consensi li recuperiamo. Basta ascoltare i campanelli d´allarme» commenta il coordinatore regionale Filippo Berselli. E Pizzarotti? Passa da un´intervista al Financial Times a una per Le Monde e agli abboccamenti del centrodestra risponde: «Noi non chiediamo l´appoggio di nessuno, se qualcuno si sentirà di farlo sarà una decisione sua». Chissà se dirà qualcosa di più Grillo, atteso venerdì prossimo per la chiusura della campagna elettorale. E sarà una sfida tra comici, perché Bernazzoli per la sua chiusura ha chiamato Gene Gnocchi.
Repubblica 12.5.12
La nuova stagione dei diritti
di Stefano Rodotà
Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all´ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell´Europa. Così come lo è l´avvio dell´estensione alla Chiesa dell´obbligo di pagare l´imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l´utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell´uomo e soprattutto dell´innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l´Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all´acqua potabile.
Scopriamo così un´altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall´evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell´ombra. Un´Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l´Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell´Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l´importanza capitale e la portata per i cittadini dell´Unione». Sono parole impegnative. All´integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l´integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell´Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l´Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L´approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell´unica istituzione europea democraticamente legittimata – il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l´orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all´esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell´economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all´istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l´Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall´adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l´Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un´Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L´emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell´Ungheria. Ma l´esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un´altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l´azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.
l’Unità 12.5.12
Quel silenzio dei Grandi sui detenuti palestinesi
di Moni Ovadia
PROF. HENRY SIEGMAN, ORDINATO RABBINO ORTODOSSO DALLA YESHIVA TORAH VADAATH E CAPPELLANO MILITARE NELLA GUERRA DI COREA, è stato Executive Director dell’American Jewish Congress (dal 1978 al 1994) e del Synagogue Council, Senior Fellow al Council on Foreign Relations. I suoi scritti sono pubblicati dai maggiori quotidiani Usa e dalla New York Review of Books. Il prof Siegman ha scritto: «I fondatori del sionismo furono fra i leader più illuminati e progressisti del mondo ebraico...loro non erano razzisti... Ma il governo Nethanyahu ha provato che, benché il sionismo non sia razzismo, ci sono dei sionisti che sono razzisti. Nel 1980 molti nell'establishment ebraico americano parteciparono alle dimostrazioni contro il regime dell'apartheid in Sud Africa. La battaglia contro l'apartheid era considerata non solo dai liberals una causa ebraica. Oggi in Israele l'apartheid, non è una possibilità futura come molti non hanno smesso di ammonire, ma è una realtà attuale. Nethanyahu e il suo governo si sono impegnati a travestire il loro regime di apartheid de facto fingendo che lo status quo nei territori occupati sia temporaneo... ».
In questo regime di apartheid creato progressivamente dal governo Nethanyahu vedono la luce tutte le vessazioni tipiche di tali regimi. Oggi, detenuti palestinesi in sciopero della fame per protestare contro le illegali detenzioni amministrative e le brutali condizioni di detenzione, subiscono ogni sorta di violenza punitiva fisica e psicologica, due di essi Bilal Thaer e di Diab Halahleh, in sciopero da 67 giorni rischiano la vita. Il silenzio dei grandi della terra è assordante.
La Stampa 12.5.12
Algeria, l’ondata islamista s’infrange sui partiti laici
Insieme agli alleati filogovernativi l’Fln potrà dettare la Costituzione
di Domenico Quirico
220 seggi sono stati vinti dal Fronte di liberazione nazionale all’Assemblea di 462 deputati I suoi alleati della lista del premier Ouvahia sono al secondo posto
Chissà se i leader dei partiti islamici, dell’Alleanza verde ci credevano davvero, alla vittoria, al potere in fondo all’urna. Non sono ingenui, da anni hanno accettato un cantuccio, ben pagato, all’interno del sistema algerino. E hanno appreso che le elezioni, quaggiù, non rientrano, ieri oggi, anche domani probabilmente, nel dominio della pura aritmetica; ma in quello della metafisica creativa. Da ieri pomeriggio i loro leader denunciano la congiuntura maligna. Ma i risultati sono questi: il Front de Libération nationale, il partito del presidente Bouteflika, ha vinto 220 seggi dell’Assemblea nazionale (ne aveva 136). Una sorpresa ai limiti del credibile: il partito era dato, a sentire i suoi stessi dirigenti, a rischio di sparizione, con il segretario Abdelaziz Belkadem in lista di licenziamento e capilista che non avevano mai militato. «Un voto rifugio contro l’islamismo», ha spiegato il ministro degli Interni Daho Kablia. Al secondo posto i suoi alleati del Rassemblement démocratique National, il partito del premier Ouyahia.
E gli islamici, l’onda verde che, secondo i sondaggi, doveva allineare l’Algeria ai vicini, Egitto Tunisia Marocco? Nella nota del ministero degli Interni l’Alleanza verde è confinata alla miseria di 48 seggi. I due partiti governativi hanno la maggioranza assoluta nella nuova Assemblea di 462 seggi. E poiché, di fatto, funzionerà come Costituente il regime disegnerà il futuro a proprio comodo, potrà tranquillamente procedere alla resa dei conti interna, per decidere chi sarà il nuovo presidente nel 2014.
Soprassalto di mobilitazione laica, logica in un Paese di forte e sobria pazienza che, dopo aver attraversato gli inferi dell’applicazione dell’islamismo radicale alla politica con decine di migliaia di morti, vuole evitare gli splendori e le miserie della sharia, qualsiasi ne sia lo spessore e il colore? I giovani, i nuovi elettori hanno saputo essere più lungimiranti dei loro coetanei dei Paesi vicini che, egualmente azzannati dalla povertà e disgustati dalla corruzione, si sono affidati ai miracoli del partito di Dio? Difficile, al di la delle denunce dei vinti che devono essere provate, non avere dubbi. Che la presenza degli osservatori stranieri non basta certo a fugare. La sconfitta islamica è, in fondo, quanto speravano le cancellerie occidentali
Gli islamici hanno denunciato «la grande manipolazione». Inquieta il seguito, criptico nelle parole ma chiarissimo nella minaccia: «Una tale pratica rischia di distruggere quanto resta della speranza e della fiducia del popolo e di esporlo a pericoli di cui non ci assumiamo le responsabilità». Insomma per diventar sovversivi aspettavano solo un motivo valido. Per questi moderati che avevano accettato le regole del gioco elettorale e le promesse di trasparenza c’è una seconda umiliazione: non aver seguito il consiglio dell’ala radicale, i vecchi capi del Fis degli Anni 90, secondo cui era tutta una finzione per legittimare il regime e l’unica risposta politica era il boicottaggio.
"Gli islamici hanno conquistato soltanto 48 mandati e ora denunciano brogli"
Corriere 12.5.12
Le ferite (mai richiuse) della lunga guerra civile
di Antonio Ferrari
C'è solo da sperare che non si stia riproponendo, nelle elezioni algerine, il ribaltone o la grande truffa del 1991, quando contro l'inequivocabile vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza) si mossero i carri armati, e la frode evidente ed esplicita provocò una terribile guerra civile, costata quasi 200.000 morti. In realtà oggi la situazione è diversa, con un risultato sostanzialmente capovolto. Allora non si volle riconoscere la vittoria degli islamici; oggi si mette in discussione, con accuse di brogli indecenti, la vittoria del partito presidenziale, cioè il Fln, Fronte di liberazione nazionale, che avrebbe conquistato 220 dei 462 seggi del Parlamento. Con il sostegno del secondo partito, Unione nazionale democratica, guidato dal primo ministro Ahmed Ouyahia, che ha conquistato 68 seggi, i laici avrebbero quindi una solidissima maggioranza assoluta. Resa ancor più evidente dalla sconfitta del Fronte islamico, che oggi comprende sei sigle, e che complessivamente avrebbe raggiunto 66 seggi. In sostanza, una disfatta dei fondamentalisti, che le prime affrettate analisi attribuivano enfaticamente alla maturità del popolo algerino, assai scettico sulle esperienze degli altri popoli arabi che hanno condotto, con risultati controversi e in molti casi preoccupanti, le cosiddette «primavere». Ora la «grande manipolazione» denunciata dagli islamisti algerini, che prevedono come conseguenza dei clamorosi brogli l'esposizione a gravi pericoli del popolo, pericoli di cui «rifiutiamo di assumerci la responsabilità», sembra materializzarsi lanciando ombre inquietanti. Con una serie aggiuntiva di brividi, perché le ferite del 1991 non si sono mai richiuse, e perché se ventuno anni fa era obiettivamente difficile denunciare tutti i soprusi, alimentare il dissenso e puntare sulla solidarietà dei fratelli arabi, oggi è cambiato tutto. I social network e l'esperienza dei Paesi vicini, a cominciare dalla Tunisia, e quella dei più lontani Egitto, Siria e Bahrein, hanno diffuso nell'intero mondo musulmano una nuova consapevolezza. L'Algeria di Abdelaziz Bouteflika e dell'élite militare che lo sostiene è in sostanza un Paese a due velocità: da una parte gli enormi proventi dovuti a petrolio e gas; dall'altra le modeste ricadute di tanta ricchezza su un popolo fiero e paziente. È pur vero che per superare le disparità fra le regioni costiere e quelle assai più povere dell'interno è stato varato un piano quinquennale (retaggio dei vecchi regimi comunisti) per ridistribuire almeno una parte del denaro ricavato dalle risorse energetiche del Paese. Ma l'obiettivo era un buon risultato elettorale. I dubbi di oggi e le dure proteste non lo sciolgono.
l’Unità 12.5.12
La democrazia sembra aver tenuto
di Antonio Panzeri
Il giorno dopo il voto, l’Algeria si sveglia consapevole di aver archiviato la tornata elettorale, piena, però, di interrogativi su ciò che adesso potrà e dovrà accadere.
Ieri, parlando alla televisione di stato, il ministro degli Interni Daho Ould Kablia ha fornito i dati ufficiali di partecipazione al voto del 10 maggio: 42,90 per cento. Stando a questi dati, si é dunque registrato un aumento di circa sette punti rispetto alle elezioni legislative del 2007. Da qui, la soddisfazione delle autorità che hanno sottolineato il senso di civismo e di maturità del popolo algerino. Tuttavia, c’é da ritenere che su questo elemento della partecipazione si discuterà ancora molto ed animatamente nelle prossime settimane, tra le forze politiche e sui media, se non altro perché la maggioranza degli algerini in realtà ha disertato le urne. É altamente probabile che il voto riconfermi la maggioranza attuale di governo, anche se con qualche riequilibrio al proprio interno. La questione islamica non ha ancora assunto in Algeria i contorni che tanto fanno allarmare alcuni tra i commentatori europei. Questo per due ordini di motivi: innanzitutto perchè il partito islamico è, allo stato attuale, sufficientemente integrato nel sistema politico. In secondo luogo, perchè il periodo nero degli anni Novanta, cioè quello contrassegnato dal Fis, ilFronte islamico di salvezza nazionale che interruppe il processo democratico dopo aver vinto le elezioni, è ancora ben presente nella mente degli algerini.
Nel panorama in piena evoluzione del Nordafrica, l’Algeria sembra aver colto l’esigenza di aprirsi e attuare un processo di riforme democratiche e di volerlo fare con la gradualità necessaria e per via parlamentare. Non è in discussione la buona fede e la volontà di perseguire questo obiettivo. Tuttavia, i tempi stringono e reclamano il passaggio dalle parole ai fatti. Per questo, anche se a qualcuno può sembrare paradossale, il voto del 10 maggio affida ancor più responsabilità all’Assemblea nazionale eletta.
L’Algeria si è caricata sulle spalle una grande sfida. C’è da augurarsi che sappia affrontarla e vincerla per evirare che si ripristino i fantasmi del passato e che anzi possa incamminarsi rapidamente sulla strada delle riforme e della modernizzazione del Paese.
La Stampa 12.5.12
Per i contributi all’editoria arriva un taglio del 50%
Ieri i liquidatori del Manifesto hanno comunicato la cessata attività
di Francesca Schianchi
L’intenzione è quella di «razionalizzare, rendere trasparenti e migliorare la qualità» dei contributi pubblici all’editoria. Risparmiando almeno un terzo delle risorse: secondo i calcoli del governo, si dovrebbe passare dai 150 milioni del 2010 a circa 100-110 al massimo, forse anche meno. Per riuscirci, ieri il Consiglio dei ministri ha approvato due provvedimenti: un decreto legge, che possa subito rivedere i criteri di accesso e di distribuzione delle risorse, e un disegno di legge delega che prefiguri una riforma del sistema a partire dal 2014, da quando cioè, in base al decreto Salva Italia, cesseranno le sovvenzioni così come sono state distribuite finora. L’avvio di un processo di revisione che arriva proprio nel giorno in cui, tramite fax, i liquidatori dello storico quotidiano “Il manifesto”, in liquidazione coatta amministrativa da febbraio, comunicano alla redazione la pessima notizia della cessazione dell’attività e la richiesta di cassa integrazione per tutti di 12 mesi.
«I contributi diretti verranno ristretti a rimborso di costi controllabili, eliminando tutte le zone d’ombra che in questo settore hanno portato anche problemi gravi», annuncia il sottosegretario con delega all’editoria, Paolo Peluffo. Da subito il decreto riduce infatti i costi ammissibili per calcolare il contributo statale: solo quelli di produzione e vendita, non più consulenze e “service”. Per evitare abusi, la quota variabile comincia a essere calcolata solo sulle copie vendute, escludendo quelle diffuse in blocco e tramite «strillonaggio». Personale, carta, stampa e distribuzione saranno rimborsati per il 50%; la quota variabile sarà pari a 0,20 per ogni copia venduta di quotidiani nazionali, 0,15 dei locali e 0,35 dei periodici. Questi criteri di calcolo, per la prima volta, verranno applicati anche ai giornali di partito (per i quali restano invece più elastici i criteri di accesso al contributo).
Come ulteriore strumento di controllo, viene resa obbligatoria la tracciabilità di vendite e rese dei giornali attraverso i codici a barre: previsti crediti d’imposta per quelle edicole che aderiranno a una rete informatica. Ma cambia anche l’accesso alle risorse: per averne diritto, le testate nazionali dovranno vendere almeno il 30% di quanto distribuiscono (finora era il 15%), mentre quelle locali il 35% (prima bastava il 25%). Viene preso in considerazione anche un criterio legato al personale: i quotidiani che desiderano accedere ai fondi pubblici dovranno avere almeno cinque assunti a tempo indeterminato in prevalenza giornalisti, ne bastano tre ai periodici. A tutti è richiesto di essere in regola con il Fisco.
E il decreto prevede anche contributi per quelle aziende che decidano di passare alla pubblicazione digitale: per due anni, la sovvenzione coprirà il 70% dei costi e 10 centesimi per ogni copia venduta in abbonamento. Se molti si convertissero al web, sottolineano dal governo, il risparmio complessivo per le casse statali sarebbe ancora più accentuato del previsto 30%.
«Vengono finalmente definite buone pratiche amministrative di rigore e trasparenza», concede il segretario del sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi, Franco Siddi, ma ci sono ancora «elementi che dovranno essere precisati e chiariti», non si può perseguire solo il «risparmio di risorse». Che resta però centrale: anche scendendo a 100 milioni di euro, la cifra resta ben più alta di quella stanziata dalla legge di bilancio per l’anno prossimo, 56 milioni di euro.
La Stampa 12.5.12
Remo Bodei
Non siamo più indignati, ora siamo disperati
L’ira può essere un sentimento positivo ma la crisi economica oggi ci porta alla depressione. Le riflessioni del filosofo
di Mario Baudino
L’incontro alle 12 in Sala Blu La lectio magistralis alle 12 in Sala Azzurra Oggi alle 12 in Sala Blu «Ira e indignazione», un incontro con Remo Bodei per la presentazione del suo nuovo saggio sull’ Ira . Evento a cura del Mulino Interviene Ugo Cardinale Pubblichiamo a destra una parte della lectio magistralis che il filosofo spagnolo Fernando Savater terrà oggi alle 11 in Sala Azzurra. Il titolo è L’etica della creazione intellettuale: una riflessione nell’epoca di Internet . A cura dell’editore Laterza
L’indignazione è il sentimento di essere stati ingiustamente offesi, noi o i nostri più prossimi, quindi una sorta di reintegrazione dell’autostima
C’ era una volta l’Indignato, sembra ieri. Ma nel giro di pochi mesi è sparito non solo dal mondo della comunicazione ma anche dalle piazze. Al suo posto s’avanza una nuova figura, che sempre più assume il ruolo di (triste) icona del 2012: il Disperato, che si uccide o per il lavoro o che il lavoro ha rinunciato a cercarlo, e si chiude nella disperazione, appunto, individuale. Che cos’è successo, in poco più di un anno? Remo Bodei, che ha pubblicato nel 2011 Ira, la passione furente (Il Mulino) parla oggi al Salone proprio di questi temi, e in particolare del rapporto fra ira e indignazione. Il filosofo, che insegna all’Ucla, l’Università di Los Angeles, è fra l’altro un grande analista delle passioni. Un campo in cui, storicamente, l’ira giganteggia.
«È il sentimento di essere stati ingiustamente offesi, noi o i nostri più prossimi, quindi una sorta di reintegrazione dell’autostima. L’indignazione poi ci dice è una nobile rivolta contro l’ingiustizia, e cioè il male fatto a tutti. Entrambe hanno una lunga e nobile tradizione. Pensi a San Pietro che nel Paradiso dantesco diventa rosso d’ira quando parla di Bonifacio VIII. Può un santo adirarsi fino a questo punto? Evidentemente sì». La sua è una tipica «ira giusta», quella senza la quale, secondo Aristotele, era come venissero tagliati i «nervi dell’anima». Bodei nel suo libro la legge come passione e non come vizio, e di conseguenza come motore politico e sociale anche nella modernità, dalla Rivoluzione francese in poi. Gli Indignati ne sono stati l’ultima la più recente incarnazione.
Oggi se ne parla decisamente meno. Lo si vede bene al Salone: sono spariti dagli stand i punti esclamativi sui titoli dei libri, le grandi petizioni di principio, le diffide gridate ad alta voce, gli ultimatum. La stagione segnata dal successo del pamphlet di Stephane Hessel, l’ex partigiano novantatrennne divenuto una sorta di cometa mediatica, è già alla fine. Persino l’esempio più tipico di «banca dell’ira», e cioè Beppe Grillo, nonostante si continui a vociferare che è in arrivo per la sua visita «privata», mantiene e forse amplifica il suo ruolo di grande assente. In questo, i libri che sono pur sempre l’asse portante della cultura e dei suoi imprevedibili mutamenti, registrano nel loro insieme e a volte anticipano il clima sociale. Tutto finito? «No. Se ne parla di meno perché l’indignazione, che può essere facilmente malriposta e degradarsi a vittimismo, forse è vissuta come un’arma spuntata. E’ un fuoco che si accende in un certo momento».
Si spegne altrettanto all’improvviso? «Non sempre. Abbiamo visto divampare le rivolte europee e quelle dei Paesi arabi o del Nordafrica. Avevano obbiettivi diversi, sono finite tutto sommato male. E non dimentichiamo le “banche dell’ira” e dell’indignazione, ovvero quella situazioni in cui la passione viene accumulata per indirizzarla politicamente. Ma oggi potremmo dire che è già stata assorbita da un nuovo atteggiamento emotivo e mentale». La disperazione? «La disperazione credo sia reale, sotto la spinta della crisi, e non solo un fenomeno amplificato dai mass media. Non riempie le piazze, è ovvio. Ma da atteggiamento emotivo solitario si sta in qualche modo legando a ricerche, appunto disperate, di un progetto, di una via d’uscita. Il problema è che in quanto tale viene vissuta in solitudine, e anche quando si organizza ha effetti politici molto ridotti».
Da una lato l’indignazione che, almeno, «produce adrenalina, è un sentimento positivo e propositivo anche se non sa dove andare». Dall’altro la depressione, che è un modo di ripiegarsi su se stessi. Ma non sono poli opposti; forse sono ancora in bilico. E comunque possono incontrarsi. «Per esempio alle elezioni: la disperazione, se va a votare, vota gli indignati. C’è una contiguità: non dimentichiamo che siamo alle prese con passioni tristi».
Corriere 12.5.12
Ecco perché parliamo (tanto) di noi
La formula di Twitter e Facebook
Nel cervello si attivano le stesse aree di cibo, denaro e sesso
di Mauro Covacich
Cosa c'è nel raccontare di sé che mi fa stare così bene, e dal costringermi a sproloquiare con esternazioni sterminate decisamente poco ecosostenibili in un ambiente già troppo affollato di tribuni sprovvisti di orecchi? Ora lo sappiamo. Due neuroscienziati di Harward, Diana Tamir e Jason Mitchell, hanno scoperto che nel dare sfogo alle nostre confidenze stimoliamo le stesse zone del cervello che si attivano per il piacere del cibo, del denaro e del sesso.
S e parlo di me godo. Quale magia del piacere si annida nelle parole? Cosa c'è nel raccontare di sé che mi fa stare così bene, dal volerne ancora e ancora, e dal costringermi a sproloquiare con esternazioni sterminate decisamente poco ecosostenibili in un ambiente già troppo affollato di tribuni sprovvisti di orecchi? Ora lo sappiamo. Due neuroscienziati di Harward, Diana Tamir e Jason Mitchell, hanno scoperto che nel dare sfogo alle nostre confidenze stimoliamo le stesse zone del cervello che si attivano per il piacere del cibo, del denaro e del sesso. L'aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche è il medesimo. Nello studio, rivelato ieri al Wall Street Journal, si dimostra (con tanto di test collettivi e risonanze magnetiche), che il quaranta per cento dei discorsi quotidiani di un individuo è dedicato all'espressione di pensieri e sentimenti privati.
La notizia è interessante perché ci dice qualcosa che avevamo già avvertito coi nostri modesti mezzi introspettivi, qualcosa che non sapevamo di sapere e che dà conto di una vera e propria isteria di massa: ovvero, tanto insisto per mettermi in luce, quanto vivo nella costante angoscia di non essere amato abbastanza. L'attenzione degli altri mi gratifica senza riuscire mai a saziarmi, né più né meno degli altri piaceri materiali. Il che crea un paradosso: l'aumento costante di spazi di comunicazione, soprattutto nell'universo della Rete, ha lo scopo primario di nutrire il mio egocentrismo. Penso ovviamente ai social-network. Non occorre interrogarsi troppo in profondità per scoprire che la socializzazione di Facebook e Twitter è per buona parte illusoria. A dispetto di un aumento di informazioni, sia in termini di numero che di frequenza, a dispetto di un allargamento del campo degli interlocutori (le nuove «amicizie»), l'intento comunicativo tradisce il mio bisogno di luce. In teoria dovrei parlare solo quando ho qualcosa da dire, in pratica dico sempre qualcosa. Mi esprimo, dichiaro, chioso, intervengo, posto, riposto, compio una serie infinita e inevitabilmente inflattiva di atti linguistici, perché questo mi provoca un'immediata sensazione di piacere.
L'immediatezza è il nodo di questa scoperta scientifica. Un tempo avrei partecipato a una discussione con l'idea di ricavarne un accrescimento a lungo termine, avrei preso il motorino, avrei attraversato la città per andare in un posto ad ascoltare gli altri. Forse, avessi avuto un'idea e il coraggio per esprimerla, avrei alzato la mano. La serata avrebbe generato in me effetti contrastanti e duraturi. Ora intervengo con un clic, e lo faccio per godere subito. Un bisogno di appagamento istantaneo che innesca il digitare compulsivo. Eccomi al semaforo intento a twittare su quanto fosse freddo il cappuccino che mi hanno appena servito al bar. Eccomi al semaforo successivo intento a controllare le prime reazioni.
Di primo acchito, una tale deriva cripto-solipsistica — sottolineo, paradossale — può essere addebitata alla nuova complessità del mondo esterno. Se la realtà mi assedia coi tratti sempre più inafferrabili e proteiformi dei suoi problemi, io mi rifugio nel monologo esteriore. Se le cose fuori di me si sono fatte illeggibili, io leggo me stesso, ripasso senza posa l'unico centimetro del pianeta di cui so abbastanza. E ne faccio spamming. Beninteso, il fenomeno è molto meno rozzo di come lo descrivo: moltissimi di noi sono diventati efficienti agenzie di informazione che erogano in tempo reale notizie sulla guerra civile siriana, sull'affermazione degli ebook, sull'oscenità delle pale eoliche, sull'ultimo provvedimento fiscale di cui indignarsi. Ma quasi nessuno lo fa davvero per questo. Inutile dire che anch'io in questo momento, a un livello neanche troppo subliminale, scrivo per placare il mio narcisismo e gettare un'altra verginella innocente nella sua bocca spalancata. E non c'è dubbio che affrontare il mondo là fuori è un'esperienza faticosa, per non dire sconcertante. Ma se ce ne restiamo tutti in casa ad aggiornare i nostri profili, se continuiamo a espellere enunciati per il gusto di sentire come suona la nostra voce, che possibilità ha il mondo di spiegarci le sue ragioni?