l’Unità 4.3.12
Bersani: ora il governo risponda alla crisi sociale
«Tav, è una questione di democrazia. Attenti ai fuochi pericolosi»
«Il governo? Bene le prime risposte, ma bisogna dare subito segnali sulla questione sociale. La crisi picchia e ci sono troppi silenzi»
L’intervista «Mostri lo stesso piglio usato con le pensioni. A Parigi con la nostra identità»
di Simone Collini
Bene la «prima risposta» arrivata dal governo, «ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». E poi, guardando al 2013, nessuna grande coalizione: «Democrazia significa confronto politico, con i cittadini che scelgono chi debba governare». E democrazia, dice Pier Luigi Bersani, significa anche «rispettare le decisioni prese attraverso meccanismi di rappresentanza e partecipazione». Parole non casuali. Il segretario del Pd parla mentre sono in corso manifestazioni dei No Tav in tutta Italia: «Si stanno accendendo fuochi pericolosi. Su questo tema il Parlamento deve discutere, va pronunciata una parola chiara».
Altra spina per un governo che deve affrontare non poche emergenze: un primo bilancio, dopo 100 giorni? «Una prima risposta è venuta, basta guardare alla credibilità internazionale di cui ora gode l’Italia, al linguaggio di verità a cui si ricorre, alle misure coerenti con la situazione da affrontare. Ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». Cosa intende dire?
«La crisi picchia duro, nel corpo sociale ci sono paure e tensioni molto forti. Con lo stesso piglio con cui il governo è intervenuto sulle regole, sulle pensioni, intervenga per dare stimoli all’economia. Sugli esodati, persone che non avranno né stipendio né ammortizzatori sociali né pensione, il governo deve dire una parola chiara. Ci sono problemi da affrontare che riguardano la crisi industriale, le piccole imprese, gli enti locali. Pur nell'equlibrio dei conti pubblici, servono iniziative per lo sviluppo, con un occhio sempre attento alla questione sociale».
A proposito di enti locali, sindaci chiedono al governo di rivedere il patto di stabilità: cosa ne pensa? «Che è una battaglia sacrosanta. I sindaci sanno benissimo che c’è un problema di rigore ma sanno anche che il patto di stabilità contiene delle irrazionalità evidenti. I Comuni andrebbero vincolati su saldi di bilancio, non sulle singole voci. Bisogna dar loro la possibilità di far partire un po’ di investimenti. Di fronte alla crisi, i Comuni possono essere una parte della medicina, non li si può considerare la malattia».
I comuni come la “medicina” ma avete più volte affermato che il problema si affronta in una dimensione tutt’altro che locale, quella europea. «E continuiamo a pensarlo. Ma va rivista la politica europea. Anche la firma del Fiscal compact lo dimostra: appena è stata siglata l’intesa due paesi, uno comprensibilmente, la Spagna, e uno inaspettatamente, l’Olanda, hanno dovuto registrare che l’equilibrio dei conti economici non è compatibile con l’acuta recessione in atto. Il problema di fondo è attuare politiche economiche che diano il via a dinamiche antirecessione e per lo sviluppo. La crescita è il punto, ma non basta dirlo a parole, servono politiche concrete».
Il 17 lei firma a Parigi insieme a Hollande e a Gabriel una piattaforma programmatica comune sulle politiche europee: il senso dell’operazione?
«Lavorare per un’Europa che metta al centro equità, solidarietà, crescita e che abbia più fondamento democratico. Non si può solo puntare su politiche di contenimento e rigore senza mettere in moto dinamiche positive, espropriare i poteri nazionali senza basarsi su meccanismi di rappresentanza democratica. Se si continua così la questione diventa molto seria». C’è chi ha visto in questa operazione condotta con i vertici dei socialisti francesi e tedeschi il tentativo di fare del Pd un partito socialdemocratico.
«Il Pd va a Parigi con la sua voce, quella di un partito che riassume in sé culture socialiste, cattoliche, ambientaliste, liberaldemocratiche. E va lì e discute dando un impulso ad allargare la prospettiva progressista europea, sapendo che noi siamo portatori di una sensibilità particolare sui temi ambientali, del lavoro, sulle liberalizzazioni, sulla partecipazione e sul rapporto aperto con i movimenti. Noi vogliamo una piattaforma progressista firmata da tutti quelli che combattono contro la destra liberista, che in questi anni ha massacrato i singoli stati e l’Europa, una piattaforma che metta assieme culture anche diverse, senza settarismi, per inaugurare una battaglia elettorale che si giocherà in Francia, Italia, Germania».
In Italia c’è chi non vorrebbe nel 2013 una battaglia ma una grande coalizione guidata da Monti: il suo giudizio? «Il Pd in nome dell’Italia ha sostenuto un passaggio di transizione e di emergenza e in nome dell’Italia il Pd con altrettanta convinzione vuole costruire una democrazia riformata sì ma normale, dove il confronto politico possa esserci, i cittadini possano scegliere e la politica abbia il suo ruolo. Naturalmente, e questa è una novità che è molto coerente col Pd, dobbiamo immaginare una politica che parli di un progetto per il paese e abbia la capacità di sostenere una maggioranza e un governo in modo stabile, solido e univoco e non di una politica che produca il Cencelli o l'incompetenza al governo».
Qual è il progetto per il paese con cui il Pd si candida a governare?
«Per noi al centro del programma c’è il lavoro e un equilibrio sociale basato sulla redistribuzione. E c’è un’idea di democrazia rappresentativa riformata, non populista, saldamente costituzionale».
E gli alleati con cui vi candidate a sostenere il governo in modo “stabile, solido, univoco” chi sarebbero?
«Il baricentro è un centrosinistra di governo, che non si fa a tutti i costi. Deve avere coerenza sul programma e dare garanzia di stabilità. Chiederemo poi che questo centrosinistra si rivolga a forze civiche, moderate, che abbiano un’altra idea rispetto a quella populista mostrata dal centrodestra in tutti questi anni».
Il centrosinistra è Pd più Di Pietro e Vendola. Che sulla Tav hanno espresso posizioni diverse dalle vostre...
«Il problema non sono temi che dividono, ma avere dei meccanismi che garantiscano una soluzione. Se si pretende di governare insieme si possono anche avere opinioni diverse ma poi ci vuole una regola vincolante». Ad esempio?
«Dei gruppi parlamentari che su alcuni temi decidano a maggioranza e si comportino di conseguenza». Rimanendo alla Tav: perché non la convince la proposta di moratoria sostenuta da Vendola e Di Pietro?
«Qui c’è un problema che non riguarda una ferrovia ma cosa intendiamo per democrazia. Che è un sistema inventato per decidere attraverso meccanismi di rappresentanza e di partecipazione. Sulla Tav c’è stata un’ab-
bondanza di passaggi istituzionali democratici che vanno rispettati. Tutto il paese è investito da fenomeni che vanno sorvegliati e su cui va pronunciata una parola chiara. Non si può non vedere che è in corso sotto il titolo Tav, che c’entra fino a un certo punto, una sequenza che abbiamo già conosciuto».
Quale?
«Davanti a un problema, o in buona fede o per opportunismi più o meno pelosi, si mette in scena una battaglia alla Davide contro Golia. Da lì si passa alla sopraffazione del potere e quindi alla giustificazione della violenza cosiddetta resistente. A questo punto si inseriscono organizzazioni violente che non sanno nulla di ferrovie ma che hanno il loro folle disegno, che naturalmente si scagliano contro i riformisti. L'esito finale è che nell'opinione pubblica si determinano riflessi conservatori e autoritari. Questa sequenza l’abbiamo già vista, e ha portato anche a drammi sanguinosi. Si stanno accendendo fuochi molto pericolosi. Per questo abbiamo chiesto che il Parlamento discuta e pronunci una parola chiara».
A proposito di Davide contro Golia: è lo slogan di chi sfida la Borsellino... «Ho girato per Palermo e di Davide ne ho visti pochi. Ho visto una campagna molto impegnata, con visibilità da parte di tutti i candidati. Mi aspetto una grande partecipazione e i cittadini decideranno per il meglio. L’obiettivo sono le amministrative e il Sud e Palermo hanno bisogno di una riscossa civica e di dare un messaggio al resto d’Italia di forte impegno civico. Per questo ho chiesto a Rita Borsellino di partecipare alle primarie».
La Magneti Marelli ha smantellato le bacheche con l’Unità: la cosa che più l’ha colpita, passata una settimana? «A parte l’atto in sé, inconcepibile, trovo consolante la reazione molto larga che c’è stata, mentre mi sarei aspettato di sentire il pensiero di qualche liberale come De Bortoli, come Padellaro. Che venga impedito a dei lavoratori di esprimersi e di informarsi è una questione che non riguarda solo i sindacati o un singolo giornale».
Corriere della Sera 4.3.12
Il Rebus del Pd verso il 2013
E a Palermo Borsellino rischia contro il «ribelle»
di Maria Teresa Meli
ROMA — Contrordine compagni: Bersani e i suoi innestano la retromarcia. Distinguersi dal governo va bene, criticarlo un giorno sì e l'altro pure non si può più fare. Si rischia di spaccare il partito, che è già abbondantemente lacerato. Oltre che di deludere l'elettorato del Pd che, stando ai sondaggi, per oltre l'80 per cento è favorevole a Monti. Per queste ragioni il segretario negli ultimissimi giorni ha spiegato a tutti i suoi interlocutori che «il Pd nei prossimi mesi non può discostarsi dal governo, sarebbe un errore».
La nuova linea viene confermata dalla decisione di Stefano Fassina e degli altri «giovani turchi» di non partecipare alla manifestazione della Fiom, come avevano inizialmente previsto. Osserva il responsabile economico del partito: «Io volevo andare all'iniziativa perché il tema della democrazia nei luoghi di lavoro mi sta molto a cuore, ma ora la cosa si è snaturata perché vi saranno anche i No Tav, quindi non sarò in piazza». Duro colpo per Maurizio Landini. Il 28 febbraio il segretario della Fiom aveva scritto a ogni deputato del Pd una lettera di questo tenore: «Ci rivolgiamo a lei, che è innanzitutto un rappresentante della nazione prima che un esponente del suo partito, per chiedere di aderire alla giornata di lotta che abbiamo indetto». Ma tant'è. Anche l'ala sinistra del Pd modera un po' i toni.
Solo il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi non demorde. Secondo lui «Monti è un Berlusconi sotto mentite spoglie». Un'uscita che ha spinto Rosy Bindi a replicare con queste parole: «Rossi faccia il governatore». E che ha stupito Enrico Letta: «Il presidente della giunta regionale toscana ha avuto un radicale cambiamento di posizioni su cui mi interrogo». Mentre il leader di Sel Vendola ha proposto a Rossi: «Vieni con noi».
Le vicende legate alla storia dei No Tav, comunque, hanno rafforzato i filomontiani, dal momento che il Pd si è schierato contro le proteste, mentre Antonio Di Pietro e Vendola stanno con i manifestanti. Dice il veltroniano Enrico Morando: «Presentarci alle elezioni con Vendola e Di Pietro? Ma nemmeno per sogno». Dello stesso tenore le riflessioni del senatore Stefano Ceccanti: «Quando abbiamo deciso di sostenere il governo Monti il solco con Sel e Idv si è fatto più profondo: l'alleanza modello foto di Vasto è improponibile». E anche i dalemiani frenano sull'ipotesi di una coalizione con Vendola e Di Pietro.
Dunque, nel Pd le divisioni non sono più sull'atteggiamento da tenere in questo frangente nei confronti del governo Monti, ma sul dopo. E non sono divisioni di poco conto se nel partito si sussurra ormai con una certa frequenza la parola «scissione». Beppe Fioroni sintetizza così la situazione: «Nel 2013 si andrà a un governo politico, per questa ragione i partiti, e il Pd per primo, devono scegliere già adesso le alleanze, che non devono essere obbligate: ci vogliono coalizioni coese sui programmi. Io sono per un'intesa con il Terzo polo e penso anche che non si possa non coinvolgere Monti. Dobbiamo stare tutti attenti: se la politica non riacquista la sua dignità verrà commissariata per sempre e saranno i tecnici a decidere quali politici andranno in Parlamento». Chi lo conosce bene, però, sostiene che Pier Luigi Bersani si sente ancora in pista e vuole candidarsi a premier del centrosinistra nella prossima legislatura. Con Vendola e Di Pietro, ma anche con il Terzo polo. Come? Magari convincendo Casini con un'offerta difficile da rifiutare: quella della presidenza della Repubblica.
Intanto anche un altro dei big del Pd sta giocando la sua partita: Veltroni. L'ex segretario non ha alcuna intenzione di candidarsi, ma sogna un cambiamento negli equilibri politici del suo partito. Perciò medita di sciogliere la corrente dei MoDem, in modo da avere le mani libere con Enrico Letta e Dario Franceschini, con cui i rapporti si sono intensificati. L'idea è quella di contrastare la prospettiva di un Pd trasformato in mega Partito socialista. Per questo motivo Veltroni, forzando il suo carattere, ha scelto di polemizzare con Vendola: vuole essere lui l'avversario della deriva di sinistra dei Democrat.
In tutto ciò la periferia ribolle. Bersani è riuscito a sistemare la pratica napoletana, imponendo al partito locale di non proseguire lungo la strada dell'inciucio con il presidente della Regione Stefano Caldoro. Ma in Puglia non gli è andata altrettanto bene. Il leader del Pd ha aperto all'idea di Michele Emiliano di fare un movimento tutto suo. E per «ringraziarlo» il sindaco di Bari, dalle pagine del Foglio, si è rivolto così al segretario: «Bersani deve tirare fuori le palle, siamo in campagna elettorale, ed è arrivata l'ora di scatenare l'inferno. Deve smetterla di fare solo il mediatore».
Un discorso a parte merita la Sicilia o, meglio, Palermo. Lì Bersani si gioca gran parte della sua credibilità. Se oggi, alle primarie per il candidato sindaco del centrosinistra, Rita Borsellino dovesse perdere e, a sorpresa, vincesse il candidato del Pd filo-Lombardo, cioè l'ex idv Fabrizio Ferrandelli, per il segretario sarebbero dolori. Il leader si è schierato sulla candidata appoggiata da Vendola e Di Pietro, sulla candidata che ha chiuso al Terzo polo, e se le cose non andassero come devono si troverebbe in difficoltà.
A Palermo la situazione è molto fluida. Di Pietro, caduto nello scherzo di una radio, pensando di parlare al telefono con Vendola si è lasciato sfuggire questa affermazione: «Non vorrei che quello che è uscito dal mio gruppo andasse a vincere, mentre noi abbiamo sostenuto Borsellino». Il timore è che il trio Lumìa, Cracolici e Totò Cardinale utilizzi il proprio potere per organizzare le truppe cammellate in favore del loro candidato, Ferrandelli. E il fatto che si siano registrati per votare oggi alle primarie più di ottocento immigrati desta qualche sospetto. Ci sono ghanesi, indiani, cinesi e tamil. Il presidente del comitato delle primarie, Domenico Pirrone, sconsolato, ha dovuto ammettere: «Qui è un mercato, tanti di loro non sanno neanche per che cosa si vota».
I veleni di Palermo rischiano di far fibrillare tutto il partito. Un altro candidato, Davide Faraone, esponente del Pd locale appoggiato da Matteo Renzi, ha deciso di polemizzare direttamente con il leader: «Bersani ha smesso di fare il segretario ed è sceso in campo per Rita. Io non gli ho chiesto di sostenermi perché ogni volta che sostiene qualcuno quello perde. Comunque il partito siciliano fa più schifo di quello che fa nel resto del Paese». Insomma, un bel problema, quello siciliano. Se Borsellino perde, Bersani rischia la brutta figura. Se vince, il Pd potrebbe subire una scissione capeggiata dai maggiorenti che sostengono la giunta Lombardo e l'accordo con il Terzo polo.
Corriere della Sera 4.3.12
E sei democratici su 10 aprono sull'articolo 18
Partito diviso anche su Tav e leadership: il 48% per Bersani premier
di Renato Mannheimer
La disputa tra Veltroni e Vendola su chi è veramente «di sinistra» costituisce un indicatore efficace delle significative fratture che attraversano l'elettorato del Pd e che vedono convivere, per ora, nello stesso partito i sostenitori di posizioni assai diverse.
La maggiore forza politica italiana è connotata (come peraltro accade per i grandi partiti anche in molti altri Paesi) da forti — talvolta addirittura contrastanti — differenziazioni nelle valutazioni politiche del suo elettorato. Si prenda, ad esempio, la questione dell'articolo 18, al centro in questi giorni di buona parte del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. L'intera popolazione è assai divisa al riguardo. Una consistente minoranza (39%) rifiuta qualunque ipotesi di mutamento del testo attuale della norma. Solo il 13% dichiara invece senza alcun dubbio l'utilità di un sensibile rinnovamento della stessa. Ma a costoro va forse aggiunto quel 44% che ritiene ammissibile una modifica «purché accompagnata da provvedimenti per una maggiore tutela e una formazione di chi rimane senza lavoro».
All'interno dell'elettorato del Pd si riproduce una suddivisione per molti versi analoga. Il 40% degli elettori del partito di Bersani si esprime contro ogni possibile modifica dell'articolo 18, riproducendo quindi, in parte, le posizioni di Vendola. Il 58% è invece più possibilista, benché, anche al suo interno, la gran parte richieda «maggiori tutele» a fronte di una attenuazione dei vincoli imposti dalla norma. Sulla base di questi dati si potrebbe dunque dire che la maggioranza della base elettorale del Partito democratico è più vicina alle posizioni dell'ex sindaco di Roma, piuttosto che a quelle del governatore della Puglia. Ma si tratta in realtà del mero segnale di una forte frattura interna (peraltro esistente, sia pure in misura minore, anche nel Pdl, ove ben il 31% si oppone, dissentendo dalla linea del partito, a mutare il testo attuale dell'articolo 18).
Non molto dissimile è l'immagine che emerge se si considera un'altra tematica di grande attualità, come l'atteggiamento verso la Tav. Anche in questo caso, di fronte a un quesito ove si chiede se le proteste in Val di Susa, al di là dell'ovvia condanna della violenza, siano «giustificate», la popolazione italiana si divide a metà. Il 44% si schiera dalla parte di chi si oppone alla nuova linea ferroviaria, a fronte di una percentuale di poco maggiore (50%) che, viceversa, è favorevole, in nome soprattutto dell'interesse generale del Paese. E, anche in questo caso, all'interno dell'elettorato del Pd si ritrova un quadro non molto dissimile. La maggioranza (50%) dei votanti per il partito di Bersani non condivide l'ostilità al progetto in questione, collocandosi così nella linea indicata dal segretario del partito. Ma si tratta di una maggioranza così risicata da mettere nuovamente in luce l'esistenza di una spaccatura interna (presente peraltro in qualche misura anche nel Pdl, ove una maggioranza assai più consistente — il 66% — approva il progetto Tav, ma un forse inaspettato 30% reputa «giustificata» l'opposizione).
Le fratture forse politicamente più significative emergono quando si tocca la questione della leadership. Nel Pd il consenso per Monti, che si colloca all'87%, supera addirittura, come peraltro accade in tutta la popolazione italiana, quello per il segretario Bersani, che si ferma nel suo partito all'85% (nel Pdl Berlusconi continua a essere il più popolare — 87% —, ma Monti lo segue con il 68%). E anche se si chiede esplicitamente chi dovrebbe essere il prossimo presidente del Consiglio, una quota significativa dell'elettorato pd (38%) dichiara di preferire Monti a Bersani, indicato «solo» dal 48% dei suoi elettori.
Dall'insieme di questi dati si ha conferma del fatto che l'elettorato del maggior partito italiano è (irrimediabilmente?) diviso al suo interno sui temi politici più significativi. Ma che anche nel Pdl emergono contrasti di opinione rilevanti. Ciò che può far immaginare come nei prossimi mesi si possa assistere a sommovimenti interni importanti in entrambi i partiti. Non a caso, secondo molti osservatori, la strutturazione dell'offerta politica in occasione delle elezioni del 2013 potrebbe essere assai diversa da quella attuale.
l’Unità 4.3.12
Camusso al corteo: «Il governo la smetta di guardare solo ai mercati, non resterà nulla»
I sindacati: le risorse per gli ammortizzatori sociali si trovino colpendo i patrimoni
«Non si salva l’Italia se non si salvano i lavoratori italiani»
Una giornata di fermezza sindacale quella dei tre segretari di Cgil, Cisl e Uil al corteo degli edili. Camusso, Angeletti e Bonanni hanno chiesto al governo risposte veloci e convincenti sul mercato del lavoro.
di Marco Tedeschi
Le risorse per gli ammortizzatori sociali, che il governo ha annunciato di stare cercando, «si potrebbero reperire ad esempio dai patrimoni». I tre leader sindacali ieri, anche nel giorno degli edili, hanno parlato del tema dei temi: il mercato del lavoro. Il suggerimento è del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. A proposito del reperimento delle risorse, Camusso ha osservato che «siamo passati da una situazione in cui il governo diceva che non ci dovevano essere risorse a quella in cui le sta cercando e quindi lo valutiamo positivamente. Però, ha aggiunto, «vogliamo la riforma fiscale, non quando verrà, ora». «Una delle condizioni della crescita è la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente e sulle imprese. Vorremmo che almeno per una volta si partisse dai lavoratori». Per ora ci sono le cifre che danno ragione al governo: il calo dello spread, il calo mese per mese del debito pubblico, il calo generale dei tassi anche a breve. C’è solo una cifra che dai rilevamenti statistici non torna a profitto: la disoccupazione. Stabilmente drammatica, stabil-
mente forte sotto i trent’anno di età. Dal palco Camusso ha inviato al governo diverse indicazioni di rotta. «Diciamo al governo che se si continua a guardare ai mercati e non al Paese gli resterà solo guardare, perché non ci sarà più il Paese. Non si salva l'Italia se non si salvano i lavoratori italiani». Che poi ha concluso:«Parlare di libertà di licenziamento è un insulto ai milioni di disoccupati che abbiamo nel Paese. Non ci convinceranno mai».
CISL E UIL
Angeletti e Bonanni hanno anche parlato d’altro. «Finora non abbiamo visto un euro», ha detto il leader della Uil, Luigi Angeletti, parlando alla manifestazione nazionale dei sindacati delle costruzioni rivolto alle banche.
«Chiediamo al ministro Fornero una proposta trasparente sul mercato del lavoro, così come è stata trasparente la proposta del sindacato su questioni che riguardano la cassa integrazione che ha retto le sorti del paese per 40 anni». È questo il messaggio che il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha inviato al ministro del Welfare dal palco della manifestazione degli edili.
«Ho l'impressione ha detto che con lo slogan dobbiamo dare a tutti si voglia togliere un po’ a tutti. Noi non ci stiamo. Vogliamo una discussione chiara, definita e trasparente da parte del Governo». Bonanni ha inoltre rivolto un «invito forte, risoluto al cambio di linguaggio da parte di chi governa», altrimenti si entra nella «beffa della logica per cui si fa la riforma del mercato del lavoro e magari si abolisce l'articolo 18 perché così si creano tanti posti di lavoro in più. È una bugia che noi rifiutiamo».
Infine dal segretario della Cisl è partito un segnale perentorio verso chi deve decidere, ma che sin qui sta troppo esitando. «In questo luogo ci sono le formiche italiane che dicono con chiarezza alle cicale che è venuto il momento di svegliarsi, di smettere di parlare e di fare. Non c'è altra possibilità per riprendere il cammino della crescita», ha aggiunto.
l’Unità 4.3.12
L’alternativa esiste
di Claudio Sardo
Non è vero che la tecnica può sostituire la politica. Non è vero che la Grande coalizione è la condanna ineluttabile per un Paese sempre in transizione. Non è vero che il vincolo esterno impedisce scelte alternative. Non è vero che la sola competizione possibile consiste nell’eseguire al meglio gli ordini degli organismi finanziari internazionali.
Non è vero che esiste un solo paradigma economico, incontestabile, non smentibile. È vero invece che c’è molto conformismo in giro. E opportunismo. Nel nostro bilancio pesa un deficit di pensiero critico. Le democrazie si nutrono di questo. E di coraggio. Se l’antipolitica cresce perché le istituzioni non appaiono più come decisori efficaci (e dunque deludono le domande di cambiamento, di equità, di mobilità sociale) di questo non si può dare solo colpa alla globalizzazione. I vincoli esterni ci sono, e sono anche aumentati. Ma la politica è appunto capacità di modificare l’inerzia delle cose.
La Bundesbank era contraria alla parità del marco ma Helmut Kohl la fece lo stesso, combinando l’unificazione tedesca con una strategia di allargamento dell’euro (anch’essa non poco osteggiata). Tornando a casa nostra, non erano scontate la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti. Si deve molto alle scelte del Pd. Ma un ruolo decisivo ebbero anche le parti sociali firmando l’accordo del 28 giugno. Quell’atto segnò la fine, l’ultima delegittimazione del governo Berlusconi, che aveva fondato sulla divisione la propria strategia: diversi firmatari sono arrivati con colpevole ritardo, tuttavia quella fu una svolta politica che anche all’estero mutò la percezione dell’emergenza italiana.
Questo per dire che le teorie e le narrazioni sull’esaurimento della politica, dei partiti e di tutti i corpi intermedi sono interessate. Sono armi nella battaglia sul futuro del Paese. Quello di Monti è un governo politico, benché formato da tecnici. Anche nelle formule ricorrenti si nasconde un’ideologia: accettare l’idea dell’autosufficienza dei tecnici vuol dire accettare che c’è una verità precostituita, una sola politica da applicare, ovviamente determinata da agenzie esterne al circuito istituzionale. Il governo Monti invece vive per una scelta politica. E compie quotidianamente scelte politiche. Alcune buone, altre meno. Il decreto sulle liberalizzazioni, dopo i duri scontri tra lobby contrapposte, uscirà dal Parlamento migliorato rispetto al debole testo uscito da Palazzo Chigi.
Certo, Monti gode di consenso nell’opinione pubblica. Il merito gli va riconosciuto. Ma anche la campagna di chi contrappone il virtuoso Monti ai partiti viziosi riscuote successo. Questo vuol dire innanzitutto che i partiti sono malati. Il caso di Berlusconi che disinveste sul Pdl per rilanciare una nuova Forza Italia e il caso di Beppe Grillo che scomunica il dissenso interno sono la prova drammatica di quanto il populismo sia dilagato nella nostra politica. Ma non possiamo rassegnarci a questa inerzia. Non possiamo rinunciare a ricostruire partiti democratici e un sistema politico di tipo europeo.
Monti può dare una mano per far uscire l’Italia dall’incubo di questa Seconda Repubblica. Come può invece operare per tenerla imprigionata. Magari puntando anche lui su un esito oligarchico (o tecnocratico, ma il significato è lo stesso), come una parte non piccola dei poteri economici che contano nel nostro Paese. Per il presidente del Consiglio le priorità restano l’emergenza finanziaria e il recupero per l’Italia di quel prestigio e quel profilo europeista che Berlusconi aveva dissipato. Ma nella sua azione politica molte sono le scelte che incideranno sulla transizione. Anche la gestione della vicenda Tav in Val Susa è rilevante. Perché alla fermezza nel respingere ogni ricatto della violenza, è doveroso che corrisponda una capacità di ascolto dei disagi dei valligiani e delle loro domande: tentare di ridurre l’area del dissenso non è un optional per chi governa ed è un dovere per chi teme degenerazioni eversive.
Il governo Monti, nella transizione, inciderà sulle questioni sociali. A partire dal negoziato sul mercato del lavoro. E dalla sua capacità di tenere in equilibrio innovazione, equità e coesione dipenderà lo scenario in cui si svolgerà la prossima competizione elettorale. Speriamo davvero che il Porcellum sia abolito (nonostante i tanti, dissimulati difensori). Perché se l’Italia non sarà capace di dotarsi di una democrazia competitiva, la transizione fallirà quale che sia il livello dello spread. Per il centrosinistra, fin d’ora, il tema è tenere insieme questione sociale e questione democratica. Pur nel sostegno a Monti, questo è tempo di battaglia politica. Sono tanti i cantori della sospensione della politica, ma chi si batte contro le disuguaglianze, le iniquità, i conservatorismi, non può accettarla. È inaccettabile che si neghi l’esistenza di legittime alternative in Italia e in Europa.
il Fatto 4.3.12
Caro Monti, serve più laicità
di Marco Politi
Signor Presidente del Consiglio, tanti italiani laici e cattolici, credenti o diversamente credenti seguono con attenzione e simpatia la Sua azione di governo per eliminare incrostazioni di male pratiche, furberie e uso disinvolto del denaro pubblico lasciato in preda alle lobby. Non si tratta solo di risanare i conti pubblici – opera già meritoria – ma di portare trasparenza in un sistema appesantito dallo scarso senso dello Stato di troppi protagonisti della vita sociale. Nei giorni scorsi Lei ha iniziato una piccola rivoluzione, bloccando l’evasione fiscale di tanti enti ecclesiastici dall’attività “non prevalentemente commerciale”. Lei ha compiuto un gesto di normalità, laddove i passati partiti di governo avevano fallito per opportunismo elettorale o per debolezza. La stragrande maggioranza degli italiani – alla luce dei sondaggi sull’Ici del Suo collega accademico, il sociologo cattolico Franco Garelli – sono dalla Sua parte e si augurano che Lei proceda sino in fondo portando chiarezza nei rapporti finanziari tra Stato e Chiesa.
GLI ITALIANI sanno distinguere. Apprezzano il ruolo delle parrocchie, spesso unico riferimento sociale nel deserto delle città. Conoscono bene l’impegno delle suore di strada, che la notte soccorrono tossici, prostitute ed emarginati. Non chiedono certo irrazionalmente “tasse sulla carità”. Ma sanno distinguere a fiuto e per saggezza popolare tra le mense della Caritas o i volontari di Sant’Egidio, in cammino di notte per raggiungere i senzatetto, e i furbetti in tonaca che usano gli inghippi di legge per praticare lo sport dell’evasione. È giusto parlare, come Lei fa, di regole generali per il no profit. Ma gli italiani sanno anche che il dopolavoro ferroviario non è certo una lobby, la Conferenza episcopale invece sì. Lei ha l’opportunità di portare a termine un processo di rigenerazione cavouriano, da cattolico liberale: un assetto di gestione delle finanze in cui libero Stato e libera Chiesa operino ciascuno secondo le proprie funzioni. Nella chiarezza. Non c’è tuttora chiarezza nel trattamento delle scuole private cattoliche. Affidare l’esenzione dell’Ici-Imu al mero fatto dello status “paritario” e dell’impegno a reinvestire gli utili nell’attività didattica non è sufficiente. La fantasia italiana nell’utilizzare la legge è infinita. Lo si è visto anche nel campo delle (false) cooperative o nel finanziamento a (falsi) giornali di partito. Se si vogliono premiare le iniziative di solidarietà, allora servono parametri oggettivi: primo fra tutti quello che le rette delle scuole private, che chiedono l’esenzione, non siano superiori alle tasse scolastiche statali. Si possono costituire rendite di posizione anche con bilanci formalmente in pareggio. Tuttavia è l’insieme dei rapporti Chiesa-Stato ad avere bisogno di una ventata fresca di regolarità europea. Lei ha spiegato in queste settimane ai suoi interlocutori ecclesiastici che le misure da Lei prese non sono sotto il segno dell’“ostilità”. Un giusto criterio.
PROSEGUA su questa strada e precisi per legge che qualsiasi persona giuridica – anche le diocesi – laddove riceve finanziamenti statali è tenuta a esibire bilanci pubblici. Sarebbe un grande contributo alla chiarificazione. In Germania, che Lei conosce bene e dove La stimano molto, questo requisito minimo è seguito da tutti senza problemi. La diocesi di Colonia non ha segreti per il fisco né per i concittadini contribuenti. Non Le sarà sfuggito che in queste settimane si svolge nel Palazzo apostolico un braccio di ferro tra chi ritiene che la via migliore per la Chiesa sia una trasparenza totale nella gestione finanziaria e chi esita a esserlo sino in fondo. Promuovere la trasparenza è un regalo che il credente può fare alla propria Chiesa. E un premier ai suoi connazionali. Lei ha l’occasione, infine, di riportare ordine nella questione dell’8 per mille. I maggiori partiti, terrorizzati dalle elezioni, non ce la fanno. Lei può annunciare anzitutto ai contribuenti, prima della dichiarazione dei redditi, come saranno utilizzati i fondi che andranno allo Stato per iniziative umanitarie. È un modo corretto per garantire ai cittadini la dovuta libertà di scelta. Ma soprattutto Lei ha la facoltà di attivare la commissione ecclesiastico-governativa, incaricata di valutare l’andamento del gettito dell’8 per mille. È la sede in cui sarà facile rendersi conto che l’attuale gettito di un miliardo è cinque volte superiore a quella che una volta era la congrua, l’aiuto diretto dello Stato alla Chiesa. Riesaminare la somma e riportarla a una proporzione equa rispetto al momento della riforma del Concordato e alle intenzioni dei suoi negoziatori sarebbe un giusto atto di tutela del bilancio dello Stato. Specie adesso che ogni centinaio di milioni di euro risparmiato è provvidenziale. Nessuno si nasconde che liberare tutta questa materia da bizantinismi e rendite ingiustificate Le procurerebbe qualche stridula accusa e anche opposizione nell’eterogenea maggioranza, che La sorregge. Però avrebbe dalla Sua la maggioranza degli italiani di ogni fede. E dissiperebbe l’impressione che basta essere lobby tenaci come tassisti e avvocati per intralciare la Sua politica. Con stima, Marco Politi.
il Fatto 4.3.12
La voragine tra politica e cittadini
Ecco perché la gente non vota più
di Furio Colombo
Si allarga la fenditura. Di qua chi governa, a qualsiasi titolo. Di là tutti gli altri. Può darsi che annuncino il loro esodo in piccoli gruppi potenti (i banchieri, gli avvocati), in tribù che prescelgono la dimostrazione fisica e locale (i tassisti) in manifestazioni più disperate che violente (le testimonianze dei ricoverati del pronto soccorso e di chi li accompagna) o nel sottofondo di voci che segue e commenta con indignazione, protesta o scherno quasi ogni funzione pubblica del Paese, dal viaggiare infinito dei pendolari alla sorpresa male accolta per gli ospedali che chiudono. Ma sto parlando di un distaccarsi esteso, a volte silenzioso e ordinato, raramente rappresentato dalle rivolte come quella dei No Tav, di cui si discute con grande confusione su causa ed effetto (viene prima la solitudine o la rivolta?) in questi giorni. Chi governa è ormai visto sempre come tecnico, nel senso di non amico, non nemico, non mio. Viene visto come qualcuno che sa fare qualcosa e la fa secondo le sue regole che non toccano in nessun punto le mie attese e i miei desideri.
NON CI SONO più “nostri”, neppure per dirne male. Una prova sono i grandi giornali, con pagine e pagine di bollettini tecnici informativi non sugli eventi o sulla politica, ma su segmenti di vari progetti dei vari esperti, in cui non c'è una visione. C'è un prontuario di soluzioni a date domande. A volte c'è la soluzione a breve di un problema assillante, a volte di qualcosa di misterioso di cui non sapevi e non volevi sapere nulla, perché nessuno te ne aveva parlato. Ti guardi attorno e ti accorgi che la distanza fra cittadini e politica si è trasformata in una distanza almeno altrettanto grande fra i cittadini e tutte le istituzioni. Sbagliato farne la questione dei più che accettano i tempi difficili e dei ribelli che, ancheseviolenti, sonopochiesono una causa persa. Ma non sentite il peso sempre più grande della solitudine dei cittadini? Dove, a chi vanno a spiegare le loro ragioni, giuste o sbagliate, corporative o di estrema sopravvivenza? Sanno che nessuno li aspetta e nessuno li cerca. I No Tav, l'altro giorno a Roma, hanno tentato una cosa impossibile e anche priva di senso: entrare nella sede di un partito (il Pd) e parlare.
Per quanto ci hanno detto, la violenza è stata minima (quasi solo modi maleducati), il progetto antico (parliamo e sentiamo cosa ci dicono) l'esito nullo. Fuori da un talk-show nessuno parla con nessuno o ha niente da dire. Non esiste più, da molto tempo, l'incontro con cinquanta o sessanta persone (a meno che non siano raccolte tra i quadri interni di un partito) o l'ascolto magari sgradevole delle incompetenti opinioni di cittadini non invitati. C'è un abisso fra noi, che siamo preparati e abbiamo sentito anche i consulenti e loro, che esprimono soprattutto cattivi umori perché si limitano a guardare “nel loro giardino” (ho proprio sentito usare questa frase, forse come traduzione di Not in my backyard). Il fatto è che, anche volendo, i partiti non possono, non devono intervenire. Con un po’ di immaginazione puoi figurarti le truppe sulla collina, i cavalli tenuti al morso, ciascuna armata ferma e in attesa dietro al suo generale (l'ispirazione è ai quadri napoleonici di David). La consegna è che in questo frattempo, lungo anni, niente deve accadere. Niente che dipenda da queste armate dette partiti. Per la verità sono pronte e addestrate ad altro. Sono addestrate a propaganda, persuasione, promessa, futuro, tutto il peso scaricato sul mondo che viene dopo. Qui invece, avvertono i tecnici, i consulenti, gli esperti, il peso è già stato scaricato sul mondo venuto prima e bisogna saldare il conto oppure non si può proseguire. Vuol dire che non c'è vento per le bandiere.
VUOLE ANCHE dire che le lunghe fermate spostano l'attivismo da fuori a dentro, e ciascuno che conti qualcosa, privato del nemico da fuori, deve trovarsi un nemico nel rivale di partito. Lo combatte, lo dileggia, lo raccomanda al disprezzo. Il pubblico (ormai si dice così) si allontana. Ma se il blocco di ogni attività dei partiti, che non possono e non devono agire finché nella sala operativa ci sono i tecnici, non porta bene ai partiti, la solitudine non porta bene ai cittadini. Capiscono di essere tagliati fuori e si allontanano di più. Fate un giro, in qualunque momento in cui ci sia seduta di Parlamento, nella piazza di Montecitorio, davanti alla Camera. Una folla c'è sempre, ma non cerca e non guarda e non chiama e non insulta nessuno, anche se passa lì accanto ed è noto per il talk-show.
Ci sono le bandiere di una ditta, di un sindacato, di un Comune, qualche altoparlante per gli slogan. Quasi tutti in silenzio. Oppure gridano al muro, non a qualcuno. La sensazione è di un altrove che un montaggio abile ha collocato vicino. Vicino a niente. Nessuno cerca sostegno perché sembra spenta ogni fiducia e l'antagonismo ha una forma fredda e compatta non di scontro, ma di assenza. I cittadini che sono qui rappresentano, in modo paradossale, tutti coloro che non vogliono esserci. Tanti. Accade questo. Il governo dei tecnici non ha e non cerca relazioni o rapporti. Ognuno ne ha per suo conto nel giro della propria specializzazione. I leader di partito si scostano quasi istintivamente dalla loro base (o si confrontano solo con assemblee di quadri) per non correre il rischio di violare l'impegno a non agire. I cittadini se ne vanno. Dove, quando, con chi si troverà un punto di raccordo fra le parti smontate dell'enigma politico italiano? Ci arriveremo in tempo?
il Fatto 4.3.12
Storie di profughi a Mantova
di Silvia Truzzi
Arrivando alla stazione di Mantova (su un autobus “sostitutivo”, stipato in modo vergognoso, perché la linea ferroviaria è inagibile, dottor Moretti) capita d’incrociare gruppi di extracomunitari. E di chiedersi chi sono. Clandestini, direbbe qualche leghista giunto recentemente al governo di una città da sempre di sinistra. Invece no. Arrivano, qui come in tutta Italia, dalla Libia, scappati dalla guerra. Di loro si è a lungo parlato durante la primavera araba, a causa degli sbarchi a Lampedusa. Poi sono svaniti in una nuvola di oblio mediatico. Nel Mantovano sono un’ottantina, in Italia un po’ più di 22 mila. Da maggio dello scorso anno a gennaio 2012 sono arrivati in diversi gruppi. Il più numeroso è alloggiato in un hotel che sta di fronte alla stazione. Il governo stanzia 43 euro al giorno per il soggiorno di ciascuno. Sono profughi, dunque. Anche se, nel calderone della politica ignorante e dei media spesso non più raffinati, vengono bollati appunto come fuorilegge. E che fanno qui? Aspettano, da mesi, che si dica loro se hanno diritto di avere riconosciuto lo status di rifugiato politico. Decide una commissione territoriale che ha quattro soluzioni a disposizione: dichiarare lo status di profugo (prevede il soggiorno in Italia per 5 anni), la protezione sussidiaria (soggiorno di 3 anni), la protezione umanitaria (1 anno) o il respingimento. Quasi nessuno di loro però ha cittadinanza libica: vivevano lì, ma arrivano da Paesi dell’africa subsahariana. Gli unici ad avere qualche possibilità sono i cittadini del Congo, dove c’è la guerra. A molti di loro però basterebbe avere qualche certezza sul loro destino: anche se vengono trattati come numeri senza vita, hanno famiglie e legittime aspettative sul loro domani. Leggendo i giornali, sono tutti disperati, affamati, pronti a derubarci. Invece, racconta Sandro Saccani – presidente dell’associazione di volontari “Scuola senza frontiere” che si occupa dell’alfabetizzazione degli immigrati – sono tutte persone che in Libia avevano un lavoro e delle professionalità. Una settimana fa i profughi hanno osato scendere in piazza per chiedere una soluzione. Il corteo non era autorizzato, ma a parte un po’ di tensione e un contuso (lieve) non è successo nulla di grave. La Lega non ha gradito, sui giornali il solito allarme sicurezza. Possibile che nessuno capisca come dev’essere angosciosa un’attesa così lunga? La Caritas e le altre associazioni che si occupano dell’accoglienza (a Mantova anche il centro San Luigi) organizzano lezioni d’italiano, d’informatica, visite ai monumenti e altre attività, compreso il sostegno psicologico. Ma l’inoperosità genera frustrazione, paura, esasperazione. Si calcola che il 75 per cento di loro saranno respinti. Dovranno tornare a casa o diventeranno davvero – con buona pace del razzismo leghista – clandestini. Formalmente non hanno diritto allo status di rifugiato. Eppure sono scappati dalle bombe, tanti sono morti nelle traversate della vergogna. Forse qualcuno – magari un ministro tecnico che sotto il loden si ritrovi anche un’anima – potrebbe riconoscere che sono esseri umani fuggiti da una guerra. Sul sito di Scuola senza frontiere, un video mostra i ragazzi che tutti i giorni seguono le lezioni d’italiano: sorridono e amano il nostro Paese più di quanto ormai non sappiamo fare noi. Guardandoli, l’ultima parola che viene in mente è pericolo. Forse è perché hanno incontrato qualcuno che – invece di prenderli a calci come cani rabbiosi – ha teso loro una mano.
Corriere della Sera 4.3.12
La dittatura dell’incuria
di Gian Antonio Stella
«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere, l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».
Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.
Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.
Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.
Corriere della Sera 4.3.12
Le due anime in conflitto di Nichi il coattocomunista
di Aldo Grasso
L’importante nella vita è avere due anime. Nichi Vendola le ha. Lo conferma lui stesso. C’è un Nichi « ludico, anarchico, infantile, narcisista » e un Nichi « instancabile, organizzatore, sorvegliato speciale delle sue stesse passioni » . Se A è cattolico, B è comunista. Se A si confronta con le ideologie B si abbandona alle visioni del mondo, le famose « narrazioni » . Giorni fa, una delle due anime ( il suo personale « scisma » ) ha attaccato duramente Walter Veltroni definendolo « di destra » , leader di una destra « colta, col loden » . Ma, tempo addietro, l’altra anima di Nichi, quella ludica, nell’intento di aprire un polo ospedaliero a Taranto nel segno del San Raffaele non esitava a fare affari con Don Verzé ricevendone in cambio una singolare investitura: « È un uomo di grandissimo valore, di grandissima cultura, in grado di trasmettere idee e calore. Anche Berlusconi mi ha detto che lo stima molto, lo ritiene una persona per bene... Sia Berlusconi sia Vendola possiedono un fondo di santità » . Nel nome della santità o della sanità, un giorno il Nichi « anarchico » si schiera a fianco dei No Tav ( « Sto con le ragioni del dissenso » ) e l’altro, come presidente della Regione Puglia e « sorvegliato speciale » , espropria terreni dove dovranno essere realizzati gli impianti del depuratore consortile Sava Manduria con scarico in mare. L’unico in grado di descrivere il suo scisma esistenziale è Checco Zalone, che di Nichi fa una parodia più vera del vero, con quella sua oratoria barocca e sghemba, con quel ritratto del nuovo intellettuale della Magna Grecia, riverniciato da un pasolinismo politicamente corretto. Claudio Cerasa, sul Foglio, ha collezionato una fantastica antologia del pensiero vendoliano dal titolo « Nichi ma che stai a di’? » . Eccone un esempio: « Dobbiamo bonificare il territorio abitato dalla materia semantica, dai depositi di parole » . Così, se l’anima A rimane fedele a una prosa vaporosa, agghindata, a un lirismo tanto ingenuo quanto kitsch, l’anima B non disdegna la demagogia trucida per spartirsi la memoria della sinistra. Dal cattocomunista al coattocomunista il passo è breve.
Corriere della Sera 4.3.12
Gli spiazzati (i cattolici anche di più)
Il progetto cattolico sbiadisce nella stagione del governo tecnico
di Giuseppe De Rita
L'ampia ribalta mediatica riservata ai primi cento giorni dell'attuale Governo
è stata accompagnata da una parallela distrazione sul cono d'ombra in cui sono relegate ambizioni di medio-lungo periodo.
In effetti son tanti coloro che vivono un imbarazzato spiazzamento di potere attuale e di prospettive future.
A parte le più che conosciute difficoltà dei partiti, gli «spiazzati» coprono un largo campo.
Penso ai cinque o sei aspiranti al Quirinale, obiettivo ormai perseguibile solo se vi rinuncia Monti; penso ai leader politici che, obbligati al presente, non riescono ad esprimere quelle istanze politiche di tempo lungo che sole legittimano la leadership; penso a quei protagonisti dell'associazionismo categoriale ridotti al silenzio da un governo che sa più di loro fare «rappresentazione» (magari al di là della rappresentanza) degli interessi in giuoco; e penso soprattutto al mondo cattolico, senza dubbio oggi in seria difficoltà.
Basta a tal proposito ricordare che solo ad ottobre un po' tutti (giornalisti, politici, cardinali, leader dell'associazionismo, ecc.) ritenevano alle porte una ricomposizione forte della presenza pubblica dei cattolici e probabilmente la nascita di un nuovo soggetto (forse un partito) su cui incardinare tale presenza. A distanza di soli quattro mesi tale prospettiva è scomparsa dall'ordine del giorno e i bollettini quotidiani su quel quadrante ci parlano di cose più terra-terra: dalle tenebrose vicende dei «corvi» vaticani alla patetica vicenda della infrazione della concorrenza alberghiera da parte di alcune monachelle romane. Una caduta verticale di ruolo per un mondo che, pur avendo grande vitalità interna, è poi incapace di metterla in campo nella polemica politica e mediatica.
Non è solo un momento congiunturale, visto che il rapporto del mondo cattolico con la logica culturale e politica del «governo tecnico» si sta dimostrando difficile e complicato. Non piace infatti a tale mondo lo spostamento verso l'alto di un potere di indirizzo e di governo che sacrifica gli spazi dei soggetti di base (individuali e familiari) e il ruolo dei soggetti intermedi: sono i primi infatti che soffrono o rischiano di più (per il prezzo dei carburanti, per l'imposta sulla case, per il rinvio della pensione, ecc.); mentre sui secondi incombe una azione di governo mirata su interventi generalizzati e automatici che mettono in secondo piano l'influenza dei soggetti collettivi, dalle grandi confederazioni sindacali e padronali agli ordini professionali, all'associazionismo di terzo settore.
In altre parole due cardini del pensiero sociale cattolico sono messi in discussione. E con un sovrappiù di esplicito giudizio negativo sulla storica indulgenza della cultura cattolica verso l'egoismo individuale, il familismo amorale, il particolarismo categoriale. Si è addirittura fatta strada l'idea che occorra rompere tale indulgenza e rieducare gli italiani alle logiche di produttività e di mercato necessarie nelle grandi sfide globali, e funzionali al rigore dei comportamenti che ci detta l'Europa. I cattolici sanno però bene, per esperienza diretta, che sotto ogni tentazione «pedagogica» si annidano sempre una tentazione alla verticalizzazione del potere e una strisciante tendenza a una stagione di neo-statalismo: gli individui gettati sul mercato cercano riparo alla loro precarietà in una responsabilità pubblica; il che produce una crescita degli strumenti di intermediazione statale; si rischia con ciò un aumento di spesa, cui corrisponde un aumento di imposizione fiscale senza un corrispettivo aumento dei servizi alla collettività; ed in più, per necessità, tutto viene deciso a colpi di decreti, di authority, di concentrazione finanziaria, di potere romano (magari vincolato se non eterodiretto da vincoli europei). In una direzione che sbilancerebbe il sistema sempre più verso l'alto.
Una società vive di equilibrio fra soggetti individuali, corpi collettivi intermedi, responsabilità statali, dinamica internazionale. I cattolici italiani sono sempre stati convinti di questa «complessa verità» e vedono quindi con sospetto tutte le politiche che turbano questo equilibrio. Sarebbe bello se potessero riprendere un ruolo dialettico nella gestione sociopolitica di questo delicato momento della società, evitando la condanna a doversi difendere in polemiche terra-terra.
Corriere della Sera 4.3.12
«No al lavoro domenicale». Sindacati alleati con la Chiesa
di G. Ca.
ROMA — «La domenica non ha prezzo» è lo slogan di chi vorrebbe che, almeno nel giorno di festa, negozi e centri commerciali restassero chiusi. Contro lo shopping 7 giorni su 7 — orario continuato — si celebra oggi la Giornata europea per le domeniche libere dal lavoro» ideata dalla European Sunday Alliance con manifestazioni, oltre che in Italia, in Austria, Belgio, Svizzera, Francia, Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Germania, Polonia. Una battaglia che ottiene il pieno sostegno della Chiesa: ieri Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, pubblicava un editoriale per spiegare che «tutto in fondo oggi si può vendere e comprare, ma la domenica, che è la nostra libertà insieme personale e collettiva, non ha prezzo».
Secondo i promotori — tra i circa ottanta organismi che aderiscono all'alleanza ci sono sindacati, associazioni civili e religiose — «in questi tempi di crisi la domenica libera dal lavoro è la dimostrazione chiara e visibile che le nostre società non dipendono solamente dal lavoro e dall'economia». La Filcams Cgil (che con Cisl, Uil e Confesercenti partecipa all'iniziativa) ribadisce che la totale liberalizzazione di orari e aperture domenicali e festive nel commercio, prevista dal decreto «salva Italia» del governo Monti «non crea nuovi posti di lavoro ma esaurisce chi già c'è con turni pesanti e richieste eccessive di flessibilità».
A Roma, dalle 9.30 alle 12.30, presidio davanti al centro commerciale Cinecittà 2 a cui parteciperà il segretario Susanna Camusso. A cittadini e consumatori verranno offerti caffè e cornetti caldi in cambio della firma alla petizione «Liberi dalle liberalizzazioni». A Milano, dalle 14.30 alle 17.30, festa con giocolieri, clown e musicisti in largo Cairoli. A Napoli artisti di strada in via Scarlatti. A Bologna presidio e intrattenimento fuori dallo stadio.
La Stampa 4.3.12
Italia - India il braccio di ferro
Marò, carcere sempre più vicino De Mistura media
La stampa locale: “L’esame dei proiettili li inchioda” Giallo sulla scatola nera della nave, cancellati i dati
di Massimo Numa
L’Italia è fortemente preoccupata che si possa essere verificata una eccezione a principi fondamentali del diritto sulla sovranità nazionale delle navi in alto mare Sono stato con i nostri militari Sono sereni, determinati e in buone condizioni. Certo non possono andare dove vogliono ma direi che è una situazione dignitosa Giulio Terzi ministro degli Esteri della repubblica italiana Staffan de Mistura sottosegretario al ministero degli Esteri
Doveva essere un momento di riconciliazione, invece è saltato tutto dopo un intervento diretto da parte della polizia indiana, dettato da misteriose «ragioni di sicurezza»: niente messa, in programma stamane nella chiesa di Kollam nel cuore del quartiere dei pescatori per il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura. Alle sette il capo della delegazione italiana avrebbe dovuto essere in chiesa, poi in programma c’era un colloquio con il vescovo Stanley Roman e i familiari di uno dei pescatori uccisi nella sparatoria anti-pirati del 15 febbraio scorso, al largo delle costa di Kollam. Ma la polizia di Kollam ha sostenuto che sarebbe avvenuta una manifestazione di protesta contro gli italiani, proprio sul sagrato della chiesa e allora tutto è stato annullato, anche se i contatti con le famiglie proseguiranno ancora. L’agenzia indiana Pti sostiene che l’atmosfera è «carica di tensione» e che i familiari delle vittime si «sarebbero rifiutati di parlare con gli italiani». Nessun commento dal parte di De Mistura che domani sarà a Delhi per una serie di incontri con il governo indiano centrale. Domani scadono le ultime ore del fermo preventivo, prorogato per due volte e forse si apriranno le porte del carcere di Trivanduram per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, attualmente in stato di detenzione nel Police Club di Kollam. C’è un’unica flebile speranza, quella che vengano destinati a un carcere militare.
E cresce l’attesa per gli esiti delle perizie sui proiettili recuperati dai medici legali nei corpi dei pescatori uccisi. Ieri è iniziato a Trivandrum l’esame, alla presenza anche dei carabinieri dei Ros, che proseguirà ancora nelle prossime ore. Ma le indiscrezioni che filtrano da questa prima fase, secondo i media indiani strettamente collegati con gli inquirenti, sarebbero già da interpretare in senso negativo per la sorte dei fucilieri. Da giorni ripetono che una delle ogive avrebbe caratteristiche compatibili con le munizioni Nato. L’esame s’è iniziato «senza intoppi», spiega De Mistura dopo un’ennesima giornata estenuante. La base italiana ha lasciato il Trident di Kochi per un albergo di Kollam, sorvegliato da un complicato sistema di sicurezza, da parte della polizia ma anche da agenti in borghese, in un’atmosfera di grande tensione: jeep, forse dei servizi, davanti ai cancelli e i clienti diminuiti di colpo.
Ormai è un giallo internazionale sempre più intricato poiché esisterebbe anche un documento, redatto nel contesto dell’esame necroscopico, in cui vengono descritte le caratteristiche dell’ogiva e delle ferite provocate sulle vittime. Ebbene, le misurazioni effettuate (ma non da periti balistici) sembrerebbero appartenere invece a una munizione di un calibro leggermente più grosso. Il che sembrerebbe escludere le responsabilità da parte dei San Marco imbarcati sulla «Enrico Lexie», ora ancorata al largo delle coste di Kochi, a 10 miglia. Altro giallo riguarda la scatola nera della nave: secondo i media locali, i dati relativi alle ore in cui la Enrica Lexie si avvicinò al peschereccio indiano «sarebbero stati cancellati».
La Guardia Costiera indiana, subito dopo il fatto, aveva intimato al comandante della nave di rientrare immediatamente nel porto di Kochi. Anche con l’inganno, confermando la presenza di pirati in quel braccio di mare. E poi fu inviato un fax, alla società armatrice di Napoli in cui veniva ribadito l’ordine di riparare a Kochi. E proprio gli armatori avrebbero deciso di imporre al capitano di fare rotta verso il terminale petrolifero. Una decisione assai controversa, visto che il tragico episodio era avvenuto in acque internazionali e fuori dalla giurisdizione dello Stato del Kerala.
I media indiani si soffermano con insistenza sulla mancata visita di De Mistura alla famiglia del pescatore Valentine Jelastine a cui lo Stato del Kerala, per sostenerla in questo momento, ha deciso di donare una somma di denaro pari a 10 mila dollari. Ma specificando che «i familiari hanno rifiutato di incontrarsi con gli italiani», mentre quest’ultimi, per «timore delle reazioni popolari» avrebbe rinunciato a quella che era stata definita «una visita a sorpresa».
Il sottosegretario agli Esteri non ha voluto commentare l’episodio ma racconta invece della visita di ieri ai marò: «Li ho trovati decisi, fermi, pieni di coraggio e pronti a resistere. Sanno che stiamo facendo il possibile». Davanti al Police Club una folla di giornalisti di operatori tv e molti curiosi. Cancelli chiusi con le catene e mezzi militari davanti ai cancelli. Le divergenze tra India e Italia rischiano di diventare, con il trascorrere delle ore, insormontabili.
Corriere della Sera 4.3.12
Ma anche a Mosca sanno che qualcosa si è rotto
di Franco Venturini
Oggi in Russia si vota e Mosca vive con passione il suo catartico rovesciamento delle
parti. Sul capo del sicuro vincitore Vladimir Putin, nei caffè della Tverskaja pieni di giovani come nella folla indistinta della metropolitana, piove di tutto: ladro, incapace, dittatore, avanzo del passato. Il popolo dei putiniani invece in pubblico tace, e si prepara quasi segretamente alle manifestazioni oceaniche organizzate dall'alto.
In fondo è la solita storia, ma a ruoli invertiti: prima non era «in» criticare Putin, ora non è «in» mostrarsi suoi sostenitori.
Forse è proprio da questo capovolgimento di umori e di rispettabilità che viene il pericolo maggiore per lo Zar con i piedi d'argilla che sarà eletto oggi. Cosa è più uno Zar, infatti, quando chiunque può insolentirlo senza pagare dazio? La Tv addomesticata non basta, se in un Paese con cinquanta milioni di internauti la rete ospita le sfuriate di Andrej Navalny contro la corruzione dilagante, centinaia di manifesti libertari o quasi rivoluzionari, filmati di brogli, caricature e fotomontaggi di colui che dovrebbe essere l'uomo forte.
Certo, Mosca non è la Russia. E internet non è il popolo russo. Le presidenziali Putin le vincerebbe anche se fossero organizzate sul modello Westminster, perché sono ancora tante le memorie che può rinverdire nella massa degli elettori: il ristabilimento della dignità della Russia dopo i disastri del secondo Eltsin, otto anni di continuo miglioramento dei livelli di vita, la nascita proprio di quella classe media mai esistita nell'URSS e che ora reclama a gran voce il suo allontanamento.
Ma se un simile curriculum spiega la vittoria elettorale, verosimilmente al primo turno, non è detto che l'albo dei ricordi regga a qual che verrà da domani. «Dopo» è la parola magica che alimenta le speranze dei contestatari come le paure del potere. Dopo, perché non è sicuro che le elezioni, al di là delle accuse di broglio scontate e talvolta strumentali, riescano a sancire quella legittimità del potere di cui Vladimir Putin non può fare a meno. Non si allargherà piuttosto la protesta, non ci sarà il contagio dai grandi centri urbani a quelli minori e alle campagne, non si sveglierà il grande arcipelago della povertà oggi ancora passivo?
Sono parecchi a Mosca i politologi e i sociologi che vedono nell'attuale dinamica «l'inizio della fine di Putin». Che arrivano persino a ritenere improbabile il completamento dei suo mandato di sei anni. Ma in un tempo di passioni come questo una analisi più distaccata è nell'interesse dei russi, dell'Occidente e in particolare dell'Europa affamata di energia.
James Carville faceva dire a Bill Clinton «è l'economia, stupido!». Nella Russia odierna bisognerebbe almeno chiedersi: «è la democrazia, o l'economia?». La società russa è certamente cambiata negli ultimi quindici anni, sono nati gruppi di interesse che non hanno e vogliono avere una rappresentanza politica, è emersa una crescente insofferenza verso l'oligarchia putiniana, la corruzione, la censura informativa, la dipendenza dei giudici. La spinta democratica dunque esiste. Ma è lei, è la voglia di democrazia a spingere il vento che tira oggi sulla Moscova? No o comunque non da sola. Negli anni 2000-2007, quando Putin fece salire a razzo il reddito di alcuni gruppi sociali (i già ricchi e la nuova classe media, appunto), moltiplicò l'offerta di beni e servizi, aprì le porte ai capitali stranieri, nessuna rottura di un consenso quasi egemone venne a turbare il contratto sociale imposto dall'alto: io vi arricchisco, voi state fuori dalla politica. Non trovò riscontri, in quegli anni, la ben nota teoria secondo cui la crescita economica può avere un effetto rivoluzionario provocato dalle nuove aspettative. Ma con la crisi globale del 2008 la musica è cambiata. La Russia ha pagato più caro di tutti, il suo pil ha segnato l'anno seguente un clamoroso meno dieci per cento. Poi è venuta una parziale stabilizzazione, nel 2011 è tornata una crescita del quattro per cento (debole per la Russia), ma la psicologia collettiva aveva ormai recepito un messaggio divenuto ancor più forte con le ripercussioni delle difficoltà dell'euro: il grande balzo in avanti si è arenato, Putin non è più l'uomo del miracolo, chi è ricco rischia di perdere, chi appartiene alla classe media rischia di non diventare ricco o di retrocedere, chi è povero con qualche speranza rischia di dovervi rinunciare.
Questo è il vero serbatoio, immenso e destinato a crescere, della protesta anti-Putin. I suoi metodi sono andati bene nelle prime due presidenze. Poi con il fedelissimo Medvedev al Cremlino, e ancor più ora con il suo ritorno al vertice, Putin sembra a molti l'uomo sbagliato al momento sbagliato. Un uomo non in grado di rimettere l'economia sui binari di quella crescita impetuosa che è stata ormai assaporata, e alla quale tanti non intendono rinunciare.
Putin ha dalla sua, oggi e ancor più domani se dovesse esserci una guerra sul nucleare iraniano, le alte quotazioni del petrolio e del gas che riempiono i forzieri russi. Ma in realtà il dilemma del «dopo» non si riferisce tanto alle risorse disponibili quanto all'uomo Vladimir Putin. Se prevarrà il Putin che abbiamo conosciuto sin qui, l'ex colonnello del KGB deciso a controllare ogni ingranaggio della sua «democrazia gestita» e timoroso di colpire i suoi amici con una seria guerra alla corruzione, la vittoria elettorale gli servirà a poco e anche la durata del suo mandato risulterà a rischio. Se invece Putin sarà capace di trasformarsi in riformatore coraggioso nelle sfere già citate e di aprire così un nuovo tipo di dialogo con la società russa, l'attuale voglia di cambiamento finirà per accettare che sia lui ad amministrarla senza mettere a rischio il bene supremo della stabilità. L'Occidente, che alla stabilità russa è fortemente interessato, deve tifare per questa seconda ipotesi. Ma la ragione ci dice che non è la più probabile.
Repubblica 4.3.12
La Cina in soccorso dell´Europa compra bond Ue, dollaro addio
Pechino volta le spalle a Obama. "Vogliamo diversificare"
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La percentuale di valuta americana nelle riserve degli asiatici è scesa dal 65 al 54%
di Federico Rampini
NEW YORK - La Cina si sta "sganciando" in parte dal dollaro, e finalmente si avvera il sogno europeo di un "cavaliere bianco" in arrivo da Pechino? Gli ultimi dati sugli investimenti cinesi in titoli esteri - quelli che riguardano la gestione delle riserve ufficiali - contengono una novità importante. A dicembre il valore dei Treasury bond americani detenuti dalla Repubblica Popolare è sceso di 156 miliardi, attestandosi a 1.150 miliardi di dollari. La tendenza a una diversificazione nelle riserve ufficiali della banca centrale più ricca del mondo (3.200 miliardi di dollari in totale) dura ormai da qualche tempo.
Lo rivela un´analisi compiuta dallo stesso Dipartimento del Tesoro Usa. Anche se il totale dei bond americani detenuti dalla Cina continua ad aumentare, questo investimento rallenta mentre gli acqusiti in titoli di altre valute crescono molto più rapidamente. E così la percentuale dei dollari, nelle riserve cinesi, è scesa dal 65% nel 2010 al 54% a metà dell´anno scorso. E da allora il movimento di disimpegno dal dollaro ha continuato ad accentuarsi, come dimostra il dato di dicembre. Alcuni interpretano queste scelte come una pura questione di opportunismo: avendo da tempo un obiettivo di riequilibrio del proprio portafoglio (eccessivamente concentrato sui bond Usa), alle autorità di Pechino conviene accelerare questa diversificazione in una fase in cui il dollaro ha ritrovato forza e l´euro è relativamente debole.
La diversificazione sembra anche rispondere a un obiettivo politico. Più volte la Cina si è dichiarata disponibile a contribuire al salvataggio dell´eurozona. L´ultima presa di posizione in questo senso è stata quella del primo ministro Wen Jiabao a febbraio, quando in un intervento al summit Cina-Ue ha dichiarato che «l´Europa è una primaria destinazione degli investimenti cinesi, in un obiettivo di diversificazione delle nostre riserve valutarie». Gli europei erano rimasti un po´ delusi perché a questi proclami di buona volontà non era seguito un immediato e massiccio intervento della Cina come co-finanziatore del fondo salva-Stati detto Efsf. Klaus Regling, chief executive dell´Efsf, si era recato a Pechino nell´ottobre scorso per dei colloqui con i dirigenti del Safe, acronimo per la denominazione Inglese della State Administration of Foreign Exchange, il braccio operativo del governo responsabile per la gestione delle riserve valutarie. Quell´incontro aveva suscitato grandi speranze, poi "gelate" dalla prudenza dei cinesi che sembravano delegare ogni scelta a sedi multilaterali come il Fondo monetario.
In realtà la Cina è stata più generosa di quanto si creda: le sue sottoscrizioni in tre successive aste di bond emessi dall´Efsf hanno rappresentato dal 14% al 24% degli acquisti. Sia pure con il gradualismo e la cautela tipica del processo decisionale di Pechino, l´appoggio all´eurozona si sta concretizzando, e non solo con l´acquisto di attivi industriali o di infrastrutture logistiche ma anche nelle aste dei bond. Non stupisce che sia così: l´Unione europea è un mercato di sbocco leggermente più importante degli stessi Stati Uniti per il made in China, e Pechino non ha nulla da guadagnare da un peggioramento della recessione europea. La diversificazione cinese non sembra però incidere sulla fiducia globale verso il dollaro. Il Wall Street Journal commenta questi dati con il titolo "La Cina si allontana dai dollari, e non è la fine del mondo". Una spiegazione sta nel fatto che la Repubblica Popolare sta anche ridimensionando i suoi attivi commerciali: dal 10% del Pil nel 2007 al 2,7% nel 2011. Un´altra spiegazione della buona salute del dollaro è nel fatto che i mercati ora guardano soprattutto ai differenziali di crescita tra Usa e Ue.
Corriere della Sera 4.3.12
La studentessa, l'insulto sessuale e la telefonata di Obama
di Massimo Gaggi
NEW YORK — «Sgualdrina!»: l'insulto nei confronti di una studentessa universitaria rea di aver criticato le assicurazioni sanitarie che non includono i sistemi di contraccezione tra le prestazioni fornite gratuitamente agli assistiti lanciata da Rush Limbaugh, il conduttore radiofonico di estrema destra più sboccato e criticato d'America, sta incendiando il dibattito politico americano alla vigilia del «Supermartedì» nel quale dieci Stati Usa voteranno per la scelta del candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Una campagna elettorale in gran parte centrata sull'economia a causa della lunga recessione e della crisi occupazionale, da qualche tempo sta lasciando spazio anche ai temi etico-religiosi, soprattutto per le sortite di Rick Santorum: un esponente della destra cristiana che in questi giorni sta spostando sempre più la sua campagna verso la contraccezione, la formazione scolastica, la separazione Stato-Chiesa. Argomenti sui quali il suo integralismo cresce giorno dopo giorno. Tanto da far temere allo stesso partito repubblicano di perdere l'appoggio di molte donne e di regalare a Barack Obama i centristi moderati.
Timore che si è rafforzato ieri quando il presidente ha deciso di scendere in campo col massimo della visibilità possibile telefonando la sua solidarietà a Sandra Fluke, la studentessa della Georgetown University di Washington insultata da Limbaugh: l'ha, infatti, chiamata proprio mentre lei stava dando una serie di interviste televisive. Una lunga conversazione telefonica della quale il portavoce di Obama, Jay Carney, ha voluto dare ampio conto durante la quotidiana conferenza stampa alla Casa Bianca.
Quello della contraccezione è da settimane un tema molto caldo e lo stesso presidente, alcuni giorni fa, era stato costretto a una correzione di rotta sull'obiezione di coscienza delle organizzazioni cattoliche, dopo che il governo aveva inizialmente appoggiato una norma in base alla quale tutti i piani sanitari dovevano obbligatoriamente comprendere strumenti di controllo delle nascite.
Scendere di nuovo in campo su questo tema poteva essere politicamente rischioso: il presidente si espone all'accusa della destra di essere il paladino del «preservativo di Stato». Ma i democratici sono convinti che l'offensiva dei conservatori repubblicani sulla contraccezione, quasi sempre condotta da uomini, abbia ormai le caratteristiche di una sorta di «guerra alle donne». O che, comunque, possa essere presentata agli americani come tale. Così Sandra, una ragazza che è andata a spiegare davanti a un «panel» congressuale di avere problemi economici perché la sua mutua non le passa gli anticoncezionali, è diventata il simbolo di questa battaglia.
La Fluke, terzo anni di studi in giurisprudenza, ha, infatti, scelto la Georgetown, l'università dei gesuiti che ha sede a Washington e che nei giorni scorsi si era unita alle proteste delle altre organizzazioni cattoliche quando sembrava che il governo volesse inserire obbligatoriamente gli anticoncezionali in tutte le polizze sanitarie. Esclusa da un'audizione formale del Congresso, che sta discutendo di controllo delle nascite, la Fluke, che all'università è una donna politicamente molto impegnata, è stata invitata dai democratici a parlare davanti a un «panel» informale. Qui si è lamentata: «Spendo mille dollari l'anno di contraccettivi che la mutua dell'università non mi passa».
«Bagascia, quanto sesso fai per spendere tutti quei soldi. Fai vergognare i tuoi genitori», l'ha insultata il giorno dopo dai suoi microfoni Rush Limbaugh. Mentre Obama chiamava per confortarla e dirle che i suoi genitori devono, invece, essere orgogliosi di lei, il conduttore è stato criticato anche dai repubblicani: il capo della maggioranza conservatrice alla Camera, John Boehner, ha definito «inappropriato» l'attacco di Limbaugh. E alcuni inserzionisti della sua trasmissione hanno deciso di cancellare i loro contratti pubblicitari.
Limbaugh non ha più dato della prostituta alla studentessa, ma l'ha attaccata ancora, sostenendo che, se fosse nei panni dei genitori, si andrebbe a nascondere. Ambigua, come spesso accade, la reazione di Mitt Romney: «Io non avrei usato quel tipo di linguaggio».
Corriere della Sera 4.3.12
L'eterna paura, da Atteone ai lupi di Freud
di Silvia Vegetti Finzi
Molte e varie sono le notizie funeste che in questo periodo turbano l'opinione pubblica ma due avvenimenti si distaccano dallo scenario generale. Nel giro di pochi giorni due uomini, senza alcun motivo, sono stati sbranati da un branco di cani randagi, non in luoghi inospitali e selvaggi, ma ai margini di civili periferie urbane. L'imprevedibilità rende questi avvenimenti particolarmente minacciosi e inquietanti, quasi un presagio della catastrofe economica incombente, del malessere diffuso, dell'aggressività che, dilagando, richiama il famoso aforisma di Hobbes: homo homini lupus. Questa risonanza va ben al di là delle considerazioni razionali e coscienti perché la paura di essere sbranati dai cani, o dai lupi che ne rappresentano la natura inaddomesticata, è antica come il mondo. La ritroviamo nel mito di Atteone, il dio allevato dal centauro Chirone nell'arte della caccia, che sarà tramutato da cacciatore in preda. Reo di aver scorto, inavvertitamente, le divine nudità di Diana, il giovane viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. La scena è drammaticamente rappresentata nel gruppo marmoreo che adorna il parco della Reggia di Caserta (nella foto). E, con suggestioni alchemiche, nei dipinti del giovane Perugino che decorano una misteriosa saletta della Rocca di Fontanellato. Giordano Bruno, in «Degli eroici furori», scorge invece nella metamorfosi di Atteone un progresso dell'umanità: da una conoscenza sensuale, cieca e fantastica a un sapere razionale, prossimo alla bellezza e alla sapienza divine. Ma la paura del lupo, che non ci ha mai abbandonato, si ripete costantemente nella prima favola che si racconta ai bambini, quella di Cappuccetto Rosso, dove la piccina e la nonna vengono sì sbranate dal lupo, ma per essere prontamente salvate dal cacciatore, che fa giustizia della mala bestia. Queste figure dell'immaginario collettivo si ritrovano anche nell'inconscio individuale: nei giochi, nelle fantasie, nei sogni. Freud, analizzando a più riprese i sogni del cosiddetto «Uomo dei lupi», percorre uno dei sentieri più ricchi e complessi della sua ricerca. Una interpretazione che si rivela interminabile, anche per il perenne rinnovarsi delle nostre angosce.
Corriere della Sera 4.3.12
Florenskij, da Platone alla Trinità
di Armando Torno
Pavel A. Florenskij (1882-1937) si cominciò a conoscere in Italia allorché Alfredo Cattabiani, direttore della Rusconi, fece tradurre nel 1974 La colonna e il fondamento della verità, l'opera più fascinosa del pensatore russo. Da allora le versioni si sono moltiplicate e la figura di Florenskij — teologo oltre che filosofo, esperto di scienza e tecnica oltre che di iconologia — è diventata nota. In questi giorni ritorna Il significato dell'idealismo (Se, pp. 175, 20) nella versione riveduta di Rossella Zugan, con una postfazione di Natalino Valentini (prima edizione italiana, Rusconi 1999). Pagine che contengono le riflessioni che Florenskij scrisse per il platonismo o il problema degli universali; tuttavia in esse le analisi toccano i temi dell'arte, della teologia e del misticismo. Particolarmente attuali sono le parti che trattano la «dissoluzione della personalità in Picasso» o quelle dedicate a «l'idea, il volto, lo sguardo». Ovviamente il punto di partenza è Platone. Quello di arrivo, invece, sono le «prefigurazioni della Trinità».
l’Unità 4.3.12
Storia e antistoria
Il Gramsci di tutti
di Bruno Bongiovanni
Ètornato Gramsci. È tornato in primo luogo grazie all’edizione nazionale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Fantastico è il primo volume dell’Epistolario (2009). Si va dal 1906 al 1922. Per quel che riguarda il periodo che va dalla fondazione del PcdI (21 gennaio 1921) sino alla partenza di Antonio, con Graziadei e Bordiga, per Mosca (arrivano il 2 giugno 1922), non si ha nessuna lettera. Poi vi sono le lettere, di enorme interesse, della seconda metà del 1922. Sappiamo, ed è positivo, che i Gramsci sono stati tanti. Quello del 1914, poi della rivoluzione leninista contro Il Capitale di Marx, dei consigli operai, del partito comunista bordighiano, della bolscevizzazione, della Costituente, della lettera di Grieco, della lotta contro la strategia del socialfascismo, dei Quaderni e dell’ultimo periodo in cui, fuori dal carcere, anche se non abbiamo fonti, è respinto sicurissimamente lo stalinismo. Eccellente è poi ora il volume di Rapone Cinque anni che paiono cinque secoli (2011) sul 1914-1919. Ed inutile è polemizzare con Veneziani o con Biocca, già noto, quest’ultimo, per le false denunce contro Silone. Li si lasci chiacchierare. Non li si ricorderà. Si presti attenzione invece a I due carceri di Gramsci (2012) di Lo Piparo, che, su questo giornale, ha pubblicato un intervento elegante. E non importa se crollerà il dogma della continuità tra Gramsci e Togliatti. E se apprenderemo con certezza che, all’uscita dal carcere (1934), per Gramsci l’Urss non rappresentava più il socialismo.
Usciamo dalla gran bonaccia delle Antille. Il Pci ha dato un enorme contributo all’antifascismo e alla nostra rinascita. Riconosciamone le differenze. E non rinunciamo, ventidue anni e mezzo dopo la Bolognina, al Gramsci antistalinista e libertario. È il Gramsci di tutti.
il Riformista Ragioni 4.3.12
Politica & cultura
Questione sociale questione democratica
Tra tanti temi, soprattutto uno ci affascina, quello del futuro del socialismo
Ma tra le polemiche che divampano nel Pd si avverte un certo qual odore di stantio
di Paolo Franchi
qui
il Riformista Ragioni 4.3.12
Ancora in cerca dell’ircocervo liberalsocialista
di Pasquale Terracciano
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il Riformista Ragioni 4.3.12
Di quali socialdemocrazie stiamo parlando?
di Dario Parrini
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il Riformista Ragioni 4.3.12
Wolfgang Amadeus compositore illuminista e pure riformatore
di Giuseppe Pennisi
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Il Tempo 4.3.12
La riflessione di Capelle Dumond con «Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger»
Se la metafisica è la ricerca di «non so cosa»
di Antonio Saccà
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Corriere della Sera 4.3.12
L’encefalo di volontari studiato nel corso della vita
e sezionato dopo la morte servirà ai ricercatori del futuro
L’italiano che sta costruendo la biblioteca digitale dei cervelli
La sfida è conservare l'integrità L'italiano che sta costruendo la biblioteca digitale dei cervelli
di Elena Meli
Bette ha compiuto 93 anni alla fine di ottobre. Ha avuto una vita bella e intensa; ora abita da sola, ha molti amici ed è un perfetto esempio di come il cervello possa invecchiare "con successo". Nel novembre del 2009 Bette ha letto un articolo sul quotidiano di San Diego, la città californiana dove vive: parlava del Brain Observatory dell'Università della California e della "biblioteca dei cervelli" che si stava realizzando. Bette non ci ha pensato due volte: ha chiamato subito Jacopo Annese, il direttore italiano del Brain Observatory, ed è diventata "donatrice" per uno dei progetti di ricerca più ambiziosi e appassionanti delle neuroscienze attuali. Bette da allora si racconta allo staff di Annese e si sottopone a test cognitivi e psicologici di vario genere, eseguendo periodicamente risonanze magnetiche che scandagliano l'interno della sua testa; quando "si laureerà" (così lei chiama con molto ottimismo il suo trapasso) lei sa che sarà lo stesso Annese a eseguire l'autopsia e a prelevare il suo cervello per sezionarlo e crearne una mappa digitale tridimensionale, in cui i ricercatori di tutto il mondo poi potranno "navigare" con una risoluzione che arriverà al dettaglio delle singole cellule. Una specie di Google Earth cerebrale possibile grazie alla scelta di Bette e tante altre persone che, come lei, vogliono lasciare qualcosa di sé alla scienza: sono un altro centinaio i donatori che hanno aderito al progetto e già una cinquantina i cervelli al sicuro nel Brain Observatory. L'obiettivo è arrivare come minimo a mille cervelli sia "normali" che affetti da diverse condizioni neurologiche.
F in qui sembra la storia di una classica banca di tessuti, per quanto futuristica nel suo essere digitale e dedicata a un organo speciale come il cervello (il più prezioso da vivi, ma ritenuto di fatto clinicamente "inservibile" post mortem perché non trapiantabile). Invece, il lavoro di Annese è molto di più: servirà a indagare le radici profonde del nostro essere umani e a capire che cosa ci rende quello che siamo, perché nell'archivio digitale saranno raccolte, oltre alle immagini morfologiche, le esperienze dei donatori. «Il cervello umano non può essere studiato come quello di un topo: dentro ognuno ci sono storia, vicende, emozioni uniche e irripetibili. E le esperienze, ormai lo sappiamo, cambiano la trama stessa del tessuto cerebrale — spiega Annese —. L'approccio delle neuroscienze attuali è materialistico; anche il nostro progetto nelle premesse cataloga in modo obiettivo "fettine" di cervello, ma noi andiamo oltre perché indaghiamo la funzione di quell'organo mentre è ancora vivo e ne raccogliamo la storia con accuratezza, anche per celebrare e ricordare la vita di chi ha donato o donerà la parte più importante di sé. In realtà non abbiamo ancora le basi per raccogliere i frutti di tutto questo lavoro. Fra dieci o cento anni invece i ricercatori avranno, si spera, le conoscenze teoriche adatte per sfruttare le informazioni contenute nel catalogo che stiamo costruendo ora: potranno allora confrontare i loro dati di imaging con le nostre mappe morfologiche dettagliate e trovare nuove correlazioni fra la forma e la funzione delle diverse zone cerebrali. Vogliamo mantenere il legame fra l'anatomia della persona e la sua psicologia, vogliamo che gli scienziati del futuro sappiano il lavoro che faceva il donatore o, ad esempio, se era mancino o destrimano, perché questo li aiuterà a interpretare immagini e dati del catalogo digitale». Un archivio che offra anche informazioni su chi ha vissuto con quel cervello potrà svelare che cosa ci rende simili come esseri umani e cosa invece è una caratteristica unica dell'individuo, indicare che cosa di preciso si "guasta" quando funzioni cognitive sono compromesse, come nel caso dell'Alzheimer, come sono orchestrate specifiche attività o caratteristiche emotive e chissà che altro. Starà alle prossime generazioni di ricercatori fare ipotesi e verificarle sulle mappe conservate da Annese con un lavoro certosino che, a sentirne parlare, lascia sgomenti. Di ogni cervello vengono tagliate migliaia di fettine che poi sono colorate, conservate e soprattutto trasformate in dati elettronici. «Per digitalizzare ogni vetrino occorrono almeno sei ore e otteniamo circa mezzo terabyte di dati, perché ogni pixel "copre" meno di mezzo micron di tessuto: se stampassimo le nostre immagini computerizzate a misura reale ciascuna sezione del cervello coprirebbe la facciata di un palazzo — chiarisce Annese —. Archiviare questa enorme mole di dati è perciò una sfida: dobbiamo farlo con attenzione perché un giorno, magari fra un secolo, alcuni vetrini potrebbero andare persi o danneggiarsi. Inoltre, vogliamo che la collezione sia fruibile dagli scienziati ma anche dal grande pubblico, per cui occorre studiare strategie adeguate, dal disegno delle pagine web al catalogo delle informazioni, per garantire un'immediata e semplice accessibilità ai dati. E dobbiamo pensare a come conservare e trasferire il materiale elettronico perché possa rimanere consultabile anche in futuro: se avessimo fatto questo lavoro dieci anni fa e avessimo salvato i dati su floppy disk, oggi l'archivio sarebbe inutilizzabile». «La neuroinformatica — prosegue Annese — sarà perciò per la nostra "biblioteca" sempre più fondamentale, perché ci aiuterà a offrire ai ricercatori un database utile come le classiche illustrazioni anatomiche, ma con una complessità infinitamente maggiore».
Di certo il progetto sta toccando il cuore di chi ci lavora: i donatori raccontano che il laboratorio è per loro una seconda casa, i ricercatori partecipano alla vita di chi ha aderito al progetto, si commuovono alle storie di chi è malato. E quando hanno davanti il cervello di Bishop, che prima di morire per un tumore disse che Annese gli aveva dato una ragione per vivere più a lungo, oppure di Kay, che ha sofferto per anni di Alzheimer, i ricercatori del Brain Observatory non hanno certo bisogno di esortazioni a lavorare con cura: sanno che hanno fra le mani quanto di più sacro c'è in ciascuno di noi.
Corriere della Sera 4.3.12
La collezione è iniziata con Henry Molaison, il più famoso «smemorato» del '900
Uno dei primi cervelli a entrare nelle teche del Brain Observatory è stato quello di Henry Molaison, il paziente più famoso della neurologia moderna. Molaison è morto a 82 anni a fine 2008 e, a partire dall'anno seguente, il suo cervello è stato sezionato in 2401 fettine; le sezioni sono state poi archiviate e organizzate nel 2011 in una mappa virtuale che sarà presto disponibile online grazie al lavoro dei programmatori del Brain Observatory e di Fabrizio Scippa, grafico italiano che sta ultimando il design del sito attraverso cui i ricercatori potranno navigare dentro la mente del più studiato "smemorato" del '900. La storia del "caso clinico HM", come era noto fino alla morte per tutelarne la privacy, è iniziata nel 1953 quando il ventitreenne Henry venne sottoposto a un intervento chirurgico sperimentale per risolvere una grave forma di epilessia. Il chirurgo rimosse da entrambi gli emisferi l'ippocampo: una piccola quantità di materia cerebrale che proprio grazie a Henry si scoprì essere fondamentale per i processi di memoria. Dopo l'operazione i ricordi di Henry rimasero congelati a quel giorno e non fu più in grado di immagazzinarne di nuovi. Dimenticava nel giro di pochi secondi fatti, luoghi, volti. Per i medici Henry, che collaborò per tutta la vita con i neurologi sottoponendosi a test di ogni genere, aveva un valore inestimabile perché era un caso "puro", che mai si sarebbe potuto verificare se non ci fosse stata quell'operazione. E come spesso accade nel campo della neuropsicologia, gli scienziati hanno capito qualcosa di più della memoria da una lesione che ha rimosso in modo specifico proprio questa funzione. Ora il cervello di Henry è pronto per essere studiato in tutti i suoi dettagli, anche se, come spiega Jacopo Annese: «Con l'età si sono formate molte lesioni, per cui credo che tanti dati che si sarebbero potuti raccogliere su di lui saranno in qualche modo "oscurati". Non mi aspetto una rivoluzione nelle neuroscienze della memoria dopo la pubblicazione della mappa cerebrale di HM. Il significato più forte di quel cervello, oggi, è essere stato "banco di prova" per mettere a punto nuove tecniche neuroanatomiche, di imaging e di conservazione dei dati per una biblioteca che si prospetta unica e fondamentale per la conoscenza della mente umana».
l’Unità 4.3.12
Pasolini
I 90 anni del poeta corsaro
Anche se non c’è più continua a vivere nei suoi «anatemi» che sono diventati il nostro presente con mercificazione della cultura razzismo opportunismo e ignoranza assurti a valori della vita
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo
Ècanuto e segaligno, aggraziato negli sguardi denudanti e per questo centellinati, intento a muovere con furia nevrotica gli arti affusolati, intricati, pungenti come rovi e duri come la quercia. Nascosto dietro un paio di ombreggianti occhiali da sole di celluloide nera, autoironica concessione al cliché del regista, dell’intellettuale santificato per ansia di disinnesco e relegato al ghetto sepolcrale dell’apparenza. È dura scorgere ciò che accade dietro quegli occhi artificiali dalle lenti ampie e nere di pece, dismessi solo per dormire o per leggere. Eppure Pasolini, prossimo al suo novantesimo compleanno, seppur stanco, depotenziato dalla fatica psichica profusa sulle pagine e ingobbito da quella fisica dissipata sul set, seppur seviziato nei nervi dalla propria ossessione auto-annichilente, è ancora il curculione dal pungiglione avvelenato che, per metà annidato in serra e per metà incalzato da furia insetticida, si nutre e prova a distruggere culture troppo sintetiche per essere trasfigurate in paradisi convincenti. Lampeggia idee. Protesta. Assomiglia al vecchio Hamm beckettiano di Finale di partita, che giunto alla fine della sua esistenza, un’esistenza fin dall’inizio votata alla sconfitta se correlata alla sua ambizione ancestrale, la liberazione dell’uomo, non può che sospendersi e perdersi fino all’eternità in una sorta di estraneazione fondata sulla ciclica e ineluttabile alternanza di mosse e contromosse, guerra spiroidale senza fine tra lui e il mondo esterno, divenuti archetipi. Il giocatore/individuo, ora santo ora demoniaco, in disperata competizione con avversari senza volto: i bari per eccellenza, il caos e «il potere». Vera e propria nemesi per l’outsider e palliativo per l’uomo, utile solo a rinviare ancora un po’ la fine, temuta e al tempo stesso desiderata. In questi anni, tra traduzioni e saggi critici, tra invettive e qualche annuncio apocalittico, Pasolini ha completato Petrolio, golem premiato, glorificato e al contempo demolito, com’è possibile fare in malafe-
de per ogni capolavoro inclassificabile, mastodontico per ambizione e urgenza e fallace per definizione. Ha girato l’opera definitiva su San Paolo, appuntandosi come una medaglia l’ennesima scomunica di una chiesa più che mai carnevalesca, facendo del guerriero di Tarso il primo traditore di Cristo e il primo mistificatore eretico del messaggio evangelico. Ha realizzato con Eduardo de Filippo e Franco Citti Porno-Teo-Kolossal, un film cosmogonico, eroicomico e grottesco, un’opera vagheggiata e organizzata tra mille ostacoli, voluta con prepotenza e imbellettata dal solito amore per il pastiche, in cui accade che una cometa, allegoria babilonese dell'ideologia, trascina dietro a sé un Re Magio interpretato dallo stesso Eduardo, un eroe puro che seguendo quella scia viaggia a lungo maturando esperienza dello scibile intero, del metafisico, del sensoriale e del mistico. L’opera di una vita, insomma. L’unica opera possibile dopo quell’incredibile profezia sulla furia mortuaria della modernità che è stata Salò e le 120 giornate di Sodoma, epigrafe sul potere anarchico dei giorni nostri, messa in evidenza funebre della promiscuità tra carnefici e vittime che s’immolano impotenti, ridotti a corpi-oggetto di sfruttamento, cronaca della perpetrazione fredda e alienante di vita e piacere come routine senza coinvolgimento, affresco dall’estetica cimiteriale tipica del mondo incancrenito dal capitale, che come il sadico non raggiunge mai il grado sublimato del piacere e non gode mai, nemmeno quando ha seviziato e ucciso l’oggetto del proprio godimento, che si tratti del corpo, dell’umanesimo o della natura.
A sorpresa, s’era ridotto all’eremitaggio Pasolini, negli anni 80, quelli in cui molti dei suoi anatemi hanno acquisito forma fenomenica: la vertiginosa mercificazione della cultura ad esempio, o il fascismo insito nel neocapitalismo edonista e consumista, «un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler». Durante gli anni di Drive In insomma. E ancor di più dopo la morte di Moravia nei 90, quelli dell’esplosione delle televisioni commerciali, colpo di grazia tecnologico agli ultimi afflati del mondo originale in cui, prima dell’odierna e placida vecchiaia, Pier Paolo aveva cercato accettazione.
PROFESSIONE BORGHESE
Lui, borghese per professione e paria rifiutato dalla stessa borghesia, immune per coscienza ipertrofica alla borghesia intesa come morbo svelato da una sintomatologia infallibile fatta di razzismo, opportunismo, utilitarismo e ignoranza assorti a valori della vita. Il mondo, quello che batteva, ormai altrettanto corrotto e che l’avrebbe di certo ucciso, se solo Pasolini, già allora ricco e ricattabile oltre che pieno di nemici, nella notte tra il primo e il due novembre si fosse presentato sulla spiaggia dell’Idroscalo con Pelosi e i tre milioni di lire necessari a recuperare le pizze di Salò, anziché ripensarci per miracolo, all’ultimo momento. Già allora, forse, per un uomo che l’amico Carmelo Bene chiamava violento e corruttore in quanto portatore vivente del dubbio e della crisi come ideologia, non c’era più niente da corrompere. E come testimonia il trattato pedagogico Gennariello, volutamente lasciato incompiuto, nemmeno più nulla da insegnare.
Guai a chiamarlo maestro, infatti. Perché mai come oggi, in procinto di compiere novant’anni, Pasolini, come se fosse destinato ad averne per sempre cinquantatré, predicherebbe deciso che i maestri non servono a niente, così come aveva predetto attraverso la voce stridula del corvo di Uccellacci e Uccellini. Vanno superati. E sono fatti, come lui ha sempre dimostrato, «solo per essere mangiati in salsa piccante».