l’Unità 3.3.12
Dalla parte dell’Unità. Firme e diffusione per difendere un diritto
Continua la mobilitazione contro il divieto della Fiat Intervista a Landini
Firma anche tu per dire: ridateci l’Unità
Intervista a Maurizio Landini
«Cacciano l’Unità e la Fiom perché vogliono espellere il dissenso»
«Il governo batta un colpo: convochi Marchionne per far tornare subito negli stabilimenti sindacato e giornale. In gioco l’idea di democrazia»
di Massimo Franchi
L’ esclusione della Fiom e quindi de l’Unità dalle fabbriche conferma come la Fiat stia instaurando un regime autoritario in cui chiunque dissente è espulso. In gioco c’è l’idea stessa di democrazia e per questo continuo a chiedere l’intervento del governo: batta un colpo e convochi Marchionne per far tornare noi e il vostro giornale negli stabilimenti». Maurizio Landi-
ni sta girando l’Italia in vista dello sciopero e della manifestazione di venerdì prossimo a San Giovanni a Roma. Spiega le ragioni del suo sindacato senza dimenticare il nostro giornale, accomunato nell’ostracismo di Marchionne: «Sono i nostri delegati che lo hanno sempre affisso nelle bacheche».
Landini, martedì davanti alla Magneti Marelli di Bologna la Cgil manifesterà a sostegno de l’Unità.
«È un’iniziativa importante che abbiamo sollecitato. Però bisogna comprendere come la vicenda delle bacheche è dentro alla decisione della Fiat di escludere dalle fabbriche il più grande sindacato, la Fiom Cgil. L’attacco al sindacato e quello alla libertà di stampa sono due facce della stessa logica, quella di costruire un contratto che espelle i lavoratori che non abbassano la testa. Quando ai tre lavoratori di Melfi Fiat dice di rimanere a casa “tanto vi paghiamo lo stesso”, nonostante una sentenza che arriva dopo altre tre che hanno riconosciuto l’azienda colpevole di comportamento anti-sindacale, quando i capi reparto in tutte le fabbriche del gruppo si trasformano in delegati sindacali tenendo assemblee per spiegare il contratto, quando i lavoratori per andare al bagno devono chiedere le chiavi specificando per quanti minuti si assenteranno, siamo davanti a una discriminazione così grande che chiama in causa non la Fiom, la Cgil o l’Unità, ma tutto il mondo del lavoro. E non solo».
Per questo voi venerdì scioperate con lo slogan «Democrazia al lavoro». Da sindacalista che aria annusa in giro? Molti gioirebbero per un vostro flop...
«In queste settimane stiamo incontrando innanzitutto i lavoratori metalmeccanici che stanno vivendo sulla loro pelle un attacco senza precedenti ai loro diritti. In più intorno alla Fiom vedo crescere un consenso sociale che tocca il mondo della cultura (a cui ho rivolto un appello ricevendo adesioni importanti) e dell’università. La nostra battaglia Fiom si lega con una richiesta di partecipazione dal basso, per un nuovo modello di sviluppo e di democrazia partecipata. Sul palco infatti daremo spazio ai precari, agli studenti, al movimento per l’acqua pubblica. Dai segnali che ho, comunque, sono sicuro che la manifestazione sarà un successo».
Il paragone, scontato, è quello con la manifestazione del 16 ottobre 2010. Il clima però è cambiato...
«È cambiato il quadro politico. Non c’è più Berlusconi ed è evidente un indebolimento dei partiti che non considero positivo. Sul piano sociale invece la crisi è peggiorata e, soprattutto, quello che denunciavamo un anno e mezzo fa, il fatto che il contratto di Pomigliano non fosse un caso isolato ma l’inizio di un progressivo attacco ai diritti di tutti i lavoratori, si è sostanzialmente avverato: per questo abbiamo scelto la frase “Democrazia al lavoro”».
Nel Pd intanto la partecipazione alla vostra manifestazione è diventata una questione delicata. Quanti esponenti crede che alla fine verranno in piazza con voi?
«Spero e credo molti, naturalmente. Però posso dare una notizia: uno di loro parlerà dal palco. Si tratta del presidente della Comunità montana della Val di Susa Sandro Plano, che è del Pd e appoggia il movimento “No Tav”. Noi però abbiamo chiesto a tutti i parlamentari italiani ed europei di partecipare perché chi verrà in piazza non starà con la Fiom, ma appoggerà la libertà dei lavoratori di potersi scegliere il loro sindacato, la democrazia perché la Fiat sta attaccando direttamente la Costituzione e ogni parlamentare la dovrebbe difendere». Insisto, tanti esponenti Pd hanno annunciato la loro presenza...
«Io credo che un partito che vuole essere alternativa al berlusconismo deve avere a cuore questi temi. Negli ultimi anni il Pd come tutta la sinistra ha ceduto troppo al mercato e, se devo denunciare una questione, credo che la principale sia che non c’è adeguata rappresentanza politica per il mondo del lavoro».
Venerdì non ci sarà Susanna Camusso che sarà a New York per un impegno preso da mesi e concomitante con lo slittamento della vostra manifestazione. Ma con la Cgil in questo momento c’è grande sintonia. «Abbiamo avuto appoggio pieno per questa mobilitazione e sicuramente dal palco parlerà un esponente importante della segreteria. Anche per quanto riguarda la trattativa sul mercato del lavoro la posizione della Cgil è giusta: l’articolo 18 non si tocca, gli ammortizzatori si possono allargare facendo contribuire tutte le aziende e tutti i lavoratori. E per i disoccupati e i giovani noi proponiamo un assegno di cittadinanza finanziato con la patrimoniale».
Landini, in conclusione proviamo a essere ottimisti. Fra quanto rivredremo la Fiom e l’Unità nelle fabbriche della Fiat?
«Noi andiamo avanti e ci riusciremo. Andiamo avanti a chiedere a Fim, Uilm e Federmeccanica un’incontro sulla rappresentanza, a fare cause contro i soprusi della Fiat, a chiedere al governo di interventire».
Quale via, quella sindacale, politica o giudiziaria, vede più efficace? «Cause a parte, che comunque porteremo avanti finché la Fiat non le rispetterà, fare il sindacalista è il mio mestiere e continuerò a farlo. Detto questo, una legge sulla rappresentanza serve e il governo la potrebbe emanare domattina, così come deve convocare Marchionne e chiedergli di rispettare le sentenze e imporgli di non andarsene dall’Italia».
l’Unità 3.3.12
Articolo 21 celebra i primi dieci anni
«Ribellarsi subito o sarà troppo tardi»
Il caso de l’Unità cacciata dalla Marelli approda all’assemblea dei 10 anni dell’associazione Articolo 21. Il portavoce Giulietti: «Una prepotenza aberrante che non riguarda solo l’Unità: se non ci si ribella subito poi sarà tardi».
di Stefano Miliani
«È aberrante. L’Unità cacciata dalle bacheche è frutto di un’idea oligarchica della società. Dire “Non mi piace perciò la cancello”, dire “non mi piace Avvenire perché parla di morti in Africa e lo cancello”, è aberrante». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, dal tavolo dell’assemblea per i dieci anni dell’associazione, ritiene drammaticamente emblematica per l’Italia la cacciata della nostra testata dalle bacheche del sindacato alla Magneti Marelli di Bologna e Bari.
«È una cosa invereconda – puntualizza in una videointervista sul nostro sito – non mi piace quando si stacca un qualunque giornale dalla bacheca di una fabbrica, non mi piace quando un presidente Fiat dice fuori a tre operai reintegrati da una sentenza. È inaccettabile e bisogna presentarsi con l’Unità nei luoghi di lavoro. Questa prepotenza non riguarda solo l’Unità, se non ti ribelli subito poi sarà troppo tardi». Come ricordava una poesia di Brecht per situazioni certo più tragiche: un giorno tocca a un altro ma se non ti muovi in tempo poi toccherà a te.
Articolo 21 nacque nel marzo 2002, un mese dopo Berlusconi «emanò» il famoso diktat bulgaro che di lì a poco avrebbe estromesso dalla Rai Biagi, Luttazzi e Santoro. Un decennio dopo l’associazione che combatte affinché l’articolo della Costituzione sulla libertà di stampa sia rispettato e non calpestato si ritrova in una chiesa sconsacrata dalle vetrate gialle e azzurre nel centro di Roma.
I giornalisti e le giornaliste non celebrano una festa perché lo scenario è tutt’altro che idilliaco, pur se al momento privo degli estremismi del reuccio di Arcore. Infatti l’esclusione de l’Unità da fabbriche del gruppo Fiat è considerata emblematica. Il nostro direttore Claudio Sardo prende pubblicamente la parola: «Non si tratta solo della libertà di stampa di un giornale, in discussione c’è lo spazio di libertà dei lavoratori, c’è il principio dell’articolo 21 della Costituzione. Ci sono forze che tendono a costruire una democrazia senza partiti, a ridurre il pluralismo sociale in una società dove i cittadini sono soli davanti allo Stato e al mercato. Così impoveriamo l’idea della nostra democrazia».
IL CONFLITTO D’INTERESSI
Il motto del convegno è «quello di Scalfaro, né sotto dittatura, né sotto dettatura», segnala Corradino di Articolo 21. Con queste parole in mente Giulietti, parlamentare del gruppo Misto, butta sul tavolo delle proposte a Palazzo Chigi: «Il berlusconismo continua a vivere, a condizionare linguaggi e pratiche politiche». Dunque, in primo luogo, la tv e la Rai. «A Monti diciamo: il conflitto d’interessi va risolto a prescindere da Berlusconi. Da qui serve il divieto assoluto per chiunque di essere amministratore pubblico e contemporaneamente titolare di concessioni pubbliche».
Al presidente del Consiglio Giulietti pone una scadenza “televisiva”, anzi due: «Il premier indica entro maggio l’asta per le frequenze digitali. E a fine marzo scade il cda della Rai. Il governo proponga una nuova fonte di nomina che recida ogni cordone ombelicale con i governi, i partiti e anche con le logge e la banda del conflitto di interessi». Ma in dieci anni il mondo è andato molto al di là del teleschermo, internet è andato molto oltre. Infatti Vincenzo Vita, senatore Pd, annuncia un osservatorio per tutelare a libertà in rete: «Sì, lanciamo Articolo 21 bis perché l’informazione è ormai multimediale».
Corriere della Sera 3.3.12
«Aska» e anarchici, chi sono i duri
Identikit degli estremisti. Su 60 mila valligiani, solo 500 agli scontri
di Marco Imarisio
L'ala dura e gli altri. Dai centri sociali ai comitati di valle. La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte e anche i modi di agire. La galassia dei movimenti No Tav.
BUSSOLENO (Torino) — La bandiera bianca dei No Tav doveva essere rossa. Nel 1999 i valligiani avevano scelto un colore, e un simbolo, con un forte segno politico. Furono i militanti di Askatasuna, proprio quelli che oggi mantengono un tratto ideologico più marcato all'interno del movimento, a convincere gli altri della necessità di una scelta più neutra.
Niente è come sembra, in questa storia dove ormai le distinzioni si fanno sempre più sottili. Lunedì scorso trenta persone si sono sedute sull'autostrada per impedire lo sgombero dell'autostrada. Accanto ad Alberto Perino, figura di riferimento della Val di Susa più intransigente, c'era Massimo Passamani, capo degli anarchici di Rovereto, diventato famoso nel 2006 per aver sottratto la fiamma olimpica al tedoforo che la portava per le strade di Trento, e non solo per quello. Nel dicembre 2009 alcuni membri del suo gruppo furono arrestati in Grecia dopo gli scontri avvenuti in seguito all'uccisione di uno studente da parte della polizia.
Questa commistione, magari involontaria, rende ancora più delicato l'equilibrio di un movimento che ha cambiato pelle, diventando un magma incontrollato. La divisione per categorie della sua parte più bellicosa va presa con beneficio di inventario, perché troppe sono ormai le incognite e i collegamenti interni di una protesta che rivendica l'unità di intenti in ogni sua scelta.
I valligiani
La prima manifestazione contro l'Alta velocità porta la data del 2 marzo 1995. Da allora è cambiato molto. Volti, proposte, e purtroppo anche le pratiche. Il nucleo originario è incarnato da Alberto Perino, bancario in pensione, incautamente definito come lo Josè Bove della Val di Susa, protagonista di una involuzione radicale che in qualche modo simboleggia la parabola di una parte di questo gruppo di militanti ben consapevole di essere minoranza a casa sua.
Gli abitanti che partecipano alle manifestazioni pacifiche sono circa 8.000 su un totale di 60.000 residenti in Alta e Bassa valle. Il numero si abbassa drasticamente quando si parla di scontri con le forze dell'ordine: 400-500 persone. Sempre determinati, decisi. La loro conoscenza del territorio li porta ad agire da sherpa per gli ospiti giunti da fuori. Nel 2005 furono decisivi per le sorti della cosiddetta battaglia di Venaus, quando riconquistarono il cantiere aperto nella notte dalle forze dell'ordine.
Forse fu quello l'ultimo episodio di lotta condotto quasi interamente in proprio. Ma non si pensi a un gruppo di maturi signori. Il sentimento valligiano di ribellione all'opera ha prodotto una generazione che ha elaborato una nuova forma di antagonismo radicale. Più aperta alla contaminazione con altre realtà, aggregata intorno a gruppi come il centro sociale Takùma di Avigliana, l'associazione Spinta dal bass, il presidio permanente Pikapera di Vaie. Capita spesso che i giovani della valle si rivelino come l'ala più radicale del movimento.
Gli autonomi
Da questo titolo manca il suffisso «ex» a ragion veduta. Askatasuna è una scheggia degli anni Settanta arrivata intatta fino ai giorni nostri. Il centro sociale torinese si ispira alla vecchia autonomia. Non alla versione intellettuale di Toni Negri, ma a quella romana di via dei Volsci, più portata all'azione diretta, alla contrapposizione violenta con lo Stato. «Per troppo tempo — raccontava qualche mese fa uno dei suoi capi — la sinistra è stata identificata con l'operatore sociale o il volontariato delle organizzazioni non governative. Noi siamo la sinistra dura, quella che un tempo spaccava il c... ai fascisti».
La storia di Askatasuna è ormai inscindibile da quella del movimento No Tav. Il primo comitato di lotta popolare a Bussoleno venne fondato da Giorgio Rossetto, pioniere del centro sociale nato nel 1996 con l'occupazione di un palazzo del Comune di Torino, arrestato per gli scontri del 3 luglio, che ha finito per prendere la residenza proprio in Val di Susa. Il legame è forte, figure come Francesco Richetto, nato a Bussoleno e militante del centro sociale, funzionano da cerniera.
«Aska» e i suoi militanti, 6-700 contando anche i collettivi studenteschi, è stata la porta del movimento No Tav. L'ha fatto uscire dall'ambito locale, inserendolo nel proprio network fatto di centri sociali di ispirazione simile — romani, bolognesi, trentini, genovesi — ben distanti dalla vocazione politica degli ormai ex Disobbedienti di Luca Casarini. Fa entrare i militanti della sua area ogni qual volta ce ne sia bisogno, gli scontri del 3 luglio furono preceduti da una lunga serie di inviti alla mobilitazione pubblicati sui propri siti di riferimento. In questi giorni si propongono come mediatori con i militanti più duri, consapevoli dell'impossibilità di reggere questa situazione di scontro permanente. A ben pensarci, un paradosso.
Gli anarchici
Da sempre l'area più misteriosa e insondabile, non solo in Val di Susa. Anni fa venivano allontanati come fossero monatti, oggi sono graditi ospiti, parenti strani che spesso danno in escandescenze. La componente più dura e incontrollabile, che spesso pesca nel bacino del disagio sociale. Il legame con questa protesta risale al 1998, al suicidio in carcere di Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, arrestati insieme all'anarchico valligiano Silvio Pelissero per la loro presunta partecipazione a una serie di attentati contro l'Alta velocità. Una vicenda terribile e ancora oggi oscura.
I torinesi gravitano intorno ai centri sociali El Paso e Barocchio, hanno organi propri di informazione come radio Black out, e mantengono collegamenti con i black bloc europei. Dall'Italia arrivano soprattutto da Milano e Roma, gli stranieri più presenti sono i francesi, tendenza anarco-ambientalista, ben connessi in valle con una rete di relazioni personali. Luca Abbà, il militante rimasto folgorato sul traliccio accanto alla baita Clarea, è sempre stato considerato anche dai suoi compagni come una sorta di ufficiale di collegamento con questo mondo.
Nel luglio scorso occupavano il settore più isolato del campeggio No Tav, ben distanti dagli altri. Non si fermano mai, non partecipano alle assemblee. Vanno e vengono solo quando c'è da menare le mani, arte che in questi mesi hanno esercitato spesso su giornalisti e operatori, oltre che sui poliziotti. Durante gli scontri sull'autostrada sono stati fermati anche due squatter di nazionalità turca, a conferma del grande richiamo che ormai esercita la Val di Susa. Le informative della polizia li inseriscono nella galassia riferibile alla Federazione anarchica informale. Ma spesso le galassie contengono al loro interno alcune nebulose.
l’Unità 3.3.12
Il Pd, né montiani né socialdemocratici
di Antonello Giacomelli
Il Pd sostiene lealmente il governo Monti, che ha fortemente voluto. In questo momento e con questi numeri parlamentari non c’era soluzione migliore per salvare il Paese dal disastro economico. Berlusconi guidava una destra incompetente e sguaiata, pretendeva di piegare le regole al proprio interesse e ha portato l’Italia quasi al disastro.
Monti è competente, serio, stimato a livello internazionale ed applica le regole. I risultati, per il Paese, si vedono e dunque il Pd fa bene, in questa fase, a sostenerlo. Anche se, questo è il punto vero, le politiche di questo governo non sono identificabili con il progetto riformista che noi sosteniamo. Intendiamoci, non mancano certo decisioni condivisibili nella politica di Monti: dal convinto europeismo
alla lotta all’evasione fiscale, molti sono i punti apprezzabili. È semmai l'impianto di fondo, la cultura che Monti esprime a rendere, almeno per me, impossibile collocarmi nella schiera di quanti si identificano senza riserve in lui e nella sua azione.
Lo dico non da aspirante laburista ma da cattolico democratico, fortemente convinto, senza clericalismi, che la dottrina sociale della Chiesa debba essere oggi, per un centrosinistra non velleitario e non settario il riferimento più forte per affermare nel nostro Paese una nuova cultura della persona e della libertà. Monti rispetta ed applica le regole; le regole di un sistema liberista, tutto fondato sul valore salvifico del mercato e della competizione, in cui si ritiene accettabile l’idea che c'è chi ce la fa e chi non ce la fa, in cui la ricchezza è la misura del valore delle persone, chi arranca merita solo la definizione sprezzante di «sfigati», e chi cerca qualche certezza di lavoro è percepito con fastidio come una persona «noiosa».
Monti applica le regole di un sistema che per funzionare chiede di rendere definitiva, a vantaggio di pochi, la precarietà di intere generazioni e la diminuzione di tutele e diritti. Un sistema che fa la voce grossa con tassisti e camionisti in nome della liberalizzazione, ma che non tocca l'inquietante intreccio fra editoria, credito, industria e finanza, come se il conflitto di interessi fosse limitato a Berlusconi e non riguardasse invece la concentrazione in poche mani, sempre le stesse, di enormi poteri. Del resto, meglio e più autorevolmente di me, è stato Stefano Zamagni, su Famiglia Cristiana, a dire, che questo governo non capisce cosa sia il Terzo settore, non capisce la rilevanza del modello italiano di welfare e sta distruggendo tutti i corpi intermedi fra lo Stato ed il mercato.
In una breve fase di emergenza nazionale, lo abbiamo sempre detto, tutto può essere sopportato; anche perchè il fallimento dell'Italia provocherebbe drammi che peserebbero soprattutto su chi è più debole e indifeso. Ma immaginare che questo impianto culturale sia quello con cui può identificarsi il Pd mi sembra inconcepibile. Al contrario, penso che il Pd sia nato esattamente per riformare quel sistema e quelle regole, per moltiplicare le opportunità, per rendere più moderno il sistema di protezione sociale, per assicurare alla persona, indipendendemente dal tipo di contratto, diritti e tutele fondamentali, per rendere tutti, in qualche misura, protagonisti della crescita, per una tutela vera della famiglia e della natalità, perché la qualità di scuola e formazione non siano privilegio di pochi, per avere istituzioni rappresentative, anche europee, in grado di governare con equità i processi finanziari e il mercato globale. In una parola, per mettere davvero la persona, nella sua interezza e nella sua libertà al centro dell'azione politica.
Certo, per raggiungere questo obiettivo ambizioso, occorre liberarsi di nostalgie ed illusioni ideologiche; non può essere la cultura socialista o socialdemocratica la cifra della nostra identità, non abbiamo voluto il Pd per appiccicare un’etichetta nuova a un contenuto vecchio e inadeguato. E, voglio dirlo con rispetto ma chiaramente, non aiutano certe scelte «personali»: è difficile capire come si possa stare nella segreteria nazionale del Pd, condividere lo sforzo del Pd per favorire un accordo del governo con le parti sociali e contemporaneamente aderire all’iniziativa della Fiom. A me la contraddizione pare evidente e, se non vi fosse contraddizione, sarebbe anche peggio. Monti, con il suo governo, sta facendo quanto deve per il Paese. Noi dobbiamo fare quanto è necessario per farci trovare preparati dopo questa fase, con un progetto che guarda al domani e che è capace di parlare ai cittadini di oggi. Polemizzare quotidianamente fra liberisti dell’ultima ora e nostalgici del socialismo serve solo a rendere muto il Pd.
La Stampa 3.3.12
Grande coalizione e malumore nel Pd. “Da stoppare prima”
Ma soprattutto preoccupa quale futuro dare a Monti
di Carlo Bertini
Berlusconi vuole apparire riverniciato come l’uomo della pacificazione. Ma sulla grande coalizione bisognava stopparlo subito e senza mezzi termini, altrimenti sarebbe scattato il dubbio che potesse esserci un qualche disegno in tal senso». A sentire la spiegazione che uno dei primi tre dirigenti del Pd fornisce sotto garanzia di anonimato, questa è la ragione per cui Bersani l’altro ieri ha subito gelato Berlusconi e le sue «velleità» di governare insieme al Pd anche dopo il 2013. E a sentire i giudizi dell’entourage del segretario Pd su Berlusconi, dipinto come «un pugile in difficoltà che cerca di aggrapparsi all’avversario per tirarlo giù», si capisce meglio la reazione tranchant a questo abbraccio. A impensierire il leader Democratico non è tanto il Cavaliere, quanto il futuro politico che molti nel suo partito vorrebbero dare a Monti. Tanto che dalle parti di Bersani tengono a chiarire che «nel 2013 si tornerà ad una situazione bipolare anche se più civile, ma non ci sarà alcuna possibilità di un Monti bis con tutti dentro. Se lui lo vorrà potrà decidere di stare col centrosinistra o col centrodestra; ma dopo l’emergenza si torna alla democrazia».
Lo stesso Casini ammette che non è il momento di strattonare Bersani che «ha fatto una scelta impopolare per una parte del suo elettorato. Chiedergli oggi di fare un patto per dopo sarebbe assurdo, vedremo quel che capita». Inutile aggiungere che alla vigilia di primarie a dir poco complicate a Palermo e in piena campagna per le amministrative, sarebbe stato a dir poco imprudente mostrare la più flebile apertura ad un’ipotesi di grande coalizione. E in questo passaggio, il segretario Pd è voluto intervenire in prima persona anche per dare il senso di una compattezza del suo partito sul no all’inciucio. Visto che proprio su questo il Pd è stato bersagliato più volte da Di Pietro fino a sfiorare la rottura, e che qualsiasi apertura all’avversario più temuto fino a ieri verrebbe pagata duramente nei sondaggi.
Ma le divisioni nello stato maggiore dei Democratici in questa fase non riguardano la convinzione comune di doversi presentare al Paese come un’alternativa credibile ad un centrodestra spappolato; quanto piuttosto il futuro di Monti e i compagni di strada con cui condividere l’avventura delle politiche. Se la Bindi ripete che quella di Monti «è una stagione a termine e dopo non ci saranno larghe intese» e Di Pietro rilancia «la foto di Vasto con Pd e Sel per le prossime elezioni», il vice di Bersani, Enrico Letta, in un’intervista ad «Avvenire» suona un’altra musica: quella di «un bipolarismo dolce che compete al centro». Puntando più ad un’alleanza con il Terzo Polo e con Casini. Il quale l’altro ieri ha ribadito che se il Pd è quello dell’alleanza di Vasto lui c’entra «come il cavolo a merenda». E quindi va da sé che Letta, ascrivibile al partito dei «montiani» come il leader dell’Udc, abbia gioco facile nel tirare dalla sua parte. Perché se «il Pdl e la Lega difficilmente si rimetteranno insieme, il Pd non credo possa stringere un patto con chi si oppone a questo governo». Con una conclusione, «dobbiamo fare un Pd forte a prescindere dalle alleanze, un Pd autonomo», che ricorda tanto lo slogan veltroniano sulla «vocazione maggioritaria».
Tutto ciò si intreccia con le manovre sulla legge elettorale che il Pd vive con apprensione: se la riforma non andasse in porto, la reazione dell’«antipolitica» cadrebbe sulle spalle dei Democratici più che sui partiti di centrodestra. «Noi siamo consapevoli - spiegava un altro dirigente Pd giorni fa - che è il nostro elettorato che vuole scegliersi i parlamentari; e che non vuole esser chiamato a votare di nuovo col porcellum».
Repubblica 3.3.12
Pd compatto sulla linea della fermezza, rottura con Vendola e Di Pietro. Scende il gelo con la Fiom
E Bersani attacca Landini: pensi a quegli operai
di Goffredo De Marchis
ROMA - «Se Landini pensasse anche agli operai che lavorano nei cantieri della Tav, renderebbe un buon servizio al sindacato». Senza sbandamenti Pier Luigi Bersani prepara una battaglia contro la foto di Vasto e persino contro un pezzo delle sigle dei lavoratori. Un battaglia tutt´altro che solitaria perché l´intero Partito democratico è sulla linea della fermezza quando si parla della Torino-Lione: niente tavoli, niente moratoria, nessuna sospensione. Soprattutto, basta violenza. «Abbiamo già fatto tutto quello che dovevamo quattro anni fa - ricorda Enrico Letta, allora sottosegretario a Palazzo Chigi - . Mi stupisce che Vendola e Di Pietro facciano oggi la stessa richiesta di ieri. Loro c´erano e sanno. Dimostrano scarsa serietà». Ma la posizione di Idv e Sel non fa che confermare la scelta del vicesegretario: mai più alle elezioni con Nichi e Tonino. «È una questione di credibilità».
Anche Bersani pensa che il comportamento di Di Pietro e Vendola sia strumentale, poco adatto a un´alleanza di governo. Non romperà sulla Tav, ma neanche dimenticherà i difficili passaggi di questi giorni. La difesa dell´opera e la condanna delle violenze non lascia crepe nel Pd. Non a caso Bersani, durante la trasmissione di Santoro, ha usato anche l´argomento del terrorismo: conosce i dossier del Viminale, sa che emergono collegamenti tra il movimento gli anarco-insurrezionalisti. Nel silenzio dei giornalisti presenti, giovedì sera in tv ha lanciato l´allarme. A Largo del Nazareno sono indignati anche per il sostegno al movimento No-Tav, o meglio alle sue frange estreme di una parte importante del sindacato. «Landini, il segretario della Fiom, sta sbagliando sull´Alta velocità», avverte Matteo Orfini, membro della segreteria. Orfini, Fassina e Damiano sono attesi sabato alla manifestazione dei metalmeccanici contro Marchionne e la riforma del mercato del lavoro. «Ma se i No-Tav entrano nel corteo, se un solo esponente del movimento viene invitato sul palco, me resto a casa», annuncia Orfini. Tra i democratici non si vedono strappi e non si temono contraccolpi sulla base, cioè sul consenso. «I militanti soffrono le indecisioni - spiega il veltroniano Giorgio Tonini - ma quando la tenuta non è in discussione capiscono. E hanno assimilato una cultura di governo». Letta è ancora più malizioso: «Il video del manifestante che insulta il carabiniere ha fatto un danno enorme alla protesta. Santoro dovrà faticare parecchio per ridare un´immagine positiva ai contestatori». La frattura semmai è nel centrosinistra vecchio stile. Un appello per la moratoria, per la sospensione dei lavori promosso da Don Ciotti viene firmato da Vendola, De Magistris, dal sindaco di Bari (Pd) Michele Emiliano, dall´Arci. «La Val Susa non può essere trattata come una scuola materna, con il paternalismo autoritario», spiega il governatore pugliese. E anche Di Pietro chiede di riaprire un tavolo tecnico fermando i lavori.
Repubblica 3.3.12
Il riformismo del Pd
di Miguel Gotor
DOPO il governo Monti nulla sarà come prima, cantilenano i gattopardi italiani. Dal momento che siamo un Paese gerontocratico dobbiamo però chiederci a quale "prima" si vuol fare riferimento.
L´impressione è che ci sia in giro una gran voglia di riesumare un reperto archeologico, gli anni Settanta, con il suo inevitabile rosario di citazioni pasoliniane: a destra l´antagonismo è ridotto a terrorismo in base a un´inedita strategia del rancore, mentre tra i radicali il movimento No Tav è cavalcato per nuocere al Partito democratico, all´eterno grido del tradimento a sinistra. Riflessi antichi, quelli di un sistema anchilosato che si regge solo per il suo irrigidimento da paralitico, avrebbe detto Antonio Gramsci.
Spia di questa convergenza è la sottovalutazione di un fatto grave in una democrazia, ossia l´occupazione della sede nazionale del Pd da parte di un gruppo di No Tav, una distrazione che vela un evidente compiacimento: quello di vedere ancora una volta quel partito, proprio come il Pci che fu, in balia di «opposti estremismi», vittima della sua presunta ambiguità costitutiva.
Eppure la difficoltà del tempo presente può rivelarsi per il Pd una formidabile occasione per liberare il proprio profilo riformista, che anzitutto significa non farsi invischiare in queste provocazioni, basate sui meccanismi di un´Italia vecchia e immobile che teorizza il palingenetico cambiamento di ogni cosa, affinché tutto alla fine rimanga uguale.
Anzitutto però il Pd deve accettare l´esistenza di un radicalismo alla propria sinistra. È questa la conseguenza inevitabile della sua aspirazione a essere un partito nazionale di governo. All´atto della fondazione quel partito ha scelto di impugnare la bandiera del riformismo, ma non può limitarsi a sventolarla e deve trarne delle conseguenze sul piano dell´azione politica: guidare e non essere guidati è il compito, diciamo pure la responsabilità nazionale, del primo partito italiano in una crisi scivolosa come questa, dove la possibilità di un precipitare dello scontro tra forconi di destra ed estremismi di sinistra, leghismi del nord e del sud è a un passo e la politica nel suo insieme non è mai stata tanto debole.
«Pas d´ennemis à gauche» era il complesso atavico del vecchio Pci e non può esserlo anche per il nuovo Pd, in quanto proprio su questo punto deve misurarsi una discontinuità. Quella formula era il risultato di un mondo bloccato e di una democrazia zoppa, ove la Dc aveva il monopolio del governo e il Pci l´egemonia dell´opposizione, senza alcuna possibilità di realizzare l´alternanza. Un quadro statico che induceva quel partito a demonizzare qualunque fermento radicale alla sua sinistra: l´egemonia era una sorta di premio di consolazione che imponeva di sfidare, sviluppando una continua dialettica tra volontà di inglobamento e resistenza, ogni fermento vitale al di fuori di essa.
Allo stesso modo in quell´Italia lontana, che in tanti ricordano ancora bene con la sua speciale miscela di crisi economica, solidarietà nazionale, movimenti sociali e terrorismo, si andò sviluppando un´eterogenesi dei fini tra moderati e gruppi extraparlamentari: il ruolo «antipiccista» di quella sinistra radicale è stato la maggiore garanzia della sua sopravvivenza culturale, ben al di là del reale consenso politico che nel Paese non ha mai superato il 3%. Eppure l´influenza è stata assai maggiore perché era funzionale al consolidamento in senso moderato del quadro italiano: si soffiava sul fuoco del radicalismo di destra e di sinistra e ne usciva un miracoloso incenso conservatore, destabilizzando per stabilizzare come recitavano seguitissimi manuali.
I comportamenti di Bersani in questi giorni meritano di essere sottolineati perché lasciano prefigurare la consapevolezza di non cadere nelle trappole di quel passato. Sulla questione No Tav, ad esempio, nell´arena di Santoro, è stato assai efficace: solo contro tutti, le gambe larghe e la cravatta slacciata a rispondere colpo su colpo al moralismo di alcuni e alla demagogia di altri. La questione della Tav è stata tenuta al livello che merita, ossia una sfida democratica: ogni violenza deve essere bandita, non è vero che non si è dialogato con associazioni e comuni che hanno deliberato a maggioranza la loro decisione favorevole; discutere non può significare bloccare i lavori, ma piuttosto affrontare temi assai concreti come evitare le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, mantenere la massima sicurezza nei cantieri, dislocare risorse a vantaggio delle popolazioni danneggiate dai disagi. Ma la Tav va fatta perché risponde a un interesse italiano ed europeo e così è stato deliberato a ogni istanza rappresentativa: una democrazia che non realizza le sue decisioni non fa altro che aumentare il proprio discredito.
Sempre nelle stesse ore bene ha fatto il segretario del Pd a rispedire al mittente la proposta di una grande coalizione anche dopo le elezioni del 2013 rivendicando per l´Italia un destino normale, quello di una democrazia che respira con due polmoni e attraverso le elezioni confronta proposte alternative garantendo l´alternanza. Ma la confusione delle lingue ormai ha raggiunto livelli enormi e c´è chi considera un segno di riformismo prospettare l´eventualità di continuare a governare con Cicchitto e Gasparri, a prescindere dal risultato delle elezioni, anzi ritagliando su misura una legge elettorale nuova che possa favorire tale esito. Tutto questo i gattopardi italiani lo sanno bene e per questa ragione il Pd di Bersani disturba e dà fastidio. Continui pure a farlo elevando il senso riformista della sua sfida, che oggi significa proseguire a fare politica nel solco di rinnovamento e rigenerazione tracciato dal governo Monti, ma a testa alta, con lo sguardo rivolto all´Italia di oggi e a quella di domani.
l’Unità 3.3.12
Fondo per l’editoria: per la stampa di idee una boccata di ossigeno Ma restano i rischi
Il governo Monti rifinanzia il Fondo per l’editoria «assistita» che sale a 120 milioni. Fammoni (Cgil): è solo una boccata d’ossigeno. Per Mediacoop il rischio chiusura resta. Siddi (Fnsi) chiede una riforma a tutela del pluralismo.
di Roberto Monteforte
Una boccata d’ossigeno. Questo rappresenta il rifinanziamento del Fondo per l’editoria deciso giovedì sera da Palazzo Chigi con il decreto della presidenza del Consiglio che ha portato a oltre 120 milioni le risorse disponibili per il 2012 e relative alle spese sostenute l’anno precedente. È solo il primo passo.
Lo scorso anno erano stati 150 i milioni disponibili. L’anno prima 180. Per quest’anno per l’editoria assistita erano previsti solo 47 milioni di euro. Con quella cifra sarebbe stata morte sicura per molte delle cento testate non profit, cooperative, politiche e di idee alle quali è indirizzato il finanziamento pubblico diretto. Sono oltre quattromila i dipendenti che avrebbero potuto perdere il posto del lavoro. Quanto l’allarme fosse vero lo testimonia la chiusura di Liberazione, di Terra, de L’Informazione-Il Domani di Bologna e di altre testate cooperative e non profit. Il Manifesto è sotto il controllo di un commissario liquidatore.
Malgrado quei 120 milioni il destino dell’intero settore è ancora a rischio, perché quell’importo va a copertura di quanto le aziende editoriali hanno già speso nel 2011, prevedendo finanziamenti almeno del 15 per cento superiori. Non compensano i tagli dragoniani già imposti dal governo Berlusconi e poi confermati dall’esecutivo del professor Monti. Sulle aziende del settore pesano, infatti, sia i tagli retroattivi ai bilanci 2010 che quelli ai bilanci 2011. «Era un provvedimento lungamente atteso che però ancora non allontana lo spetto della chiusura di un centinaio di testate, in quanto copre solo parzialmente spese già fatte nel 2011 e quindi costi non comprimibili», lo conferma Lelio Grassucci presidente onorario di Mediacoop, che rappresenta le testate cooperative. Certo, qualcosa si è mosso grazie all’iniziativa incessante delle redazioni coinvolte, dei loro direttori, del Comitato per la libertà di informazione e del pluralismo, della Federazione della Stampa e dei sindacati, della stessa Mediacoop e delle altre sigle del mondo cooperativo e grazie, soprattutto, all’intervento del capo dello Stato Napolitano sulla linea «il pluralismo va tutelato nel rigore».
Così finalmente si è dato seguito all’impegno assunto dal governo Monti durante il dibattito parlamentare sulla recente Finanziaria. Sono circa 50 i milioni che dal cosiddetto «Fondo Letta» vanno ad irrobustire quello per l’editoria. Lo aveva preannunciato il sottosegretario Paolo Peluffo che ha anche rastrellato altri 23 milioni da risparmi della pubblica amministrazione. Ma è solo il primo passo. Lo sottolinea Fulvio Fammoni (Cgil): «Deve essere chiaro che i problemi non sono risolti e che comunque non si è trattato di un regalo commenta -. Si è riparato piuttosto ad un grave problema economico e di libertà di informazione che avevamo ereditato dal governo precedente». Fammoni ricorda l’impegno di quanti «hanno continuato a tenere viva l'iniziativa, insieme a molti parlamentari, anche quando tutto sembrava compromesso». Insomma la «lotta paga». «Ora però conclude non ci si deve fermare. Dobbiamo subito rimetterci al lavoro affinché non ci si ritrovi alla fine del 2012 nelle stesse condizioni di quest'anno». Quello che serve è la riforma del settore e la definizione di criteri rigorosi nella ripartizione delle risorse che «garantisca la libertà di informazione e che elimini le tante distorsioni ancora esistenti».
ORA I NUOVI CRITERI
È su questo che insiste anche Mediacoop, che indica come prossima tappa «il decreto per la trasparenza e la migliore finalizzazione delle risorse». Tra i nuovi criteri vi saranno le vendite in edicola e il numero dei dipendenti regolarmente assunti. C’è chi ipotizza anche un sostegno agli investimenti sul web. Di finanziamento ancora «parziale» parla anche il segretario Fnsi, Franco Siddi, che insiste sull’esigenza di una «puntuale svolta nella definizione rapida dei nuovi criteri di finanziamento, affinché ciascun soggetto beneficiario possa fare i conti per tempo». Ciò che va evitato è quanto è avvenuto nel 2011, con aziende che hanno sospeso l'attività perché non sapevano fino a qual punto avrebbero potuto godere ancora dell'aiuto pubblico. La Fnsi chiede una riforma a tutela del pluralismo e che «i fondi pubblici vadano a giornali veri, con giornalisti veri, con un minimo di rapporto con il pubblico».
il Fatto 2.3.12
Sussidi all’editoria: conteranno le vendite e non la tiratura
Un decreto per la riforma del sottosegretario Peluffo
Lo scopo è eliminare gli aiuti ai giornali che non arrivano in edicola
di Carlo Tecce
C’è una buona notizia per i giornali che ricevono il finanziamento pubblico: il fondo per l'editoria sarà di 120 milioni di euro, potrà crescere ancora, ma sarà inferiore ai 150 milioni stanziati l'anno scorso. É l'ultima concessione del governo, dicono i tecnici che lavorano al disegno di legge, prima di riformare il sistema: “Non possiamo chiedere sacrifici ai cittadini e poi distribuire denaro a pioggia senza un criterio valido”.
Martedì pomeriggio a Palazzo Chigi, durante un colloquio riservato assieme al sottosegretario Antonio Catricalà, il premier Mario Monti ha ricevuto il sottosegretario Paolo Peluffo (Editoria) per trovare nuove risorse per il fondo destinato ai quotidiani. Ma anche per scrivere il decreto legge che sarà approvato in Consiglio dei ministri entro fine marzo: “Aumentiamo le risorse per dare un segnale ai giornali e garantire loro la possibilità di ottenere i prestiti necessari per andare avanti, contestualmente, però, dovremo dimostrare che in futuro sarà tutto diverso”. Che vuol dire? “Mai più soldi a chi non li merita”.
E così il governo scriverà nel decreto legge di marzo che il finanziamento pubblico sarà calcolato (al 70 per cento) sulle vendite reali in edicola e sui costi di gestione (al 30 per cento): niente milioni sprecati ai più furbi che tirano migliaia di copie che morivano direttamente al macero senza farsi notare nemmeno dai lettori. Esempio: un grande quotidiano potrà avere al massimo 3,5 milioni di euro per le vendite e al massimo 2 milioni di euro per i rimborsi dei costi sostenuti. Non avrà un euro la testata che esiste soltanto virtualmente (ricordate l'Avanti! di Valter Lavitola?), che appare e scompare in edicola, ma che gonfia le voci di bilancio con migliaia di euro per telefonate, affitti, trasferte e consulenze. Tra i costi saranno conteggiate le spese per la distribuzione, la carta, la stampa e per il personale: “Ci teniamo a ripetere che le vendite saranno determinanti”.
Saranno esclusi, inoltre, i quotidiani che avranno meno di cinque dipendenti in
organico fra giornalisti e poligrafici, addio quotidiani di partiti sciolti e movimenti che vivevano di rendita. Per conoscere davvero i numeri sull'acquisto dei quotidiani, e scoraggiare i più esperti che truccavano le autocertificazioni aziendali, il decreto legge avrà un capitolo edicole: i circa 30 mila punti vendita saranno informatizzati, collegati attraverso un cervellone che permette di rintracciare le copie distribuite e conoscere le rese quasi in tempo reale. Non avranno il valore di una copia venduta quelle offerte in blocco e quelle appaltate agli strilloni ai semafori.
Il decreto legge fisserà i punti di partenza, poi un disegno di legge delega dovrà sviluppare le idee di Monti e Peluffo che, spiegano, “non vogliono limitarsi a fotografe il mercato attuale, ma vogliono cercare di aprire il settore a nuovi operatori”. La riforma dovrà anche prevedere incentivi per il passaggio su Internet dei quotidiani che non riescono a raggiungere un numero adeguato di copie vendute in edicola e anche per le società che intendono investire nel settore. Che sia utile e brillante oppure dannosa e vecchia, qualsiasi iniziativa del governo dovrà tenere conto che le risorse pubbliche non lieviteranno nei prossimi anni, semmai subiranno pesanti riduzioni. Forse la proposta del sottosegretario Catricalà, che ai suoi interlocutori è sembrata piuttosto prematura, potrà avere spazio nel testo che dovrà riformare l’editoria.
L’ex presidente Antitrust ha suggerito di utilizzare un modello “a rotazione”: nessuno avrà i contribuiti sicuri per sempre, anzi, ogni due o tre anni, il Tesoro potrebbe smettere di finanziare una testata già sul mercato per aiutarne una nuova. Prima di valutare le sue buone intenzioni, il governo deve, però, trovare i soldi per evitare il collasso dei giornali di partito e delle cooperative che non riescono nemmeno a pagare gli stipendi. Per adesso il fondo per l’editoria è di 120 milioni di euro, potrebbe arrivare a 140, ma sarà comunque l’ennesimo passo indietro rispetto all’anno scorso.
l’Unità 3.3.12
La bravura non ha nome e cognome
Altrove i ministri tornano a casa perché non hanno pagato i contributi alle colf. Da noi quelli come Luigi Frati si arrabbiano
di Claudio Fava
L a bravura non ha nome e cognome, dice Luigi Frati, rettore alla Sapienza di Roma. Nel corso degli anni, la «sua» facoltà di medicina (Frati ne è stato preside per quasi una vita) gli ha sistemato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, cattedra di storia della medicina), la figlia Paola (laurea in giurisprudenza, cattedra di medicina legale) e adesso il figlio Giacomo, ricercatore a ventotto anni, associato a trentuno, diventato ordinario di cardiochirurgia a trentasei anni dopo aver superato l’attentissimo vaglio di una commissione d’esame formata da tre dentisti e due igienisti.
D’impronta britannica il commento di Frati senior sulla carriera del figlio: «Giacomo mio s’è fatto un culo come un pajolo... il merito, ahò, ‘ndove lo metti il merito?». Già, dove lo mettiamo il merito? Frati junior l’ha applicato ad alcuni manichini, esercitandosi ad operare a cuore aperto su di loro in attesa di diventare professore e di ricevere in dote il suo reparto, pazienti inclusi.
La notizia non è questa cronaca da hostaria romana (con l’acca, però). La notizia è che non c’è notizia, nel senso che non è successo nulla. Il rettore è al suo posto, i famigli pure, la straordinaria coincidenza di un intero nucleo familiare sistemato a prescindere da tutto (dai percorsi universitari, dai legami di parentela, da un elementare senso di decenza) è stata letta, commentata e archiviata come si fa con le partite della nazionale: andrà meglio la prossima.
In altri Paesi, non più civilizzati del nostro, i ministri tornano a casa perché non hanno pagato contributi alle colf, i capi di stato si dimettono perché hanno sollecitato contributi per la moglie, i manager pubblici si autosospendono perché si sono fatti offrire una cena non dovuta. In Italia quelli come Frati invece s’incazzano, minacciano querela e restano inchiavardati al loro posto, ossequiati e inamovibili. Colpa loro? No. Colpa di chi tollera, tace e guarda altrove.
S’è perduto il valore dei gesti, il linguaggio di chi mostra con un gesto da che parte sta da dignità delle cose e delle persone. Senza scomodare il re della Danimarca che s’appuntò sul petto la stella gialla di David quando i nazisti chiesero alle loro nuove colonie europee di procedere col censimento a vista dei giudei (con quel gesto salvò la vita ad alcune centinaia di migliaia di ebrei), senza evocare la sobria coerenza di quei dodici docenti (dodici su milleottocento...) che nel ’38 si rifiutarono di giurare fedeltà al duce (e persero il posto, ma preservarono un briciolo d’onore all’università italiana), senza dover ricorrere a Bartleby lo scrivano che disse, senza aggiungere altro, «preferirei di no» (e non cambiò idea), insomma senza scivolare nelle celebrazioni, è però possibile che non ci sia alta e pubblica istituzione che non proponga una parola, un pensiero preoccupato, una critica ai comportamenti e ai ragionamenti del rettore della più grande università d’Europa? Dal Quirinale, nei giorni scorsi, è stata recapitata ai giornali una lettera del Presidente che, garbatamente ma puntualmente, lamentava la critica formulata nei suoi confronti da un deputato del Pd: quella critica era solo un’opinione, ma è stata ritenuta meritevole di una replica personale dalla più alta carica dello Stato. Anche sul siparietto familiare del rettore della Sapienza, che intanto ci fa sapere di aver ricevuto anche la proposta di una candidatura per la carica di sindaco di Roma, il paese si sarebbe aspettato un qualche inarcarsi di sopracciglia. Per esempio, al posto del ministro dell’Università, anche per puro scrupolo di verità, avremmo chiesto che ci venissero inviati gli atti relativi al concorso vinto da figlio del rettore (quello che opera i manichini): se non altro per far sapere a igienisti e dentisti che – da commissari d’esame devono decidere sulla competenza di un futuro cardiochirurgo, che la salute materiale dei cittadini e quella morale dell’università sono in cima ai nostri pensieri.
Perché se nei nostri pensieri non c’è spazio per le fulminee carriere dei figli del rettore, con che titolo ce la prendiamo con i vigili urbani romani che chiedevano la mazzetta per arrotondare la paga e concedere licenze abusive e certificazioni taroccate? Lo so, quelli truffavano, è un reato, è colpa grave... Poi però s’è saputo che i colleghi, anche quelli onesti, sapevamo. Ma tacevano. Ecco il punto: a far sempre finta di niente, sul magnifico rettore o sui vigili urbani romani, si finisce per abituarsi a tutto. Anche al peggio.
l’Unità 3.3.12
Intervista a Nikolaj Lilin
«Qui ci vorrebbe un Gramsci russo»
Lo scrittore: «Dopo il voto temo il ritorno del terrorismo L’attentato a Putin? Un falso. Il sistema non è riformabile»
di Ma. M.
P er cambiare davvero ci vorrebbe un Gramsci russo, una persona di cultura. Non estremista, non violenta, che non sia espressione del sistema politico attuale». Nikolai Lilin, autore di Educazione siberiana e del più recente Il respiro del buio non ha nessuna fiducia nelle possibilità di auto-riforma della politica russa.
L’unica variabile alle presidenziali è tra una vittoria di Putin al primo o al secondo turno. Che cosa cambia questo voto?
«Non credo in un grande cambiamento. È impensabile che un apparato corrotto come è quello attuale lasci uno spazio aperto ad una politica diversa. Sarà solo peggio».
Un ulteriore giro di vite?
«Si, ci sarà sicuramente. Quello di cui ho più paura è la minaccia terroristica. In Russia quando il potere viene compromesso tende a riaffiorare. È un sistema che si conosce bene anche in Italia, che ha avuto gli anni di piombo, il sequestro Moro e altri atti terroristici di dubbia provenienza. Anche in Russia è così».
In questi giorni si è parlato di un attentato sventato contro Putin, una denuncia che è apparsa sospetta quanto meno nella scelta dei tempi.
«Un falso attentato. Chiunque sappia come vengono svolte le indagini su un atto terroristico di grande rilevanza sa pure che non possono concludersi in 24 ore. Anche se non ho dubbi sul fatto che a Odessa (dove si stava preparando il presunto attentato, ndr) ci sia la presenza di terroristi islamici come pure di una molteplicità di servizi segreti».
Ma una notizia simile può influenzare l’opinione pubblica? In fondo Putin è arrivato al potere dopo una sfilza di attentati molto sospetti a Mosca.
«Può fare presa, sì. Il popolo russo è povero, messo in ginocchio da un potere corrotto che finge la democrazia, ma pratica la dittatura. E quella post-sovietica è una dittatura neo-capitalista. I russi hanno paura della loro ombra: sceglieranno l’uomo forte, che garantisce sicurezza. Visto quante allusioni sessuali nella campagna elettorale? L’idea è che il popolo-mucca segua il leader-toro».
Le proteste di questi mesi sono state però una novità assoluta.
«Le proteste sono state grandi. Ma ho visto, tra tanta gente per bene, anche chi non avrei voluto vedere. Gruppi neonazisti, ultrà sportivi, organizzazioni estremistiche di sinistra. E anche personaggi pubblici alla Nemtsov o persino Kassianov, ex premier di Putin, che hanno sfruttato le proteste ma che non hanno lo spessore per promuovere un vero cambiamento».
In piazza però c’era soprattutto gente comune.
«È nata una generazione che ha imparato a contestare il potere. È un bene, ma è solo il primo passo. Poi bisogna saper proporre un’alternativa».
Nell’opposizione russa si parla di unificare le forze sotto un’unica sigla dopo il voto.
«È impossibile. La sola possibilità di cambiare può venire da una forza extraparlamentare non corrotta dal sistema politico. Dalle elezioni non ci si può aspettare nulla. Il sistema dei brogli è talmente forte che anche chi lo gestisce non potrà più fermarlo. Le sole elezioni vere in Russia ci sono state con Gorbaciov, l’unica persona che potrebbe ancora cambiare la Russia». Nessuno tra i più giovani?
«Ci servirebbe un Gramsci russo. E invece le nuove generazioni sono state rovinate dalla cultura hollywoodiana, cresciute con i film in cui i russi erano sempre i cattivi. Abbiamo interiorizzato una mancanza di dignità. Per questo non riusciamo a partorire una mente capace di sviluppare un pensiero positivo partendo dalla nostra storia».
Corriere della Sera 3.3.12
Cina, il villaggio della democrazia al voto
Oggi elezioni libere a Wukan, epicentro delle proteste popolari per la terra
di Marco Del Corona
PECHINO — Per adesso sembra un voto che tutti vinceranno: elettori e Partito comunista. Stasera, dopo lo spoglio, chissà. A Wukan, villaggio costiero del Guangdong, barche da pesca nel porticciolo e animi caldi, oggi è la giornata delle urne.
Nel settembre dell'anno scorso, qui era cominciata a montare una rivolta contro la confisca e la svendita di terreni a una joint venture sino-hongkonghese, e a dicembre l'insofferenza nei confronti dei leader locali del Partito aveva provocato una ribellione. Dieci giorni d'assedio medievale, arresti, minacce e la morte di uno dei capi della sollevazione, Xue Jinbo, mentre stava nelle mani della polizia. Non era bastata la fuga dei funzionari corrotti per bloccare la crisi che, nel frattempo, offriva un esempio da imitare a comunità vicine afflitte dagli stessi problemi di corruzione e complicità.
Le mosse dialoganti del segretario comunista della provincia del Guangdong, Wang Yang, avevano sparigliato le carte. Uno smilzo pool di mediatori, procedimenti disciplinari contro i compagni dirigenti che sbagliavano, congelamento delle confische e nomina a n. 1 locale del Partito di Lin Zuluan, anima dei ribelli. Non solo: le urne. A Wukan sono state applicate le procedure previste dalla legge per le elezioni a livello locale, le uniche consentite in Cina.
E se «le autorità hanno perso interesse per le elezioni "di base"», come diceva al Corriere l'attivista Li Fan prima delle consultazioni di novembre nei quartieri di Pechino, Wukan va invece in controtendenza. I circa 8 mila aventi diritto hanno 21 candidati tra i quali scegliere un comitato di 7 persone, capo villaggio incluso. Vigila un comitato di controllo di 107 membri.
Lin è certo di essere eletto. In settimana, durante i comizi di presentazione, giurava «di servire il popolo e di fare quel che c'è da fare». Applausi.
Non tutti coloro che si presentano godono però della stessa fiducia. In un clima vivace, con l'uso del cinese mandarino rimpiazzato con il dialetto locale man mano che la discussione si scaldava, chi è stato visto come possibile quinta colonna degli speculatori non ha avuto gloria, come tale Chen Chang, ascoltato nel silenzio.
Xue Jianwan, figlia della vittima di dicembre, ha invece ammesso all'Ansa che spera di non essere eletta: «C'è forte pressione da parte della mia famiglia. Hanno paura di quel che può succedere dopo».
Gli slogan sugli striscioni sono quelli ufficiali del Partito. Che rivendica la paternità dell'intera opera di normalizzazione, dalla fine delle violenze alla nomina di Lin a segretario locale, al voto.
Il segretario del Guangdong, Wang Yang, punta a un posto nel comitato permanente del politburo al congresso d'autunno. Il Quotidiano della gioventù è uno dei giornali che hanno lodato la soluzione della crisi e l'«approccio nuovo e lucido per risolvere i conflitti sociali, che tiene conto sia dei diritti del popolo sia della necessaria stabilità».
La cooptazione dei capi della rivolta è stata un successo strategico e d'immagine del Partito, che ha comunque lavorato per spaccare il fronte dei riottosi.
Proprio in contemporanea, tra oggi e lunedì, a Pechino si apre la sessione annuale del Parlamento, l'Assemblea nazionale del popolo. Migliaia di delegati che da Wukan aspettano solo buone notizie.
Corriere della Sera 3.3.12
L'uomo di Neanderthal scomparso per colpa del clima
di Giovanni Caprara
Che fine fecero i nostri cugini neandertaliani vissuti a lungo in Europa prima di noi? Ora scrutando nel Dna estratto nei resti fossilizzati di 13 uomini vissuti tra l'Europa e l'Asia in un periodo tra 100 mila e 35 mila anni fa, ricercatori svedesi e spagnoli sono riusciti a precisare che cosa accadde ai lontani parenti. Esattamente 50 mila anni fa la maggior parte di loro si estinse dalla scena europea, quindi migliaia di anni prima che i nostri antenati di Homo sapiens arrivassero dall'Africa. Un piccolo gruppo, però, riuscì a sopravvivere per altri 10 mila anni rifugiandosi verso l'ovest europeo. Poi la specie scomparve definitivamente.
«Il fatto che questi remoti primitivi fossero quasi estinti, che recuperassero in extremis e che tutto ciò succedesse prima di un possibile contatto con gli umani moderni è una sorpresa — ammette Love Dalén del Museo di storia naturale di Stoccolma —. Anche perché dimostra come quella specie fosse molto più sensibile e vulnerabile ai cambiamenti climatici in corso nel periodo conclusivo dell'ultima era glaciale rispetto a quanto si era pensato finora». La prova della debolezza sarebbe nascosta proprio nel Dna esaminato e appartenente all'ultimo gruppo emigrato ad ovest il quale presenta minori variazioni genetiche rispetto agli altri vissuti in precedenza in zone diverse.
L'uomo di Neanderthal era così battezzato perché le sue prime tracce vennero trovate da Johann Fuhlrott nel 1856 in una grotta di Feldhofer nella valle di Neander, in Germania. Ricostruendone la storia si stabilì la sua presenza già oltre centomila anni fa e sino a circa 40 mila anni fa. E qui è nato l'enigma scientifico al quale i paleontologi cercano di trovare risposta, soprattutto per quanto riguarda la sua fine. Intanto è dato ormai sicuro che tra la loro specie e la nostra ci sia stata un'ibridazione, prima esclusa, perché parte del loro materiale genetico è stato trovato anche nel nostro Dna. Poi si aggiungeva che la scomparsa fosse dovuta ad una eccessiva specializzazione e che il confronto con l'uomo moderno lo abbia visto perdente. Adesso la causa prevalente pare invece legata al cambiamento climatico, come spiegano i ricercatori sulla rivista Molecular Biology and Evolution. Neanderthal lavorava le pelli e le usava per vestirsi unendole con fermagli d'osso: una prova, questa, di una certa abilità tecnica.
La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Jung. I seminari Anni Trenta, straordinario esempio di «analisi» su un prodotto culturale
Caro Zarathustra ognuno deve portare la propria croce
Perché è indispensabile l’Ombra, quella parte della psiche rimossa perché non coerente con il canone corrente
di Augusto Romano
Carl G. Jung LO ZARATHUSTRA DI NIETZSCHE, vol. I Bollati Boringhieri, pp. 484,
Appare finalmente in italiano la trascrizione dei seminari che Jung tenne negli anni 1934-39 su Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Dico «finalmente» perché il testo è di straordinario interesse, anzitutto perché mostra come l’indagine psicoanalitica condotta su di un prodotto culturale possa contribuire a metterne in evidenza i presupposti e i significati che gli sono propri, senza per questo ridurlo a un epifenomeno della biografia psichica dell’autore. Ma anche perché, in questo come negli altri suoi seminari, Jung dà il meglio di sé. Il fatto di parlare a braccio e la sua caratteristica tendenza a divagare tolgono al discorso ogni intonazione accademica e professorale e gli permettono di combinare in un impasto inimitabile cultura, penetrazione psicologica, coinvolgimento personale.
A differenza del modello dello scienziato sperimentale, che si nasconde dietro i dati, Jung è sempre interamente presente in ciò che dice e non teme di manifestare simpatie e idiosincrasie. Ne risulta un discorrere sciolto, chiaro, spiritoso, avvincente, ricco di battute icastiche (ad esempio: «La gente avrebbe di gran lunga meno fantasie sessuali, se se ne andasse in giro nuda»; oppure: «Ci sono così tante persone che predicano per evitare di dover fare ciò che predicano»; e infine: «L’aver commesso una certa percentuale di crimine dà alle persone una bella sensazione»), di aneddoti, di riflessioni che vanno dai rapporti tra il pensiero di Nietzsche e il nazismo allo stile narrativo di Joyce, di abbozzi di storie cliniche e di sogni di pazienti.
Da questo modo di raccontare trae vantaggio anche l’esposizione dei temi essenziali del suo pensiero, che Jung intreccia al commento del testo nicciano. Chi ha letto il Libro Rosso troverà in questo Seminario, esposte in una forma più distesa e discorsiva, molte delle fulminee illuminazioni che erano state registrate in quel libro segreto.
Il testo ora pubblicato è soltanto il primo di tre volumi; gli altri appariranno entro il 2012. Può essere però tranquillamente letto da solo: sia perché ha la compiutezza di un arazzo policromo, sia perché una lettura distanziata dei tre volumi può evitare eventuali effetti di sovradosaggio. Rinviando a traduzione conclusa il commento al rapporto Jung-Nietzsche, accennerò qui soltanto a un tema centrale nel pensiero junghiano, che in questo volume è costantemente richiamato: si tratta della costruzione di un’etica personale, un argomento strettamente connesso a quel percorso di autorealizzazione che Jung chiama «processo di individuazione».
Punto di partenza della riflessione junghiana è l’esigenza di accogliere nello spazio della coscienza egoica la figura dell’Ombra, cioè di quella parte della psiche che è stata rimossa, negata, rifiutata in quanto non coerente con il canone culturale corrente. L’Ombra, dice Jung, è «indispensabile per la realizzazione della totalità di una personalità». Accogliere l’Ombra e legittimarne la presenza significa però accettare il conflitto tra istanze contraddittorie e assumersi la responsabilità delle proprie scelte, rinunciando a ogni garanzia offerta da un potere sovraordinato. Viene qui in primo piano l’importanza dell’esperienza individuale, contrapposta al «tu devi» formulato da un codice preesistente, che presume di dare risposte di validità universale. E’ questa la radice della polemica che oppone Jung alle istituzioni religiose e alla «moralità da pulpito» che, additando l’imitatio Christi, offrono delle ricette di salute spirituale già perfettamente confezionate. «Ognuno deve portare la propria croce, il proprio problema individuale, la propria difficoltà e sofferenza individuale. Un problema è reale solo in quanto è a te che si presenta, solo in quanto sei tu che ti fai carico della tua vita».
Il libro si avvale di una eccellente traduzione e di accurate note esplicative di Alessandro Croce.""
La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Crisi di un papato
Secondo Politi, leadership carente e «incertezza di conduzione strategica»
Ratzinger, le riforme che non vuole (o non può) fare
di Andrea Tornielli
Marco Politi JOSEPH RATZINGER. CRISI DI UN PAPATO Laterza, pp. 328, 18
Politi, commentatore de Il Fatto Quotidiano, è stato per diciassette anni corrispondente vaticano di Repubblica e, prima ancora, del Messaggero. Ha scritto con il premio Pulitzer Carl Bernstein la biografia best-seller di Giovanni Paolo II «Sua Santità» (Rizzoli)
La tesi dell’autore è chiarissima fin dal titolo: Joseph Ratzinger. Crisi di un papato. Secondo il vaticanista Marco Politi, autore del saggio, quello di Benedetto XVI, a sei anni e mezzo dall’elezione, sarebbe dunque un pontificato «in crisi». Politi mette in fila e analizza tutti gli episodi «critici» che hanno caratterizzato il papato ratzingeriano, dalle reazioni al discorso di Ratisbona al caso Williamson, dalla risposta sul preservativo durante il viaggio in Africa del marzo 2009 allo scandalo dei preti pedofili.
L’autore riconosce le indubbie doti intellettuali e di predicatore del Pontefice tedesco, ne apprezza l’essenzialità del messaggio, giudica positivamente anche l’attività di scrittore e di teologo che Ratzinger ha continuato anche da Papa, attraverso i libri su Gesù di Nazaret: «Al di là della battaglia teologica», scrive Politi riferendosi al primo volume sul Nazareno, «il libro appare una splendida catechesi letteraria, un ritratto avvincente, un inno alla sequela di Gesù. Pagina dopo pagina il pontefice propone con essenzialità una spiritualità intensa, rigorosa, gioiosa». E riconosce anche una caratteristica peculiare di Benedetto XVI, l’umiltà: «Raramente un Papa ha espresso in maniera così toccante la propria fragilità», osserva Politi, riferendosi al libro-intervista nel quale il Pontefice racconta la sua reazione all’elezione e il suo rivolgersi a Dio per dirgli: «Tu mi devi condurre! Io non ce la faccio».
Ma Politi rivolge anche, pagina dopo pagina, una critica serrata al «governo» di Ratzinger e conclude che l’attuale papato appare caratterizzato da uno stallo delle riforme necessarie per la Chiesa e per la Curia romana. Come pure osserva la carenza di una visione geopolitica da parte della Santa Sede e un venir meno dell’incidenza che la voce vaticana aveva sulla scena internazionale fino a qualche anno fa, nonostante molti viaggi di Benedetto XVI – anche quelli considerati più difficili – riconosce l’autore, siano stati «coronati da grande successo».
Il Papa «si dedica scrupolosamente allo studio dei dossier che gli vengono sottoposti», ma «crisi dopo crisi, resta insoluta la questione della solitudine decisionale... Il cosiddetto deficit di comunicazione rimanda piuttosto ad una carenza di leadership» e a un’«incertezza di conduzione strategica».
È indubbio che le crisi del pontificato abbiano messo in luce reali problemi di governo (meglio, di assenza di governo) che non sono soltanto comunicativi, nonostante molti in Vaticano continuino purtroppo a pensare in modo auto-assolutorio che tutte le responsabilità siano dei giornali e dei giornalisti. È al contempo vero, però, che la figura e il magistero del Papa teologo sia ben più articolato e complesso di quanto vorrebbero farlo apparire certe semplificazioni tendenti a schiacciarlo sui cliché conservatori. Ed è probabile che alcuni aspetti indicati come negativi da Politi – ad esempio la minore incidenza geopolitica della Santa Sede – appartengano volutamente allo stile pontificale di un Papa più concentrato sulla comunicazione dell’essenziale della fede cristiana.
La Stampa TuttoLibri 3.3.12
Trent’anni dopo «Il pensiero debole»: la lunga fedeltà all’ermeneutica, mancando i fatti
Vattimo, la libertà il nostro abisso
di Federico Vercellone
Gianni Vattimo DELLA REALTÀ Garzanti, pp. 231, 18
«Della realtà»: il nichilismo come caratteristica saliente della cultura contemporanea Un mondo che moltiplica vorticosamente le sue prospettive, venuta meno ogni ipotesi metafisica
Sono ormai trascorsi quasi trent'anni da quando apparve presso Feltrinelli, a cura di Gianni Vattimo e di Pier Aldo Rovatti, un volume che ha smosso gli animi e fatto epoca, Il pensiero debole. Fu subito chiaro che si era toccato un nervo scoperto. In breve la questione era la seguente: si doveva constatare che la società di massa era andata trasformandosi in una civiltà dei media dominata dall' immagine. I grandi guru della critica della cultura, non importa se di sinistra e di destra, avevano guardato al fenomeno con un occhio implacabilmente critico. Ma, come sempre, non tardò ad arrivare il tradimento di un chierico. E non poteva che essere un transfuga di grande livello a difendere l'avversario di sempre. L'interrogativo posto da Vattimo era se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma. O se non si trattasse invece di un universo che possedeva impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura - era questa l'ipotesi «debolista» - che consentiva davvero il realizzarsi del sogno liberale e illuminista di un mondo pluralista, ove tutte le individualità potevano esser contemplate e riconosciute nella loro peculiarità. E' il sogno postmoderno.
Gianni Vattimo enunciò l'idea che la possibilità di possedere molte televisioni si configurava come un pluralismo inedito, sconosciuto ai mondi precedenti che si erano fissati sull'unicità della verità. Grazie a questo passo egli incarnò, agli occhi di una parte consistente dell'élite culturale, l'immagine di colui che ha cambiato sponda per unirsi ai vincitori. La polemica contro il pensiero debole divenne così una polemica contro la cultura dominante da parte di un settore significativo della casta dominante della cultura. E la cosa è continuata sino a tempi recentissimi anche grazie al recente dibattito sul «nuovo realismo».
E' venuto dunque il momento di fare bilanci equilibrati di una vicenda filosofica in trasformazione e ancora in atto, che ha attraversato fasi diverse e anche autocritiche. Proprio Gianni Vattimo ci fornisce questa occasione grazie al suo libro più recente, Della realtà, pubblicato ora da Garzanti nel quale raccoglie e rielabora scritti degli ultimi quindici anni raccolti intorno a due nuclei di lezioni tenute nel 1998 a Lovanio e nel 2010 a Glasgow (le prestigiosissime «Gifford Lectures»).
Com'è ben noto, il pensiero di Vattimo fa riferimento a una tesi di Nietzsche, secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», laddove anche questa «è un' interpretazione». Le obiezioni principali formulate contro questa tesi sono due. La prima è di natura epistemologica: su questa via viene messa in questione la verità della scienza. La seconda è invece di ordine pratico-morale: se tutto è interpretazione, ogni cosa diviene opinabile. Così diventa lecito negare l'Olocausto ma anche, perché no?, viaggiare in controsenso sull'autostrada. Ora, per quanto mi risulta, né Gianni Vattimo né altri rappresentanti del pensiero ermeneutico hanno mai rifiutato di farsi visitare dal medico a causa di una sfiducia preconcetta nei confronti della scienza o, anche tralasciando l'Olocausto, hanno attentato in automobile, emuli di Marinetti, alla vita propria e a quella altrui. Se le cose stanno così, ci sarà qualche buon motivo per rivisitare la questione da un altro punto di vista.
Anche in questo libro Vattimo afferma che il nichilismo, che si prospetta con forza nella tradizione NietzscheHeidegger, costituisce una caratteristica saliente della cultura contemporanea (postmoderna e oltre...). Il nichilismo comporta che l'universo abbia perduto il proprio cardine, l'idea di Dio come Essere Supremo, certezza ultima della consistenza del creato, della sua coerenza, garanzia della verità delle nostre conoscenze, sigillo di un ordine buono e giusto. Quando il fulcro di quest'ordine grandioso viene meno, quando, per dirla con Nietzsche, si scopre che «Dio è morto», si spalanca un abisso. Alla verità ultima sancita dalle salde architetture della metafisica, si sostituisce un mondo che, in assenza di un fuoco dello sguardo, moltiplica vorticosamente le proprie prospettive. In questo ambito si diviene consapevoli della radicale storicità dell'esistenza, dei saperi, e di tutto il tessuto di concetti che li compongono. E' il mondo totalmente tecnicizzato che ci è consueto, nel quale tuttavia si spalanca un'altra volta, grazie alla consapevolezza profonda del carattere divenuto di noi stessi e del mondo, l'abisso della libertà. Quali criteri, per scegliere secondo verità e giustizia, vanno adottati in questo contesto nel quale non siamo confortati da alcuna oggettività stabile? Probabilmente, per cominciare a sbrogliare la matassa, dobbiamo ricordarci, come ci insegna molta biologia contemporanea, che neppure la natura è «oggettiva», ma è attraversata da moti di autorganizzazione creativa che la rendono molto prossima alla cultura.
Repubblica 3.3.12
Così il comunismo fu il primo network internazionale
di Niguel Gotor
L´Urss crollò perché perse la gara dell´egemonia combattuta con gli Stati Uniti
Un´utopia fatta di slanci libertari e ugualitari che si è rovesciata nel suo esatto contrario
L´ultimo libro di Silvio Pons ripercorre la storia del movimento mondiale. Dall´ascesa alla caduta
Nel cimitero della storia, sulla tomba senza fiori dedicata al "Comunismo Sovietico", c´è scritto "1917-1991": una vita breve quanto quella di un uomo, ma tragica e intensa, che ha mobilitato i cuori e le menti, le speranze e gli odii di milioni di persone nel corso del Novecento.
Il "caro estinto" ha avuto un´esistenza strana perché è cresciuto oltre ogni aspettativa fino agli anni Cinquanta, ha subito un declino altrettanto rapido nei due decenni successivi ed è morto tra l´ignominia e lo stupore delle genti nel volgere di un solo biennio, tra il 1989 e il 1991. Certo, non si può dire che non abbia vissuto: ha creduto nella rivoluzione proletaria come fatale compimento progressivo di quella francese del 1789 che aveva emancipato la borghesia, ha contribuito a sconfiggere il cancro nazifascista, pagando un tributo di sangue forse senza uguali nella storia dell´umanità, e ha osato proporre l´utopia di una modernità alternativa a quella capitalistica, carica di slanci messianici, libertari, ugualitari e universalistici, che si è rovesciata nel suo esatto contrario, l´orrore dei Gulag e la repressione totalitaria di ogni forma di dissenso.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tentativi della storiografia internazionale di riassumere il senso di quella vicenda in termini propriamente storici e non più ideologici, dopo un ventennio di accesso alle fonti d´archivio liberate dalla fine dell´Urss. Una tendenza verso la sintesi interpretativa della storia del comunismo a cui gli studiosi italiani hanno partecipato attivamente come conferma anche l´ultimo libro di Silvio Pons La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (pubblicato da Einaudi, pagg. 419, euro 35).
Pons affronta una sfida complessa poiché la vita del comunismo sovietico ha trovato la sua cifra più autentica nella contraddittorietà. Esso, infatti, «è stato molte cose insieme: una realtà e una mitologia, un sistema statuale e un movimento di partiti, una élite chiusa e una politica di massa, una ideologia progressista e un dominio imperiale, un progetto di società giusta e un esperimento sull´umanità, una retorica pacifista e una strategia di guerra civile, un´utopia liberatrice e un sistema concentrazionario, un polo antagonistico dell´ordine mondiale e una modernità anticapitalistica».
L´autore, ordinario di storia dell´Europa orientale all´Università di Tor Vergata di Roma e direttore dell´Istituto Gramsci, gioca e vince la partita perché delinea un affresco a tutto tondo della vita storica del comunismo internazionale scegliendo due opzioni interpretative forti e originali. La prima lo induce a concentrarsi sul carattere transnazionale del movimento comunista, assumendolo per ciò che fu e volle essere sin dalle sue origini, ossia il primo network politico-mondiale su scala globale. In questa chiave di lettura l´identificazione tra gli interessi dell´Urss e la prospettiva di una rivoluzione degli altri partiti comunisti disseminati nel mondo assegna un significato cruciale al momento della legittimazione internazionale di quel disegno di potenza e modernizzazione. Una legittimazione che bisognava costruire quotidianamente attraverso l´organizzazione e la disciplina, l´agire e il farsi partito, l´inesorabile edificazione di un "uomo nuovo".
La seconda opzione consente all´autore di rifiutare un´interpretazione monolitica del movimento nato dalla Rivoluzione d´Ottobre, quella che di solito scaturiva dalle passioni e dalle propagande dell´anticomunismo militante occidentale. Piuttosto, prevalgono le tensioni fra il centro e la periferia, le sfumature e le variabili interne e il dato di fatto che quei conflitti minarono l´edificio comunista molto prima di quanto è stato immaginato sinora. Il comunismo entrò in crisi già all´inizio degli anni Sessanta, quando le rivoluzioni dall´alto degli Stati dell´Europa centro-orientale e l´emergere della frattura con il colosso cinese, cominciarono a disarticolare il progetto imperiale dell´Urss, ledendone la legittimità internazionale, ossia il fulcro su cui aveva costruito il proprio successo. Fu anzitutto una crisi di egemonia, quindi di carattere politico e culturale, a ledere la sovranità sovietica e le sue capacità di attrazione simbolica nel mondo. Le difficoltà economiche seguirono senza svolgere un ruolo decisivo nel determinarne la caduta.
L´impero sovietico venne sconfitto dal momento che non seppe esercitare un´autentica egemonia paragonabile a quella realizzata dagli Stati Uniti nel corso della Guerra fredda nell´altro campo. Un´influenza basata sulla flessibilità, ossia sulla capacità di adattare il capitalismo ai diversi gradi di sviluppo delle singole nazioni, e alimentata dalla costruzione di uno spazio geopolitico transatlantico e di un compromesso socialdemocratico su cui si fondò lo Stato sociale. Pons dissente dall´idea di Eric Hobsbawm, ossia che il comunismo abbia avuto il merito di costringere il capitalismo a riformarsi inventando il welfare state. Non è vero: con l´afflato riformista del suo maestro Giuliano Procacci, egli ricorda che «le forze socialdemocratiche, liberali, cattoliche protagoniste della riforma del capitalismo dopo la guerra furono più danneggiate che favorite dall´esistenza del comunismo come modello e come movimento», che condizionò assai di più la Guerra fredda.
La globalizzazione fu il fattore che determinò la fine dell´assetto bipolare del mondo, in cui il sistema chiuso socialista si rivelò sempre meno funzionale allo sviluppo di più ampi mercati di consumatori richiesti dalla rivoluzione tecnologica e generati dalla vorticosa velocità delle comunicazioni e degli scambi. Poi venne l´ictus della caduta del muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, l´improvviso scoppio di una vena ostruita che da ormai trent´anni impediva la libera circolazione di una parte troppo importante del mondo. Ancora due anni di paralisi e il giorno di Natale del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello venne ammainata dal Cremlino: era davvero finita, iniziava un´altra storia, confusa e incerta, in cui siamo ancora immersi.
Repubblica 3.3.12
Perché non c'è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci
di Joseoph Buttigieg
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)
l’Unità 3.3.12
Tiziano, la storia prima di tutto
Albe e tramonti nel Vecellio non diventano mai protagonisti. La scena appartiene ai personaggi
di Renato Barilli
Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, a cura di M. Lucco, Milano, Palazzo Reale, fino al 20 maggio, catalogo Giunti
Non tutte le mostre che al giorno d’oggi movimentano capolavori del passato rispondono a stringenti fini scientifici, tra queste il dubbio può riguardare anche la rassegna ospitata al Palazzo Reale di Milano col titolo di Tiziano e la nascita del paesaggio moderno, seppure curata da Mauro Lucco, attualmente il nostro miglior esperto di arte veneto-veneziano, come ha dimostrato conducendo le rassegne monografiche che le romane Scuderie del Quirinale hanno dedicato ad Antonello da Messina e a Giovanni Bellini.
Il titolo di questa mostra effettua con evidenza una surrogazione, il nome giusto da accampare avrebbe dovuto essere quello di Giorgione, al quale notoriamente si deve il primo paesaggio, La tempesta, dove i protagonisti umani si fanno piccoli piccoli mettendosi in disparte, per lasciare che sia appunto una apparizione mista di case, di acque, di terre, a dominare la scena, immersa in freschi e vivaci effetti meteorologici. Ma quest’opera eccelsa non era disponibile, e neppure un altro capolavoro del Maestro di Castelfranco, I tre filosofi, dove le figure richiamate nel titolo si collocano di lato per consentire il dispiegarsi di un vasto sfondo paesistico. Al di fuori di questi passi in avanti, in quasi tutti i dipinti presenti in mostra il paesaggio compare nel retro di gruppi umani destinati a dominare il campo, non esiste, tra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, la libertà di mosse che consente un sovvertimento gerarchico, l’azione umana detiene ancora fermamente il primo posto. Certo, se ci si rivolge al Bellini, dossi collinari, case, cieli alti occupati da soffici nuvole, recitano già una parte importante, ma se ne stanno dietro, in sott’ordine, il che vale ancor di più per altri rappresentanti della «seconda maniera», per dirla col Vasari, quali Cima da Conegliano, Marco Basaiti, Andrea Previtali, non toccati dalla rivoluzione leonardesca della «maniera moderna» che scopre l’esistenza dell’atmosfera.
ORFEO E EURIDICE
Quanto a Tiziano, egli è certo il degno continuatore di Giorgione, e dunque, dietro ai suoi personaggi, si accendono albe o tramonti che respirano con ampi polmoni e sfumano con deliziose screziature, ma pur sempre facendo da sfondo ai dati della «storia», laica o religiosa che sia, grandeggianti in primo piano. Semmai, bisogna andare a cogliere il Vecellio in momenti di vacanza, quando il protagonista umano esce dalla ribalta, e i dati paesistici dominano in primo piano, come succede in Orfeo e Euridice. Ma, finito l’intervallo, i primi attori rientrano a occupare il posto principale. E anche spingendosi più avanti nel grande secolo veneziano, non è che il paesaggio la faccia da padrone, con Jacopo Bassano quello che conta è il peculio, cioè la solida proprietà di tante pecore cui va in primis l’attenzione del pittore. Quanto al Tintoretto, egli allaccia figure e fronde in un unico ghirigoro di tracce luminose fosforescenti. Il paesaggio, per rendersi davvero autonomo, deve attendere che arrivi il secolo successivo.
Corriere della Sera 3.3.12
Il cotto con lo sponsor in piazza. La disputa sul cuore di Firenze
Signoria, divide l'idea di rifare la vecchia pavimentazione
di Paolo Conti
ROMA — Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, c'è l'efficacia immediata di un'immagine del 1498: il rogo di Girolamo Savonarola, opera attribuita (senza sicurezze) a Francesco Rosselli e conservata a Firenze al museo di San Marco. Lì piazza della Signoria, a Firenze, appare con il suo aspetto originario: soprattutto con i riquadri di marmo che incorniciano il pavimento di cotto veneziano. Proprio il calpestìo che oggi il sindaco di Firenze, tra mille polemiche, vorrebbe ripristinare, come ha spiegato nei giorni scorsi: «Potrebbe essere fatta dal 2015 in poi, ma sarebbe bello poterne discutere. Mi piacerebbe che si facesse lo sforzo per dialogare più serenamente». Il vulcanico sindaco di Firenze parte da un presupposto: «Piazza della Signoria sarebbe più bella se al posto di quel grigio delle pietre, che sono almeno di 4 tipi diversi, si potesse tornare al cotto. Su questo tema abbiamo già discusso in passato con i sovrintendenti ed è un'idea che io considero molto bella e che dovrebbe essere realizzata con sponsor: cioè non dovrebbe costare un centesimo ai cittadini».
Il pavimento in cotto in piazza della Signoria ha in effetti resistito per secoli, fino al 1795 quando Ferdinando III di Asburgo-Lorena, terzo Granduca del ramo della famiglia imperiale austriaca succeduta agli estinti Medici, decise di sostituire il rovinatissimo cotto con l'austera e resistentissima pietra grigia. Poi l'interminabile cantiere che sconvolse il cuore di Firenze tra il 1988 e il 1991, la decisione di riaffidarsi alla pietra, un risultato finale «moderno» che scontentò tutti.
Adesso la riapertura del dibattito su quel cotto che Ferdinando III dovette togliere dopo quasi quattrocento anni di servizio perché era diventato poco più che polvere. Una prima risposta dialogante è arrivata da Cristina Acidini, soprintendente del Polo museale fiorentino: «Visto che oggi abbiamo strumenti più efficaci, potremmo realizzare una ricostruzione virtuale della piazza e verificarne prima l'impatto. Non abbiamo fretta. Non c'è dubbio che attualmente la piazza subisca una pesante discontinuità e che rispetto alla sistemazione settecentesca sarebbero necessari interventi di riordino».
Favorevolissimo è per esempio l'architetto Paolo Portoghesi: «Mi pare un'ottima idea. La stessa che avanzai io esattamente vent'anni fa quando si trattò di ripavimentare la piazza. Oggi la piazza, con quel grigio su grigio, è poco percepibile e leggibile. Direi che tecnicamente, rispetto al cotto originale, sarebbe la rimozione di una superfetazione, cioè di una sovrapposizione, anche se storicizzata. Dal punto di vista delle teorie del restauro si tratterebbe di una scelta forse paradossale: ci vorrà un pizzico di eroismo, comunque benvenuto quando c'è immobilità». Dello stesso avviso Vittorio Sgarbi («Si toglierebbe una pavimentazione nuova e brutta per collocarne una di tipo "prettamente archeologico" e questo intento è senza dubbio positivo»). E anche Paolo Marconi, ordinario di Restauro architettonico a La Sapienza di Roma (sta, per esempio, finendo il restauro delle Scuderie della Venaria Reale a Torino): «Si tratterebbe di un intervento filologicamente correttissimo e si tradurrebbe in un bel complimento a Firenze. Bisognerebbe ritrovare tutte le immagini che raccontano quel cotto e metterne un tipo capace di resistere all'usura e al continuo cammino dei passanti».
Ma non tutti sono d'accordo. Fieramente ostile è per esempio Alberto Asor Rosa, critico letterario e scrittore, campione della battaglia contro l'ecomostro di Monticchiello e per la salvaguardia del Paesaggio in Italia: «Una proposta distruttiva almeno quanto lo possono essere interventi di degrado in ambito edile o territoriale. Anche l'antiquaria ed il restauro obbediscono alle leggi della storia. Se si dovesse ragionare col criterio di Renzi, dovremmo rifare il Colosseo e, perché no, magari in cemento armato. Dubito che si possa ritrovare il cotto così come si faceva nel Rinascimento». E poi c'è la Cgil, con Luca Pasqualetti della Funzione pubblica di Firenze: «È avvilente, i lavoratori e le lavoratrici dei servizi scolastici e dell'assistenza domiciliare sono in attesa di risposte per il loro posto, i nostri amministratori pensano bene di spendere i soldi dei contribuenti non nei servizi per i cittadini, ma, nella migliore delle ipotesi, per rifare il look ad un pezzo della città».
Repubblica 3.3.12
Finita la chioccia
Benvenuti nell’epoca della mamma tigre
"Ho imparato la tolleranza, la capacità di ascoltare e la gioia di vivere"
di Federico Rampini
Cinese o francese, purché non americana: qui la mamma piace d´importazione. Esattamente un anno fa l´America veniva scossa dal "ciclone" Amy Chua, la docente universitaria sino-americana che illustrò nel suo libro sulla "madre tigre" i pregi di un´educazione severa e repressiva di stampo asiatico-confuciano.
Più di recente, un tentativo di emulazione ha spacciato come superiori le madri francesi. Ne è seguita una divertente parodia di un umorista che sul Wall Street Journal si è divertito a immaginare i prossimi best seller, in un crescendo surreale di mamme mongole e boliviane. Il finale di quella parodia era dedicato al trionfo delle madri italiane e dei loro manicaretti. In Italia hanno abboccato scambiando lo sfottò per una vera "consacrazione": scherzi che gioca un deficit nazionale di autostima. Ma questo infortunio italiano ci riporta proprio all´inizio del gioco. Il libro più serio, quello di Amy Chua che ha dato il via al dibattito, ha avuto proprio il merito di rivelare una tremenda insicurezza nei genitori americani. Il successo del best seller è stato accompagnato da una sua lettura unilaterale: i commentatori - gli entusiasti e gli indignati - hanno ignorato i capitoli finali in cui la brillante Chua confessa alcune sconfitte, davanti alla ribellione adolescenziale della figlia minore. Gli americani, e soprattutto le americane, hanno voluto prendere dalla Chua solo un´esaltazione della "madre tigre". Perché? Questo fraintendimento è rivelatore.
Il fenomeno della "mamma tigre" avviene sullo sfondo di una psicosi del declino. Che è un fatto storico innegabile: il baricentro della forza economica, del dinamismo, torna a Oriente dopo cinque secoli di egemonia della razza bianca. Ma a questo ribaltamento delle gerarchie geostrategiche si accompagna un preciso riscontro nell´educazione: le classifiche Ocse ci dicono che i nostri ragazzi vengono su piuttosto ignoranti, rispetto ai loro coetanei cinesi, giapponesi, sudcoreani. Ed ecco che la decadenza dell´Occidente si proietta nel microcosmo familiare: dove sbagliano le mamme, se sui banchi di scuola finisce una generazione di serie B? La ricerca di "modelli esteri" in realtà rafforza una tendenza in atto da molti anni.
Le "mamme ebree" di New York godevano già di una fama leggendaria, per avere allevato geni della finanza e talenti dell´arte. Le loro concorrenti e rivali dell´alta borghesia Wasp (bianca e anglosassone) nell´Upper East Side di Manhattan, da trent´anni investono sull´istruzione dei figli allenandosi nella gimcana delle eliminatorie per iscriverli alle scuole più elitarie e selettive. La meritocrazia l´hanno inventata i cinesi ai tempi di Voltaire, ma poi la classe dirigente americana si è data da fare per non restare indietro. Mamme per prime, con gli artigli acuminati.