lunedì 14 maggio 2012

l’Unità 14.5.12
C’è un vento a Berlino
Frau Merkel ora teme per sé
di Paolo Soldini


NESSUNO VORREBBE ESSERE, OGGI, NEI PANNI DI NORBERT RÖTTGEN. È stato lui, l’uomo che Angela Merkel ha voluto (contro buona parte della Cdu) come candidato alla presidenza della Renania-Westfalia, a trasformare il voto di ieri in un referendum sulla politica economica della cancelliera. Lo hanno preso sul serio e quella che è stata chiamata «die kleine Bundestagwahl», la piccola elezione federale (prova generale del voto nazionale dell’autunno 2013) è finita in un disastro che rischia di avere conseguenze serie sulla strategia del governo tedesco. Da quando esiste la Repubblica federale l’orientamento degli elettori nel Land più popoloso, più industrializzato e più integrato con il resto dell’Europa fa da apripista.
Come vanno le elezioni in Renania-Westfalia così, più o meno, andranno le successive elezioni federali. E proprio da questa regione della Germania arriva ora la più pesante delle sconfitte per la Cdu e la sua politica. C’è la tenuta dei liberali, è vero, ma non basta a salvare le prospettive del centro-destra. La Spd e i Verdi sono aumentati. La prima in modo clamoroso, più debolmente i secondi, che comunque non si sono dissanguati a beneficio della nuova formazione dei Piraten. Se è stato un referendum sulla austerity policy, il segnale non potrebbe essere più chiaro. A due giorni dall’incontro con Hollande, Frau Merkel vede
sgretolarsi un altro pezzo della sua disciplina di bilancio che deve difendere dalle richieste di modifiche che vengono da tutte le parti e delle quali il neopresidente francese si fa interprete. Proprio ieri da Parigi sono arrivate cannonate dal portavoce del Ps Benoît Hamon: mica l’abbiamo eletta noi la cancelliera che vuole decidere da sola sul destino degli altri, ha detto facendo notare che la severa disciplina di bilancio prevista dal Compact Pact «ha portato la Grecia alla rovina».
Hollande sarà sicuramente più diplomatico, ma la sostanza non cambia. Se non concede presto qualcosa ai partner e non trova il modo di cavarsi dall’isolamento Angela Merkel rischia di veder affondare, insieme con la sua strategia anti-crisi, anche il suo potere al vertice della Repubblica. Una sola cosa, nel voto di ieri, può averla un po’ consolata: i suoi alleati della Fdp, che fino a qualche settimana fa parevano avviati alla scomparsa, si sono salvati, come era già avvenuto domenica scorsa nello Schleswig-Holstein. Se il segnale ha un valore nazionale, l’attuale coalizione di centro-destra ha ancora qualche chance per il voto dell’anno prossimo. Sono in vista, comunque, negoziati molto complicati. Quando nel piccolo Land del Nord sarà eletto un presidente Spd, la cancelliera perderà la maggioranza al Bundesrat, la Camera alta che ha competenza sul bilancio e le leggi di spesa. E al Bundestag, per avere la maggioranza di due terzi imposta dalla Corte costituzionale per l’approvazione del Fiskalpakt, Frau Merkel dovrà trattare con la Spd, che viaggia in sintonia con Hollande.

l’Unità 14.5.12
Düsseldorf, vince l’Spd
Tonfo per Angela e la sua linea rigorista
Netta sconfitta Cdu nel Land più popoloso
Il governo sarà Rosso-verde. Pirati quasi all’8 per cento
di Gherardo Ugolini


BERLINO Le votazioni regionali nel Nord Reno-Westfalia hanno sancito un clamoroso successo per i socialdemocratici tedeschi ed una pesante sconfitta per la Cdu di Angela Merkel. Se nella precedente tornata di due anni fa il risultato era stato un sostanziale pareggio tra le due principali forze politiche, questa volta l'esito è inequivocabile. Trascinata dalla governatrice uscente Hannelore Kraft, l'Spd arriva al 39% dei consensi, aumentando di 4 punti percentuali e riconquistando il rango di primo partito della regione. La Cdu, guidata dal merkeliano Norbert Röttgen, attuale ministro dell'Ambiente nella compagine del governo nazionale, subisce un tracollo perdendo circa otto punti percentuali e attestandosi al 26,3%, il peggior risultato di tutta la sua storia. Appena saputi i risultati, Röttgen ha rassegnato le dimissioni dalla presidenza regionale del partito assumendosi ogni responsabilità e ammettendo di aver subito «una sconfitta chiara e netta, che non può in nessun modo essere relativizzata o addolcita».
A sinistra buone notizie anche per i Grünen, i verdi, che ottengono l'11,5% confermando il risultato della volta precedente, mentre, sempre a sinistra, la Linke resterà fuori dal parlamento di Düsseldorf avendo raggiunto soltanto il 2,6% al di sotto della soglia minima di sbarramento. Dalle prime analisi dei flussi elettorali risulta che molti voti della sinistra radicale sono rientrati nel solco dell'Spd (da dove erano usciti per protesta contro la linea dei sacrifici e dei tagli al welfare), oppure confluiscono verso l'agguerrita formazione dei Piraten. Per la Linke si tratta delle seconde regionali
consecutive in cui resta al palo col rischio di tornare ad essere una forza esclusivamente «orientale», come la vecchia Pds. La crisi è iniziata quando Lafontaine si è dovuto ritirare dalla ribalta politica nazionale per ragioni di salute lasciando il partito in un vuoto assoluto di leadership e di idee. Probabilmente solo un ritorno in campo di Oskar «il rosso», ora che si è pienamente ripreso, potrebbe ridare vitalità alla Linke tedesca restituendole un ruolo forte nel dibattito pubblico.
A sorridere sono i liberaldemocratici dell'Fdp, che grazie al carisma del leader locale, Cristian Linder, ottengono l'8,4% e infilano il secondo risultato positivo dell'anno, dopo quello di domenica scorsa nello Schleswig-Hollstein, dopo due anni di batoste subite in tutte le elezioni regionali. Infine c'è da registrare l'ennesimo «arrembaggio» riuscito dei Piraten che raggiungono il 7,8% quintuplicando in un colpo i voti di due anni prima. Dopo Berlino, Saarland e Kiel è il quarto parlamento regionale conquistato nel giro di pochi mesi dagli arancioni, e ormai non ha senso parlare di sorpresa. I Pirati intercettano ovunque la gran parte del voto giovanile e costituiscono una realtà politica con cui le forze tradizionali saranno costrette prima o poi a fare i conti.
Secondo i dati trasmessi dal primo canale della tv pubblica tedesca, la socialdemocratica Hannelore Kraft potrà disporre di una maggioranza parlamentare rosso-verde amplia e autosufficiente per governare il Land. Anche due anni fa dalle urne del Nord Reno-Vestafalia era scaturita una maggioranza rosso-verde, ma si trattava di un governo di minoranza, reso possibile dall'appoggio esterno della Linke. Questa volta Spd e Verdi potranno contare su 121 dei complessivi 212 seggi del parlamento regionale e avranno la chance di governare per tutta la legislatura. «Abbiamo messo al centro della nostra azione politica le persone, e abbiamo vinto» ha dichiarato Hannelore Kraft di fronte alla massa dei militanti socialdemocratici in festa. È certamente lei la trionfatrice della giornata, la donna che ha riacceso le speranze dell'Spd e che più di uno vedrebbe con favore nel ruolo di anti-Merkel, quale candidata alla cancelleria nelle politiche del 2013. L'ipotesi è stata finora esclusa dalla diretta interessata, ma il presidente del partito Gabriel ha dichiarato in serata di non escludere tale opzione.
VENTO FRANCESE
Il vento di sinistra che sette giorni fa ha portato il socialista François Hollande alla conquista dell'Eliseo pare essere un vento europeo, che soffia con forza anche sulle pianure e nelle città della Germania. Il voto nel Nord Reno-Westfalia era certamente un test amministrativo locale, ma aveva con tutta evidenza delle implicazioni anche per quanto riguarda lo scenario politico nazionale e internazionale. Gli elettori di quella popolosa regione (tanti abitanti quanti Lombardia, Veneto e Piemonte insieme) sapevano perfettamente che il loro voto sarebbe stato interpretato come un referendum sulla linea politica del governo Merkel, ovvero sull'irriducibile rigorismo economico della cancelliera. Chi ha deposto la scheda nell'urna sapeva di votare contemporaneamente per Düsseldorf e per Berlino. Del resto la campagna elettorale ha visto contrapposte, per quanto riguarda la gestione finanziaria del Land, due concezioni che rispecchiano gli orientamenti nazionali e internazionali. Da una parte Röttgen, fedelissimo di Angela, predicava la ricetta del massimo rigore finanziario per risanare i bilanci della regione. Dall'altra Hannelore Kraft che puntava su nuovi piani di investimento e nuove tasse sui più abbienti. Ha stravinto Hannelore, e se quello è stato il nocciolo ideologico del contendere, allora la vittoria socialdemocratica assume un significato ancora più importante.

l’Unità 14.5.12
Intervista a Aurélie Filippetti
«Noi, Generazione H al governo»
di Umberto De Giovannangeli


Aurélie Filippetti. Figlia di un italiano emigrato in Lorena, 39 anni, ha fatto parte dello staff della campagna di Hollande e ora potrebbe diventare ministra della Cultura

È uno dei volti più conosciuti della «Generazione H», nel totoministri tutti scommettono su di lei per un dicastero di prestigio: i giornali francesi già parlano di lei come madame Culture. «Per me dice a l’Unità una meravigliosa avventura si è aperta domenica scorsa, con la vittoria di François. Ora staremo a vedere, mi piacerebbe tornare a scrivere, ho già in testa la trama di un nuovo romanzo...».
Un sogno che lei, Aurélie Filippetti, 39 anni, parlamentare socialista, origini italiane, responsabile cultura, audiovisivi e media nello staff di François Hollande, dovrà tenere nel cassetto, perché un’altra avventura, tutta politica, l’attende. Il suo rapporto con la memoria, personale e pubblica, Aurèlie lo dipana nel romanzo a lei più caro, e più sofferto, tradotto in Italia dalla casa editrice Tropea: Gli ultimi giorni della classe operaia. Commosso omaggio di una figlia al padre morto prematuramente per una malattia professionale ai polmoni: il romanzo ne ripercorre la vita di operaio emigrato in Francia. Ricordi personali e storie di famiglia che rispecchiano la grande memoria collettiva degli immigrati italiani nelle miniere della Lorena. Minatore italiano e comunista, attraverso di lui Aurélie ritrae una generazione di lavoratori segnati dall'esilio, dalla guerra, dalla recessione economica, ma che sapevano essere profondamente solidali tra loro. Accanto a questo plot, si muovono le mogli, i figli e un'intera popolazione nascosta, sacrificata e spesso dimenticata. Angelo Filippetti rimarrà fedele ai suoi ideali, battendosi tutta la vita per l'affermazione della giustizia sociale. Un valore rimarca Aurélie Filippetti che «non tramonta mai». Come non tramonta il suo amore per le arti e la letteratura, rimasta orfana a 19 anni, Aurélie confessa: «A darmi la gioia, oltre che la forza, di vivere è stata la letteratura». Una vita che l’ha portata ai vertici della politica francese, è stata lei, giovane socialista di origini italiane ad aver introdotto Hollande in tutti i comizi di questa lunga campagna elettorale. Dobbiamo rivolgerci a lei con un “signora ministra”? Tutti gli analisti la indicano come una delle donne scelte da Hollande per far parte del nuovo governo. «Francamente non ne so nulla, nessuno mi ha detto niente, anche se..».
Anche se?
«Sarei ipocrita se lo negassi: sarei onorata di far parte della squadra di governo scelta da Hollande. Chiunque decide di impegnarsi in politica non può sottrarsi, se viene indicato, a cimentarsi con l’esercizio della responsabilità. La politica, almeno come l’intendo io, è una sfida continua a tradurre le proprie convinzioni, i propri ideali, in atti concreti.
Se non è questo, se non è assunzione di responsabilità, la politica si riduce ad uno sterile blabla».
Nello staff di Hollande, lei era responsabile cultura. Molto si è parlato del programma sociale ed economico del presidente eletto, e sulla cultura?
«La cultura è un investimento, e non una spesa. È parte fondamentale dell’idea di crescita che ispira l’intero programma di Hollande. Le priorità di Hollande si chiamano istruzione, giustizia, sicurezza, e la maggior parte delle risorse saranno indirizzate verso questi settori nevralgici. Ma ciò non vuol dire mettere ai margini la cultura, le arti, lo spettacolo. Parlo di investimenti e non di spesa, perché la cultura, le arti, lo spettacolo possono essere creatori di ricchezza. La crescita, poi, non può essere misurata solo su parametri economici. Crescita è anche estensione e qualificazione del sapere, è, per fare un esempio concreto e a me molto caro, attuare un vasto programma di educazione artistica nelle scuole, indirizzato in particolare ai bambini bisognosi. Vede, nella mia famiglia la cultura è sempre stata vista come un mezzo di emancipazione, molto più che di scalata sociale. Nella vita dobbiamo essere liberi e si diventa liberi anche attraverso la cultura».
Si è molto discusso sulla visione di società, di comunità, di nazione, che ispira Hollande. Lei che ha vissuto al suo fianco tutta l’avventura elettorale, quale idea ha maturato in proposito?
«La visione di Hollande è inclusiva. Sul terreno sociale come su quello, non meno significativo, dei diritti di cittadinanza. Penso, ad esempio, al suo impegno per i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Un impegno che non nasce in campagna elettorale. Hollande si è espresso in tal senso già nel 2004 e nel 2006 è stato primo firmatario di una proposta di legge socialista. Dall’Eliseo continuerà questa battaglia per i matrimoni e le adozioni per coppie dello stesso sesso. È solo un esempio, indicativo però della volontà di Hollande di agire contro ogni discriminazione di genere». A proposito di parità di genere: Hollande si è impegnato a formare un governo composto al 50% di donne.
«Anche questo è il segno che les changement c’est maintenant (il cambiamento è adesso, ndr), non è solo lo slogan riuscito di una campagna vincente, ma è un impegno con i francesi e le francesi che Hollande intende onorare anche nella composizione del nuovo governo».
C’è chi dipinge Hollande come un nemico del rigore.
«È una caricatura che non risponde minimamente né alle idee né alla persona di Hollande. Parlare di crescita, riflettere sui profondi guasti sociali prodotti da un liberismo senza regole né vincoli, voler contrastare la speculazione finanziaria, ritenere che l’austerità senza sviluppo porta alla recessione, proporre ai partner europei un Patto per la crescita e lo sviluppo che accompagni il Fiscal compact, tutto questo non significa essere nemici del rigore, è investire sul futuro. È questo l’impegno di Hollande, ieri da leader politico, oggi da Presidente».
Un passo indietro, alla notte del 6 maggio. Lei l’ha vissuta a fianco di Hollande. Ai giornalisti che le chiedevano qual era il suo stato d’animo, lei ha risposto di gioia ma non di euforia. Perché? «Confermo: c’era gioia, tantissima, per un risultato straordinario, quella gioia, oltre alla fatica, che aveva caratterizzato tutta la campagna elettorale di Hollande. Ma potremmo sentirci euforici solo quando saremo riusciti a trasformare in cose reali le idee che hanno portato Hollande all’Eliseo, riuscendo a far uscire la Francia dalla crisi. Il difficile viene adesso».

l’Unità 14.5.12
Il Papa: l’Italia reagisca
Un governo tecnico in cerca di «supplementi d’anima»
di Massimo Adinolfi


C’È UN PASSAGGIO, NELLE PAROLE PRONUNCIATE IERI DA MONTI, CHE CONVIENE OSSERVARE DA VICINO: non per impugnare la matita rossa e blu, ma solo per capire bene. «La crisi economica – ha detto il premier – se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore». Il contesto in cui cadevano queste assennate parole – l’incontro con Benedetto XVI – giustifica l’attenzione rivolta alle condizioni morali e spirituali del Paese.
Il Papa ha invitato l’Italia a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, e ha indicato nella grande tradizione umanistica del nostro paese i fondamenti culturali a cui attingere per invertire la rotta. Un grande «rinnovamento spirituale ed etico» deve collegarsi alla tradizione storica
dell’Italia, per riprenderla, rielaborarla, riproporla su basi nuove. Ed è vero: la nostra eredità culturale e civile è dote preziosa per tenere unito il Paese, e rimetterlo sul sentiero della crescita. Si può naturalmente discutere su cosa diventino i valori, anche i più “etici” e “spirituali”, quando siano separati dalle condizioni effettive in cui furono pensati e posti in essere, e se una sorta di philosophia perennis possa mai accompagnare un Paese attraverso le sue tante e diverse stagioni storiche e politiche. Ma queste son domande di filosofi. Nel momento in cui i timori di uno sfilacciamento del tessuto sociale si fanno sempre più grandi, è comprensibile e anzi auspicabile che forti si intendano le parole che infondono fiducia, che donano speranza, che richiamano tutti al comune senso di appartenenza e alla più coraggiosa assunzione di responsabilità. E fa bene il presidente del Consiglio ad accoglierle e rilanciarle, specialmente di fronte a segnali di malessere sociale che vanno acuendosi sempre più.
Ancor più è apprezzabile che Monti abbia sentito ieri l’esigenza di riprendere la parola che fin dal giorno del suo insediamento aveva accompagnato la proposta programmatica del suo governo: la parola equità. Ci vuole equità, aveva detto, e ancora ieri ha ripetuto. E dentro la tradizione umanistica si trovano davvero le risorse per ripensare il valore non solo morale ma anche politico dell’equità: quella dimensione in cui il rigore della giustizia non può andar disgiunto da un ricco senso di umanità, e le proposizioni di principio non vengono mai fatte valere in astratto, nell’ignoranza delle circostanze concrete in cui gli uomini vivono. Ma resta il passaggio che citavamo in apertura. Perché non può sfuggire che, a rigor di logica, se il premier teme che l’acuirsi della crisi economica possa comportare conseguenze più ampie, sul piano culturale ed etico, allora per lui l’elemento «culturale» ed «etico» si trova in posizione di effetto, mentre la crisi economica, recessione e disoccupazione si trovano in posizione di causa. Ma questo significa che ben difficilmente il rapporto può rovesciarsi, e d’improvviso la fiducia e la speranza, il coraggio e i forti auspici morali possono essere la causa, e la ripresa economica l’effetto. Sempre a rigor di logica si dovrebbe piuttosto pensare il contrario, e che un clima di aspettative favorevoli si stabilirà solo grazie a nuovi investimenti: non solo di fiducia.
Certo, abbiamo bisogno di supplementi d’anima. Forse ne ha ancora più bisogno il governo in carica, che non ha l’etichetta di governo tecnico perché analisti cocciuti si ostinano a ricordare le competenze del premier, ma perché Monti stesso parla alla politica come a un mondo ben distinto e a volte anche distante dal governo. La politica viene individuata come una sfera diversa, con la quale si discute, ma della quale tuttavia non si fa parte e non si intende far parte.
Forse c’è la convinzione che la popolarità dell’esecutivo ne trarrà guadagno, o forse si ritiene che sia così più facile trovare nel governo il punto di mediazione fra interessi contrapposti. Può darsi. Ma sta il fatto che è proprio questo distacco a volte ostentato che rende comprensibile che il premier cerchi supplementi morali a sostegno della sua azione, pur con qualche bisticcio fra la causa e l’effetto. Perché a pensarci il vero supplemento dell’azione di governo c’è, e non può avere altro nome che, per l’appunto, politica. E in tutta Europa, sembra proprio che ne stia di nuovo venendo il tempo.

l’Unità 14.5.12
Alemanno marcia contro la 194 Polemica a Roma
Fondamentalisti in marcia A Roma corteo anti-194
La reazione del Pd: posizioni minoritarie ed estremistiche
di Massimo Franchi



Corteo a Roma contro la legge sull’aborto con toni da crociata. A guidarlo è il sindaco Alemanno in compagnia dei fondamentalisti e di Forza Nuova. Slogan contro lo «sterminio di Stato». È polemica. Il Pd: una manifestazione estremista.
Manifestazione contro l’aborto con Militia Christi e Forza Nuova. In prima fila anche il sindaco Gianni Alemanno

Crocifissi portati in parata, preghiere e slogan contro l’aborto. I fondamentalisti di Militia Christi ben visibili e il sindaco Alemanno, vestito sportivo, che saluta tutti e poi si mette in bella posa con la fascia tricolore. E a chi gli chiede: «Ma non ti vergogni?», risponde piccato: «Ma che vuoi?».
Sotto un solleone estivo la (seconda) Marcia per la vita ieri mattina ha visto sfilare un lungo serpentone nel centro di Roma, dal Colosseo a Castel Sant’Angelo, confine del Vaticano. Quindicimila persone, secondo gli organizzatori, hanno marciato esplicitamente «contro le leggi abortiste». E che nel mirino ci fosse la 194, approvata 34 anni fa (l’anniversario arriverà martedì 22
maggio) lo conferma la sparata arrivata a fine giornata dal leader di Forza Nuova, Roberto Fiore: «Quella di oggi è stata la più imponente manifestazione “pro vita” che l'Italia ha visto negli ultimi decenni. Non ho dubbi che il Movimento “pro vita” sia oramai pronto per la grande battaglia referendaria per l’abrogazione della 194. Infatti, uno dei passaggi fondamentali da affrontare perché l’Italia esca dalla crisi che la attanaglia, è proprio quel cambiamento del senso delle leggi che permettono ancora, che milioni di figli vengano uccisi nel grembo delle proprie madri».
Alla partenza i partecipanti sono stati accolti dallo striscione delle femministe che penzolava da Colle Oppio: «Aborto clandestino, profitto di milioni, è questa la morale di preti e padroni». Nessuna tensione, solo civile contestazione per una manifestazione che ha diviso la città.
La manifestazione ha ricevuto l’adesione di numerosi ecclesiastici di peso, a partire dai cardinali Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, e Angelo Bagnasco, presidente della Cei. «L' iniziativa è già stata incoraggiata da un gran numero di vescovi e cardinali, italiani e stranieri, di associazioni e di fedeli», hanno specificato gli organizzatori. Da parte sua il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha fine marcia ha commentato: «Il messaggio è che nessuna donna, nessuna famiglia, deve essere costretta a rinunciare ad avere un figlio. Roma è mobilitata da sempre per il valore della famiglia». Tra i partecipanti anche il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri:
PD: STRUMENTALIZZAZIONE
Sabato aveva destato perplessità la decisione di partecipare da parte dell’ex vicesindaco del Pd ed esponente cattolica del partito Maria Pia Garavaglia. Ma ieri è arrivato il dietrofront: «Di fronte alla evidente strumentalizzazione di questo evento, con forze politiche di estrema destra che hanno partecipato dando un evidente segno politico alla Marcia, ritiro la mia adesione nella speranza che temi cosi importanti vengano considerati con la serietà che gli spetta». Per il consigliere capitolino Pd Dario Nanni, «facendo sfilare l’istituzione di Roma Capitale a fianco di gruppi neofascisti, omofobi e antisemiti come Forza Nuova e Militia Christi il sindaco si è assunto la responsabilità di esprimere per la città una posizione minoritaria ed estremista che addita le donne che hanno dovuto ricorrere alla interruzione di gravidanza come assassine».
Passati i fondamentalisti cristiani, i Fori Imperiali sono stati invasi dai bambini: giocavano a pallone e andavano in bicicletta. Due appuntamenti sportivi e sociali. Un’altra marcia per la vita.

l’Unità 14.5.12
Un sindaco 
che dimentica di rappresentare tutta la città
di Maria Zegarelli


MANIFESTARE PER LE PROPRIE IDEE È UN DIRITTO. ANCHE QUANDO SONO MINORITARIE, DI PARTE.
Ma un sindaco, il sindaco di Roma in questo caso, rappresenta tutta la città e tutti i suoi cittadini. Non dovrebbe dimenticarlo mai e dovrebbe almeno evitare di mescolarsi con compagnie estremiste, cantori di slogan violenti, fautori della contrapposizione e dell’odio.
Il patrocinio del Comune di Roma alla manifestazione contro la legge 194, a cui hanno preso parte anche Forza Nuova e Militia Christi, è stato un grave errore di Gianni Alemanno. Le istituzioni non sono di parte, sono di tutti gli uomini e le donne che rappresentano. Il punto non è soltanto l’opposizione dichiarata a una legge dello Stato, che il Comune, in quanto istituzione, è chiamato a rispettare: il problema più grave ieri era rappresentato dall’insopportabile aggressività contro le donne, definite «assassine» e partecipi di «omicidi di Stato». Con il sindaco che sfilava accanto a chi gridava.
L’aborto non è un diritto assoluto, ma è una scelta che la donna compie con sofferenza e verso la quale ognuno deve porsi innanzitutto con rispetto. Nessuno, tanto meno un rappresentante delle istituzioni, può lanciare accuse pesanti come quelle che sono partite ieri da quella piazza. Gridare «assassine» e definire «omicidio di stato» l’interruzione di gravidanza nelle strutture pubbliche non è libertà di espressione. Anche perché la 194 non si propone di liberalizzare l’aborto: non è questo lo spirito su cui si fonda. Promuove la maternità e tutela la donna nel caso in cui il suo stato psicologico e fisico la inducono a fare una scelta diversa. Si può discutere sulle modalità di applicazione, si può e si devechiedere una sua completa attuazione, ma intanto, anzitutto, bisognerebbe fare i conti con lo stato in cui versano i consultori, con personale insufficiente spesso chiamato a sopperire alle croniche carenze strutturali con risorse ormai inesistenti e un’utenza che fatica a trovare risposte. L’Italia è uno Stato laico. Un sindaco non può stare con una parte della sua città che insulta coloro che la pensano in modo diverso.

Repubblica 14.5.12
Dai cattolici ai neofascisti, il fronte si allarga "E ora vogliamo contare come negli Usa"
Crescono le sigle pro-life: azioni spettacolari in ospedali e consultori
di Maria Novolle De Luca


ROMA - Sognano di avere numeri americani e che la battaglia anti-abortista irrompa nella prossima campagna elettorale. Intrecciano forze moderate a sigle estremiste, toni messianici ad atti concreti. Mescolano i Centri di aiuto alla vita per le gestanti in difficoltà, ai movimenti per la sepoltura dei feti abortiti, gli studiosi di Scienza e Vita agli ultrà della fede di Militia Christi, i neofascisti di Forza Nuova a storiche comunità di accoglienza come quella fondata da don Benzi a Rimini, "Papa Giovanni XXIII". Crescono e si diffondono i movimenti pro-life italiani, che ieri hanno sfilato a Roma sullo sfondo delle arcate del Colosseo, una galassia di gruppi allevati all´ombra delle parrocchie, dei vescovadi, delle università cattoliche, benedetti dai partiti della Destra e dall´Opus Dei. Armata bianca che definisce l´aborto "omicidio", grida al "genocidio" dell´infanzia, e afferma che dal 1978 ad oggi cinque milioni di bambini sono morti, o meglio mai nati, a causa della legge 194.
Un pulviscolo di associazioni. Divise tra chi propone la via parlamentare all´abolizione della legge sull´aborto, e le milizie che invocano invece il boicottaggio dei centri di Ivg, l´aggressione ai medici abortisti, il diritto dei farmacisti a non vendere anticoncezionali, in omaggio alle più spettacolari azioni dei movimenti pro-life radicali degli Stati Uniti. Centinaia di sigle, affratellate nel mondo e attive da anni, ma venute alla luce soprattutto nei drammatici mesi precedenti la morte di Eluana Englaro, e poi presenti in tutte le battaglie contro il testamento biologico, la fecondazione assistita, i matrimoni omosessuali, il divorzio breve. In nome dell´irrinunciabile principio della "famiglia naturale". Un mondo che esce allo scoperto, si conta, con l´adesione di oltre 150 gruppi e un corteo di 15 mila manifestanti. Una svolta storica, ha detto la portavoce della marcia, Cristina Coda Nunziante. «Certamente ci vorrà del tempo per portare il tema dell´aborto al centro delle campagne elettorali, come avviene negli Usa, ma abbiamo dimostrato l´esistenza di un movimento pro-life deciso ad affermare i propri convincimenti». Abbattere la legge 194 prima di tutto, boicottare i contraccettivi del giorno dopo, la pillola abortiva Ru406, e "attaccare" il fortino laico dei pochi consultori ancora attivi in Italia.
Attraverso i suoi partiti di riferimento (Pdl, Udc) il movimento pro-life aveva infatti proposto, sia nel Lazio che in Lombardia, due leggi regionali mirate alla creazione di consultori privati gestiti dal movimento per la vita. E poi nuove regole mirate a limitare fortemente nei consultori pubblici sia le politiche contraccettive, che il rilascio dei certificati per l´interruzione volontaria di gravidanza. Leggi finora bloccate da una forte opposizione politica, eppure l´azione dei pro-life è invece già molto attiva negli ospedali, così ricorda proprio il video di presentazione della marcia di ieri, con un ringraziamento "al silenzioso lavoro dei volontari".
Volontari animati da un fuoco tanto sacro da rasentare l´intolleranza, come racconta sul sito "aborto terapeutico e non" una giovane donna: «Ero ancora sulla barella, subito dopo l´intervento, avevo chiesto esplicitamente di non vedere il bambino. Invece arrivarono un´infermiera e una volontaria con qualcosa di minuscolo tra le mani, avvolto in un panno bianco. Guardalo, mi hanno detto, era tuo figlio, respirava... Una violenza tremenda. Le ho denunciate». 

l’Unità 14.5.12
Quo vadis Alemanno?
Il declino di Roma nell’era della destra al potere
Degrado a vista nel centro storico, escalation di violenze, pasticci nello sport e nella cultura: ecco come gestire (male) una capitale
di Vittorio Emiliani


IL RUGBY ROMANO SARÀ PRESTO SOLTANTO UN RICORDO. IL BASKET – UN GLORIOSO PASSATO DI SCUDETTI, FRA GINNASTICA ROMA E VIRTUS – rischia di sparire dalla prima serie. Lo stesso può capitare al volley. Mentre le due squadre di calcio sono decisamente lontane, soprattutto la Roma, da Juve e Milan. La decadenza di una grande città si misura anche da questi fenomeni e segnali. Poi ve ne sono di più allarmanti, certo. Roma era la capitale europea di gran lunga più sicura. Con un tasso di omicidi talmente basso che, in Italia, veniva subito dopo Venezia e Bologna, le più «tranquille», precedendo Firenze, Genova, Torino. Un omicidio volontario ogni 100.000 romani nel 2007, contro 1,7 omicidi di Milano e 1,5 della media italiana. Nell’ultimo anno c’è stata una escalation di ammazzamenti del 30 %. Impressionante.
Tutto è cambiato, in peggio. La violenza è di molto aumentata, come la smodatezza delle bevute dovuta anche all’assurdo allargamento degli orari in grandi piazze come Campo de’ Fiori, o a Monti, dove spesso scoppiano risse e si registrano accoltellamenti (l’ultimo di un giovane americano intervenuto a fare da paciere, qualche notte fa). L’ultimo decreto del governo dilata assurdamente orari e bevute. Ma il ministro Cancellieri non ha dato risposta alcuna alla denuncia allarmata in tal senso del senatore Zanda. Perché?
Con Alemanno i pullman turistici, per il Giubileo attestati in parcheggi esterni ben controllati,
scorrazzano per Roma antica e parcheggiano, come minimo, sui Lungotevere rendendo più difficile un traffico sempre al limite del collasso. Il centro storico è una sorta di «mangiatoia» continua, senza più orari, fino a notte fonda. I cosiddetti «dehors», orribili gazebos di plastica con stufe incorporate, di fatto impediscono la vista di chiese e palazzi. Erano stati in parte rimossi dal I ̊ Municipio col «sì» della Soprintendenza statale. Ma Alemanno li ha prorogati fino a che non è sopravvenuta la primavera e non sono stati più indispensabili. Restano enormi ombrelloni con scritte pacchiane, menù goffi e ingombranti, camerieri che sollecitano i turisti a sedersi.
LA FORESTA DEI CARTELLONI
Fuori le mura cresce la foresta dei cartelloni pubblicitari. Dentro, la marea di tavolini e di seggiole di plastica invade senza regole né limiti anche piazza Navona trasformata in una bolgia dalla quale i vecchi «pittori», ritrattisti o caricaturisti, sono di fatto spariti (saranno due o tre). L’arredo dei pubblici esercizi è precipitato. Per la prima volta i distributori automatici di coca-cola sono esposti nel gran teatro di Bernini e Borromini.
Nei vicoli e nelle strade intorno va pure peggio. Tor Millina ha raggiunto livelli di degradazione spaventosi. Fra pedoni e tavolini di plasticaccia sgasano, anche alle 13, camion e furgoni: portano cibi surgelati precucinati (nell’aria si diffondono odori inquietanti), oppure soltanto acque minerali, notoriamente deperibilissime. Anche in questo caso, niente limiti. Né vigili urbani in strada. Un caos e un frastuono continui. L’altra notte due vigilesse sono dovute battere in ritirata davanti ad una festa fracassona, a notte fonda, a Madonna dei Monti. E i residenti veri sono scesi sotto i 90.000, contro i 100-110.000 di pochi anni fa.
Penosa pure la gestione dei grandi servizi pubblici: tassa sui rifiuti decisamente elevata e raccolta differenziata poco efficiente. Così la spaventosa maxi-discarica di Malagrotta rimane un incubo. Le municipalizzate sono state affidate a manager «di fiducia» rivelatisi una frana, ad ex compagni «fasci», e a una corte di parenti, famigli e affini. Ed ora si vuol svendere una quota importante dell’Acea un tempo solida e sicura.
La politica culturale si è abbassata di livello, a parte il successo di Musica per Roma e di Santa Cecilia (dove nulla, per fortuna, è cambiato). Un pasticciaccio come quello per la Festa del Cinema era, qualche anno fa, inimmaginabile: ci si è intestarditi a cacciare una direttrice valida per far posto ad un direttore costoso e certamente «pesante», aprendo conflitti di date e altro con Torino e Firenze. Al Maxxi la Fondazione procedeva, con entrate proprie superiori al 50 per cento (più del Louvre che è al 40). La si è voluta commissariare, grazie alla latitanza del ministro «tecnico» (?), costringendo alle dimissioni uno stimato dirigente come Pio Baldi, ex soprintendente di valore. Si è parlato dell’ex McDonald’s Mario Resca, sodale di Berlusconi, ma l’hanno «promosso» all’Acqua Marcia. E dell’onnipresente/onnipotente Emmanuele Emanuele che gioca in doppio con Vittorio Sgarbi sempre alla ricerca di «promozioni», chissà.
Non va meglio, come dicevo, sul piano sportivo. Toti, dopo una stagione più che deludente, passa la mano per il basket e non si vede chi possa subentrare con progetti seri e capitali freschi. Non sta meglio la pallavolo, altro sport nel quale Roma eccelleva. Nel calcio la Lazio, tutto sommato, non demerita, anche se il suo presidente vuole soprattutto cubature attorno al nuovo stadio in una zona piena di vincoli. L’AS Roma sembra in stato confusionale: fuori dalla Champion’s e molto probabilmente dall’Europa League, ha raggiunto il record di espulsioni e fatto deprezzare taluni acquisti costosi, mentre il corso delle azioni è precipitato in Borsa da 1,09 €(primo trimestre 2011) all’attuale livello di 0,38-40 (60-65 %). Ora Luis Enrique ha deciso di lasciare ed è possibile che torni Vincenzo Montella che già allenava la Roma ed era stato indotto ad emigrare al Catania (dove ha fatto benissimo) da quei dirigenti che ora lo richiamano. Un colpo di genio.
Intanto i centurioni romani, tollerati per anni al Colosseo, rifluiscono da lì verso il Pantheon, in cerca di una qualche «rendita». Anche per loro si profila il Parco tematico della romanità, una gigantesca Roma di cartapesta e cartongesso. Tanto per promuovere un’altra abbuffata di Agro romano. Qualcuno ricorda ancora i fasti alemanniani a tutto gas della Formula 1 all’EUR? Cittadini romani, le idee son queste.

La Stampa 14.5.12
Matrimoni gay, Bersani spacca il Pd
“No al Far West ma la Costituzione non si tocca”. Le associazioni: troppo astratto
di Flavia Amabile


ROMA. Se Barack Obama rilancia sui matrimoni gay, anche Pier Luigi Bersani non vuol essere da meno. E così nel Pd si torna a discutere di diritti alle coppie omosessuali. Tant’è che il leader democrat lascia intendere che il problema andrà affrontato in modo serio. «Una regolazione moderna delle convivenze stabili tra omosessuali è un elemento di civismo, che un governo deve affrontare», spiega Bersani in un’intervista all’Unità. «E’ chiaro che se la questione non verrà risolta da questo governo toccherà a noi farlo». Sulle modalità specifica: «Terrei fuori dal dibattito la parola matrimonio, che da noi comporta una discussione di natura costituzionale, al contrario di altri Paesi. Tuttavia dobbiamo dare dignità e presidio giuridico alle convivenze stabili tra omosessuali perché il tema non può essere lasciato al Far West».
Le sue parole vengono accolte con interesse ma senza entusiasmi.
Anna Paola Concia, deputata del Pd, chiede un «impegno» del partito. «Il momento di decidere è adesso e il nostro impegno in tale senso è fondamentale. A questo punto, visto che in Commissione Giustizia alla Camera la discussione è iniziata e ci sono diverse proposte a firma di deputati del Partito democratico, ti chiedo una riunione urgente con la segreteria del partito, insieme ad Ettore Martinelli ed altri, per decidere quale di queste proposte di legge il Pd vuole sostenere in Commissione». E quindi Anna Paola Concia chiede di «decidere con chiarezza quale modello giuridico scegliere e poi sostenerlo con tutta la convinzione necessaria, per portare a compimento una legge di civiltà che il nostro paese aspetta da trent’anni».
Prudente Ivan Scalfarotto, vicepresidente del partito. «Se il problema è la parola matrimonio la soluzione ce la danno Londra e Berlino: mentre risolviamo il problema del nome facciamo una bella legge sulle unioni civili di contenuto perfettamente identico al matrimonio e poi del nome riparliamo quando avremo capito che il matrimonio gay è un problema solo sulle due sponde del Tevere. Quello che non sarebbe accettabile è una legge tipo quella sui Dico, dove le coppie non esistono e anzi le si considera così intrinsecamente instabili da riconoscere loro diritti solo dopo l’avvenuto passaggio di un certo periodo di tempo».
Parole di attesa anche da parte delle associazioni omosessuali. La considera una posizione ancora «troppo astratta» Fabrizio Marrazzo del Gay Center. Chiede chiarimenti anche Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia: Bersani «chiarisce che bisogna mettere in campo una legge sulle unioni gay, quindi, lasciando perdere proposte come i Dico pasticciate e tutte tese a non riconoscere la dignità degli amori omosessuali. Stabilito che purtroppo per ora sul matrimonio il Pd non vuole impegnarsi, qual è la
"La Concia chiede un incontro urgente: «Decidiamo quale proposta appoggiare»"

Corriere 14.5.12
E Amleto legittimò il dubbio
Figura attuale non solo per il dilemma esistenziale ma anche per la (ri)definizione del ruolo maschile
di Paola Casella


«Che cosa è mai un uomo?», chiede Amleto, a se stesso e al pubblico. Non c'è domanda più attuale, in entrambi i suoi significati: che cosa rende tale un essere umano, «simile agli angeli per intelligenza» e allo stesso tempo «quintessenza di polvere», ma anche qual è la vera essenza del maschile. Con l'Amleto William Shakespeare delinea il ritratto dell'uomo moderno che si interroga costantemente su se stesso, dilaniato da quel dubbio che verrà appunto definito «amletico». La sua difficoltà nel passare dalle parole (o dai pensieri) ai fatti costituisce il motore drammaturgico della narrazione, poiché l'azione non è più veicolata dagli avvenimenti esterni, ma resta chiusa nei tormenti che agitano interiormente il principe danese. «Io ho dentro di me qualcosa che supera le possibilità di essere espresso», dice Amleto, dando voce all'incapacità di molti uomini nel trovare «le parole per dirlo».
Ciò che rende il dolce principe di Danimarca così drammaturgicamente interessante, ovvero la sua capacità di ragionare all'infinito sulla propria natura e il proprio ruolo, nonché sul senso generale della vita, è anche il suo tallone d'Achille, perché gli impedisce di buttarsi a capofitto nella vita. Il celebre monologo di Amleto, che comincia proprio con «Essere o non essere», descrive con grande accuratezza poetica il dilemma di chi non sa se e in che modo partecipare pienamente della propria esistenza, e dunque si limita a costeggiarla, o è tentato di rinunciarvi: Amleto gioca con l'idea del suicidio, ma non lo commetterà, poiché ogni suo pensiero «spaccato in quattro, serba soltanto una parte di saggezza e ben tre di vigliaccheria».
La sua autoindagine è anche specificamente maschile, ed è questa la componente più rilevante per la contemporaneità, giacché la figura virile, soprattutto nel mondo occidentale, è oggi soggetta a ridefinizione, e la scomparsa di modelli maschili convincenti rende gli uomini disorientati, continuamente costretti a reinventarsi. Amleto misura la propria virilità per contrasto, paragonandosi ad un padre scomparso che si chiama come lui e che il figlio idealizza, e confrontando il modello paterno allo zio indegno, Claudio, che si è impossessato del trono sposando Gertrude, degli usurpati rispettivamente sposa e madre.
La psicoanalisi direbbe che Claudio, uccidendo re Amleto, abbia privato il principe della possibilità di compiere quel parricidio simbolico che è passaggio necessario perché un giovane uomo entri in possesso del proprio ruolo di maschio adulto, e che, sposando Gertrude, Claudio abbia sottratto ad Amleto anche la possibilità, sempre simbolica, di sostituirsi al padre nel letto materno. Di fatto, Amleto resta privo di un esempio maschile positivo, brutalmente rimpiazzato da uno negativo: laddove il vecchio re era saggio, amorevole e leale, suo fratello Claudio è vile, lascivo e corrotto.
Eppure Amleto non riesce a passare all'azione e a impossessarsi del ruolo di «maschio alfa» nel proprio regno (o branco). Il cinema, che più e più volte ci ha riproposto la tragedia shakespeariana, l'ha fatto nel 1994 nel modo più inatteso e più efficace: attraverso un cartone animato, Il Re Leone, che raccontava il sovrano della giungla ucciso dal fratello, vigliacco e sleale, che ne usurpava il trono, ambientando proprio nel regno animale quella dinamica di potere ferina che Shakespeare inscenava nella «civile» Danimarca.
Ma anche in Danimarca (come in ogni centro di potere) «c'è del marcio», e uno Stato «evoluto» può rivelarsi una giungla popolata di traditori, spie, corrotti e corruttori, nonché di «bestie adultere e incestuose», come Amleto chiama lo zio e la madre.
«Essere onesto, in un mondo come quello in cui viviamo, significa esser qualcuno scelto in mezzo a diecimila», dice il principe, fornendo un'altra verità poetica ai contemporanei.
Il principe non spodesta l'usurpatore perché è tormentato dal proprio senso di inadeguatezza rispetto all'archetipo maschile paterno. «Non andar sempre ricercando con le palpebre abbassate il tuo nobile padre nella polvere», lo ammonisce sua madre, e Claudio definisce «non virile» il dolore di Amleto per la perdita paterna. Il principe stesso si autodescrive come pavido e debole, «stupida canaglia impastata di fango», a paragone di colui che «era un uomo, a prenderlo tutto intero». In realtà Amleto saprà agire quando avrà in mano un pugnale o una spada, ma la sua percezione di sé rimarrà sempre incerta, e il suo obiettivo sempre casuale, così come casuali saranno le morti dei suoi più odiati avversari.
La tragedia di Amleto si svolge come un'enigmatica partita di scacchi: da questa intuizione ha tratto spunto, fra gli altri, John Le Carré per il suo capolavoro La talpa (in inglese, Tinker, Taylor, Soldier, Spy, i soprannomi dei sospettati abbinati ad altrettanti pezzi della scacchiera) in cui si dubita di tutti, compreso il protagonista, e l'azione è prevalentemente elucubrazione mentale. Gli stessi personaggi dell'Amleto sembrano figure del gioco: il re, la regina, gli alfieri. Ma il gioco è manovrato dal caso e imprevedibile sarà l'esito della partita, anche per Amleto: perché, come scriveva Shakespeare nel Macbeth, «la vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato». E poiché Amleto non sa se gli spetta il ruolo del re o del pedone, si chiama fuori dal gioco e assume temporaneamente il ruolo del matto, di cui è impossibile prevedere le mosse.
La difficoltà di Amleto nel definire il suo posto nel mondo e la sua identità maschile si scontra infine, e inevitabilmente, con l'altra metà del cielo: le donne. E la sua «misoginia» è un altro elemento di impressionante attualità, giacché la frustrazione del principe, che deriva in gran parte dal tradimento della madre, si riversa su una figura femminile innocente, la virginale Ofelia.
Nel suo furore Amleto fa di tutta l'erba un fascio e applica alle donne le categorie di giudizio più severe, riempiendo ogni sua frase rivolta indifferentemente a Gertrude o a Ofelia di pesanti sottintesi sessuali. Dietro al suo sciovinismo c'è quella stessa insicurezza nella propria virilità che sta alla base del suo tormento interiore, ma della quale è una donna reale a fare le spese.

Repubblica 14.5.12
Che senso ha morire per il lavoro
di Ilvo Diamanti


Viviamo tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una «profonda tensione sociale». Di cui è indice – e fattore – il riemergere del terrorismo.
Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno spot da proiettare nel circuito – e nel circo – mediatico. Senza il quale e al di fuori del quale: nulla esiste. Lo stesso avviene, d´altronde, nel mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e in costante aumento. (Ce lo rammenta la preziosa opera di documentazione e informazione svolta dall´Osservatorio Indipendente di Bologna di Carlo Soricelli). E, tuttavia, quasi invisibile, se non in casi eccezionali – quando muoiono in tanti in un colpo solo. Come nel caso della Thyssen Krupp di Torino, nel 2007.
I suicidi, invece, suscitano grande attenzione ed emozione, in questi tempi. I media li inseguono, giorno dopo giorno. Offrono l´immagine di un´onda anomala e senza fine. Anche se i dati raccontano una storia diversa. Infatti, come osserva Marzio Barbagli, sulla base delle statistiche dell´Istat: «I suicidi in questa categoria sociale c´erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza». Anzi, dal 2009 ad oggi, sarebbero diminuiti. Tuttavia, la visibilità mediale di un fenomeno non è mai casuale. Basti pensare allo spazio riservato dai media alla criminalità comune, trattata come un serial, sceneggiato e riprodotto dai Tg e dai talk del pomeriggio e della sera. Senza soluzione di continuità. Al di là di ogni variazione statistica del fenomeno, riflette, soprattutto, la passione dei media per la cronaca nera tradotta in "romanzo criminale". Basti pensare, ancora, allo spazio riservato dall´informazione all´immigrazione, negli anni fra il 2007 e il 2009. In seguito ridimensionato drasticamente. Una tendenza dettata da ragioni – e pressioni – politiche più che da mutamenti quantitativi dei flussi migratori. Penso, invece, che la visibilità riservata ai suicidi, in questa fase, oltre che dalla drammaticità dei singoli episodi, più che da ragioni "politiche", sia dettata – e moltiplicata – dall´angoscia prodotta dalla crisi economica. Il principale e vero motivo della "tensione sociale", a cui ha fatto riferimento il Presidente del Consiglio.
Per riprendere i dati dell´Osservatorio sull´In-Sicurezza (curato da Demos, l´Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), le "paure economiche" sono considerate la principale emergenza dal 60% degli italiani (aprile 2012). Un sentimento degenerato in pochi anni. Insieme al senso di declino sociale. Rammentiamo: nel 2005 la quota di persone che si "sentiva" di classe sociale bassa o medio-bassa era il 25%. Oggi il 53%.
I suicidi dei lavoratori e ancor più dei piccoli imprenditori "drammatizzano", in senso emotivo ma anche narrativo, questa "tensione sociale". Sul piano professionale e geo-economico. Lo "sciame dei suicidi" ri-prodotto dalle cronache, infatti, sembra inseguire le zone forti dello sviluppo degli ultimi decenni. Le province del Nordest e, in generale, del Nord. Le aree che, dopo gli anni Settanta, hanno conosciuto una crescita economica violenta. Dove si è affermato una sorta di "capitalismo dell´uomo qualunque", come l´ha definito Giorgio Lago. Un modello "postfordista" (per citare Arnaldo Bagnasco), che ha coinvolto e mobilitato la società in modo estensivo. Perché, a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di carriera non erano affidate al lavoro dipendente – nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio ad autonomo. "Paroni a casa nostra", in Veneto, non significa solo indipendenza territoriale. Ma vocazione all´indipendenza personale e familiare. Gran parte delle aziende, d´altronde, sono sorte e si sono sviluppate attraverso rapporti personali. Tra persone che si conoscono e si frequentano, prima durante e dopo il lavoro. Aspirano a migliorare la propria posizione e condizione, con lo stesso obiettivo. Diventando, a loro volta, "paroni a casa propria". Il passaggio da operaio a piccolo imprenditore, in questo mondo, è breve. La fatica, il rischio: gli stessi. Cambia il ruolo sociale. Come rammenta la vicenda dell´artigiano-muratore, raccontata da Gigi Copiello, che sul furgone da lavoro scrive: Bruno da Cittadella, dottore in malta. (Titolo del libro appena uscito per Marsilio). Cioè, artigiano, ma anche specialista. Per usare un termine di moda: tecnico.
Il successo leghista, negli anni Novanta, in queste zone e fra queste categorie professionali, si spiega anche così. Con la capacità della Lega di dare visibilità e voce a soggetti e territori divenuti, in breve, economicamente centrali, ma ancora politicamente periferici. Guardati – anche sui media – con sufficienza e ironia.
L´enfasi suscitata – oggi molto più di ieri – dai suicidi dei piccoli imprenditori e nelle aree di piccola impresa riflette la sensazione, per alcuni versi la paura, che questo modello sia in declino. Oltre metà degli italiani, nel 2006, ambiva, per sé e i propri figli, a un "lavoro in proprio o da libero professionista". Oggi questa componente è scesa a poco più di un terzo (Demos-Coop, aprile 2012).
Le cause "materiali": la disoccupazione, il peso schiacciante delle tasse e la caduta dei mercati, dunque, alimenta sicuramente l´angoscia sociale che si respira. Ma c´è di più. C´è la paura del baricentro sociale, un tempo imperniato sulla grande fabbrica, spostatosi, poi, sul lavoro autonomo e sulla piccola impresa. Un modello fondato, comunque: sul "lavoro". Riferimento dell´identità e della coesione sociale, prima che fonte di reddito. Mi torna in mente la reazione di Giorgio Lago a un articolo nel quale, dieci anni fa, registravo la crescente stanchezza fra i lavoratori e i piccoli imprenditori del Nordest. Alla ricerca di altri motivi di soddisfazione, oltre il lavoro. Rispose, allora, Lago (sul Mattino di Padova): «Se sono stanchi si riposino. Vadano a dormire prima, la sera. E poi riprendano il lavoro. Perché senza il lavoro, senza la fatica: non hanno speranza. Non hanno futuro».
È questo che oggi rende così visibile ciò che fino a ieri non lo era. "Morire per il lavoro". In qualche misura, poteva essere un prezzo accettato e perfino necessario, per una civiltà laburista.
Ma se il lavoro e la fatica non bastano più: cosa terrà insieme la società? E, prima ancora, che "senso" ha la vita?

Repubblica 14.5.12
Manca il tempo futuro e abbiamo paura
di Mario Pirani


Con una sua frequenza atemporale, di tanto in tanto, la rivista Arel fa la sua ricomparsa. Ci soffermiamo allora a sfogliarla con l´amore intellettuale e la nostalgia che seguitiamo a nutrire per il suo compianto fondatore, Beniamino Andreatta, e con gratitudine per quanti, a cominciare da Enrico Letta, hanno mantenuto vivo quel piccolo ma fervido focolare di idee non precostituite. Ma quel che soprattutto smuove l´animo dei pochi reduci di una generazione politica ormai sperduta penso sia il poter recuperare uno di quei luoghi fattisi rari dove ancora trova spazio il libero formarsi di un pensiero eterodosso e lo svolgersi di una dialettica di creatività democratica priva di barriere. Un tempo vi erano testate di riferimento, da Nord Sud a Tempo presente, da Civiltà delle Macchine al Politecnico, e molte altre. A quei giardini del pensiero è subentrato il rapidissimo disseccarsi nell´immediatezza effimera mass-mediatica di innesti senza fioritura
Ecco perché questa settimana nella rubrica mi soffermo su un discorso non usuale nella tematica politica ma che un ministro ha voluto far proprio, riportandoci a quell´atmosfera di ricchezza di pensiero che nel passato nutriva in un colloquio incrociato politici e artisti, filosofi e giornalisti, grandi maestri e intellettuali appena sbarcati da Matera o da Palermo, che si sentivano impegnati d´ufficio in una ricerca la cui finalità immediata era spesso sfuggente. Il "tempo" è il tema che Arel in questo denso numero propone ad Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione internazionale e dell´integrazione, (che, però, rifiuta l´aggettivo tecnico: «Non so in che senso sono tecnico, qualche volta dico che sono pirotecnico, nel senso che sono un uomo che ha una esperienza di umanità…»). «La sensazione è che siamo in un tempo in cui conta solo il presente. Ci troviamo, infatti, in un momento in cui sembra mancare il tempo futuro. Abbiamo paura del futuro, perché temiamo sia un tempo di crisi maggiore…. Soprattutto temiamo il futuro perché mancano le visioni. Karol Wojtyla in un verso dei grigi anni polacchi, diceva: "L´uomo soffre soprattutto per mancanza di visione. Mi sembra sia proprio questa la sofferenza italiana ed europea, la mancanza di visione. Manca la visione perché si è bloccati dalla paura. Cosa sarà il domani?" Vorrei aggiungere che c´è una crisi del tempo passato. Che è una crisi della memoria. Non sappiamo da dove veniamo. Ci troviamo alle spalle questo tempo della Seconda Repubblica che mi appare un tempo circolare, non un tempo lineare. Io credo che l´Occidente abbia perso l´idea di poter fare la storia e, quindi, di poter determinare il futuro del mondo. Credo che dovremmo ritrovare il senso del tempo presente come premessa del futuro. Eppure nelle nostre società c´è una carenza di speranza. Siamo dominati dalla paura».
Riccardi recita qui parole che sono anche le nostre e pone domande simili, ma le risposte restano ardue. «Se penso, ci dice, all´Italia della mia giovinezza, all´Italia del boom, rivedo un paese che andava verso il futuro. Quale? C´era una visione utopica comunista e c´era una speranza cattolica, ma c´era soprattutto l´idea che bisognava costruire la società di domani. Oggi mi chiedo se esiste più un tempo della nazione? Con la globalizzazione che ha coinciso con la Seconda Repubblica mai nata? Con la globalizzazione i tempi nazionali si sono avviliti, ridotti ed è ricominciato un tempo globale. Ma esiste questo tempo globale? Come si fa a disegnarlo? Come si fa a scrivere la storia del futuro globale?». Sembra che questo intelligente ministro non si chieda se sia possibile ancora scrivere la storia dopo il dissolversi di ogni filosofia della storia, di ogni ideologia. La sua risposta non ci basta. Non basta ripetere: «Allora occorrono visioni. Occorre la capacità di coniugare il tempo nazionale con il tempo globale; diversamente si sprofonda in un caos ciclico».

Repubblica 14.5.12
In marcia con gli scrittori anti-Putin così Mosca ha beffato il Cremlino
Diecimila oppositori in piazza: "Riprendiamoci la città"
Passeggiata senza slogan, come se fosse un semplice ritrovo. Il nuovo modo di protestare
di Nicola Lombardozzi


Mosca - La rivoluzione del pensiero non ha bisogno di parole. Non servono gli slogan, i cori rabbiosi contro il governo. Basta pensarli. Tutti insieme, più di diecimila, nel cuore di Mosca. Vecchi, giovani, bambini, silenziosamente in fila dietro a un gruppo di scrittori famosi che hanno trovato un modo geniale per beffare la polizia di Putin: una bella passeggiata sotto al sole incerto di primavera, senza timbri da "manifestazione non autorizzata" né possibili imputazioni per "atti ostili alla sicurezza nazionale". Soltanto una camminata di poco più di un chilometro a passo domenicale per il grande Anello dei Viali. Dissertando di letteratura con la romanziera Ljudmila Ulitskaja, chiedendo un autografo al giallista Boris Akunin o una rima al poeta concettualista Lev Rubinstein.
Ineccepibile, perfino per gli Omon dei reparti speciali che hanno aspettato il raduno del mattino schierandosi con le facce cattive e le manette ben in vista tra le aiuole di piazza Pushkin. Gli slogan e i cori che tutti pensavano, erano gli stessi che echeggiano ormai da sei mesi nei giorni in cui la protesta è consentita: "Putin vattene", "Via il Partito dei ladri e dei truffatori", "Ridateci elezioni senza trucchi". Solo che non si sentivano. Si trasmettevano per via telepatica ai curiosi affacciati alle finestre, agli automobilisti che salutavano con qualche colpo di clacson, ai giocatori di scacchi del torneo rionale all´aperto che spezzavano la concentrazione per fare un gesto di approvazione con il pollice verso l´alto.
Ed era tutto sottinteso e perfettamente legale. La solidarietà degli spettatori, il senso di appartenenza e di militanza dei partecipanti che si limitavano a scambiarsi occhiate soddisfatte e qualche ammiccamento. Come l´anziana signora in impermeabile grigio che portava un cartello con scritto a penna "Io vado a zonzo per Mosca". Evocando un film che nel 1964 sembrò una denuncia del regime sovietico, quando il regista Nikita Mikhalkov, ora nella cerchia dorata dei vip di stato, era un giovane attore dall´aria ribelle. O come una cechoviana "Signora con il cagnolino" ma con tanto di nastro bianco dell´opposizione al collare. Citazioni per pochi che hanno riempito d´orgoglio uno degli ideatori della trovata. Boris Akunin, sommerso da applausi e strette di mano, continuava a stupirsi raggiante: «Pensavo che saremmo stati al massimo una quarantina. Ma questo è un popolo eccezionale, che ama la cultura, e che ha voglia di cambiare. Prima o poi chi comanda dovrà rendersene conto».
L´idea di Akunin in realtà è solo il perfezionamento di una strategia del movimento d´opposizione maturata proprio la sera di domenica scorsa dopo gli scontri e le violenze della polizia alla manifestazione autorizzata di piazza Bolotnaja. Molti militanti spaventati, leader di prestigio come Udaltsov e Navalnyj in galera per due settimane, polizia decisa a vietare altri cortei. Che fare? «Riprendersi la città» è stata la risposta. E da lunedì uno dei quartieri più ricchi e snob della capitale è diventato il luogo per dimostrare che gli "anti Putin" sono vivi e non si nascondono. Uno slargo nel viale alberato di Cjstie Prudy sotto alla statua del poeta kazako Abaj Kunabaev è diventato il centro di una festa spontanea che continua giorno e notte e che gli oppositori sperano di continuare fino alla festa nazionale del 12 giugno. Scelto, non tanto per i suoi meriti letterari, quanto per la piazzuola in cemento sotto alla sua statua che consente comodi picnic e perfino qualche partita di pallavolo. Citando gli indignati di Zuccotti Park a New York, qualcuno chiama già lo spiazzo tra le aiuole "Occupy Abaj".
Ed è proprio sotto al sorriso orientale di Kunabaev che si è conclusa la "passeggiata degli scrittori". Un abbraccio ideale, e non solo, con i giovani che presidiano il parco da sette giorni. Impegnatissimi a marcare solo il territorio senza infrangere la legge. Come raccomanda un decalogo appeso con carta adesiva biodegradabile ai tronchi degli alberi, sulle ringhiere delle aiuole: «Siate gentili e rispettosi con gli agenti. Non parlate di politica. Niente cori né slogan. Riponete la spazzatura nei cestini e nei cassonetti. Spegnete radio e suonerie dei telefonini, e parlate a bassa voce, dopo le 23. Sorridete ai cittadini neutrali. Spiegate pure chi siete e cosa volete ma rispettate le eventuali opinioni contrarie. In caso di disturbatori rivolgetevi alla polizia. E´ qui per difendere anche voi». E da allora i poliziotti di Mosca sono alle prese con un dilemma da manuale: «Si può intervenire contro ragazzi che rispettano le regole, giocano ai mimi, non esprimono alcun dissenso, almeno non in forma palese?». E´ un´ipotesi prevista in un libro cult per gli oppositori di tutto il mondo: "La via della non violenza" di Gene Sharp. Gli oppositori lo conoscono. Putin, forse no. Meno barricadera di molti suoi colleghi, con qualche acciacco accentuato dalla lunga passeggiata, Ljudmila Ulitskaja spiegava sorridente: «Qui c´è gente che ha studiato e continua a studiare. Non è poco. Sta nascendo una nuova società civile. Ma oggi anche la polizia si è comportata bene. E´ un mondo che sta cambiando. Lentamente, ma inesorabilmente».