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l’Unità 2.3.12
«L’Unità ha reso le fabbriche più libere. L’attacco è gravissimo»
Il giurista associa la decisione della Fiat con le norme che ledono i diritti dei lavoratori:
dalla deregulation di Berlusconi alle minori tutele di sicurezza con Monti
di Natalia Lombardo
Una regressione culturale e politica bruttissima. Io sono abbastanza vecchio per ricordare formule di anni lontani nei quali si rivendicava il diritto di entrare in fabbrica con l’Unità in tasca». Stefano Rodotà, giurista, colloca l’esclusione del quotidiano dalla Magneti Marelli come il segno di un’ulteriore e pericolosa perdita di garanzie costituzionali.
Lei ricorda gli anni 5060, un passo indietro notevole. Come mai? «Portare l’Unità in tasca è stata una delle tante molle che hanno fatto inserire nello Statuto dei Lavoratori il divieto di raccogliere informazioni sulle opinioni politiche, sindacali e religiose dei lavoratori. Insomma, rendere la fabbrica come luogo agibile per tutte le opinioni. Un principio che va assolutamente mantenuto». La possibilità di formarsi un’opinione, è un diritto di base.
«Certo, questa è una regressione culturale e politica gravissima, in cui un giornale non ha diritto di cittadinanza in fabbrica. È il diritto dei lavoratori di poter manifestare la propria opinione, mantenere attraverso i giornali la comunicazione reciproca e l’informazione come elemento per costruire liberamente la propria personalità. Ecco, senza questo la fabbrica torna a essere off limits per le opinioni».
Marchionne il modernizzatore che torna alla Fiat di Valletta?
«Mi tornano alla mente espressioni del tipo: “La democrazia si ferma ai cancelli della fabbrica”. Tutto ciò che è avvenuto per rendere la fabbrica un luogo dove non si è prigionieri del datore di lavoro, ma persone, come vuole la Costituzione, perché l’articolo 3 afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Sono punti di civiltà, mentre l’erosione di garanzie sui diritti è molto inquietante. Un altro tassello perso è nell’articolo 8 della manovra di Ferragosto del governo Berlusconi, che permette intese aziendali anche “in deroga alle disposizioni di legge” e alle regole dei “contratti collettivi nazionali di lavoro". Umberto Romagnoli ha scritto che ciò può rappresentare la ine del diritto sul lavoro, così si azzerano in vari modi le garanzie. È una norma anticostituzionale di una gravità assoluta, infatti la Cgil ha annunciato il ricorso alla Consulta e stava partendo una raccolta di forme per un referendum abrogativo».
Tutto ciò è avvenuto perché si è abbassata la guardia sui diritti?
«Si è stratificata una debolezza politica e culturale, e questi sono gli esiti. L’episodio della bacheca chiusa alla Magneti Marelli è un segnale del fatto che l’imprenditore in fabbrica può aggirare e eludere i diritti costituzionali. Purtroppo da alcuni anni c’è una deriva, e non è finita, ovvero pensare che i lavoratori debbano essere normalizzati, quindi lo Statuto del lavoratori, l’articolo 18, sono considerati ostacoli. Con un tale clima ognuno tende a fare delle norme per sé».
La bacheca negata quindi non è un episodio da sottovalutare?
«Non è un episodio, è la rivelazione di un atteggiamento: qualcuno ritiene che ci sia un potere imprenditoriale che può interdire le libertà garantite dalla Costituzione, è un’aggressione alla dignità del lavoratore. Luigi Mengoni, un professore di diritto civile della Cattolica, non un rivoluzionario, sull’articolo 1 della Costituzione dice: “Il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno”. Ricostruiva la figura dell’uomo accompagnato dalla dignità, e non solo forza lavoro. Invece questi sono tutti attacchi alle garanzie: la scomparsa del riferimento alla legge, l’abbandono dei principi costituzionali e l’aggressione alla figura dell’uomo degno».
Una visione ottocentesca in pieno Terzo Millennio?
«Sì, una brutta visione. Una gigantesca regressione, la riaffermazione del potere illimitato dell’imprenditore. Fa il paio con la revisione dell’articolo 41 della Costituzione, che vorrebbe come valore preminente la logica di mercato e della concorrenza, con libertà di violare tre elementi base: sicurezza, libertà e dignità della persona. E la tutela della sicurezza sul lavoro ora viene ridotta dal decreto Monti».
Nel decreto sulle semplificazioni, un altro diritto intaccato?
«E sì, l’azienda si fa certificare così non si fanno le ispezioni? Non è possibile. Berlusconi e Sacconi hanno delegato a Marchionne la politica industriale e della fabbrica, ignorando il sistema di garanzie costituzionali e legislative dei diritti dei lavoratori. Ma così si abbassano le garanzie per tutti. E ora un altra lesione è nel’articolo 1 del decreto Monti sulle liberalizzazioni».
l’Unità 2.3.12
«Non esiste in natura»
Bersani boccia la Grande coalizione
Il segretario Pd: nel 2013 sfida tra schieramenti alternativi Confronto con De Benedetti che attacca Marchionne
e difende l’articolo 18: «Una puttanata questa discussione»
di Simone Collini
Il Pd lavora per dar vita a un’alleanza di centrosinistra perché nel 2013 non ci sarà una “Grande coalizione” ma una sfida tra schieramenti alternativi. Le mosse di Berlusconi vengono guardate con un misto di attenzione e scarso credito dai vertici dei Democratici. Se l’ex premier dice che il prossimo governo potrebbe essere sostenuto da membri politici di Pdl, Pd e Terzo polo, Bersani fa notare che una sorta di «partitone unico» come quello a cui sembra pensare Berlusconi «non esiste in natura»: «Io ho un’altra idea di democrazia dice il leader del Pd ho sempre la speranza che noi possiamo essere una democrazia rappresentativa, ancorché riformata, e che il nostro Paese possa vivere in una buona dialettica democratica». E si meraviglia, Bersani, che Berlusconi lanci una simile ipotesi dopo aver partecipato al vertice del Ppe a Bruxelles: «I governi non si fanno con il Cencelli, devono avere autorevolezza tecnica e politica, ai cittadini va offerta una scelta, questa è la mia idea di democrazia, e nel mondo funziona così».
Una linea ribadita anche da Rosy Bindi, per la quale Monti «non ha il compito di commissariare la politica», e da Dario Franceschini, per il quale nel 2013 non potrà esserci nessuna «ambiguità».
Del resto, che non possano convivere Pd e Pdl (o quale che sia il nome del partito con cui Berlusconi si ripresenterà nel 2013) si vede non appena si discute di qualche tema concreto, che siano le liberalizzazioni o l’articolo 18. Due questioni di cui Bersani parla durante un incontro dedicato al libro “Green Italy” di Ermete Realacci, a cui partecipa anche Carlo De Benedetti.
Il leader del Pd non ha apprezzato che tutti i partiti, senza distinzione, venissero descritti come assediati dalle lobby a proposito delle liberalizzazioni. «Le lobby vanno dal governo e vanno dai partiti. Ma c’è anche qualche partito che le rimanda indietro. Quando è toccato a noi abbiamo cancellato dieci milioni di licenze commerciali. Ebbene ognuno ha le sue tifoserie. Ma io ricordo che andavo dalla mia gente e dicevo che liberalizzare è di sinistra».
Ed è lo stesso De Benedetti a fare l’elogio delle «lenzuolate» approvate dal governo Prodi: «Le uniche vere liberalizzazioni in Italia sono venute con Bersani ministro dell’Industria». Sintonia, tra il leader del Pd e il patron del gruppo Espresso, anche sulla riforma del lavoro: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Faccio l’imprenditore da 54 anni e non mi ci sono mai imbattuto».
Molto critico De Benedetti è anche con Confindustria («Mi sembra una lobby stanca in cui la domanda più ricorrente è cosa fa il paese per noi e non cosa facciamo noi per il paese») e con l’amministratore delegato della Fiat: «Quando sento Marchionne che dichiara che torna in Italia se l’Italia gli fa fare le automobili, vorrei sapere cosa fa lui per fare automobili che si vendono. L’Italia ha già pagato più volte per la Fiat, ora è il caso che la Fiat dica cosa fa lei per l’Italia».
Tra De Benedetti e Bersani va anche in scena un botta e risposta sulla famosa tessera numero 1 del Pd, che l’Ingegnere aveva chiesto ai tempi della nascita del nuovo partito: «Non l’ho mai avuta, non ho capito se il Pd non l’hanno fatto o non me l’hanno data. Ma io non l’ho mai chiesta». Bersani sorride: «Il bambino l’abbiamo fatto, non è più un’ipotesi, è il primo partito del Paese. Comunque chiunque voglia dare una mano è il benvenuto».
La Stampa 2.3.12
Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd
di Marcello Sorgi
Mario Monti ha appena fatto in tempo, mercoledì, a dire che se il suo governo riuscirà a raggiungere i propri obiettivi non gli sarà chiesto di proseguire anche dopo il 2013: un modo elegante per far capire che i partiti lo aiutano fino a un certo punto a fare quel che è necessario e ad attuare il programma per cui è stato chiamato. Ed ecco Berlusconi di nuovo in campo, ieri, a obiettare che nel 2013 la formula della larga coalizione di Pdl, Pd e Terzo polo potrebbe rafforzarsi e continuare con l'ingresso nel governo di ministri politici dei tre partiti e con l'obiettivo di realizzare (o completare) il programma delle riforme più urgenti, dalla giustizia al fisco all'architettura istituzionale.
Mossa del tutto imprevista, visto che il leader del Pdl aveva annunciato che si sarebbe tenuto alla larga dalla campagna elettorale per le amministrative, non volendo mettere la faccia su una possibile sconfitta. E tuttavia logica, visto che salta del tutto l'appuntamento con le urne di maggio, per proiettarsi direttamente sulla partita grossa delle politiche dell’anno venturo, a cui tutti i partiti guardano con l'intenzione di chiudere insieme la parentesi del governo tecnico e la lunga epoca berlusconiana. Il Cavaliere, al contrario, con congruo anticipo, conferma che non ha intenzione di farsi da parte e punta a mettere in imbarazzo il Pd.
Bersani non ha potuto far altro - dando ascolto alle molte voci interne che si levano dal suo partito per escludere un prolungamento dell’attuale governo - che rispondere: un esecutivo fondato su un'alleanza pienamente politica e con ministri provenienti dai partiti della maggioranza per il Pd non esiste. Una dichiarazione secca, mirata a non indebolire Monti proprio nel momento più delicato del negoziato sul mercato del lavoro.
Così, per capire cosa ha spinto il Cavaliere alla sua inattesa uscita, non restano che due possibilità: una, più probabile, che l'abbia fatta proprio per mettere in difficoltà il Pd. L'altra, da non scartare, che abbia capito che il Pd non può vivere senza il suo innato antiberlusconismo e abbia provato di conseguenza a stuzzicarlo. Nell’un caso o nell’altro, Berlusconi è riuscito a scaldare una campagna elettorale fin qui addormentata dalla «cura Monti» e dalla rottura delle due coalizioni che si trovano simmetricamente metà al governo e metà all'opposizione. Con quali conseguenze, non ci sarà molto da attendere per vederlo.
l’Unità 2.3.12
Dati Istat: 2,3 milioni i senza lavoro, 9,2%. Il livello più alto dal 2004
La Cgil: servono risorse per bloccare i licenziamenti. Allarme inflazione
Il lavoro non c’è più Cresce ancora la disoccupazione
Ancora un record per la disoccupazione in Italia e in Europa. Nel nostro Paese tocca il 9,2 per cento, mentre la “giovanile” tocca il 31,1%. I sindacati compatti: bisogna fermare i licenziamenti
di Massimo Franchi
Puntuale come la miseria. Ogni primo del mese, da un anno a questa parte, arriva la notizia del nuovo picco toccato dalla disoccupazione e, ancor di più, da quella giovanile. I record di ieri sono: 9,2 per cento di disoccupazione; 31,1 per cento di disoccupazione giovanile che si avvicina sempre di più alla fatidica quota “uno su tre”.
Percentuali a parte, i dati netti fanno più impressione. Il numero dei disoccupati in Italia è pari a 2 milioni e 312mila e aumenta del 2,8 per cento rispetto a dicembre (64 mila persone in più). Su base annua l’aumento è addirittura del 14,1 per cento (286mila persone in più). Il tutto mentre l’occupazione, anche se timidamente, cresce: il tasso di occupazione è pari al 57,0 per cento, in aumento nel confronto congiunturale di 0,1 punti percentuali e di 0,2 punti in termini tendenziali, pari a 8mila persone in più. Ciò significa però che il numero di licenziamenti, rispetto ai mesi scorsi, ha iniziato a correre molto più velocemente. Ed è questo che denunciano i sindacati, senza eccezione.
SINDACATI: FERMARE LICENZIAMENTI
«I dati mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», attacca il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, mentre per il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini «si tratta di dati che rendono ancor più necessario chiudere positivamente la trattativa sul mercato del lavoro». Per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy «i dati non fanno altro che avallare l’emergenza di risposte ad un mercato del lavoro che ha bisogno sia di buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani sia di altri strumenti che incentivino e incoraggino una ripresa occupazionale», mentre il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella sottolinea come «il governo deve convincersi che gli ammortizzatori sociali vanno rafforzati, quantitativamente e qualitativamente, con risorse vere».
La notizia sulla disoccupazione è arrivata il giorno dopo lo stop al tavolo sulla riforma del lavoro. Il tema della ricerca di risorse per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali è stato fatto proprio dalla ministra Elsa Fornero. Ora tocca al viceministro all’Economia Vittorio Grilli trovarle. Ma è sull’entità che ora si concentra la “battaglia”: da Palazzo Chigi filtrano stime da 1-2 miliardi di euro. Numeri che lasciano molto perplessi i sindacati: «Mi pare una cifra bassa spiega Fulvio Fammoni ma finché Fornero non ci illustrerà i criteri dei nuovi ammortizzatori nessuna stima può essere fatta: va stabilita la platea delle persone da coprire, la durata di cassa integrazione e disoccupazione e il livello di copertura. Senza questi punti fermi sono tutti numeri a caso», conclude Fammoni.
AUMENTA ANCHE L’INFLAZIONE
A completare una giornata negativa arriva poi il dato sull’inflazione. Le stime preliminari sul mese di febbraio parlano di un aumento del 3,3%, dal 3,2% di gennaio mentre su base mensile l’aumento è dello 0,4%. In un solo mese il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: il rialzo maggiore dall'ottobre 2008.
Dall’Europa intanto non giungono notizie migliori. Nell’area Euro a gennaio si sono registrati 185 mila disoccupati in più, rispetto al mese precedente, con cui il totale è salito a 16 milioni 925 mila. In questo modo, ha riferito Eurostat, il tasso di disoccupazione ha stabilito un nuovo massimo dal lancio dell'Euro, al 10,7 per cento dal 10,6 per cento di dicembre. Rispetto al gennaio del 2011 risultano 1 milione 221 mila disoccupati in più nell'area Euro, che accusa una dinamica peggiore rispetto a tutta l’Unione europea a 27, dove la disoccupazione è al 10,1 per cento.
CONVEGNO SUL WELFARE DEL FUTURO
Il tema è dunque quello di rilanciare lo Stato sociale. E proprio di nuovo welfare si è parlato ieri (e si parlerà oggi) a Roma. «Cresce il Welfare, cresce l’Italia» è il titolo del convegno organizzato da Cgil e tantissime associazioni del Terzo Settore al centro congressi Frentani a Roma. La prima giornata è stata caratterizzata dagli interventi di Paolo Leon, Chiara Saraceno e Stefano Rodotà. Per Chiara Saraceno «in Grecia, Italia e Portogallo aumentano i poveri per le decisioni dei governi» mentre «i servizi spariti dall’agenda nazionale sono relegati solo a scelte dei Comuni».
l’Unità 2.3.12
Intervista a Paolo Leon
«Il Welfare serve. Il pareggio di bilancio è un’idea sbagliata»
Il professore: lo Stato sociale ha un effetto potente
Sostituisce beni altrimenti da pagare con il salario, è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico
di Laura Matteucci
Lo stato sociale non è beneficenza, è un diritto. Rende più forte la democrazia, ed è anche un elemento di sviluppo economico. È chiaro che mantenerlo e migliorarlo ha un costo, che però produce guadagno; smantellarlo, invece, significa finire per spendere molto di più». L’economista Paolo Leon ha appena terminato il suo intervento alla Conferenza nazionale «Cresce il welfare, cresce l’Italia», promossa da una cinquantina di organizzazioni sociali, centrato sul tema «Le politiche sociali e lo sviluppo», rovesciando in pochi minuti l’orientamento diffuso in Italia e in tutta Europa per cui a pochi soldi in cassa debba corrispondere poco stato sociale nel Paese.
Ovunque in Europa i governi ci dicono che la priorità sono i conti e che per mantenerli sotto controllo bisogna tagliare: un problema per il welfare sia a livello centrale che locale, con i Comuni che hanno sempre meno risorse dedicate.
«La cultura dominante conservatrice ha dimenticato ragioni e finalità dello stato sociale. L’importante è il rigore di bilancio, con il pareggio messo addirittura come vincolo legislativo, qualcosa che suona come una composizione di interessi egoistici e mentalità medioevale, e che nulla ha a che fare con le ragioni dell’economia. In tutto questo si dimenticano i punti fondamentali: lo stato sociale ha un effetto economico potente, innanzitutto, perché sostituisce beni altrimenti da acquistare col proprio salario, e perciò riduce la conflittualità tra azienda e lavoratore. Inoltre è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico, perché la spesa è invariabile e perché la sua assenza renderebbe le crisi molto più profonde. Altro elemento: fornisce una sicurezza ai cittadini che li spinge ad essere meno avversi al rischio, più imprenditivi. Il che spiega tra l’altro il fiorire in Italia di migliaia di piccole aziende. Tutto questo produce ricchezza in un Paese, senza contare i costi dell’esplosione della rabbia sociale quando, viceversa, il welfare si assottiglia. Ora, il punto è tornare a dare priorità a questi elementi, al principio generale su cui lo stato sociale universale si fonda». La vede possibile? Come si inverte la tendenza?
«Il problema si deve risolvere in Europa, non tanto in Italia. Ma finché domineranno le forze conservatrici, finché non verranno defenestrati Merkel e Sarkozy, non potrà succedere granché di positivo. Devono cambiare alcune condizioni, e non solo politiche. La Bce di Draghi, per esempio, invece di sostenere che il modello sociale europeo è in via di estinzione, dovrebbe finanziare con emissione di moneta i disavanzi pubblici, consentendo agli Stati di fuggire dalla strettoia di debito e deficit. Una funzione da creare, certo, ma che sarebbe molto utile. Ci vuole anche una grande unità a sinistra, parlo sempre a livello europeo, perché solo così si possono rovesciare definitivamente gli strascichi delle politiche targate Reagan-Thatcher».
Un’Europa più potente e più capace di strategie, dice: il caso Grecia non sembra averlo dimostrato.
«La Grecia andava aiutata meglio e prima. Impoverita, non avrà mai i soldi per pagare il debito. E ricordiamo pure che il debitore ha una funzione economica importante, è la sua spesa ad arricchire il creditore. Eppure, il capitalismo non è stato sempre così buio....».
Il tavolo sul lavoro: che opinione s’è fatto finora?
«Credo che il governo con abile mossa scambierà il mantenimento della cig straordinaria con l’articolo 18. E la difesa del lavoro verrà messa ancor più in difficoltà. Qui c’è un elemento di inganno: con la scusa di un mercato del lavoro diviso tra tutelati e non a causa di leggi italiane si cerca di rendere tutti precari. Per estendere le tutele ci vuole un sacco di soldi, sono strumenti che possono adottare solo le economie che crescono. E comunque è il lavoro che crea la ricchezza, non la cig o il sussidio di disoccupazione».
Ma il lavoro non c’è: nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati del 14%. Pensa che la riforma in costruzione possa servire a qualcosa?
«A nulla, direi. Deve aumentare la domanda di beni e servizi, se si riduce il costo del lavoro ma il fatturato delle aziende non cresce, queste avranno forse più margini ma non maggiore vendita. E la disoccupazione continuerà ad aumentare, senza peraltro contare gli scoraggiati: per forza, mancano le politiche conomiche. Del resto, il Pil diminuisce di due punti, le imprese abbandonano l’Italia, l’unico spiraglio di modesta crescita è che l’euro è un po’ meno caro rispetto a un anno fa, il che favorisce le esportazioni. Forse serviranno un po’ le liberalizzazioni, di certo potrebbe essere utile una diversa politica delle banche, in questo momento di diffuso strangolamento del credito: giusto l’altro giorno c’è stata una notevole immissione di liquidità da parte della Bce, non accompagnata però da un “consiglio”, un indirizzo alle banche su come usare i soldi. Finirà che investiranno in speculazioni finanziarie...».
l’Unità 2.3.12
Il documento
Una sinistra moderna fondata sulla persona e non solo sul mercato
La tesi della non sostenibilità del sistema sociale europeo è sbagliata
Va contrastata sul piano politico e culturale
Il pensiero cattolico può aiutare molto il Partito democratico
Pubblichiamo stralci della relazione che ha aperto ieri
il seminario sulla crisi e le risposte del riformismo, promosso da “Rifare l’Italia” di Fassina, Orfini, Orlando e Verducci
di Massimo D’Antoni
qui
Corriere della Sera 2.3.12
Vittime delle stragi naziste Roma e Berlino verso l'intesa
di P. L.
BERLINO — I risarcimenti alle vittime italiane delle stragi naziste non saranno archiviati per sempre. Ci sono buoni motivi di sperarlo, nonostante la sentenza della Corte internazionale dell'Aia che ha stabilito l'immunità giurisdizionale dello Stato tedesco e bloccato le cause avviate. Germania e Italia, infatti, inizieranno presto negoziati bilaterali per una «soluzione concordata» di una questione ancora aperta e dolorosa. Lo ha garantito al ministro della Giustizia Paola Severino la collega tedesca Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, convinta che sia necessario tenere conto delle «grandi sofferenze inferte in un momento così buio della storia». «Le sentenze vanno rispettate, ma altrettanto rispetto è dovuto alle vittime. La strada del negoziato va percorsa per non dimenticare i diritti dei familiari. E da parte tedesca è stata espressa la volontà di percorrerla», ha detto il Guardasigilli incontrando la stampa nell'ambasciata italiana. Erano stati gli stessi giudici dell'Onu a invitare le parti al dialogo e il ministro degli Esteri Guido Westerwelle aveva assicurato un mese fa che il problema sarebbe stato affrontato «in uno spirito di piena fiducia». «La nostra richiesta è stata pienamente accolta», ha spiegato Paola Severino. I colloqui di Berlino tra i due ministri sono serviti anche a fare il punto sulle riforme italiane nel settore della giustizia, come l'ampliamento della mediazione civile e l'istituzione del tribunale delle imprese. E in un Paese di risparmiatori come la Germania, è stato accolto con interesse il piano del governo Monti sulla revisione della geografia giudiziaria che prevede una diminuzione delle spese per 80 milioni di euro all'anno.
Corriere della Sera 2.3.12
Un metro e mezzo per un detenuto: le immagini-denuncia
di Antonio Crispino
Comincia oggi un viaggio sulla detenzione in Italia. Una videoinchiesta in quattro puntate di Corriere.it per tradurre in immagini e voci i numeri drammatici delle condizioni carcerarie.
Da Messina a Brescia, passando per Napoli, Roma, Pontremoli. Per toccare con mano cosa significa avere il peggiore sovraffollamento in Europa (148%) e il record di 68 mila detenuti stipati in spazi previsti per 45 mila persone.
La prima puntata parte oggi sul sito del Corriere della Sera dal carcere Gazzi di Messina. In una cella originariamente adibita al transito ci sono otto detenuti. Ognuno con a disposizione 1 metro e mezzo quadrato di spazio. Rinchiusi 23 ore su 24. Un solo water, proprio accanto al tavolino dove mangiano. I bisogni si fanno «a vista», davanti a tutti.
E poi l'abbandono nel centro clinico, dove si vede un anziano di 82 anni, malato, immobile su una branda insieme con altre undici persone. L'uomo verrà trasferito dopo la visita della telecamera di CorriereTv.
Da lì il viaggio passa a Roma, nel nuovo complesso di Rebibbia, ritenuto uno degli istituti detentivi più dignitosi. Da dietro le sbarre le grida di tredici persone ristrette in una ex sala adibita al ping pong. E il silenzio degli addetti che impediscono di andare a vedere e fare le riprese. E non sarà un caso isolato.
Nella seconda puntata il viaggio arriva in Lombardia, la regione con il più alto numero di detenuti. La visita è al Canton Mombello di Brescia. Un carcere al collasso. I detenuti sono il triplo di quelli che la struttura (vecchia e inadeguata) può contenere. Il 70% sono extracomunitari. C'è da capire perché, nonostante rappresentino solo l'8% della popolazione italiana, gli extracomunitari siano così sovrarappresentati in carcere. Per non parlare poi della rieducazione che non c'è e delle conseguenze per tutti di un sistema che non funziona.
Nella puntata successiva l'obiettivo è diretto su quella che è definita la zona d'ombra del carcere: la violenza dietro le sbarre. Quella subita dai detenuti ad opera degli operatori penitenziari ma anche quella che vede come vittime la polizia penitenziaria o i medici. Un argomento che spesso resta tabù per la difficoltà di far luce su episodi archiviati con troppa fretta. E poi il lavoro in carcere usato per mettere a tacere le proteste.
L'ultima puntata sarà dedicata alle donne e ai minori dietro le sbarre. Cercando di capire i perché di una legislazione carente, dei tanti luoghi comuni e dei pregiudizi che impediscono un approccio più corretto all'argomento. E infine i volontari, che salvano il salvabile.
Corriere della Sera 2.3.12
«Sì all'infanticidio» Lo studio contestato
MILANO — Minacce di morte. La condanna di gruppi religiosi e pro-life. E un fondo di Avvenire che parla di un «crepuscolo disumano della civiltà occidentale». Francesca Minerva, ricercatrice italiana all'università di Melbourne, ribadisce che il suo lavoro pubblicato sul Journal of Medical Ethics è «discussione teorica». Per molti è una provocazione inaccettabile. A partire dal titolo: «Aborto dopo la nascita, perché il neonato dovrebbe vivere?». La tesi di Minerva e di Alberto Giubilini, anche lui ricercatore italiano a Melbourne: il neonato è come il feto, non ha un «diritto morale» alla vita. «L'uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo è l'aborto».
Repubblica 2.3.12
Articolo-shock sul "Journal of Medical Ethics". "È legittimo come l´aborto". Pioggia di mail di insulti alla rivista. Avvenire: "Un orrore"
"Sì all´infanticidio", bufera su due ricercatori italiani
ROMA - Non c´è differenza c´è tra l´aborto e l´uccisione di un neonato, sostengono due giovani bioeticisti italiani emigrati in Australia. «Né il feto né il neonato hanno ancora lo status morale di persona» scrivono Alberto Giubilini e Francesca Minerva in un articolo sulla rivista specializzata Journal of Medical Ethics. «E poiché l´adozione non è sempre nel loro interesse, si può concludere che l´aborto post-nascita (l´uccisione di un neonato) è ammissibile in tutti i casi in cui l´aborto lo è. Inclusa l´ipotesi in cui il bambino nasca disabile».
Alberto Giubilini, lavora alla Monash University di Melbourne, ma è affiliato anche all´università di Milano dove ha da poco completato il dottorato. Francesca Minerva lavora invece all´università di Melbourne, sempre come esperta in bioetica e filosofia. I due giovani studiosi per le loro tesi - peraltro non nuove nel campo della bioetica - hanno ricevuto delle minacce di morte, mentre la rivista si è vista recapitare decine di mail di insulti e il suo direttore, Julian Savulescu - docente di etica all´università di Oxford - è dovuto intervenire per difendere la scelta di pubblicare l´articolo: «Lo scopo della rivista non è affermare la Verità, ma presentare opinioni ragionevoli». Secondo Giubilini e Minerva «sia il feto che il neonato sono privi di quelle caratteristiche che giustificano il diritto alla vita». Di «sgomento» in Italia ha parlato L´Avvenire: «Un orrore. A fare scalpore non è solo il contenuto del saggio, ma anche il prestigio accademico di cui godono certi argomenti».
Repubblica 2.3.12
Editoria, i fondi per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni
ROMA - «I fondi per l´editoria per il 2012 salgono da 47 a 120 milioni». Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, annuncia la schiarita sulla sorte di molte testate alla fine di un colloquio con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Paolo Peluffo. Siddi spiega che «50 milioni arriveranno dal fondo di emergenza della presidenza del Consiglio e altri 23 dal recupero di risorse da risparmi interni dell´amministrazione».
La notizia, confermata da fonti governative, fa tirare un sospiro di sollievo in molte redazioni - tra cui Liberazione e il manifesto - a rischio chiusura. «Poiché entro il 2014 dovranno esserci nuove norme - spiega il segretario della Fnsi - era importante evitare che lo Stato nel frattempo staccasse la spina e molte testate non potessero nemmeno arrivare al 2014 con l´impoverimento dell´occupazione e del pluralismo. Il presidente Monti e il sottosegretario Peluffo hanno mantenuto gli impegni presi».
Repubblica 2.3.12
Quarto potere
Così D’Avanzo ha svelato le menzogne italiane
di Carlo Galli
Una mutazione colta mentre avveniva, negli scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo del Cavaliere
Un perverso cortocircuito di manipolazione e falsità che non è più cronaca e non è ancora storia: forse, ne stiamo a fatica uscendo
"Il guscio vuoto" è il libro che raccoglie gli scritti del grande cronista scomparso
È il racconto di come è stata svuotata, negli ultimi 20 anni, la nostra democrazia
Si legge con passione, con piacere intellettuale, con ammirazione per il rigore dell´argomentazione e dello stile, con partecipazione non solo civile ma emotiva, e anche con angoscia, la raccolta di articoli di Giuseppe d´Avanzo per Repubblica, che Laterza ora pubblica col titolo Il guscio vuoto. Metamorfosi di una democrazia (Prefazione di Franco Cordero). È un libro i cui capitoli sono stati scritti giorno per giorno, con un assiduo lavoro di documentazione, di analisi, di critica, di smascheramento, che racconta la mutazione della politica e della società nell´Italia berlusconiana. Una mutazione che D´Avanzo ha colto mentre avveniva, leggendola nelle vicende della cronaca, nei mille scandali di cui è stata intessuta l´esperienza di governo della destra, e che ha descritto, nella sua pervasività, nella sua sistematicità, come il nuovo paradigma della politica postmoderna, come lo smottamento di una democrazia di impianto moderno in una informe Cosa postmoderna.
La chiave per decifrare questo passaggio sta in una coppia di concetti, eccezione e menzogna, che in sinergia reciproca hanno smontato i dispositivi e gli apparati dello Stato democratico costituzionale di diritto. Il cui funzionamento esige categorie, concetti, istituzioni e procedure fondate sulla ragione, sul senso della realtà e sullo sforzo cosciente e collettivo di progettarne trasformazioni, in un orizzonte di trasparenza e di partecipazione. L´età berlusconiana, invece, non ha nulla di questa chiarezza e di questa distinzione: il suo segno è piuttosto l´alterazione dei fatti, la confusione, la menzogna. Ovvero, è la narrazione mistificante, l´autocratica manipolazione del reale, interamente trasformato in rappresentazione e sostituito dall´immaginario. È attraverso la comunicazione e l´affabulazione, e non attraverso la Costituzione, che è passata la potenza politica di Berlusconi, cioè attraverso l´officina delle illusioni del populismo, da una parte, e la "fabbrica della menzogna" dall´altra: i falsi casi Boffo e Fini, e gli incredibili e spudorati sofismi per costruirsi con ogni strumento immunità e impunità, sono stati parti di una tecnica di governo che D´Avanzo ha implacabilmente denunciato e decifrato in tempo reale.
Questo illusionismo non è un gioco di prestigio: obbedisce a interessi precisi – del Capo che si pone sopra le leggi, e dei suoi soci in affari di ogni tipo – , e diviene efficace grazie all´uso sistematico dell´eccezione, ovvero alla confusione fra i poteri dello Stato, alla loro utilizzazione extra-istituzionale, al complessivo passaggio dallo Stato delle Leggi allo Stato dei Decreti. Da Bolzaneto alla gestione dell´immigrazione fino al governo, davvero biopolitico, dell´eterna emergenza di Napoli, il caso d´eccezione utilizzato per forzare le architetture della legalità e della Costituzione, il vuoto di diritto e di verità che ne conseguono, l´arbitrio di chi vuole avere l´intera realtà politica e sociale a propria piena e illimitata disposizione, si mostrano come l´altra faccia della riduzione della realtà a finzione. Parallelamente alla sua spettacolarizzazione, la politica diventa quindi opaca, si ritira dalle istituzioni democratiche – formalmente intatte ma sotto stress e svuotate di ogni efficacia – , si verticalizza e si concentra là dove si decidono le campagne di stampa e di televisione, dove si programma la macchina del fango per gli avversari politici, dove si architettano le vie brevi per scavalcare le norme, per sostituire a queste la normalità dell´eccezione, l´iterazione della decisione. La decisione, infatti, non è mai presa per dirimere realmente una questione, ma per lasciarla sempre aperta, perché anche in futuro si debba ricorrere a nuove decisioni, mai al diritto. Il potere non sta nello stabilizzare, nel normalizzare, ma nel togliere prevedibilità e certezza alla vita politica e sociale.
La democrazia è sostituita dall´intrecciarsi della manipolazione e della decisione, dalla confusione dei poteri e dalla confusione della realtà, dalla creazione di un mondo tanto immaginario – in cui nulla è ciò che è, e tutto è ciò che sembra, e in cui si può far sembrare vera qualunque cosa – quanto, evidentemente, instabile. Appunto in questa manipolazione senza limiti del reale, che d´Avanzo rende viva e palpitante nelle sue pagine, sta l´essenza stessa della destra.
Questa volontà di potenza – di Uno, osannato da molti – è parsa straordinariamente efficace. E lo è stata, per almeno due lustri. Ma è stata al tempo stesso anche inefficace, proprio perché non ha mai voluto risolvere i problemi collettivi, ma solo dissolverli in nebbia mediatica, ai concretissimi fini individuali del Capo. E la realtà si è vendicata, si sta vendicando. E ha imposto l´allontanamento dal potere dell´illusionista, e la sua sostituzione con élites serie e competenti, che con grandi sforzi – loro, e di tutti i cittadini – stanno riportando l´Italia a contatto con i problemi reali, enormi, che Berlusconi non ha neppure scalfito. Ma quel perverso cortocircuito di eccezione e di menzogna se non è più cronaca non è ancora storia: anche se, forse, ce ne stiamo faticosamente uscendo, continua a prenderci letteralmente alla gola, e ci appare come un rischio che sarà presente, finché questa fase politica che non avrà trovato nuovi equilibri. È questo rischio che dà al libro di D´Avanzo un significato non solo documentario ma anche civile; che ne fa un esempio di critica di ciò che ancora serve e servirà all´Italia: il coraggio di smascherare la menzogna e la passione per la realtà e per la verità.
Repubblica 2.3.12
Il vero profitto
Nussbaum, la filosofia del talento
“Investiamo su capacità e diritti”
di Roberto Festa
"Non ci si può fissare sui redditi, dobbiamo pensare alle reali libertà delle persone"
"Contano scuola e salute, emozioni ed immaginazione Queste cose danno qualità"
L´ultimo saggio della studiosa è una sorta di manifesto "Contro la dittatura del Pil", per un´altra ricchezza
«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». Martha Nussbaum, celebre per i suoi studi su etica, cittadinanza, mondo classico, educazione, sessualità, dice di aver pensato a Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil come a un´introduzione generale alla teoria dell´approccio delle capacità. «Me lo chiedevano insegnanti, lettori, persone impegnate nel settore dello sviluppo».
Poi, durante la fase dell´elaborazione e della scrittura, il discorso si è allargato. Le prospettive si sono arricchite. E questa teoria del Welfare, largamente discussa dagli economisti - Amartya Sen, James Foster, Sudir Anand - , utilizzata da grandi istituzioni internazionali come lo United Nations Development Programme, è diventata un modo per approfondire le cose da sempre più importanti per la Nussbaum: giustizia sociale, pluralismo, diritti, libertà di scelta.
Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese?
«Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell´esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».
In che modo l´approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese?
«Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all´interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all´appartenenza. Ci sono però elementi - l´immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico...
«Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell´esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l´immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l´immaginazione. Con grave danno per la società e l´economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un´eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni?
«Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L´approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l´obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un´educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell´urna».
L´approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale?
«È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell´ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all´azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all´azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be´, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell´approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica?
«No. Sicuramente l´approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l´Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».
Eppure in Italia è aperta una discussione politica e culturale sull´abolizione dell´articolo 18. Per alcuni è una necessità, renderebbe più dinamico il mercato del lavoro. Per altri è un attacco a un diritto essenziale. Cosa risponde, sulla base dell´approccio delle capacità?
«Rispondo che il lavoro è un diritto ineliminabile di ogni uomo, e quindi lo Stato deve fare di tutto per garantirlo, al più alto numero di uomini e donne e per buona parte della loro vita. Penso per esempio al caso dell´India, dove il Congresso ha votato un numero minimo e stabilito di giornate di lavoro annue per ogni famiglia di agricoltori. Non vivere attraverso il proprio lavoro compromette la dignità umana. Per essere giuste, le politiche devono essere rivolte alla piena occupazione».
Repubblica 2.3.12
Eve Ensler ha fatto un libro raccogliendo testimonianze sulla violenza di genere
Quei nuovi monologhi in difesa delle donne
di Michela Marzano
L´autrice, che ha organizzato i V-day, sarà a Milano il 2 aprile per leggere i testi. Stavolta al volume partecipano molti autori celebri, compreso Dave Eggers
È conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l´autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent´anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l´impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai.
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà a Milano il 2 aprile al teatro dell´Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l´arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine.
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. "Parlare del non detto. Parlare del già detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne". È così che inizia l´ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops. Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c´è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al "loro posto", ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi "pezzi di vita" all´interno di un racconto coerente. Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l´esperienza femminile, svelando ciò che accade nell´oscurità, lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra "perfetto", come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché "lui" ama i lividi e il sangue, mentre "lei" non sa più che fare: "Chi ero io? Chi sono io? Non c´è niente da fare. Non posso andarmene". È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra "normale" che una donna di colore sia violentata perché "il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei", come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a "fermare la violenza contro se stessa".
L´antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l´editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l´antologia curata dalla Ensler non è solo un "evento editoriale". Era nato perché la parola delle donne si liberasse all´insegna della lettera "V" (Vittoria, Valentino - visto che il primo fu fatto il 14 febbraio - Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un´opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan.
Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l´ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall´odio, dall´invidia, dalla volontà di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.
La Stampa 2.3.12
Come valuta di riserva lo yuan cinese è sempre meno credibile
di Johon Foley
La marcia della Cina verso il predominio sul mercato delle valute sembra diventata un po’ più lunga. Secondo i dati del 1˚ marzo, a gennaio i depositi di yuan detenuti a Hong Kong hanno registrato una diminuzione, che a partire dalla fine di novembre a oggi è arrivata all’8%. Di fronte a minori prospettive di apprezzamento dello yuan, gli investitori esteri hanno molte ragioni in meno per detenere la divisa cinese. E questo, per una moneta che aspira a diventare valuta di riserva, non è un ostacolo da poco.
Quando lo yuan sembrava sottovalutato, tutti lo volevano. Oggi si continuano ad aprire nuovi canali per l’acquisto di yuan e si parla di istituire nuovi hub di scambio a Londra e in altre città. Ma in questo momento è difficile immaginare perché gli investitori dovrebbero utilizzarli. Il valore dello yuan sembra abbastanza corretto. Con il rallentamento dell’economia, non vi sono molti fattori che possano determinare un suo deciso rialzo. D’altra parte, lo yuan non è pronto a diventare una valuta di riserva perché la Cina non presenta i requisiti necessari: inflazione stabile, politiche trasparenti e libera convertibilità.
Le banche cinesi, che erano solite acquistare fondi offshore, hanno iniziato a rimpatriare il denaro per sostenere i propri bilanci. Anche le aziende sembrano adottare la stessa linea, a giudicare dall’inspiegabile impennata dei flussi legati agli scambi registrata a dicembre. Del resto, i depositi in yuan detenuti a Hong Kong hanno ancora un misero rendimento dello 0,5%, contro il tasso a tre mesi del 3,1% applicato nella Cina continentale. Nel periodo in cui i depositi in yuan si stavano gonfiando, sembrava che Pechino potesse eludere la necessità di offrire agli investitori la piena convertibilità della valuta, offrendo in cambio la prospettiva di un sostanziale apprezzamento del renminbi. Anche senza questi profitti, la Cina arriverà un giorno ad avere una valuta globale; quando però si tratta di detronizzare il dollaro, non esistono scorciatoie per nessuno.
l’Unità 2.3.12
Quanti errori sulla vita di Gramsci
Soprattutto nelle interpretazioni legate agli anni del carcere. Come la ricostruzione proposta da Dario Biocca che fa riferimento a una richiesta di «libertà condizionale» che il fondatore del Pci, in realtà, non presentò mai
di Piero Naldi
Purtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non addirittura su contraffazioni. Su questa linea, probabilmente in modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario Biocca pubblicato il 25 febbraio da La Repubblica. Alcune delle considerazioni che si possono leggere in quell’articolo, che in realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di pubblicazione sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, sono svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della libertà condizionale e si tratta del punto più importante discusso nell’articolo è espresso con grande chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.
Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l’articolo 176 del Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver mostrato «ravvedimento», e che in questo senso la procedura poteva e può essere considerata «analoga alla domanda di grazia». Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è vero. Un riferimento al «ravvedimento» era contenuto nell’articolo 16 del Codice Penale del 1889 (il cosiddetto «Codice Zanardelli»): «Il condannato alla reclusione per un tempo superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il rimanente della pena non supera i tre anni» (Codice Penale per il Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889). Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l’introduzione del cosiddetto «Codice Rocco». E nel Codice Rocco l’articolo 176 recitava in questo modo: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni» (Il nuovo codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale, Hoepli, Milano, 1939).
QUALE TRADIMENTO
Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la dichiarazione che Gramsci firmò nell’autunno del 1934 impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare propaganda politica in Italia o all’estero non aveva nulla a che fare con una «sottomissione» o un «ravvedimento»... Certamente anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua capitolazione. Forse però Biocca non ha studiato né il Codice Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno 1962; infatti è da questo che Biocca cita: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale» (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987) ... non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava la sua domanda. Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento alle affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci «tradisse» i propri compagni di partito.
La Stampa 2.3.12
Gramsci, il mistero del quaderno scomparso
di Mario Baudino
L’inconsapevole Julca «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Julca». Così il padre del comunismo italiano scriveva a Tania il 27 febbraio 1933. Julca è il nome della sua prima moglie, ma nel linguaggio cifrato della lettera allude al blocco comunista. Il documento è noto, ed è stato oggetto di ampie discussioni. Ora però il linguista Franco Lo Piparo, nel suo I due carceri di Gramsci (Donzelli), è andato oltre. E studiando appunto da linguista questa e altre lettere, è giunto a conclusioni che hanno riacceso lo scandalo. Una su tutte: è indubbiamente sparito un «quaderno dal carcere»: dovevano essere 34, Togliatti ne ha fatti pubblicare 33. Il leader del Pci avrebbe insomma censurato gli ultimi scritti, quando Gramsci, ormai in libertà condizionata, si sarebbe molto allontanato dalla politica del partito e forse dalla stessa idea di comunismo. Immediato il seguito di stroncature anche piuttosto indignate (per esempio sul Manifesto e sull’ Unità ) ma anche di forti aperture di credito, come quella di Luciano Canfora - che non è certo un «revisionista» - sul Corriere . Rimane Julca, che per Gramsci è inconsapevole, e quindi innocente. Ma non l’ambiente che essa rappresenta, spiega Lo Piparo, quello cioè di «altre persone meno inconscie». Le stesse che avevano interesse a far sparire il quaderno?
Corriere della Sera 2.3.12
Tanti saluti al progresso È il tramonto di un'idea
Sono venute meno molte illusioni del passato
di Giuseppe Bedeschi
P er molto tempo la cultura europea ha nutrito una ferma fede nel progresso: essa ha creduto che il cammino della civiltà non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni, e che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire, Turgot, Condorcet (il cui Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain è del 1793). Nell'Ottocento l'idea di progresso ha costituito il fulcro delle concezioni di tre giganti del pensiero: Hegel, Comte e Marx.
Potente e suggestivo il disegno tracciato da Hegel. Per lui la storia universale era stata un processo ascendente, nel quale il popolo più evoluto in una data epoca aveva espresso un principio, che comprendeva in sé tutti i principi dei popoli passati, tutte le loro conquiste (nulla andava perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca. Tale processo tendeva a una meta, a un fine ultimo: la piena realizzazione della libertà. E infatti nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi.
Anche Comte elaborò uno schema storico di tipo ascendente (sviluppando temi già presenti in Saint-Simon). Per lui la storia umana aveva percorso tre stadi mentali (teologico, metafisico e scientifico), che avevano dato origine a tre grandi tipi di organizzazione sociale, a tre grandi epoche: l'epoca «teologica e militare», l'epoca «metafisica e giuridica», l'epoca «scientifica e industriale». In quest'ultima il potere era esercitato, razionalmente, dagli scienziati e dagli industriali.
Uno schema ascendente ha caratterizzato anche la riflessione di Marx, al quale lo sviluppo storico appariva come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate». Il «motore» dello sviluppo storico era quindi la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»), che sarebbe sfociata in una società superiore materialmente e spiritualmente: la società comunista, la quale era la «soluzione dell'enigma della storia».
Questo ottimismo storico entra in crisi già negli ultimi decenni dell'Ottocento, come ci ricorda Pietro Rossi nel suo bel libro Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila, appena edito da Il Mulino (466 pagine, 27 ). Un grande umanista come Jacob Burckhardt (reso celebre da un'opera affascinante: La civiltà del Rinascimento in Italia), nelle sue Considerazioni sulla storia universale (1868-1873) svolge motivi assai diversi da quelli fino ad allora prevalenti: per lui la storia, lungi dal poter essere considerata come «un crescente perfezionamento (il cosiddetto progresso)», è piuttosto un processo al quale è essenziale la lotta (come avviene nel regno animale). La storia ci mostra la presenza costante del male, della violenza, della sopraffazione dei più forti sui più deboli, un «quadro spaventoso», fatto «di disperazione e di strazio».
Nel pubblico che assisteva alle lezioni di Burckhardt a Basilea c'era anche il giovane Nietzsche. Anch'egli ripudierà interamente l'idea di progresso, ma rifacendosi a motivi assai diversi da quelli svolti da Burckhardt, e che definirei antiumanistici (critica del cristianesimo come religione dei deboli, critica della democrazia e del suo egualitarismo, esaltazione degli eroi, dei superuomini, eccetera). Ma il pensatore più emblematico nel processo di dissoluzione dell'idea di progresso è Spengler, col suo famoso libro Il tramonto dell'Occidente (il cui primo volume appare nel 1918, quando l'Europa esce dissanguata dalla guerra, e riscuote un enorme successo in Germania). Spengler afferma che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono. La nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione decade, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all'anima, ormai morta, è subentrato l'intelletto come putrefazione dell'anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l'economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.
Rossi si sofferma anche, e giustamente, su autori come Alfred e Max Weber (come non ricordare la sua tesi che l'organizzazione razionale-burocratica del mondo moderno ha costruito una «gabbia d'acciaio» che isterilisce la spontaneità e la creatività degli uomini?) o come Sorel (il suo Les illusions du progrès è del 1908).
Io aggiungerei Pareto e Croce. Pareto rifiutava tutte le filosofie della storia, sia idealistiche che materialistiche. L'unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è il succedersi delle élite, la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano e si dissolvono come le onde del mare.
Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma il suo pessimismo storico si sarebbe manifestato anche in autori che per decenni erano stati sostenitori dell'idea di progresso. È il caso di Croce, che nella sua vecchiaia, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, scriverà che «talvolta popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Il fatto è, egli diceva, che c'è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione». Con queste parole il vecchio filosofo non era molto lontano da un pensatore da lui non amato, Sigmund Freud, che aveva parlato della pulsione di distruzione presente in ognuno di noi, sicché il processo di edificazione della civiltà si configura come una grandiosa e drammatica lotta tra Eros e Thànatos.
La Stampa 2.3.12
Alla corte di Peggy danzano Miró, Mondrian e Calder
I tre artisti protagonisti della mostra di opere dalla collezione Guggenheim che si inaugura oggi a Vercelli
di Marco Vallora
A sinistra Interno Olandese II di Miró, 1928, sopra Natura morta con vaso II, di Piet Mondrian, 1911-12, sotto Peggy Guggenheim monta dei Mobiles di Calder La mostra i Giganti dell’Avanguardia sarà visibile all’Arca di Vercelli fino al 10 giugno
Attenzione, attenzione, non cadere nella trappola. Letta così, con sbadata distrazione e condivisibile prevenzione, tutta «italiana», la triade «Miró, Mondrian, Calder» (difficile persino metterli in riga, non alfabetica) così, sulla carta, può anche suonar sospetta e suscitar perplessità. Ma che ci vado mai a fare a Vercelli? Potrebbe parere una delle tante sottoesibizioni assessoriali, in cui si sfruttano nomi-civetta, per convogliare folle affamate di chicchessia, e metter insieme qualche uggioso scartino, trovato qui e là nei fondi di collezioni e gallerie. E buggerato sia, chi paga e s’accontenta. Ed invece no, attenzione. Vercelli con la sua Arca preziosa ed un pedigree ormai di mostre nobilissime e soprattutto il nome affidabile del curatore Luca Massimo Barbero (che l’agonizzante politica ce lo conservi e non s’azzardi a toccarlo) dovrebbero averci abituati ormai a far fermare a mezza-strada il trenino Torino-Milano a non mancare una delle poche mostre remunerative in corso, in questa stagione confusa e scricchiolante.
Basterebbe, all’entrata, quell’incontro-choc con un’opera poco vista ma basilare, come Il vaso di zenzero di Mondrian, ansimante e letteralmente «sbavante» (di bleu, di luci, di piani, riferimenti, ansietà strutturali e bulimie formali, che aspirano esalando ad una dieta mentale) per capire in che capsula e a quale livello di qualità siamo penetrati (accanto, una sorta di bozzetto-ripensamento-variazione del Vaso stesso. Idem per quella superba Composizione a losanga Anni 30, spavalda e post-malevitciana, con il suo pargolodisegno preparatorio a lato). E se poi l’occhio-periscopio si permette di regalarsi un periplo a 180 gradi in quella stanzetta introduttiva, non poi così slanciata, ma sufficiente, per afferrare e carezzare in un panopticum folgorante i vari periodi d’un genio respirante della pittura e dell’architettura visiva, si renderà subito conto che certe volte bastan poche opere ben scelte e sintomatiche, secondo un progetto critico consapevole e prestabilito, per dare un significato sensato a queste operazioni di azzardata miscela. Non necessariamente capolavori assoluti (anche se qui per lo più di questo si tratta e di opere simboliche, passate sotto lo sguardo vigile di Peggy Guggenheim).
Per esempio, quel primo paesaggio di Mondrian, in stile scuoiato-Scuola dell’Aja, che potrebbe anche essere un Duchamp giovanile od un Fontanesi avvinazzato, non ancora tocco dalle suggestioni simbolistico-teosofiche successive, anche se c’è l’acqua di palude, il riflesso navigante, lo spettinarsi a spettro della pennellata-riverbero. Ma c’è già soprattutto in nuce, appunto, quel Mondrian che aspirerà ad una pulizia religiosa della mente e a una visione cartesiano-ortogonale della costruzione pittorica (neoplastica). Che sbraca assai presto, nei primi anni Dieci, a Parigi e certo rimane sedotto da quelle impalcature di città moderna, che ri-racconta in parte come interni matissiani, in parte come scontro-incontro maschile-femminile di ascisse, appunto razionalistico-cartesiane, ma soprattutto vede e scopre e centellina Cézanne, in modo diverso da Braque e da Picasso. Così il genio prensile di Apollinaire si rende conto che quella è comunque una declinazione di cubismo, di «sensibile cerebralità», che sta per maritare una semplificazione sempre più estrema e protestante. Comunque respirante. Nonostante l’apparente gabbia geometrico-inesorabile-chirurgica: ma se ci si avvicina con sensibilità, si ausculta come la sua mano trema, esita, flauta colori elementari, danza. Allora, ci si chiederà: ma cosa c’entra tutto questo con l’onirismo pneumatico di Mirò o con Calder, l’artista più vitale, yankee, leggero, persino leggiadro, mondo di gravità, acrobatico, scappato dal circo uggioso della monumentalità rodiniana?
C’entra e non è solo l’aneddotica a provarcelo. Quando è un giovane ancora indifferente all’arte (nonostante il padre sia scultore) e vorrebbe fare l’ingegnere, il caso lo porta nella casa americana di Mondrian e qui è proprio quel luogo asettico (inesorabile bianco e nero, nessuna sporcizia della vita, luce vermeeriana e geometria) a convincerlo a diventare un artista astratto. Con capricciosa agilità.
Come il vento che scompiglia e ricompone i capelli di ferro dei suoi ondeggianti mobiles, che lo salvano dalla monumentalità ingegneresca del ferro di Eiffel e lo portano verso la spiaggia argentata della testiera di letto (arricciata di paraffi liberi come una voliera) che Peggy Guggenheim mette dietro la propria vulcanica testa di dogaressa veneziana. E, sbarcando a New York, un orecchino di Calder, che significa astrattismo, l’altro di Tanguy, che significa Surrealismo.
Quando incontra Mondrian a Londra, l’olandese non le chiede di poter accedere nella sua collezione, ma dove può andare a ballare con lei, ed ha già sessantasei anni (forse sta pensando a Boogie Woogie, chissà). Vogliamo dire che questa è una mostra «danzata», un «galop» di capolavori, di passi allacciati e dionisiaci, tra le braccia generose di Peggy esplosioni pittoriche che si rispondono a distanza, come le liriche Costellazioni di Calder e di Miró, che si guardano a vicenda e battibeccano, secondo un sistema Morse-affettivo, che distrugge la vulgata avanguardistica degli «ismi»? Diciamolo pure, e fermiamoci a Vercelli.
Corriere della Sera 2.3.12
Mondrian, Mirò, Calder alla corte di Peggy
Surreali, astratti e poetici: l'incrocio di tre destini all'ombra della donna che allevò l'arte del '900
di Francesca Montorfano
Uno spagnolo, un olandese, un americano. Personalità e destini differenti che, in un magico momento della storia culturale e artistica del Novecento, si sono incontrati, hanno intrecciato esperienze e linguaggi, cambiando il modo stesso di fare arte, diventando il punto di riferimento per le generazioni a venire. Joan Miró con il suo poetico surrealismo, con quelle rappresentazioni fantastiche e oniriche dove la creazione è anche gioco, divertimento, ironia. Piet Mondrian, alla ricerca di quella superiore armonia dell'universo che lo porterà ad allontanarsi dalla raffigurazione della realtà per arrivare a una semplificazione assoluta di linee e colori. Alexander Calder, che saprà riflettere suggestioni surrealiste e astratte insieme e rivoluzionare il concetto stesso di scultura, facendo dell'aria e del vento, della fluidità e del movimento, gli elementi costitutivi delle sue opere, i suoi celeberrimi mobiles come li definirà Duchamp. Sarà proprio un giovane Calder, arrivato a Parigi nel 1926, a legarsi d'amicizia con Miró e il gruppo surrealista e a entrare poi in contatto anche con Mondrian, restando affascinato dallo studio dell'artista, con le pareti dipinte di bianco e suddivise da linee nere e rettangoli luminosi, come i suoi quadri. «In quel momento pensai a come sarebbe stato bello se tutto avesse preso a muoversi», racconterà in seguito, quasi a sottolineare come da quella visione fosse nata l'idea che sarà alla base del suo universo creativo. Inizia così quel dialogo continuo fra i tre grandi protagonisti dell'avanguardia, quello scambio di stimoli ed esperienze che durerà tutta la vita e li porterà a frequentare il circolo di artisti e intellettuali riuniti nei primi anni Quaranta intorno alla casa e alla galleria newyorkese di Peggy Guggenheim, grande collezionista e mecenate e, insieme allo zio Solomon, capace di entusiasmarsi per le sperimentazioni più avanzate.
Sarà oggi la nuova mostra all'Arca di Vercelli a raccontare le vicende di quegli anni così ricchi di fermenti creativi e di quegli artisti nei quali Peggy e Solomon avevano creduto, vincendo la sfida. Una quarantina di dipinti ad olio, tempere, gouaches, pastelli e sculture provenienti dalle collezioni Guggenheim e da altre prestigiose raccolte ne traccerà il percorso creativo dalle prove giovanili ai traguardi finali. «Oggi più che mai l'Arca si presenta come uno scrigno, un "concentrato" di capolavori straordinari. Ad andare in scena è uno spettacolo dalle tante letture, cronologico e al tempo stesso emblematico dell'opera dei tre grandi artisti, visti nella specificità e nel valore del proprio linguaggio ma anche nel gioco di confronti che li ha portati a rispecchiarsi, a inanellarsi l'uno nell'altro. Sarà proprio Calder il magnete delle diverse esperienze, il traghettatore in America di quella vicenda astratta e surrealista che era nata in Europa e si proponeva di riformulare il mondo esistente, di dare un'interpretazione nuova della realtà», commenta Luca Massimo Barbero, curatore dell'evento.
Ad aprire il percorso è Mondrian, con un nucleo strepitoso di opere che ne seguono l'evoluzione creativa da una pittura ancora legata ad echi postimpressionisti e simbolisti e a lavori che riflettono suggestioni cubiste, come «Calla»; «Fiore Blu», «Estate», «Duna in Zelanda» o le due «Nature morte con vaso di zenzero», ad altri, come «Composizione I», dove il passaggio ai colori primari è compiuto, dove la realtà è ricostruita in un intreccio ortogonale di linee verticali e orizzontali, archetipo di un rigoroso ordine cosmico. Ed ecco Miró, con quelle visioni immaginifiche, quei segni grafici, quelle forme antropomorfe che paiono fluttuare nello spazio, con quell'«Interno Olandese II» ispirato a un capolavoro seicentesco, con «Donna seduta II», dove la figura femminile è ormai trasfigurata o «Pittura» del 1953, summa di tutto il suo universo.
Nello splendido scenario dell'Arca e degli antichi affreschi di recente riportati alla luce è adesso la volta di Calder. Di lui la mostra mette in luce l'intera vicenda artistica dai lavori degli anni Trenta, «Senza Titolo» o «Mobile», agli stabiles, forme astratte immobili a terra, ai ritratti in filo di ferro, ai dipinti su carta, agli oggetti più intimi, personali, realizzati per Peggy. Sarà proprio Calder infatti a creare per lei i famosi orecchini mobiles e la testiera di letto in argento per Palazzo Venier de' Leoni, misteriosa e viva nel suo disegno di luce. Sempre a lui toccherà l'onore di vedere il suo «Arco di petali», con la sua cascata di forme e colori, fotografato insieme al presidente della Repubblica Einaudi e alla grande collezionista alla storica Biennale di Venezia del 1948.
Corriere della Sera 2.3.12
Tra dissolvenze e contorni Da Leonardo ai moderni la doppia scelta di uno stile
Il mix di forma e colore divide i grandi pittori
di Francesca Bonazzoli
C i sono molti punti di contatto che uniscono Calder, Miró e Mondrian. Oltre a Peggy Guggenheim e alla città di Parigi, anche l'uso degli stessi, pochi e scelti colori: il giallo, il rosso, il blu, il bianco e il nero. E anche, non ultima, l'appartenenza a un'unica grande famiglia i cui membri si possono rintracciare a ritroso lungo diverse generazioni di artisti. È la famiglia di coloro che stendono il colore in campiture nette, disegnano forme che appaiono ritagliate dallo sfondo e utilizzano la linea di contorno nera.
Per capire di cosa stiamo parlando basta pensare alla Nascita di Venere di Botticelli e, per contrasto, alla Gioconda di Leonardo da Vinci. I due artisti sono entrambi campioni del Rinascimento fiorentino e solo sette anni separano la nascita del primo dal secondo. Tuttavia la differenza del loro modo di dipingere non potrebbe essere maggiore: Botticelli disegna le figure circoscrivendole con una netta linea di contorno; crea le ombre con il nero e separa un colore dall'altro accentuando l'effetto attraverso i contrasti cromatici, per esempio, fra le scure ali di Zefiro e il suo luminoso drappo azzurro. Tutti i dettagli sono disegnati e rigidi, certi, dall'ombelico di Venere alle increspature del mare dipinte come tante V messe in fila una dietro l'altra.
Al contrario, nella Gioconda, Leonardo raggiunge l'acme della tecnica da lui introdotta dello sfumato, ovvero di una pittura che passa gradualmente da un tono all'altro di colore, sfumando le tinte anziché giustapporle le une alle altre in contrasti anche violenti. Leonardo aborrisce la linea di contorno persino nei disegni che appaiono come grovigli di segni accumulati gli uni sugli altri, incapace com'era di sopportare una forma chiusa, finita, congelata una volta per tutte perché le forme, come le osservava da scienziato, in natura non si presentano mai fisse.
Molti artisti seguirono la sfumato leonardesco, mentre altri scelsero consapevolmente i canoni quattrocenteschi. Così fece, per esempio, Lorenzo Lotto, il quale costruiva quadri stupendi che sembravano composti da pezzi di smalto accostati per contrasti luminosi, il chiaro contro lo scuro, nettamente delineati nei contorni. Ma il suo pur affascinante arcaismo non suscitò lo stesso entusiasmo della pittura tonale di Tiziano che, al contrario, rincorreva una fusione sempre più intima di luce e di ombra ed esibiva la sua spregiudicata bravura in quadri sempre più monocromi, giocati su pochi colori delle stesse tonalità come il superbo Ritratto di Paolo III con i nipoti, a Capodimonte, che può considerarsi una variazione virtuosistica sui toni del rosso.
Gli esempi di queste due famiglie «geneticamente» opposte possono portarci, applicando lo stesso schema, fino al Novecento e ai tre artisti da cui siamo partiti. Se osserviamo il movimento a posteriori, di solito a soccombere è la prima famiglia, quella di Botticelli e di Mondrian, della pittura di linea, per intenderci; ma in realtà il movimento è ciclico, quasi un'alternanza perfetta. Heinrich Wölfflin, nel 1915, ci scrisse addirittura un celeberrimo saggio «I concetti fondamentali della storia dell'arte», che offre ancora oggi spunti interessanti, in cui proponeva l'analisi sistematica di cinque coppie antitetiche delle «forme di visibilità» con le quali poter leggere i tratti caratteristici dell'arte rinascimentale in antitesi a quelli barocchi. Naturalmente lo schema di Wölfflin ha un impianto troppo rigido, ma è indubbio che certe coppie come lineare-pittorico, forma chiusa-forma aperta, chiarezza assoluta-chiarezza relativa, offrono dei passepartout applicabili alla lettura trasversale delle forme di tutte le epoche.
Non è forse un movimento di tesi-antitesi anche quello che separò il Neoclassicismo e l'Impressionismo? Da una parte la linea chiusa e i colori giustapposti a contrasto della fanciulla dipinta da Ingres ne «La sorgente», non a caso un chiaro riferimento alla Venere botticelliana; dall'altro lo sfarfallio di luce che sfuma i corpi delle Veneri di Renoir sempre sul punto di sfaldarsi nei trapassi tonali e nelle forme aperte dello spazio circostante. Come la Fenice, l'arte rinasce sempre dalle sue ceneri.