l’Unità 27.3.12
Il premier a Seul: «Se il Paese non è pronto, non restiamo. Non tiro a campare come Andreotti»
Monti, la minaccia dall’Asia «Il governo potrebbe lasciare»
Il leader Pd ottiene il pieno sostegno alle proposte di modifica sul mercato del lavoro
«Paese pronto ma serve dialogo»
Sul lavoro Bersani compatta il Pd
Replica a Fornero: «Non è questione di cedere, ma di ragionare»
La Direzione del Pd si chiude con un voto unanime sulla necessità di modificare in Parlamento la riforma del lavoro varata dal governo. Bersani: «No a proposte estemporanee, trasmettiamo sicurezza e unità».
di Simone Collini
«Il Paese è prontissimo e il presidente Monti ha già visto come sia responsabile nell’affrontare la situazione, nel far fronte alla fase di emergenza. Ma per aiutarlo bisogna che ci sia un buon dialogo tra governo, Parlamento e forze politiche se non si vuole creare un distacco tra le sensibilità del Paese, il disagio che vive, e l’azione del governo». Pier Luigi Bersani viene a sapere della frase pronunciata dal presidente del Consiglio a Seoul (se l’Italia non si sente pronta possiamo non restare, è il senso) poco prima che prenda la parola per la replica finale alla Direzione Pd. Il leader dei Democratici le giudica parole «da non sopravvalutare»: «Gliel’ho sentito dire una ventina di volte, fa parte del ragionamento di una persona chiamata a risolvere dei problemi senza essersi candidata». Monti, dice Bersani, pone il tema di capire se ci sono le condizioni per andare avanti. «Io gli rispondo: ci sono le condizioni. Noi siamo lì per servire, basta lavorare con serietà, senza drammatizzare i problemi».
VOTO UNANIME
Per oltre sei ore il gruppo dirigente del Pd discute a porte chiuse del voto amministrativo di maggio, della necessità di cambiare la legge elettorale, ma soprattutto del sostegno al governo e della riforma del lavoro. Bersani apre i lavori sottolineando che il sostegno a Monti non è in discussione e che questo governo rimarrà in carica fino al 2013 (qui ha ringraziato Napolitano per il ruolo di «saldatura tra tecnica e politica» e qualcuno fa notare che non è scattato come di consueto l’applauso). Ma il leader del Pd sottolinea anche che in Parlamento bisognerà «colmare le lacune» sull’articolo 18 (la tesi è che si deve prevedere anche il reintegro e non solo l’indennizzo monetario per i lavoratori licenziati per motivi economici senza giusta causa). Una posizione ribadita negli interventi che seguono, e alla fine la relazione del segretario viene votata e approvata all’unanimità dai membri della Direzione.
IN PARLAMENTO CONFRONTO VERO
Bersani già guarda al confronto parlamentare sulla riforma del lavoro, che vuole «vero e serio». E il passaggio di ieri è servito a mostrare che il Pd arriverà a quell’appuntamento compatto sulla necessità di portare in porto le nuove norme ma al tempo stesso determinato a modificare il testo uscito dal Consiglio dei ministri. Presto si riunirà «un presidio sul lavoro», viene spiegato, cioè un tavolo composto da esponenti di tutte le anime del partito e dei gruppi parlamentari che coinvolgerà nella discussione le parti sociali. «Nelle prossime settimane non servono proposte estemporanee è il messaggio di Bersani non prestiamo il fianco a chi vuole un Pd partito delle 100 voci». Gli emendamenti che si stanno studiando hanno come obiettivo di garantire la possibilità del reintegro anche per i licenziamenti economici senza giusta causa (il testo del governo la prevede solo
per licenziamenti discriminatori e disciplinari, per gli altri ci sarebbe solo l’indennizzo). Il modello tedesco, insomma, che «garantisce equilibrio tra diritti e coesione sociale». Per Bersani, soprattutto in una fase di crisi come questa, «bisogna avere orecchio a un’insicurezza diffusa prodotta da una recessione molto seria»: «Il governo deve andare avanti ma bisogna trovare una soluzione per colmare un po’ l’ansia dei cittadini, lavorando con serenità e collaborando, accettando buoni consigli».
È con questo spirito che il Pd vuole andare al confronto in Parlamento, sapendo che il Pdl ha tutto l’interesse ad alzare i toni ed evocare la crisi di governo, di fronte all’aumentare dei consensi attorno al «modello tedesco» e alla consapevolezza che poi la discussione si aprirà anche sulla Rai, le frequenze televisive e le norme anticorruzione.
Così si spiegano le uscite di Angelino Alfano («o una buona riforma o nessuna riforma») e per questo Bersani raccomanda ai suoi di mantenere bassi i toni, di caratterizzare il Pd come una forza che «trasmette sicurezza e unità».
Meno, i vertici del Pd, si spiegano l’uscita del ministro del Lavoro Elsa Fornero, quell’annunciare che il governo non accetterà che il disegno di legge venga snaturato. «Non so cosa intenda il ministro Fornero quando dice “non cederemo”», scuote la testa Bersani. «Qui non è questione di cedere ma di ragionare, di capire come modificando questa norma si possa garantire un esito che assomigli alle migliori esperienze europee». Il leader del Pd dice di non credere che quando si aprirà la discussione in Parlamento il tema sarà «messo giù così, chi cede e chi vince»: «Noi non siamo interessati a vincere, siamo interessati a trovare una soluzione giusta. Una soluzione di riforma che abbia il sostegno di una coesione forte è un tema dirimente per la prospettiva di questo Paese. Bisogna riformare con il consenso. E questo è l’elemento che può dare fiducia sia in campo internazionale che nel campo interno».
l’Unità 27.3.12
La relazione del segretario sostenuta da tutte le componenti
Il partito ritrova l’unità sul lavoro e non solo. Restano le sfumature diverse, ma tutti i dirigenti approvano la relazione del segretario. «L’articolo 18 va cambiato»
D’Alema: «Fallito l’agguato al Pd».
di Maria Zegarelli
Walter Veltroni condivide la relazione di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema la considera «molto positiva» e, soprattutto, è «molto d’accordo con l’intervento che ha fatto Walter», Areadem si dice compatta sulla linea del segretario, finanche Marco Follini condivide l’impostazione. Non fosse per quelle sfumature diverse, che pur ci sono, sull’articolo 18 e la posizione chiaramente diversa della presidente Rosy Bindi sulla legge elettorale, verrebbe davvero da pensare, come dice il presidente del Copasir, che sù, nella stanza delle riunioni al Nazareno, stiano «scrivendo il libro Cuore».
«Ci si aspettava a questo punto dice D’Alema di introdurre un cuneo tra noi e il governo, isolare la Cgil e spaccare il Pd. Non ci sono riusciti, come Willy il coyote». Bersani con la sua relazione è riuscito a trovare sostanzialmente d’accordo le diverse anime del suo partito. Tutto zucchero e miele? Calma. Sandro Gozi cinguetta: «Sembra Ballarò: parlano Bersani, Letta, Bindi, Finocchiaro, D’Alema. Nulla: questi da soli non molleranno mai». Pippo Civati mentre lascia i lavori commenta: «Tranquilli, il nostro appoggio a Monti non è discussione. Anche perché è il governo Monti a tenere unito il Pd». David Sassoli e Debora Serracchiani, osservano: «Molti dirigenti che prima la pensavano diversamente oggi sono sulle nostre posizioni». Cioè quelle della maggioranza vicina al segretario e al capogrup-
po Pd alla Camera Dario Franceschini. Di diverso avviso Valter Verini, che gira la prospettiva. Raccontano che, alla fine dei lavori, si sia avvicinato a D’Alema (che aveva appena finito di dire che il Pd in vista delle elezioni «deve candidare se stesso a governare l’Italia», anziché appendere la propria proposta di governo all’alleanza) per dirgli: «Complimenti, hai declinato la vocazione maggioritaria».
È lo stesso Veltroni a sottolineare il fatto che il Pd «è un partito che discute», ma alla fine, nei passaggi cruciali, come i voti in Parlamenti, è compatto. Tuttavia, sarebbe meglio «evitare gli attacchi personali» ancora bruciano quelle “accuse” di essere di destra lanciate da Vendola mentre oggi tutto il partito sta qui a discutere di come modificare l’articolo 18e per questo torna a dire che bisognerebbe mandare in soffitta «le correnti», tanto che sottolinea che il suo è un intervento «a titolo personale», certo non a nome di Modem che per altro non esiste più. L’ex segretario rilancia: «Sento il bisogno che si lavori insieme». «Viviamo aggiunge un passaggio inedito carico di rischi in cui si uniscono una gravissima crisi economica e una crisi della capacità della democrazia di decidere e dei partiti. Davanti a questa situazione è necessario affrontare i problemi non con la testa rivolta all’indietro ma qualificando il nostro riformismo come quello di un partito che vuole cambiare». Il Pd, come forza «di innovazione», che deve dare la spinta per fare ciò che ancora non è stato fatto sulle questioni politico istituzionali, per le quali «si registrano ritardi inaccettabili» e in nome delle quali «il Pd deve assumere un ruolo forte di proposta e di stimolo».
D’Alema è convinto che da questa direzione il partito possa uscirne più forte «sul piano della saldezza» e dell’affidabilità a partire proprio dalla riforma del lavoro, perché «la richiesta di cambiarla viene da tutti i sindacati, compresa la Ugl, dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani». Ribadisce come Piero Fassino, Enrico Letta, Dario Franceschini -, il sostegno al governo e sottolinea l’impegno per «preparare una prospettiva politica convincente, una svolta in senso progressista, non rispetto al governo Monti, ma rispetto a un decennio conservatore in Italia e in Europa».
LA SFIDA IN PARLAMENTO
A chiedere una corsia preferenziale per il ddl lavoro è Franceschini: «Abbiamo voluto il governo Monti e gli abbiamo consegnato una missione precisa, che è esattamente quella che sta facendo: affrontare l’emergenza e fare uscire il Paese dalla crisi in cui è precipitato a causa del fallimento del governo Berlusconi. Sia ben chiaro: il Pd non sta subendo il governo Monti né lo sta vivendo come un governo lontano o, peggio, come se fosse un governo di destra». Paolo Gentiloni avverte: «Sulla riforma del lavoro è in gioco il profilo stesso del Pd». Condivide le proposte della relazione del segretario, ma aggiunge, «le richieste di correzione sull’art. 18 non possono oscurare il nostro giudizio positivo sull’insieme della riforma Fornero». C’è unità sulla necessità di cambiare l’articolo della discordia, ma c’è chi spinge (da Bersani, a Finocchiaro, Franceschini, Passoni) per una modifica che viri sul reintegro anche per motivi economici, e chi resta affezionato all’ipotesi Ichino con il superamento dell’articolo 18 per i nuovi contratti. «Sul lavoro abbassiamo i toni tutti invita Letta e prepariamoci a trovare buone soluzioni in Parlamento», valorizzando quanto di buono c’è nel testo, quanto al governo «Monti è tutt’altro che un conservatore come troppi anche a casa nostra lo dipingono». Il sindaco di Torino, Piero Fassino, ricorda: «L’emergenza per cui è nato il Governo Monti non è affatto finita e il Pd ha la maggiore responsabilità nel sostenere il proseguimento dell’azione del Governo». Michele Meta è certo: «Il Pd saprà connettersi con un diffuso sentimento popolare». Che i sondaggi raccontano fedelmente: non si fidano di questa riforma.
La Stampa 27.3.12
Bersani frena i radical “Vogliamo mandare in porto la riforma”
Ma dagli interventi di Fassina o Ichino e Gentiloni si capisce che le ricette non sono univoche
Il segretario celebra la cerimonia unitaria della direzione. Ma manca l’applauso rituale al presidente Napolitano
di Carlo Bertini
Il Pd Il segretario Pierluigi Bersani ieri ha ricompattato il partito su una linea riformista Ma molte differenze resistono
Sarà perché in campagna elettorale non si devono mai accentuare le divisioni, sarà per il riflesso condizionato a compattarsi sempre e comunque per non dare soddisfazione agli avversari: fatto sta che Pierluigi Bersani riesce nell’impresa di riportare il Pd con la barra al centro accontentando in un sol colpo tutte le anime del suo partito. Rinnovando un pieno sostegno al governo Monti fino al 2013 e chiedendo di rivedere «alcune lacune» della riforma del lavoro «che vogliamo mandare in porto», il segretario del Pd incassa il voto unanime alla sua relazione della Direzione, che si chiude senza strappi dopo una settimana di massima fibrillazione.
A dare un’idea della tensione che scuote tutti i rami del Pd è però anche il mancato applauso rituale al Capo dello Stato quando Bersani lo ringrazia per «il suo ruolo di saldatura tra tecnica e politica». Anche se dietro le quinte i «montiani» più oltranzisti fanno notare che è evidente come «oggi siamo molto più vicini a Napolitano che alla Camusso... ». Ma al di là di quella che anche i detrattori del segretario benedicono come «una brillante operazione politica», le diverse impostazioni tra laburisti e liberal vengono a galla comunque: Bersani vuole che il Pd non si mostri come «il partito delle cento voci» e pensa ad una task force per seguire la trattativa; ma dagli interventi di Fassina e Damiano o di Ichino e Gentiloni si capisce che le ricette su come cambiare la norma sui licenziamenti non siano proprio univoche.
In attesa che la riforma approdi in Parlamento, visto che alcuni big già prevedono che ci vorrà più di un mese prima di entrare nel vivo della battaglia, tra festività pasquali e pausa per le amministrative, l’aspetto di merito può ancora restare sullo sfondo, mentre quello politico fa premio. Insomma in un passaggio delicatissimo «che fa tremare i polsi a tutti», per dirla con uno dei presenti, il Pd fa quadrato intorno al segretario che evita di trasmettere un’immagine barricadera e di mostrarsi appiattito sulla Cgil. Quando Massimo D’Alema prende la parola dopo aver dato un buffetto sulla spalla a Veltroni che aveva parlato prima di lui, tutti capiscono che piega avrebbe preso la riunione più delicata del vertice del Pd dall’insediamento del governo Monti fino ad oggi. Anche le manifestazioni di protesta evocate dalla Bindi nei giorni scorsi non infiammano il dibattito, solo Fioroni obietta che «è un errore dare fuoco alle polveri, il Pd deve migliorare la riforma in Parlamento».
«Sono molto d’accordo con l’intervento di Veltroni, ma non vorrei che si pensasse che stiamo scrivendo il libro Cuore», scherza D’Alema, sintetizzando con un’altra battuta uno dei sentimenti prevalenti nel partito: citando un celebre personaggio dei Looney Tunes, l’ex premier sferza chi sperava di usare «questo passaggio come un agguato per introdurre un cuneo tra il Pd e il governo, per spaccare i Democratici e isolare la Cgil. Non ci sono riusciti, facendo la fine di Willy il Coyote». Veltroni si dice d’accordo con Bersani sul fatto che la riforma del mercato del lavoro vada discussa e modificata, «lavorando in Parlamento per rendere più forte la capacità di stabilizzare i milioni di giovani ed evitando di sottoporre a ulteriori tensioni quelli con contratti già in essere che possono sentirsi esposti a rischi di instabilità». E l’ex leader cerca di marcare l’impronta riformista del Pd chiedendo di affrontare i problemi «non con la testa rivolta indietro».
La consapevolezza di tutti, a cominciare da Bersani, è che per raggiungere un risultato senza che nessuno ne esca sconfitto, bisogna arrivare ad una mediazione condivisibile dagli altri partiti che reggono la maggioranza di governo, senza pensare di ricorrere alla sponda della Lega bypassando il Pdl. Perché ciò significherebbe mettere a rischio la vita del governo. Per questo il segretario invita «ad abbassare i toni» e chiede «alle forze parlamentari di riflettere sui punti controversi». A cominciare da quello più spinoso, quello dell’articolo 18, «su cui non si può prescindere da un punto basilare: e cioè che l’allontanamento dal lavoro possa far sì che la giusta causa sia ovviata da un meccanismo di indennizzo». E per questo, «il modello tedesco garantisce equilibrio tra diritti e coesione sociale», taglia corto il segretario, forte dei rilievi mossi in questi giorni anche dalla Cei, nonché dagli altri sindacati come Cisl, Uil e Ugl, al meccanismo che nega il reintegro per i licenziamenti in cui i motivi economici non siano adeguatamente dimostrati.
Corriere della Sera 27.3.12
Bersani mediatore tra le anime del Pd
Isolati i «pasdaran»
Sì unanime alla relazione studiata con Letta
di M. T. M.
ROMA — «Il nostro appoggio al governo è fuori discussione, ma non possiamo perdere la connessione con il disagio dei cittadini»: in questa frase di Pier Luigi Bersani sono racchiuse tutte le difficoltà del Pd.
Il segretario si muove lungo un crinale accidentato e lo fa con abilità. Il leader deve tenere conto di tanti, troppi fattori. Innanzitutto della volontà del capo dello Stato che intende scongiurare qualsiasi crisi. Perciò Bersani rende onore a Napolitano, anche se il suo omaggio cade nel vuoto: dalla Direzione del Pd nessun applauso. E poi c'è la necessità di mediare tra le diverse anime del partito: Bersani ci prova e ci riesce alla grande. Nella relazione messa a punto prima della direzione con Enrico Letta il leader spunta le unghie ai «suoi» pasdaran, Stefano Fassina in testa, ma anche a chi tifa Monti sempre e comunque. E infatti non è un caso che nel suo intervento Pietro Ichino non accenni all'articolo 18.
La morale della Direzione la fa un redivivo Massimo D'Alema: «Non vorrei dare una rappresentazione da libro Cuore ma io fatico a trovare motivi di distinzione dalla relazione di Bersani e anche dall'intervento di Walter (Veltroni, ndr), di cui apprezzo lo spirito. Chi aveva costruito una trappola per mettere in difficoltà il governo, isolare la Cgil e spaccare il Pd somiglia un po' a Willy il coyote».
Già, dentro il Partito democratico si è fatta strada l'idea che una non meglio identificata Spectre ha messo nel mirino il Pd e a questo scopo tenta di farlo entrare in frizione con Monti. Bersani non è James Bond ma si difende bene e riesce a mettere tutti d'accordo. Veltroni interviene in Direzione e dà il suo «consenso» alla relazione del segretario, che, alla fine della riunione, viene votata all'unanimità, anche se l'ex segretario è assente. Latitanza non malevola: aveva avvisato subito che sarebbe andato via prima del tempo.
Parlano tutti in Direzione. Il segretario, poi Dario Franceschini, quindi Veltroni. Quando la parola passa a D'Alema, il presidente del Copasir non resiste alla battuta: «La sapiente regia della presidente Bindi ha costruito una scaletta di interventi ad uso delle agenzie». Ed effettivamente quel che va subito in onda è il film di un partito «unito» (per dirla alla Veltroni) che si prende la sua «autonomia» (per dirla alla Bersani) ma che non vuole alimentare venti di crisi. Tant'è vero che a Largo del Nazareno tutti sperano nei tempi lunghi del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro. Spiegano i bersaniani: «Per noi potrebbe anche essere un vantaggio, perché faremo la campagna elettorale delle amministrative agitando il problema dell'articolo 18».
Nella sala dove si respira armonia a tutti i costi solo Paolo Gentiloni, Nicola Latorre e Stefano Fassina rompono l'unanimismo. Il primo con un intervento di «destra» in cui chiede maggior coraggio al partito. Il secondo buttandosi a sinistra. Il terzo, ovvero sia il responsabile Economia sconfessato da Bersani, non recede nemmeno di un millimetro. Sa che il 60 per cento dell'elettorato sta con lui, sa che un italiano su tre di quelli che votano centrosinistra sta sviluppando una sindrome da disaffezione rispetto al governo: «Anche le intenzioni positive e condivisibili nella proposta del governo sono tradotte in soluzioni operative che non funzionano». Ma sono pochi sprazzi di vivacità in un dibattito uniforme in cui persino l'ultrà veltroniano Giorgio Tonini esordisce così: «Mi unisco al plauso per la relazione di Bersani». Addirittura il combattivo Fioroni dà ragione al segretario.
Solo sulla legge elettorale si nota qualche differenza. D'Alema difende la bozza Violante, il quale, a sua volta, difende se stesso. Bersani prende qualche centimetro di distanza e i due si inquietano, ma fanno finta di niente, mentre Rosy Bindi, che difende il maggioritario, esulta. Siccome sta male, in una riunione di partito, spargere melassa, ci pensa il tesoriere Antonio Misiani a prendersela con qualcuno. Con i radicali, in modo da non scontentare nessuna componente del Pd: «Noi diamo 600 mila euro l'anno ai radicali, che, nonostante le loro idee sul finanziamento pubblico, mostrano di essere molto affezionati a questa somma».
Repubblica 27.3.12
Tutti contro la Fornero, il Pd ritrova l’unità
Critiche in direzione: "Riforma da cambiare". Freddezza con Napolitano
D’Alema: "Uniti, ma non siamo il libro Cuore". Bindi: "Senza di noi, quel testo non passa"
di Giovanna Casadio
ROMA - Quasi da "libro Cuore". Massimo D´Alema fotografa con una battuta quello che accade al Pd, riunito in una direzione che dimentica di parlare di amministrative, preso com´è dall´offensiva sul mercato del lavoro. Questione da cui i Democratici si distraggono solo per mettere sul tappeto quell´altro tema cruciale che è la riforma elettorale e che segna divisioni nette nel partito. Ma contro la riforma Fornero tutto il Pd è unito sulla linea di Bersani: «Vogliamo la riforma ma ci sono lacune da correggere». Lo si farà in Parlamento. E lì, nel merito, il Pd avrà modo di divaricarsi sulle ricette (tra Ichino e Fassina), ma ieri no. Tanto che, annuncia il segretario, ci sarà «una task force unitaria, un tavolo con gruppi parlamentari e partito perché non dobbiamo avere 100 voci, stop alle uscite estemporanee». La soluzione condivisa sull´articolo 18 è il cosiddetto modello tedesco, ovvero la possibilità di risarcimento o reintegro decisa dal giudice per i licenziamenti individuali per motivi economici. Alla fine il voto sulla relazione di Bersani è unanime. Notizia diffusa in tempo reale su Twitter, perché - oltre a essere la prima direzione unitaria, è anche la prima seguita via tweet con foto postata: una birretta sul tavolo, che il segretario berrà a fine riunione.
Comincia con commenti sulla frase di Fornero riportata nel colloquio con Repubblica. Il ministro del Lavoro ha detto: «Non cederemo». Bersani non la cita nella relazione ma, in conferenza stampa post direzione, attacca e avverte: «Non so cosa intenda il ministro quando dice "non cederemo". Qui non è questione di cedere ma di ragionare, di capire come modificando questa norma si possa garantire un esito che assomiglia alle migliori esperienze europee». In Parlamento, aggiunge, «non si potrà mettere giù così il tema, chi vince e chi perde, noi non siamo interessati a vincere, siamo interessati a trovare una soluzione giusta».
Nei capannelli in direzione, si parla di Fornero. Il malumore è forte nei confronti del governo e del ministro, definita «talebana». «Chi ha posto veti è lei, la Fornero», afferma Nicola Latorre. I cattolico democratici ricordano che sarebbe stato molto meglio alla guida del dicastero del Lavoro, Carlo Dell´Aringa. Gelo anche su Napolitano. Bersani ringrazia il capo dello Stato «per lo sforzo di saldatura tra tecnica e politica». Nessuno applaude. Solo Enrico Letta, il vice segretario, osserva: «Monti è tutt´altro che conservatore come troppi anche a casa nostra lo dipingono». Veltroni valorizza i punti di unità: «Apprezzo la relazione di Bersani», ma pressa: «Lavoriamo insieme, no all´ossificazione delle correnti e agli attacchi personali». D´Alema premette: «Come ha detto Walter..., ma non stiamo scrivendo il libro Cuore». Applausi. Applaudito anche quando afferma: «Chi ha sperato di spaccare il Pd e metterlo contro la Cgil, rischia di finire come Willy il coyote». Spiaccicato. Intervento appassionato di Bindi: «Con l´articolo 18 è in gioco la dignità dei lavoratori, senza il Pd la riforma non si fa». Finocchiaro: «Vogliamo cambiare un´ingiustizia». Intervengono tutti i big, e Sandro Gozi tweetta: «Sembra Ballarò, questi non molleranno mai». Franceschini parla anche di primarie per dire no a quelle per i candidati al Parlamento. Ci sarà un lifting-primarie. Si parla anche dei rimborsi elettorali ai Radicali, Rai, socialdemocrazia, della piazza Cgil. Meta: «Connettiamoci con il paese».
l’Unità 27.3.12
Perché non si può cancellare il reintegro
di Rinaldo Gianola
Il Financial Times, in un editoriale pubblicato ieri, invita il “governo dei tecnocrati” di Mario Monti a non cedere alle pressioni politiche e sindacali che puntano a modificare la riforma del mercato del lavoro. La fiducia dei mercati verso l’Italia è talmente fragile, sostiene il giornale della City, che anche un piccolo passo indietro potrebbe minare questa ritrovata ma provvisoria credibilità. Quindi il governo mantenga ferma la linea sul licenziamento individuale senza reintegro, così lo spread e i tassi dei titoli del debito pubblico italiano resteranno sotto controllo, altrimenti saranno guai.
Il messaggio che viene dal quotidiano dei liberisti, propugnatore di formule che hanno portato l’economia mondiale al disastro, è musica soave per le orecchie del presidente del Consiglio. Monti, infatti, non intende recedere dal suo proposito iniziale. E il ministro Fornero promette che il licenziamento per motivi economici resterà così com’è, con l’indennizzo ma senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro. La posizione del governo appare talmente ferma che il presidente del Consiglio, velocissimo ad apprendere l’arte della dialettica politica, avverte di non voler tirare a campare se il Paese non si sentisse pronto per le sue riforme.
Dunque la questione dell’articolo 18, semplificando, è questa: per mantenerci lontani dall’emergenza finanziaria è indispensabile che il reintegro, finora previsto, del lavoratore licenziato sia cancellato. Se l’azienda caccia un dipendente per dichiarati motivi economici il lavoratore non potrà più sperare di tornare al suo posto, anche se un giudice dovesse valutare l’inconsistenza della motivazione, ma dovrebbe accontentarsi di un indennizzo. E poi si affiderà alla “mano invisibile” del mercato per trovare un’altra occupazione. È questo il segno distintivo della flessibilità in uscita proposta da Monti e Fornero, con tanti saluti al ventilato sistema tedesco condiviso da molti, al modello di garanzie del welfare europeo, alla storia e al diritto consolidato del lavoro in questo Paese. La domanda che emerge è questa: visto che tutti i partiti e tutti i sindacati italiani, con sensibilità diverse naturalmente, sono pronti anche a discutere di questo argomento, non si può pensare di raccogliere l’esempio che viene dalla locomotiva europea, dalla Germania? A Berlino in caso di licenziamento l’azienda deve ascoltare il parere del consiglio di fabbrica. In ogni caso il dipendente licenziato può ricorrere al Tribunale del lavoro che decide tra l’indennizzo e il reintegro. Certo in Germania il lavoro è riconosciuto e rispettato dalle istituzioni, dalle imprese, dai partiti come uno dei fattori costitutivi della democrazia e la sua difesa è propedeutica allo sviluppo del Paese. La cogestione prevede la presenza dei sindacati nei consigli di gestione, i lavoratori scioperano raramente e la flessibilità è governata con accordi tra le parti. Nessuno in Germania si sognerebbe di fare come Sergio Marchionne, compresi i licenziamenti dei tre operai di Melfi o dell’impiegato di Mirafiori, tutti reintegrati dal giudice. Qualcuno può immaginare un consiglio della Fiat o della Brembo con i segretari dei metalmeccanici e i sindaci di Torino e di Bergamo seduti accanto a Elkann e Bombassei? Pura fantascienza. Alla Volkswagen il rispetto tra le parti ha consentito di formulare oltre 30 orari di lavoro flessibili, con risultati record per l’impresa e i lavoratori.
A noi tocca, invece, una riforma che, accanto a novità positive, dopo mezzo secolo restituisce alle aziende il potere di licenziare dietro il pagamento di una somma di denaro, si monetizza la perdita del posto sancendo per legge la prevalenza degli interessi dell’impresa che calcolando i suoi costi e i suoi benefici valuterà se cacciare o meno un dipendente. La possibilità del reintegro non è un regalo, ma un principio di uguaglianza della Costituzione. Non essendo riuscito a liberalizzare i taxi, il governo introduce una liberalizzazione dei licenziamenti individuali per motivi economici. Di questo passo torneremo al licenziamento ad nutum, con un semplice cenno del padrone? Ma guai ad opporsi perché il Corriere della Sera individua già in questa critica i prodromi di antiche minacce e tensioni sociali.
Corriere della Sera 27.3.12
«Corsa contro il tempo per la legge elettorale»
Violante: cambiarla è possibile, ma solo se partiamo prima delle elezioni di maggio
di Andrea Garibaldi
ROMA — «La casa sta bruciando: se non facciamo le riforme, scompariranno nell'incendio non solo i partiti, ma anche il sistema democratico». Luciano Violante conduce per il Pd le trattative sulla riforma elettorale, sulle riforme costituzionali e i regolamenti parlamentari. È l'autore delle bozze su cui si discute. «Questa situazione mi ricorda il 1994. Anche allora non capimmo, né noi né i Popolari, che era in gioco il sistema politico. Dopo Tangentopoli pensammo che la mela era matura, che sarebbe bastato mettere un cesto sotto l'albero. Non cambiammo nulla, gli italiani consegnarono il cesto a Berlusconi. E oggi la crisi è più grave».
Il Paese ha perso fiducia nella capacità della politica di riformarsi.
«Vedo tre possibilità: democrazia fondata sui partiti popolari e sulla partecipazione, democrazia delle élites, democrazia populista. Noi ci battiamo per la prima».
La democrazia dei partiti ha speranza solo se vara le riforme?
«Senza riforme, la somma di chi non va a votare e di chi ha posizioni antisistema (Grillo e altri) potrebbe avere effetti deflagranti».
Le riforme basteranno a frenare il flusso anti-partiti?
«Potremo dire: stiamo sistemando la situazione economica, abbiamo restituito ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, abbiamo messo in piedi governi di legislatura tenuti insieme da programmi comuni, abbiamo abbassato l'età di voto, garantita la parità di genere. Ci presenteremmo a testa alta».
Quindi, secondo lei, stavolta non andrà come nel '94? O nel '97 con la Commissione bicamerale?
«Ci sono le condizioni per andare avanti».
Lei ieri ha detto che «la riforma della legge elettorale non convince parte del Parlamento».
«I non convinti sono in tutti gli schieramenti: alcuni per motivi rispettabili, altri perché temono una vera competizione elettorale, collegio per collegio».
Per fare le riforme prima della fine della legislatura, quando dovreste consegnare i testi al Parlamento?
«Si dovrebbe cominciare dalla prossima settimana, per concludere tutto a gennaio 2013».
Partire quindi prima delle elezioni amministrative?
«Si vota il 6 e il 20 maggio. Prendere il via dopo può farci "sforare"».
A che punto sono i colloqui fra le forze dell'attuale maggioranza, Pd, Pdl e Terzo Polo?
«Non ci sono testi. Ma sulla legge elettorale si discute di un sistema che elegga metà dei parlamentari in collegi uninominali e metà con liste proporzionali e resti per i "migliori perdenti". Sbarramento per chi non raggiunge una certa percentuale e premio (36 seggi) per chi ha i migliori risultati».
Un sistema proporzionale corretto.
«Molto corretto».
La fine del bipolarismo.
«Ci sarà un nuovo bipolarismo. Fondato sull'alternativa tra i programmi e le idee. Mettiamo nel cassetto le coalizioni che hanno lo stesso avversario ma non lo stesso programma e che perciò non sono riuscite a governare».
Torniamo al proporzionalismo, che ha retto l'Italia per 50 anni con grande instabilità?
«No, perché metà dei candidati saranno eletti nei collegi, ci saranno la clausola di sbarramento, il premio di maggioranza e la sfiducia costruttiva: non si può sfiduciare un premier senza ottenere la fiducia su un altro nome. Inoltre, se si esce dal partito nel quale si è stati eletti si può andare solo nel gruppo misto».
Quali sono i punti ancora in discussione?
«Tutti i punti sono in discussione. Le questioni maggiori riguardano l'entità della clausola di sbarramento, l'attribuzione del premio di maggioranza, il criterio di assegnazione dei seggi (nel collegio unico nazionale o circoscrizione per circoscrizione), la parità fra uomini e donne nelle liste, alla quale il Pd tiene particolarmente».
E le riforme costituzionali?
«Noi proponiamo di fare solo quelle utili a far funzionare la nuova legge elettorale: riduzione di deputati e senatori a 750 (più 12 dall'estero), diritto di voto a 18 anni anche per il Senato, e diritto di essere eletti a 21 anni alla Camera e forse a 35 al Senato. E la sfiducia costruttiva».
Tutti d'accordo su quest'impianto?
«Il Pdl vorrebbe allargare l'ambito delle riforme costituzionali. Capisco il senso della loro esigenza, ma facciamo intanto le riforme collegate alla legge elettorale. Se c'è spazio, affronteremo il resto».
Nel Pd non c'è unanimità: Bindi e Parisi criticano la «riforma Violante».
«Alcune delle critiche sono fondate e saranno certamente recepite».
C'è un calendario di nuovi incontri?
«Certamente. Sono riforme importanti. Nessuno deve essere tenuto fuori».
Repubblica 27.3.12
Governo anomalo e ruolo dei partiti
di Massimo L. Salvadori
Da quando il governo Monti si è formato, nei suoi confronti viene avanzata, non solo dagli ambienti dell´opposizione ma anche da altri che pure non lo avversano e persino lo sostengono, la considerazione che esso rappresenta un´anomalia rispetto ai sani criteri della vita democratica e parlamentare. L´argomento relativo al carattere anomalo ha un palese fondamento, nel senso che il governo, nato dalla crisi organica della precedente maggioranza parlamentare, non poggia sulla legittimazione di elezioni politiche, è formato da tecnici e la sua sopravvivenza è affidata a una combinazione di partiti che continuano a considerarsi alternativi e accettano di formare la maggioranza soltanto obtorto collo. Da ciò il guardare da varie parti al governo per la sua natura oggettiva come a un fattore addirittura di inquinamento delle buone regole di un sistema democratico e l´auspicare il "ritorno della politica".
In un tale ordine di ragionamenti e di atteggiamenti si sovrappongono pesanti ambiguità nelle quali le acque rischiano di confondersi. Che il governo Monti abbia le proprie radici in una "sospensione" delle buone regole democratico-parlamentari è evidente; d´altra parte è parimenti evidente che di questa situazione il governo costituisce l´effetto e non la causa. In realtà la sua esistenza è un fattore non già di inquinamento ma di difesa e salvaguardia della democrazia, avendo l´esecutivo rappresentato e rappresentando una scialuppa di salvataggio gettata a un sistema partitico ancora una volta dimostratosi incapace di offrire una via di uscita in condizioni di emergenza economica e di sbandamento politico; tanto che le elezioni anticipate (quelle che sempre secondo le buone regole della democrazia avrebbero dovuto tenersi dopo la frana di Berlusconi) non avrebbero avuto e avrebbero altro esito se non di gettare il paese, largamente disgustato della inettitudine di partiti sempre più largamente screditati anche dalla invadente marea della corruzione, nel caos. Al governo dei tecnici - comunque si giudichino le sue scelte e ricette in materia di riforme - non può certo farsi carico di ostacolare il "ritorno della politica"; al contrario, esso consente ai partiti una pausa di riflessione sulle loro gravi insufficienze e un´occasione per la loro ripresa (sempre che ne siano capaci). Se di inquinamento della democrazia si deve parlare, la responsabilità va attribuita a chi l´ha provocato e lo provoca ovvero ai partiti che hanno seminato e continuano a seminare stanchezza e insofferenza ingrossando l´esercito delle schede bianche e degli astensionisti.
Guardando all´indietro alla storia d´Italia, si vede che, quanto alla sua tipologia, l´odierno governo dei tecnici si delinea quale ultima manifestazione di una serie di esecutivi che - differentissimi per origini e caratteri e con finalità anche opposte - presentano però un elemento in comune: prendere vita, dopo il cedimento più o meno traumatico di un sistema di potere, per la forte determinazione e iniziativa del Capo dello Stato. Crollato il sistema liberale divenuto imbelle, nell´ottobre 1922 il sovrano affidò il governo a Mussolini (e si ricordi che persino un uomo come Salvemini si lasciò andare a dire: "meglio Mussolini di Facta"); crollato il regime fascista nel luglio 1943, il re nominò capo del governo il generale Badoglio; crollato il sistema partitico al tempo di Tangentopoli, nell´aprile 1993 il presidente Scalfaro affidò l´incarico di formare l´esecutivo al governatore della Banca d´Italia Ciampi; caduto Berlusconi, nel novembre 2011 il presidente Napolitano diede tale incarico a Mario Monti. Mussolini aprì le porte alla dittatura, Badoglio agì per salvare una monarchia screditata e porre fine all´alleanza con la Germania tanto maldestramente da gettare il paese nella catastrofe più grave della sua storia; Ciampi operò per risanare l´economia del paese e favorire la ripresa di una democrazia dei partiti azzoppata e umiliata; e Monti, in uno spirito che mostra un´accentuata continuità (quasi una ripresa di partita) con il programma e l´azione di Ciampi, si adopera per fermare la debâcle dell´economia e offrire a un sistema partitico ripiombato nel marasma la possibilità di curare le sue ferite. Mussolini e Badoglio due personalità autoritarie; Ciampi e Monti due democratici impegnati nel rendere l´Italia più europea: tutti saliti al potere in circostanze di emergenza nazionale dopo il fallimento di un sistema politico.
Sì, occorre sperare nella "ripresa della politica" e decisamente auspicarla, poiché è opportuno che i governi siano il frutto di un consenso popolare verificato dalle elezioni politiche nazionali. Ma occorre parimenti e altrettanto sperare che la voglia di questa ripresa da parte di partiti scalpitanti per il potere perduto non li porti a credere di poter tornare alla ribalta piegando il governo Monti ai propri diktat o al limite facendolo cadere prima della primavera del 2013. Nell´uno e nell´altro caso si renderebbero responsabili di aprire inquietanti prospettive, che provocherebbero un ulteriore deterioramento della nostra già profondamente usurata democrazia.
il Fatto 27.3.12
La Radicale è già in corsa “La partitocrazia non mi vuole”
Emma Bonino, tra i nomi femminili circolati in questi giorni per ricoprire la carica di Presidente della Repubblica, non mostra ottimismo: “Come ha detto il Presidente Napolitano, la situazione del Paese dovrebbe essere matura – afferma – Il fatto è che il meccanismo di elezione del Presidente è quello che sappiamo, i partiti italiani sono molto maschilisti, e di fatto nel 1999, dopo quella campagna (‘Emma for president’, ndr) il Parlamento decise di eleggere Carlo Azeglio Ciampi”. “Io sono una donna, sono Radicale, e le due cose sono intrinsecamente collegate. Siamo portatori di una politica e di obiettivi che sono quanto di più altro e diverso dall’andamento generale dei partiti politici, come diciamo, più tradizionali. Per loro sarebbe una enorme mina vagante. Che poi il Paese sia pronto ad incarichi importanti al femminile, credo di sì. Credo che si abbia voglia di essere guidati da persone affidabili, competenti, stimabili, ritenute perbene. E che il Paese non si scandalizzerebbe affatto se si individuasse una donna. Ma le dinamiche sono quelle che sappiamo”, ha concluso la vice presidente del Senato.
Corriere della Sera 27.3.12
Pillola dei 5 giorni dopo Non ancora in Italia ma già venduta online
di Mario Pappagallo
Ancora non è arrivata nelle farmacie italiane e già da tempo la si può acquistare online senza il previsto test di gravidanza obbligatorio per la normativa italiana e senza prescrizione. È la nuova «pillola dei 5 giorni dopo». Bastano pochi clic su internet, come per l'acquisto del sorbitolo che nei giorni scorsi ha ucciso una donna a Barletta. Così il farmaco per la contraccezione d'emergenza, da assumere entro 120 ore dal rapporto sessuale a rischio, si può comprare online saltando i passaggi previsti dalla legge. A documentare il tutto una video-inchiesta in onda oggi alle 19.45 su Doctor's Life, il canale 440 di Sky curato dall'Adnkronos Salute.
La «pillola dei 5 giorni dopo» (nome del principio attivo: ulipristal acetato) è in vendita all'estero da tempo, ma è nuova per l'Italia. Dopo un iter d'esame durato quasi due anni, a fine 2011 è arrivato l'ok dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa): sarà in vendita nel nostro Paese dai primi di aprile. Con l'obbligo di un «paletto» che all'estero non esiste: un test che escluda una gravidanza già in atto. Online invece non esistono «paletti», solo il costo è pressoché doppio: circa 60 euro contro i 35 stabiliti dall'Aifa per le nostre farmacie. Ecco allora che il web offre, a chi non può aspettare o non vuole sottoporsi agli obblighi previsti per legge, una vasta gamma di siti in lingua italiana che fanno capo a farmacie online di altri Paesi, in primis l'Inghilterra, dove l'ecommerce di medicinali è legale. E la Rete si sa è globale e fuori da ogni giurisdizione. Che cosa offrono questi siti? Di poter ordinare il farmaco velocemente, con carta di credito, e di riceverlo a casa entro 24 ore al massimo, in tempo per una comoda assunzione. Le istruzioni sono in italiano, si deve rispondere a una serie di domande per il «consulto medico» online necessario affinché la vendita venga autorizzata. Ci sono anche una chat live e un numero verde. Domande mediche di rito («Ha mai subito interventi chirurgici?», «Sta assumendo altri medicinali?», «Soffre di allergie?») alle quali si può tranquillamente rispondere il falso. Concluso l'acquisto, un corriere espresso consegna il pacchetto a domicilio. Così è accaduto a Doctor's Life che ha documentato il tutto: la confezione è arrivata integra e fornita di etichetta adesiva con l'indicazione della farmacia venditrice: la Pearl Chemist di Londra, in Mitcham Road, titolare Vijay Patel, regolarmente registrato all'Ordine dei farmacisti inglese. «Siamo a conoscenza di questa situazione — ha detto Alberto Aiuto, amministratore delegato di Hra Pharma, azienda che commercializza la "pillola dei 5 giorni dopo" — e l'abbiamo segnalata alle autorità italiane. Ci dissociamo dalle "farmacie online", sottolineando che non c'entriamo nulla con loro».
Il problema però esiste. Da un'indagine internazionale sull'uso del web a fini medici e salutistici, è risultato che, nel corso del 2010, 16 milioni e 800 mila internauti italiani avevano consultato questi siti o acquistato farmaci online. Il grave è che solo uno su 4 di questi pazienti fai-da-te ha poi consultato un medico: autodiagnosi e autoprescrizione online. Ormai è chiaro che serve una campagna «ossessiva per far capire agli italiani che la medicina non può essere gestita da soli davanti a un computer», dice il sottosegretario alla Salute, Adelfio Elio Cardinale. La «censura» non è possibile, ma qualcosa andrebbe fatto per tutelare gli internauti. Per esempio, creare un osservatorio di controllo e un bollino blu per i siti affidabili.
Repubblica 27.3.12
Il nemico in casa
Una donna uccisa ogni due giorni
Quarantasei donne uccise dall´inizio dell´anno. Vittime dell´uomo che avevano accanto. Una strage silenziosa. La legge non basta: serve una nuova cultura
di Adriano Sofri
Vengono definiti raptus, delitti passionali, drammi della gelosia. Ma sono omicidi e in Italia aumentano ogni anno. Ex fidanzati, mariti, amanti respinti. Nemmeno la legge prevede una parola per definire quel che sta succedendo. Che andrebbe chiamato "femminicidio"
Prendiamo una frase così: Gli uomini uccidono le donne. È una generalizzazione spaventosa: la stragrande maggioranza degli uomini non uccidono le donne. Eppure a una frase così succede di reagire con assai minor indignazione e minor sorpresa di quanto la statistica consentirebbe. Non dico delle donne, che sanno bene che cosa vuol dire la frase. Ma gli uomini, anche se la statistica dice che in Italia, non so, uno su 400 mila ammazza una donna in un anno, ammetteranno di sentire confusamente come mai uomini ammazzano donne.
L´uomo è cacciatore, si dice: il cacciatore gode di scovare la preda, inseguirla, braccarla, catturarla - e farla finita. Al centro del millenario addestramento dell´uomo maschio sta il desiderio, e la certezza del diritto naturale, di possedere la donna. E´ una metà della cosa: prendi la donna, la chiudi a chiave, la usi, la fai figliare e lustrare stivali, la bastoni ogni tanto, perché non si distragga dall´obbedienza, come fai con gli altri animali addomesticati. L´altra metà della cosa sta nella sensazione che la "tua" donna ti sfugga, anche quando l´hai riempita di botte e di moine, che il diritto di possederla è eluso da un´impossibilità. Non c´è carceriere che possa voltare le spalle tranquillamente al suo prigioniero. Non c´è prigioniero più irriducibile della donna.
L´uomo avverte con offesa, paura, vergogna questo scacco indomabile, e al suo fondo una propria inferiorità sessuale, un piacere pallido rispetto a quello che immagina sconfinato e astratto della donna - la sua capacità di puttana - e, quando si persuada di averla perduta e di non poter più vivere senza di lei, la uccide.
Lui, mediamente, vive: a volte tenta il suicidio, per lo più lo manca. Dice: "Sono incapace di intendere e di volere, perciò l´ho ammazzata". L´altroieri le diceva: "Sono pazzo d´amore per te". Voleva dire: "Sono incapace d´intendere e di volere, perciò ti amo". Vivrà, compiangendosi, nel ricordo di lei, ormai soltanto sua - e comunque di nessun altro.
Ho scritto questa orrenda cosa: non perché non veda che è grossolanamente orrenda, ma perché penso che si avvicini alla verità. E´ una di quelle che si dicono male con le parole, dunque si preferirà fare un vuoto - un raptus, un´uscita da sé di cui non resterà memoria - e puntare sulle attenuanti generiche. Specifiche, fino a ieri, quando ammazzare una donna, specialmente la "propria" donna, era poco meno di un atto onorevole. La disparità, in questo campo, è senza uguali. Di fatto, perché le donne che ammazzano il "loro" uomo sono così rare da far leggere due volte la notizia, per controllare che non sia un benedetto errore del titolista - trafiletti, del resto. E di diritto e perfino di lessico, perché la parola era una sola, finora, a designare l´ammazzamento coniugale, uxoricidio, l´uccisione della moglie.
Il nuovo conio di "femminicidio" non è un puntiglio rivendicativo, è l´adeguamento stentato della lingua e della legge a una stortura di millenni. A meno che non fosse esaltata, che è l´altra faccia dell´avvento dell´amore romantico, gran rivoluzione in cui, nella nostra parte di mondo, si mescolarono la considerazione arcaica della donna forte e ribelle e infine domata in Grecia, e la nuova tenerezza che volle risarcirne l´inferiorità nel cristianesimo. Strada facendo, l´amore cavalleresco si conquistò uno spazio formidabile, e la donna dell´ideale non poté toccarsi nemmeno con un fiore - quanto alla reale, aveva il suo daffare, e non l´ha mai smesso: bella storia, grandiosamente rovesciata in amori così mirabili da indurre l´uomo ad ammazzarla, l´amata, e diventare così un eroe romantico, o un grande delinquente espressionista, o almeno un poveretto da compatire, per aver tanto sovrumanamente amato.
L´uomo che uccide la "sua" donna compie il più alto sacrificio di sé, in tutta una sublime tradizione artistica e letteraria, più che se ammazzasse sé per amore. E solo oggi, e faticosamente, ci si divincola da questo inaudito retaggio di ammirazione e commiserazione per l´uomo che uccide per amore, e lo si vede nella sua miserabile piccineria. E gli si vede dietro la moltitudine di ometti "tranquilli", "perbene" - sono sempre questi, all´indomani, gli aggettivi dei vicini - che pestano con regolarità mogli e fidanzate e amanti e prostitute e figlie, le tormentano, le insultano e ricattano e spaventano e violentano. Panni sporchi di famiglia. Pressoché tutti gli omicidi che ho incontrato in galera - dov´ero loro collega - avevano ammazzato donne: la "loro", o prostitute, dunque di nessuno, dunque di tutti. Vi passa la voglia di simpatizzare per Otello e Moosbrugger, per la Sonata a Kreutzer o per l´Assassino speranza delle donne.
Le statistiche oscillano: viene ammazzata una donna, in Italia, ogni due giorni, ogni tre, secondo le più ottimistiche. Se le donne non fossero il genere umano, la parte decisiva del genere umano, e venissero guardate per un momento come un´etnia, o un gruppo religioso, o una preferenza sessuale, non se ne potrebbe spiegare l´inerzia di fronte alla persecuzione, la rinuncia a un´autodifesa militante. Questo varrebbe fin dal genocidio delle bambine prima e dopo la nascita in tanta parte del mondo, che è sì altra cosa ma strettissimamente legata. Quel titolo, Uomini che odiano le donne, è diventato proverbiale scendendo da un nord civile e favoloso come la Svezia, una tremenda rivelazione. L´Italia, come le succede, si batte per il record, spinta dalla rapidità febbricitante dei suoi cambiamenti, dal ritardo alla rivalsa, e oggi le deplorazioni internazionali contro il femminicidio ci mettono assieme al Messico di Ciudad Juarez.
Oggi si parla di questo, ci si informa. E´ molto importante. Sono due gli strumenti decisivi per affrontare l´assassinio delle donne (e gli stupri, le persecuzioni, le botte, le minacce e le vite di paura): la polizia - e le leggi - e la cultura. La polizia femminile è il più significativo progresso del nostro Stato (e dell´Afghanistan). I due strumenti non sono, come si pensa, agli antipodi, una che arriva dopo il fatto, l´altra che lo previene da molto lontano. Vanno assieme, per prevenire da vicino e da lontano, e per sanzionare, materialmente e moralmente. Escono libri - l´ultimo che ho visto è Il silenzio degli uomini, di Iaia Caputo, Feltrinelli. Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza), sciorina un repertorio impressionante di fantasie maschili passate per scienza e legge. La Rai ha programmi nuovi ed efficaci. Su Rai 3 "Amore criminale", ora condotto da Luisa Ranieri, ha raccontato decine di storie di donne uccise, storie di persone altrimenti gelate in un numero statistico, ognuna a suo modo terribile.
Da oggi Rai 1 trasmette quattro film contro le violenze sulle donne, di Liliana Cavani, Margarethe von Trotta e Marco Pontecorvo. Nel web sono ormai numerosi i siti che aggiornano fedelmente e discutono le notizie sulle donne assassinate, rinvenute, quando ci arrivano, dentro le cronache locali. Ci sono gruppi di uomini che hanno deciso di parlare di sé, come l´associazione "Maschile plurale". Torno all´inizio. Noi uomini, se appena siamo capaci di ricordarci del modo in cui siamo stati iniziati, e non ci dichiariamo esonerati, sappiamo che cos´è la voglia frustrata o vendicativa o compiaciuta di malmenare e vessare le donne e la loro libertà. Lo sappiamo, come Endrigo quando passava da via Broletto, al numero 34, dove dorme l´amore mio. Non si sveglierà. Proprio sotto il cuore c´è un forellino rosso, rosso come un fiore.
Repubblica 27.3.12
Il ministro Profumo spiega il nuovo progetto per sensibilizzare i giovani: "Dobbiamo partire da lì"
"Una campagna nelle scuole per educare i ragazzi al rispetto"
di Paolo Griseri
Una campagna in tutte le scuole contro la violenza sulle donne. Francesco Profumo, ministro della Pubblica istruzione, annuncia una imminente chiamata a raccolta tra gli studenti perché presentino progetti da valutare in ottobre, in occasione della "Settimana contro la violenza" istituita per la prima volta, nel 2009, dai ministri Gelmini e Carfagna.
Ministro Profumo, le cifre sono inquietanti. Ogni due giorni una donna è vittima della violenza di un uomo. Che cosa può fare la scuola?
«In questi casi la scuola deve svolgere un lavoro quotidiano di educazione. Credo poco all´effetto degli eventi se non sono preceduti da un lavoro con i ragazzi. La ‘Settimana contro la violenza´ che si tiene in tutta Italia ad ottobre è un´occasione importante se riusciamo a farla precedere da un progetto comune con gli studenti».
Come funzionerà il progetto?
«L´idea è quella di far partire una chiamata e sollecitare proposte. Si tratta di suggerire i cento modi, le molte occasioni concrete per promuovere una educazione permanente al rispetto, che è poi la base di un corretto rapporto tra chi è differente».
Ci sono iniziative analoghe in altri paesi?
«E´ molto interessante l´esperienza spagnola. Perché realizzata in un paese di cultura mediterranea come il nostro. Queste esperienze possono essere replicate e migliorate ancora, per esempio sfruttando i social network. Se le proposte vengono dai ragazzi e sono discusse da loro, i risultati sono duraturi».
Lei fa l´esempio della Spagna. Perché la cultura mediterranea è più a rischio per le donne?
«C´è sicuramente un problema di modello culturale ma anche di riconoscimento sociale. Da generazioni nelle società del nord Europa il ruolo delle donne è valorizzato e rispettato. Questo è molto importante, ha conseguenze dirette sui comportamenti sociali e anche sull´atteggiamento dei maschi nei loro confronti. E´ un fatto che nei paesi mediterranei e nelle nostre società non è sempre così».
Lei pensa che il ruolo delle donne nella società possa avere una funzione educativa per i ragazzi?
«È fondamentale. Prima di fare il ministro io sono stato rettore del Politecnico di Torino. Nel corso degli anni ho visto aumentare considerevolmente il numero delle ragazze che si iscrivevano alla facoltà di Ingegneria, fino ad allora tradizionalmente frequentata dai ragazzi. Al punto che ancora oggi, se ci si riflette, ‘un ingegnere´ si scrive senza l´apostrofo anche se si sta parlando di una donna. Ebbene, oso pensare che una società in cui ci sono donne che diventano ingegneri, per dire di un mestiere oggi molto considerato, sia una società in cui, in generale, il rispetto per le donne sia maggiore e gli atti di violenza nei loro confronti tendano a diminuire».
Ci sono altre azioni, oltre alla vostra campagna nelle scuole, che possano raggiungere l´obiettivo?
«Penso che anche in questo campo, come in molti altri, sia indispensabile un rapporto stretto con il ministro Fornero, che è titolare del lavoro e delle pari opportunità. Nei prossimi anni lo schema classico per cui la scuola e lo studio precedono il lavoro verrà completamene rivoluzionato. Ciascuno alternerà periodi di studio e di lavoro, i due ambiti saranno sempre più intrecciati. Così accadrà che quel che succede nelle scuole influenzerà molto di più i modelli di comportamento negli uffici e nelle aziende. Promuovere atteggiamenti di rispetto tra generi sarà compito dei due ministeri insieme. Ne ho già parlato in queste ore con la collega Fornero e penso che presto troveremo il modo di collaborare su questo».
Il rispetto tra i generi come misura della modernità di una società?
«Certamente. Tanto più una società è in grado di far convivere ogni tipo del diversità al suo interno, tanto più è vitale. Il rispetto è il primo passo in questa direzione»,
La Stampa 27.3.12
Castellina: il Pontefice piace ai rivoluzionari? Sono leader realisti
“Però lui ha sbagliato a liquidare così Marx”
di Francesca Schianchi
ROMA Chiunque diriga un Paese al novanta per cento cattolico è naturale abbia cose da dirsi con il Papa», valuta Luciana Castellina, una lunga carriera politica e giornalistica, storica esponente del gruppo (radiato dal Partito comunista) che fondò nel 1969 «ll manifesto», poi direttore di «Liberazione», in Parlamento come deputata del Pdup e poi europarlamentare di Rifondazione.
Dice? Non la stupisce per niente che leader sudamericani rivoluzionari, come Fidel e Raul Castro ma anche il venezuelano Hugo Chavez, vogliano incontrare Benedetto XVI?
«Ma no... In Francia, che è il Paese laico per eccellenza, dove la laicità è in Costituzione e si impedisce in nome di questo a una donna araba di andare in giro col velo, se va in visita il Papa corrono tutti ad accoglierlo. Mi pare tanto più naturale che lo facciano capi di stato di Paesi cattolici».
E’ utile farlo...
«E’ politicamente utile quando il novanta per cento della popolazione del Paese che governi è cattolica. Direi doveroso, fa parte del galateo».
Ma la religione non l’oppio dei popoli?
«Chavez non s’è mai sognato di dirlo».
E Fidel Castro?
«Anche la Francia dopo la rivoluzione ha cercato di contenere l’influenza della religione... Tutti ci hanno provato e poi si sono acconciati al fatto che bisogna farci i conti».
Nessuna stravaganza, insomma, in questi appuntamenti dei leader ...
«Questi incontri fanno notizia ma non li trovo stravaganti. Tra l’altro ricordo che Fidel Castro ha già incontrato il Papa quindici anni fa: e allora fu stupefacente che Giovanni Paolo II andasse a Cuba. Piuttosto, è un’altra la cosa che mi ha stupito di questo viaggio del Papa».
Quale?
«Mi ha stupito che il Papa abbia detto che il marxismo è morto».
Ha detto che il marxismo non funziona e bisogna trovare nuovi modelli per sostituirlo in modo costruttivo...
«Mi pare una cosa avventata perché Marx non ha mai delineato un sistema come avrebbe dovuto essere».
Secondo lei, avrebbe dovuto parlare di quei sistemi in particolare...
«Può dire che quei sistemi non funzionano più, ma è un’altra cosa. Mi ha meravigliato l’affermazione sul marxismo perché questo Papa è un uomo colto, ho molta stima della sua cultura ed è stata un’affermazione grossolana».
E non la stupisce nemmeno che Fidel Castro gli permetta di criticare il marxismo proprio quando si trova in casa sua?
«Non può censurare il Papa! Inoltre nella stessa Cuba c’è dibattito sul fatto se le cose funzionino o meno. Loro stessi se lo chiedono».
l’Unità 27.3.12
Quel che resta delle parole di Cristo
Incontri Un vescovo cattolico, Vincenzo Paglia, e uno scrittore credente, Franco Scaglia, riflettono insieme sull’attualità degli insegnamenti di Gesù collocando il dialogo nei luoghi della Passione, ovvero a Gerusalemme
di Roberto Carnero
Un dialogo, a Gerusalemme, nei luoghi che hanno visto la predicazione e la passione di Cristo, sull’attualità di questa figura e del suo messaggio, quello che i cristiani chiamano l’evangelo, cioè la buona notizia: messaggio di salvezza, di riscatto, di liberazione. Peccato che nel corso dei secoli spesso la sua carica rivoluzionaria sia stata deliberatamente annacquata, quando non addirittura capovolta, magari proprio da coloro che se ne sono autoproclamati gli unici autentici interpreti. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Il dialogo di cui parlavamo è quello tra un vescovo cattolico, Vincenzo Paglia, e uno scrittore credente, Franco Scaglia, autori del volume Cercando Gesù (Piemme, pagine 350, euro 17,50). Il sottotitolo riporta una domanda: «In un mondo sempre più confuso siamo ancora capaci di amore?». Una domanda alla quale provano a rispondere i due interlocutori attraverso un confronto che tocca vari temi, alcuni dei quali già affrontati in un volume di cui erano stati coautori due anni fa, In cerca dell’anima. Dialogo su un’Italia che ha smarrito se stessa (pubblicato sempre da Piemme): l’importanza dell’altro, la carità, lo sviluppo economico, la perdita della pietas che spesso colpisce i più deboli, la solitudine dell’uomo contemporaneo, le sfide di un’etica condivisa.
IL CONCILIO DI NICEA
«Questa volta spiega Scaglia abbiamo deciso di riflettere su quanto resti oggi degli insegnamenti di Gesù, della sua indignazione, della sua carità, del suo sacrificio e abbiamo immaginato che il dialogo avesse maggiore senso collocarlo fisicamente nei luoghi della Passione. A Gerusalemme, appunto. L’unica città al mondo dove la spiritualità è in continuo movimento ci sembrava il luogo più adatto per ambientare una riflessione su una realtà contemporanea che ci colpisce per la sua inerzia e ingiustizia, e sempre per la sua sordità».
Il punto di partenza è di taglio storico. Che cosa sappiamo di certo su Gesù? Oggi non ci sono dubbi sull’esistenza di questo personaggio dal punto di vista biografico. Ma in molti sostengono che la sua essenza divina sia stata proclamata esplicitamente soltanto nel 325, al Concilio di Nicea, indetto da Costantino per dirimere alcune scottanti questioni dogmatiche, ma in realtà con lo scopo non dichiarato di promuovere il cristianesimo a religione di Stato: una Chiesa unita, e non divisa da scismi laceranti, avrebbe potuto costituire un più valido sostegno allo stesso Impero. E prima? Secondo vari studiosi, Gesù si era presentato solo come un profeta e non si era mai considerato né tanto meno dichiarato Dio. «E il resto? si chiede Scaglia -. È proprio il resto che è servito a costruire la storia del cristianesimo. È un paradosso, ma è il “resto” che ha creato la sua figura. È il “resto” che permette ancora oggi di continuare a scrivere libri su di lui».
UN PASTORE ILLUMINATO
Per parte sua, monsignor Paglia crede ed è ovvio nella divinità di Gesù, ma da pastore illuminato compie un apprezzabile sforzo di parlare anche ai non credenti, nello spirito del Concilio Vaticano II. Non a caso cita il laico Pier Paolo Pasolini (laico, ma sinceramente affascinato dalla figura di Cristo, al punto da girare quello che in molti considerano il più bel film mai realizzato su di lui, Il Vangelo secondo Matteo), il quale scriveva in una lettera a un amico: «Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità». E Paglia aggiunge: «Chi frequenta con onestà le pagine evangeliche viene coinvolto in quell’Oltre che le traversa, tanto esse sono paradossali, forti e inesorabilmente coinvolgenti».
Nei capitoli successivi i due autori ripercorrono le tappe della Passione, cioè della via dolorosa, di Gesù, alla ricerca dei significati profondi di questa sofferenza, uno dei misteri centrali della fede cristiana. Una discesa agli inferi che ha una sua attualità, per esempio a confronto con le sofferenze degli uomini di oggi. Scrive Paglia: «Cristo continua a scendere nel Mediterraneo per raccogliere dal suo fondo le vittime innocenti, quelle centinaia e centinaia di uomini e donne, di giovani e bambini che non sono riusciti a raggiungere la sponda del nord dell’Europa».
Si sarà compreso che Cercando Gesù è quanto di più lontano da un volume agiografico o devozionale. Si pone invece come un’opera dotata di una grande carica di provocazione. Per i cristiani, a rivedere e a ripensare la propria fede. Per i credenti e i non credenti, a scoprire la capacità che, duemila anni dopo, la figura di Cristo ha ancora di scuotere le coscienze pigre, addormentate e aggettivo caro a Vincenzo Paglia e a Franco Scaglia drammaticamente «inerti».
l’Unità 27.3.12
La fine di Shaima, irachena massacrata negli Usa
di Helena Janeczek
Shaima Alawadi, irachena di 32 anni, è stata massacrata a colpi di cric nel soggiorno della sua casa di El Cajon, vicino a San Diego. Per ucciderla hanno sfondato la porta di vetro. Vicino al corpo hanno lasciato un messaggio: «Torna nel tuo paese, terrorista».
La polizia non esclude un crimine motivato dall’odio, ma assicura che si tratta di un fatto sporadico. Shaima era fuggita dall’Iraq con la famiglia dopo la repressione di una rivolta sciita per mano di Saddam Hussein. Suo padre è un religioso, suo marito ha invece lavorato per l’esercito degli Stati Uniti con il compito di impartire le basi culturali a soldati e contractor in partenza per l’Iraq. Shaima aveva cinque figli, la maggiore, una ragazza diciassettenne, l’ha trovata agonizzante nel salotto.
Basta questa traccia di una vita che cercava una normalità possibile al riparo dalla violenza, per misurare l’abisso d’orrore e ignoranza del biglietto da visita lasciato dai carnefici. Non sanno nulla, perché nulla vogliono sapere, in perfetta malafede.
Una bella signora rimasta sola in casa, con i figli a scuola e il marito al lavoro, sarebbe una terrorista? Davvero? Non è solo la più ignobile vigliaccheria ammazzare donne o bambini.
C’è anche qualcosa che non torna in questa violenza diretta verso il pri-
mo inerme che capita. Non pare casuale che si sfoghi sulle donne, consapevole di creare orfani, o i figli, procurando il più atroce dolori ai genitori.
L’odio fanatico, razzista o religioso, sembra la copertura di un odio più grande, senza fondo, nichilista. L’affronto sta nel semplice fatto che una donna come Shaima possa avere una vita felice, un futuro impersonato dai figli destinati a trovare la loro collocazione nel mondo. Se fosse vero, questa «guerra di civiltà» ci chiamerebbe in causa tutti.
Repubblica 27.3.12
Tunisia
“L’Islam non sarà la nostra legge" La Primavera resiste alla Sharia
di Giampaolo Cadalanu
A Tunisi lancio di sassi e uova contro una manifestazione di artisti
E uno sceicco incita i militanti a "prepararsi a uccidere gli ebrei"
La commissione di riforma della Costituzione conferma l´articolo 1 sulla laicità voluto da Bourghiba Ma i radicali sfidano il partito di maggioranza Ennhada: cortei in piazza, tensione con i poliziotti
La Tunisia resterà «uno stato libero, indipendente e sovrano, che ha l´Islam come religione di stato, l´arabo come lingua ufficiale ed è una repubblica». La prima decisione della Commissione incaricata di rivedere la costituzione tunisina, che ha rispettato l´articolo 1 nella forma voluta da Habib Bourghiba nel 1959, suscita un profondo sospiro di sollievo, in Occidente come in Tunisia. È una scelta che non rinnega le radici religiose musulmane, ma allo stesso tempo respinge i richiami delle frange radicali, che chiedevano il passaggio alla sharia come fonte di legge.
A prendere l´impegno di rispettare la formulazione dell´articolo 1 era stato Rachid Ghannouchi, leader dei musulmani moderati di Ennahda. Ancora prima di vincere le elezioni con il 40 per cento dei consensi, il partito islamico aveva preso l´impegno di non imporre svolte fondamentaliste. Niente velo obbligatorio per le donne, fra le più "occidentalizzate" del mondo arabo e orgogliose protagoniste della "Primavera". Niente divieti per il consumo di alcolici, o per il pagamento degli interessi sui prestiti. Insomma, niente repubblica islamica sul Mediterraneo, almeno per ora.
La conferma dell´impostazione laica è ovviamente una garanzia anche dal punto di vista economico: la Tunisia conta sul turismo come risorsa fondamentale e una svolta in senso integralista avrebbe messo in pericolo i bilanci dell´intero Paese. Ma resta da capire se la scelta di Ennahda sia consolidata o rischi di essere rimessa in discussione dai conservatori all´interno stesso del partito, oltre a suscitare le critiche degli integralisti salafiti.
La frangia più radicale, che pure aveva subito la rivoluzione senza trovare il modo di governarla, nei mesi successivi alla fuga del dittatore Zine al-Abidine Ben Ali ha cercato di approfittare dell´incertezza politica e della crisi economica per conquistare maggiori consensi. Ma in generale la società tunisina sembra aver fatto propria la cultura laica a suo tempo imposta da Bourghiba. Questo vale in modo particolare per le città e i centri del nord e della costa, maggiormente esposti alle influenze europee. A Tunisi le manifestazioni integraliste hanno trovato risposta nei cortei di chi gridava: giù le mani dalla legislazione a tutela delle donne.
Nei giorni scorsi, però, mentre si discuteva della Costituzione futura, l´area radicale ha mostrato nuovi segni di turbolenza. Domenica migliaia di militanti salafiti sono scesi nella centralissima avenue Bourghiba, cuore della capitale, manifestando per l´adozione della sharia e avviando scontri con un gruppo di attori e artisti. Questi erano colpevoli di non aver voluto cedere agli integralisti la scalinata del Teatro nazionale in cui già avevano avviato una loro cerimonia per festeggiarne la giornata celebrativa. La polizia è intervenuta per separare gli schieramenti, ma non è riuscita a evitare la sassaiola e il lancio di uova sugli artisti. E non ha nemmeno fermato uno sceicco che incitava i militanti a «prepararsi per uccidere gli ebrei», invito che la folla accoglieva con boati di approvazione.
Qualche militante si è arrampicato sul monumento di piazza 14 gennaio per appendere la bandiera di Hizb Hettahrir, il "partito della libertà" ultra-salafita. È un movimento fuori legge ma regolarmente tollerato, che chiede il ritorno al califfato e ha acquistato un certo peso nelle periferie e nelle campagne, grazie soprattutto alla predicazione delle moschee. Momenti di tensione anche all´aeroporto Tunisi-Cartage, quando i militanti salafiti hanno imposto alla polizia di lasciar passare il predicatore radicale Héni Sbai, appena arrivato da Londra: contro di lui vigeva - almeno formalmente - un divieto di ingresso in Tunisia emesso dal regime di Ben Ali.
In qualche modo, dunque, i salafiti vogliono mettere alla prova la scelta moderata del partito islamico. E la risposta della polizia, che nel centro della capitale ha tollerato persino l´appello ai pogrom e all´aeroporto ha obbedito alla prepotenza dei "barbuti", non sembra un segnale positivo.
La Stampa 27.3.12
Il rapporto annule. 676 condanne accertate nel mondo
Pena di morte i dati della Cina “segreto di Stato”
La denuncia di Amnesty: impossibile sapere
di Francesco Semprini
ROMA Decapitazioni, impiccagioni, fucilazioni e iniezioni letali. Sono state almeno 676 le esecuzioni capitali praticate lo scorso anno in tutto il mondo al netto della Cina. Perché, come spiega il rapporto «Death Penalty 2011» di Amnesty International, il regime di Pechino considera la «pena di morte» un segreto di Stato e per questo non rende disponibili statistiche ufficiali. Dal dossier emerge un dato «allarmante», le 149 esecuzioni in più rispetto al 2010, (imputabile totalmente a Iran e Arabia Saudita). Ma anche un altro positivo, ovvero la riduzione di un terzo negli ultimi dieci anni delle nazioni che ricorrono alla pena capitale, 20 su 198. Alla fine del 2011 infine erano 18.750 le persone su cui pendeva una condanna a morte. «La grande maggioranza dei Paesi ha preso le distanze dalla pena di morte», avverte Salil Shetty, segretario generale di Amnesty.
Diversi i capi di imputazione per cui si viene giustiziati. In Iran si può morire per adulterio e sodomia (ricordiamo il caso di Sakineh), in Pakistan per blasfemia (è in attesa di esecuzione la cristiana Asia Bibi). In Arabia Saudita si muore per stregoneria, mentre in dieci Stati la condanna può essere emessa per reati di droga. Secondo Amnesty nella maggior parte dei Paesi dove è prevista la pena capitale, i procedimenti giudiziari non hanno rispettato gli standard internazionali sui processi equi mentre in alcuni casi, il giudizio si è fondato su confessioni estorte con tortura o altri metodi coercitivi, come in Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Iran e Iraq.
I cittadini stranieri sono stati più colpiti dalla pena di morte in Arabia Saudita, Malesia, Singapore e Thailandia. In Bielorussia e Vietnam invece i condannati non sono neanche stati avvertiti della loro imminente esecuzione.
Il dato più inquietante arriva dal Medio Oriente dove c’è stato un aumento del 50% delle esecuzioni rispetto al 2010. In cima alla lista nera c’è l’Iran con almeno 360 persone finite al patibolo, segue l’Arabia Saudita con 82, l’Iraq con 68 e lo Yemen con 41. Queste quattro nazioni da sole contribuiscono al 99% delle condanne a morte praticate tra Medio Oriente e NordAfrica, in tutto 558. I dati più incerti riguardano la Repubblica islamica, dove in realtà le esecuzioni sarebbero il doppio e dove almeno tre persone sono state giustiziate per reati commessi prima della maggiore età in violazione alle leggi internazionali.
La Cina rappresenta il buco nero nel rapporto di Amnesty secondo cui migliaia di persone sarebbero state giustiziate nel 2011. Gli Stati Uniti sono la pecora nera in ambito Osce assieme alla Bielorussia unica a praticare la pena di morte in Europa. Negli Usa sono state giustiziate 43 persone, in 13 dei 34 stati dove è ammessa la pena capitale.
Il rapporto offre anche spunti positivi. In Cina il governo ha eliminato la pena di morte per 13 reati. Negli Stati Uniti il numero delle esecuzioni e delle nuove condanne a morte (78) è diminuito notevolmente rispetto a 10 anni fa. L’Illinois è diventato il 16esimo stato abolizionista e l’Oregon ha annunciato una moratoria. Tra i paesi di religione islamica, Algeria, Giordania, Kuwait, Libano, Marocco, Sahara occidentale e Qatar limitano molto le esecuzioni, così come alcune realtà dell’Africa subsahariana. «Possiamo notare graduali progressi, piccoli passi ma visibili», spiega Salil Shetty secondo cui «non avverrà certo nel giro di una notte mia un giorno la pena di morte sarà consegnata alla storia».
Corriere della Sera 27.3.12
Il partito, l'amante, il delitto Lady Macbeth abita a Chongqing
Sospetti sulla moglie di Bo Xilai per la morte di un inglese
di Marco Del Corona
PECHINO — Forse sono i pettegolezzi che la fanno sembrare peggiore. Forse è solo il gusto di infierire contro chi è precipitato. Ma intorno a Gu Kailai, moglie di Bo Xilai, si addensano dettagli che sembrano congiurare per descriverla come la Lady Macbeth di Chongqing. La vicenda che dal 6 febbraio ha bruscamente interrotto la carriera del marito, ormai ex segretario del Partito nella metropoli dell'Ovest, ha cominciato a riguardarla quando è emerso che Bo avrebbe deciso di giubilare il capo della polizia Wang Lijiun proprio perché avrebbe informato il capo di un'indagine che riguardava la moglie. E ieri il suo nome è stato associato a un altro mistero: la morte di un cittadino britannico sulla quale Londra ha chiesto chiarimenti.
Neil Heywood era stato trovato morto in hotel a Chongqing in novembre. «Eccesso di alcol» per le autorità, e il corpo era stato cremato senz'autopsia. Il Wall Street Journal, che ha sollevato il caso Heywood, ha aggiunto che Wang aveva fatto infuriare Bo confidandogli che il britannico avrebbe potuto essere stato avvelenato. E sempre secondo le fonti del giornale, Heywood avrebbe avuto una disputa di affari proprio con Gu Kailai. Dalla deduzione al sospetto il passo potrebbe rivelarsi breve. La vittima operava come consulente, grazie alla moglie cinese vantava accesso e familiarità con il clan dei Bo e avrebbe frequentato il figlio Bo Guagua sia in Gran Bretagna sia in Cina. Nel caso fosse davvero caduto in disgrazia agli occhi della signora Gu, Heywood avrebbe dovuto sapere che si era messo contro una donna potente. Una portavoce del ministero degli Esteri ieri ha comunque dichiarato di non avere informazioni sulla vicenda Heywood, il cui nome era riaffiorato su Weibo (il Twitter cinese) in febbraio.
Figlia di un generale, classe 1960, Gu Kailai aveva conosciuto Bo segretario del Partito di un distretto rurale di Dalian. Era il 1984 e lui, di 10 anni più anziano, aveva già una prima signora Bo. Gu Kailai, che era rimasta incinta di Guagua prima delle nozze, ha costruito una carriera da avvocato di successo, al punto che i costosissimi studi del rampollo (che ora è ad Harvard) sono stati attribuiti dall'entourage di Bo proprio ai redditi accumulati dalla signora. Inverificabili voci raccolte dal sito Boxun (non accessibile in Cina) aggiungono che, per togliere di torno una giornalista televisiva di Dalian che sospettava avesse una tresca con Bo, Kailai l'avesse fatta internare in una clinica psichiatrica. Uniti nella buona e nella cattiva sorte, dei coniugi non si ha notizia dal 15 marzo, quando l'ex sindaco di Dalian ed ex ministro del Commercio è stato rimosso dalla carica di leader del partito di Chongqing, municipalità da 33 milioni di abitanti.
L'ambizione politica di Bo Xilai, eroe della sinistra nostalgica e «neomaoista», ha trovato in Kailai una spalla efficace. Incontrando i giornalisti durante la sessione annuale del parlamento, Bo aveva dichiarato che il modo in cui la consorte aveva abbandonato ormai da vent'anni la sua brillante carriera legale per stare «in pratica a casa» e «darmi una mano», lo «commuove tuttora». Adesso che Chongqing viene normalizzata, che le canzoni «rosse» care a Bo diventano prassi settimanale e non quotidiana, adesso che la tv riprende una programmazione normale e che i nuovi capi della città si affannano a rassicurare gli investitori internazionali, è più facile dipingere la coppia come un'associazione a delinquere. I microblog si gonfiano di speculazioni, sul web il nome di Heywood diventa inaccessibile a singhiozzo, mentre il premier Wen Jiabao ribadisce che «la corruzione può intaccare la struttura del potere». La Cina intanto è di una giornata più vicina al congresso del Partito comunista. L'attesa, però, i leader se l'aspettavano più tranquilla.
Corriere della Sera 27.3.12
Hollande e Gabriel, Leader folgorati dal pensiero scomodo di Habermas
di Paolo Lepri
Potrebbe non essere una discussione facile quella tra il filosofo tedesco Jürgen Habermas, il leader socialista francese François Hollande e il numero uno della Spd, Sigmar Gabriel. Intanto, qualcuno dovrebbe organizzarla, per esaudire il desiderio espresso dallo sfidante di Nicolas Sarkozy in una intervista a due voci pubblicata dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e da Libération. «Lo incontrerei volentieri — afferma Hollande — perché ha detto parole chiare e illuminanti sull'Europa». «Verrei subito anch'io», aggiunge Gabriel. Nel 1985 (e questo era il riferimento storico della domanda) François Mitterrand ed Helmut Kohl andarono a fare visita allo scrittore Ernst Jünger, che era stato ufficiale della Wehrmacht a Parigi, scelto come simbolo della definitiva riconciliazione. Erano altri tempi. Oggi, all'epoca di Merkozy, il principale motivo di tensione tra i due Paesi è legato alla campagna elettorale per l'Eliseo. Nel caso che a perdere sia l'attuale presidente.
Ma se è vero che la cancelliera gli fa la guerra, non è detto che Hollande possa trovare una sponda ideologica nelle tesi del filosofo tedesco. Con «vigore giovanile», come ha notato Sergio Romano, l'ottantaduenne Habermas ha scritto in realtà cose molto scomode su un'Europa che ha bisogno di essere «ridemocratizzata». A suo giudizio, l'unica via possibile è un «governo economico comune» che intervenga sulle condizioni di vita dei cittadini con «un trasferimento ulteriore di sovranità». Tutto molto lontano dalla mentalità francese e dalla storica collocazione dei socialisti parigini nella difesa delle prerogative nazionali.
Certo, queste riflessioni sono distanti anche dalle capacità programmatiche con cui nella sinistra, in Francia e in Germania, si stanno affrontando le novità emerse con la crisi dell'euro. Hollande vuole rinegoziare il patto fiscale, Gabriel offre ad Angela Merkel i suoi voti, determinanti per approvarlo. Entrambi mettono l'accento, da posizioni di partenza diverse, sulla necessità di sostenere crescita e occupazione. Per evitare che siano solo slogan e che si continui a navigare a vista, forse sarebbe il caso, veramente, di andare a trovare Habermas.
Repubblica 27.3.12
Se le armi non mancano mai
di Moisés Naìm
Che cos´è che non manca mai? Che cos´è che sembra abbondare anche nei luoghi più poveri o remoti del pianeta?
Le armi.
Quando è stata l´ultima volta che una guerra, una rivolta o un movimento guerrigliero sono cessati perché una delle parti in conflitto era rimasta a corto di munizioni?
Mai.
Dove c´è la guerra compare sempre il denaro, e dove c´è il denaro compaiono sempre le armi. E non compaiono solo dove c´è la guerra e dove c´è il denaro. Le armi abbondano anche nei luoghi più miserabili del pianeta.
Nei centri urbani dove manca tutto e impera la carestia, dove i bambini non hanno latte, i giovani non hanno libri e la fame è una cosa di tutti i giorni, quello che non manca mai sono le armi. Pistole e revolver, fucili e mitragliette, lanciagranate e altre armi portatili sono una presenza tragicamente comune nei quartieri poveri di tutto il mondo.
Abbondano anche in quelle parti del mondo dove c´è solo fame, sete e morte. Nei villaggi e nelle città del Sudan o dello Yemen, nelle foreste della Colombia o dello Sri Lanka, nelle montagne del Congo, dell´Afghanistan o della Cecenia manca tutto. Ma non le armi. Armi che ogni anno provocano mezzo milione di morti.
La Small Arms Survey è un´iniziativa del Centro di studi internazionali di Ginevra specializzata nell´analisi dei mercati e delle conseguenze del commercio internazionale di armi leggere. I ricercatori della Small Arms Survey calcolano che ci siano 875 esemplari di armi leggere in giro per il mondo, prodotte da oltre 1.000 aziende in più di 100 Paesi, per un mercato che muove 7 miliardi di dollari all´anno. Gli esperti sono d´accordo che il principale ostacolo per ridurre le stragi provocate dalla proliferazione di armi portatili è la mancanza di informazioni. L´anonimato nella fabbricazione e compravendita di armi e il segreto mantenuto sulla destinazione, le quantità e le tipologie di armi che vengono commercializzate ha reso più difficile applicare politiche in grado di mitigare il problema e ostacola gli sforzi internazionali necessari per fronteggiare una minaccia che non tiene conto delle frontiere nazionali. Con la fine della guerra fredda e l´accelerazione della globalizzazione si sono intensificate due tendenze che rendono ancora più complicato il problema delle armi leggere e l´accesso alle informazioni: la proliferazione e la privatizzazione.
Oggi ci sono più fornitori e compratori che mai e gli acquirenti sono sempre più spesso clienti «privati» come ribelli, guerriglieri, terroristi e bande criminali, invece che Governi o forze armate regolari.
L´incremento dell´offerta di armi è considerevole: prima, le imprese che fabbricavano armi leggere non erano più di qualche centinaio. Oggi sono più di mille e la cifra va aumentando. Prima erano insediate in un numero relativamente ristretto di Paesi, oggi sono ovunque. Prima erano appendici dei governi, anche se formalmente erano aziende private.
Ora il controllo dei Governi o delle forze armate sulla produzione di armi si è allentato e ci sono imprese transnazionali che di fatto agiscono in maniera del tutto indipendente dai Governi, e questo fa sì che gli acquirenti di armi leggere oggi possano contare su una quantità di fornitori senza precedenti.
Lo stesso succede sul versante della domanda: il numero di clienti e la richiesta di armi leggere è in aumento. Paradossalmente, tutto questo succede proprio in un momento in cui le guerre tra Paesi sono diminuite (a partire dagli anni 90, i conflitti armati fra nazioni sono diventati sempre più rari). Ma sta succedendo il contrario per quanto riguarda i conflitti all´interno dei Paesi, e abbiamo visto come siano aumentate le guerre civili, le insurrezioni, gli scontri armati tra fazioni politiche. La Primavera Araba, per esempio, ha prodotto uno «shock» di domanda sul mercato delle armi leggere. In Siria, prima della crisi, un Kalashnikov si poteva comprare sul mercato nero per 1.200 dollari; ora costa più di 2.100 dollari.
Tutto questo non significa che i Governi e le forze armate regolari non continuino a essere i protagonisti principali del mercato internazionale delle armi leggere. Gli Stati Uniti e l´Europa sono i maggiori produttori ed esportatori. Paradossalmente, però, i Governi di questi Paesi sono quelli che si stanno impegnando di più per contenere il boom mondiale di questo tipo di armamenti. Siamo abituati all´ipocrisia nelle relazioni internazionali: a volte l´unica conseguenza sono discorsi noiosi senza effetti di rilievo, ma nel caso dell´indolenza della comunità internazionale rispetto alla proliferazione delle armi leggere, e dei Paesi e delle aziende che sulle armi leggere ci guadagnano, l´ipocrisia produce conseguenze letali.
Repubblica 27.3.12
Perché le frontiere ci possono salvare dai falsi miti fondativi
Anticipiamo un brano dal nuovo saggio di Debray che in Francia ha provocato molte discussioni
di Régis Debray
Un´idea sciocca incanta l´Occidente: l´umanità, che sta andando male, andrà meglio senza frontiere. D´altronde, aggiunge Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni, la democrazia ci porta diritto in un mondo senza fuori né dentro. Nessun problema. Guardate Berlino: c´era un muro, adesso non c´è più. Prova evidente che Internet, i paradisi fiscali, i cyberattacchi, le nubi vulcaniche e l´effetto serra stanno spedendo all´ecomuseo le nostre vecchie transenne bianche e rosse, insieme con l´aratro di legno, la bourrée auvergnate e il cucù svizzero. Tutti coloro che, nel nostro piccolo promontorio di Asia, godono di un posto al sole – giornalisti, medici, calciatori, banchieri, clown, coach, avvocati d´affari, veterinari – esibiscono il distintivo senza frontiere. Alle professioni e alle associazioni, che sul loro biglietto da visita dimenticano questa sorta di Apriti Sesamo verso ogni simpatia e sovvenzione, non si dà alcuna importanza. Doganieri senza frontiere è cosa di domani.
Se il miraggio fosse tonificante, tanto da smuoverci il sangue, da spingerci in marcia di buon mattino e di buona lena, allora dovremmo concedere il nostro consenso a cuor leggero. Fra una sciocchezza che dà respiro e una verità che soffoca non si può esitare. Il fatto che da centinaia di migliaia di anni seppelliamo i nostri cari con l´idea che presto potranno ritrovarsi in paradiso è la prova inconfutabile di come una consolante illusione non si rifiuta mai. Per opporsi al Nulla, il genere umano ha fatto sempre la scelta più comoda: quella dell´illusione. (...)
Si accarezza l´idea di un pianeta levigato, sgombro dall´altro, senza conflitti, restituito alla sua innocenza originale, alla pace del suo primo mattino, simile alla tunica senza cuciture di Cristo. Una Terra con il lifting, con tutte le cicatrici cancellate, dove il Male sarebbe miracolosamente scomparso. Le nubi atomiche vanno in questo senso: si prendono gioco di Termine, la divinità dei confini che i romani adoravano in un tempio sul Campidoglio, in pieno centro, nel cui nome venivano piantati i cippi che segnavano i limiti dei poderi. Nemmeno l´Hiv se ne cura. È un dato di fatto. Ce n´è un altro, concomitante con il primo: di frontiere sul terreno non ne sono mai state create così tante come negli ultimi cinquant´anni. Ventisettemila chilometri di nuove frontiere sono state tracciate a partire dal 1991, soprattutto in Europa e in Eurasia. Altri diecimila chilometri di muri, barriere e recinzioni sofisticate sono previsti nei prossimi anni. Michel Foucher, nei suoi studi di geopolitica, ha contato, fra il 2009 e il 2010, ventisei casi di gravi dispute di confine tra Stati. La realtà è ciò che ci resiste, sfidando i nostri castelli in aria. È un fossile osceno tipo la frontiera, forse, ma si agita come un dannato. Fa le linguacce a Google Earth e incendia la pianura – Balcani, Asia centrale, Caucaso, Corno d´Africa, persino il placido Belgio.
I materialisti di casa mia, che hanno sostituito l´«hurrà per gli Urali!» con un «evviva la città mondo!», si credono all´avanguardia. Temo non siano troppo in ritardo per un ritorno del rimosso. Si drogano in modo light, cantano l´erranza e la nuova mobilità planetaria, stravedono per i prefissi trans e inter, idealizzano il nomade e il pirata, esaltano la levigatezza e la fluidità nello stesso momento in cui, nel cuore dell´Europa, ricompaiono linee di divisione ereditate dall´Antica Roma o dal Medio Evo, e davanti alla porta di casa si rivendicano come frontiere nazionali alcuni insignificanti confini regionali. Tutti a esaltare l´apertura, mentre l´industria della sicurezza, quella dei sensori termici e dei sistemi elettronici, decuplica il suo giro d´affari.
Only one world canticchia lo show-biz, e intanto all´Onu c´è il quadruplo di Stati rispetto a quando fu fondato. L´orizzonte del consumatore si dilata, quello degli elettori si contrae. Mentre il mantra deterritorializzazione, benché difficile da pronunciare, la fa da padrone nei nostri simposi, il diritto internazionale «territorializza» il mare – che un tempo era res nullius – in tre zone distinte: acque territoriali, zona contigua e zona economica esclusiva. L´economia si globalizza, la politica si provincializza.
Con il cellulare, il Gps e Internet, gli antipodi diventano il vicinato, ma i vicini in una township estraggono i coltelli e, sempre più, si uccidono l´un l´altro. È la grande mutazione. Raramente si è visto, nella lunga storia della credulità occidentale, uno iato così forte fra lo stato del nostro spirito e lo stato delle cose, fra ciò che ci auguriamo e ciò che è, fra ciò che si sostiene nell´Internazionale universitaria dei pensatori euro-americani, misero sostituto dell´Internazionale operaia ormai scomparsa, e ciò che imperversa nell´arena planetaria. Negli Stati Uniti, dopo la guerra, hanno costruito dei rifugi antiatomici. L´intellighentia post-nazionale, definita a torto critica e radicale, oggi ci offre rifugi contro la realtà, grazie a teorici di grande sapienza e poca esperienza. Cerchiamo pure di essere radicali, ma andando alle radici.
Da quale realtà ci si vuole proteggere, fuggendo nel wishful thinking, brandendo questa parola feticcio, questo comodo alibi che esenta la volontà dalle conseguenze di ciò che si vuole, la diversità? Da una realtà ostinata che ci molla una sberla ogni volta che dimentichiamo la raccomandazione sempre attuale di Giuseppe Verdi: «Tornate all´antico, sarà un progresso». Da un´assurdità necessaria e inevitabile che si chiama frontiera. (...)
La frontiera ha questa virtù, che non è soltanto estetica: mettendo sotto tensione un luogo più o meno anodino «rende affascinante la strada». Nulla può riuscire a evitare un´emozione al fondo del viale, un´isola di Citera all´orizzonte del molo. Là dove la strada incassata fra gli alberi s´infila nel sottobosco, il mondo ritorna incantato. Da qui il «tropismo dei margini» per tutti i nostri cercatori d´oro. I «randagi dei confini», gli agrimensori delle regioni di frontiera, gli amici del crepuscolo («ciò che non è già più l´ombra e non ancora la preda», come diceva André Breton) non possono che avere antenne per il meraviglioso. Chi ha familiarità con le bordure ha anche familiarità con il Santo Graal e con i campi magnetici. Borderline e flâneur, i surrealisti hanno spalancato le finestre di casa Cartesio. E questo fatto non è senza relazione, a parte ogni clericalismo, con la geopolitica del soprannaturale. Le apparizioni della Vergine Maria avvengono più spesso nelle zone di confine – ultimamente a Medjugorje, in Bosnia Erzegovina –, siano esse fra Stati o fra confessioni religiose, come in Libano.
(Traduzione di Gian Luca Favetto)
il Fatto 27.3.12
Il manuale dell’orfanello
di Nanni Delbecchi
È un momento difficile per la carta stampata, lo sappiamo e i giornali cercano di offrire tutto, ma proprio tutto ai loro lettori. Ogni giorno in edicola va in scena una sfida all'ultimo gadget, materiale o addirittura interiore. Capita così che sul Corriere della Sera di ieri, nella pagina dedicata alla morte del sergente Silvestri, venga ospitato un intervento della psicoterapeuta Federica Normando dal titolo “Non negare il lutto né enfatizzarlo, così il ricordo diventerà dolce”. Certezza asseverativa, dall'occhiello ancor più rivelatore: “Come raccontare la tragedia”. Già, perché quello che Normando si propone nel suo breve pezzo è proprio dare una serie di consigli a chi dovesse trovarsi in questa penosa situazione. “Non c'è un modo per rendere la morte di un padre poco dolorosa per il suo bambino”, esordisce il pezzo; e fin qui siamo tutti d'accordo.
TUTTAVIA, prosegue la terapeuta, “si può rendere meno disperante l'essere orfano”. E lei ci spiegherà come. “È bene che il bambino partecipi al funerale... che percorra insieme alla famiglia le tappe dell'addio... bisogna raccontargli che cosa è successo... bisognerà che il ricordo del papà divenga un compagno dolce, non invasivo... ” eccetera eccetera. Lettrici e lettori vedovi sono invitati a leggere attentamente questo “manuale dell'or-fanello” e a prendere nota, mentre i più previdenti tra gli altri, pur facendo i debiti scongiuri, lo avranno ritagliato e conservato, giacché non si sa mai nella vita. Ma davvero è possibile redigere un decalogo su “come si raccontano” tragedie tanto individuali, oltretutto dalle colonne di un giornale del mattino? Nel dubbio – e dubbio è un eufemismo –, si impongono almeno due osservazioni. Difficile trovare un'epoca più nevrotica di quella attuale. Eppure assistiamo ormai da anni alla deriva montante della psicologia-bricolage, del fai-da-te dell'anima (o della psiche, o di quel neologismo molto in voga nei salotti radical-chic come nei saloni dei coiffeur, che risponde al nome di autostima). Una scuola che discende da maestri americani del pensiero – e soprattutto del best-seller di massa – come l'americano Leo Buscaglia o l'indo-statunitense Anthony de Mello; e si materializza nelle pile di manuali self-help che intasano le librerie. Consigli e regole prêt-à-porter per qualsiasi circostanza o sfida riservata dalla vita, per venire incontro al desiderio di ricette facili, gustose, economiche.
STESSA CUCINA per tutti, si tratti di montare la felicità come se fosse un mobile Ikea, o di smontare il dolore del bambino, del padre o della madre, come se il mobile dovesse tornare nello scatolone. Peccato che non esistano il bambino, il padre, la madre. Esistono quel bambino, quel padre, quella madre. E quando ci si riferisce a casi tragici particolari, la banalità generica è proprio fuori luogo. La seconda riflessione ci riporta al punto di partenza, ovvero all'opportunità mediatica di dare spazio a questa psicologia-bricolage e ai loro aedi. Lo psicologo tracima, esonda, travalica. La linea di demarcazione con il tuttologo e l'ufologo si fa sempre più labile. Su Sky Tg 24, sempre ieri, si ripeteva come accanto alla moglie di Michele Silvestri ci fosse la psicologa dell'Esercito “che avrà il compito più arduo”. Il compito più arduo? E (sia detto con il massimo rispetto) congiunti e amici che fanno? Stanno in panchina in attesa di leggere il manuale dei parenti dell'orfano? Così parrebbe, almeno stando ai sempre più premurosi mass-media. In ogni dibattito televisivo che si rispetti, non manca mai lo psicologo o il terapeuta, il criminologo o il coach (scusate il termine) a dare la linea. E siccome i quotidiani sono sempre più talk-show di carta, ormai si disegnano i menabò proprio come Bruno Vespa prepara il casting di Porta a Porta. Il plastico della Costa Concordia o di Avetrana non si può ancora allegare al Corriere (per ora). Il pezzo con i consigli dello psicologo, invece, sì.
l’Unità 27.3.12
La città ideale non spezza i legami sociali
L’inedito L’antropologo francese immagina l’evoluzione auspicabile delle nostre metropoli, portando come esempio già esistente
le nostre Parma e Modena, dove la piazza resta luogo d’incontro e scambio
di Marc Augé
La lingua corrente riserva delle sorprese. Così oggi ricorriamo spesso all’uso del privativo «senza». Parliamo di persone «senza fissa dimora» o di quelle «senza documenti», e, dal momento che sappiamo con tutta evidenza che la loro situazione è assai problematica, siamo portati indirettamente a credere, come se ciò fosse scontato, che avere una fissa dimora e dei documenti sia la condizione sufficiente della felicità. (...)
Sarà anche vero, ma mi permetto d’insistere: il cumulo di residenze e la sicurezza dei più agiati provano che l’ideale della vita individuale non è necessariamente l’attaccamento a un luogo fisso, quello della cozza al suo scoglio, né il fatto di poter declinare la proprio identità dietro richiesta, mostrando i documenti, ma, piuttosto, nella libertà effettiva di circolare e di restare relativamente anonimi.
L’attrazione che esercitavano le città nel corso del XIX secolo su coloro che fuggivano le campagne, che esercitano oggi le grandi città del Nord sui migranti venuti dal Sud, è nata dalle medesima rappresentazione. Il carattere grandemente illusorio di quest’ultima è innegabile, ma per chi s’interroga sull’ideale della vita urbana ai nostri giorni è essenziale prenderla in considerazione.
La città non cessa di ampliarsi. La maggioranza della popolazione mondiale vive in città e la tendenza è irreversibile. Ma di quale città si tratta? Ho proposto qualche nozione per descrivere ciò che potremmo chiamare l’urbanizzazione del pianeta, che corrisponde più o meno a ciò che noi chiamiamo globalizzazione per designare la generalizzazione del mercato, l’interdipendenza economica e finanziaria, l’estensione delle vie di circolazione e lo sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione elettronica. Da questo punto di vista, potremmo dire che il mondo è come un’immensa città. Paul Virilio ha utilizzato a questo proposito l’espressione di «metacittà virtuale». Il «mondo città», come l’ho chiamato, è caratterizzato dalla mobilità e l’uniformazione. Per un altro verso, le grandi metropoli si estendono e vi si trova tutta la diversità (etnica, religiosa, sociale, economica), ma anche tutte le divisioni, del mondo. Così è possibile opporre la «città mondo», le sue divisioni, i suoi punti di fissazione e i suoi contrasti al «mondo città», che ne costituisce il contesto globale e che appone in modo spettacolare su alcuni punti forti del paesaggio urbano la sua impronta estetica e funzionale: torri, aereoporti, centri commerciali o parchi di divertimento.
Più la grande città si espande, più essa si «decentra». I «centri storici» diventano musei visitati da turisti e grandi luoghi di consumo di tutti i generi. I prezzi sono alti e il centro delle città è sempre di più abitato da una popolazione agiata, spesso di origine straniera. L’attività produttiva si sposta extra muros. I trasporti sono il problema principale dell’agglomerazione urbana. Le distanze sono spesso considerevoli tra il luogo d’abitazione e il luogo di lavoro. Il tessuto urbano si espande lungo le vie di circolazione, i fiumi e le coste. In Europa, le «periferie» urbane si fiancheggiano, si saldano, si confondono e ci si può persuadere che con la generalizzazione dell’«urbano» stiamo per perdere la «città». (...)
Il luogo non si oppone al non-luogo come il bene al male o il vivere bene al vivere male. Il luogo assoluto sarebbe uno spazio dove a ciascuno sarebbe assegnato il domicilio in funzione della sua età, del suo sesso, del suo posto nella filiazione e delle norme del legame matrimoniale: uno spazio dove il senso sociale, inteso come l’insieme delle relazioni sociali autorizzate o prescritte, toccherebbe il suo apice e la solitudine sarebbe impossibile così come la libertà individuale impensabile. Il non-luogo assoluto sarebbe uno spazio senza regole né vincoli collettivi di alcun tipo: uno spazio senza alterità, uno spazio di solitudine infinita. L’assoluto del luogo è totalitario, l’assoluto del non luogo è la morte. Evocare questi due estremi, significa definire nel medesimo tempo la posta in gioco di ogni politica democratica: come salvare il senso (sociale) senza uccidere la libertà (individuale) e inversamente?
In un mondo globale, la risposta s’impone in termini spaziali: ripensare il locale. Malgrado le illusioni diffuse dalle tecnologie del comunicazione, dalla televisione a Internet, noi viviamo là dove viviamo. L’ubiquità e istantaneità restano delle metafore. L’importante, con i mezzi di comunicazione, sta nel prenderli per ciò che sono: dei mezzi capaci di facilitare la vita, ma non di sostituirsi ad essa. Da questo punto di vista, il compito da assolvere è immenso. Si tratta di evitare che la sovrabbondanza d’immagini e messaggi porti a delle nuove forme d’isolamento. Per frenare questa deriva fin d’ora osservabile, le soluzioni saranno necessariamente spaziali, locali e, per dirla tutta, nel senso ampio del termine, politiche.
Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà del non-luogo? È possibile ripensare la città nell’insieme e l’abitare nei dettagli?
Una città non è un arcipelago. L’illusione creata da Le Corbusier di una vita centrata sull’alloggio e sull’unità d’abitazione collettiva ha portato ai palazzoni delle nostre periferie, disertati abbastanza in fretta dai commerci e dai servizi che dovevano renderli eminentemente «vivibili». Si è trascurata la necessità della relazione sociale e del contatto con l’esterno (...). Che cosa, nelle città reali, evoca qualche aspetto di ciò che noi potremmo considerare come la città ideale? Due esempi mi vengono in mente. Li idealizzo certamente, ma è proprio ciò in cui consta questo esercizio: reperire delle tracce d’ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città medie del Nord d’Italia, come Parma o Modena. Nel centro di queste città, la vita è intensa, la piazza pubblica resta un luogo d’incontro, si circola in bicicletta, si costeggiano naturalmente i grandi luoghi della storia. Il visitatore di passaggio ha l’impressione che potrebbe scivolare nell’intimità di questo mondo amabile senza farsi riconoscere, stabilire delle relazioni senza esservi obbligato e passare da una città all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, si obietterà, bisogna proprio chiudere gli occhi, per ignorare tutto ciò che è contrario a questa visione da turista miope: la povertà, l’immigrazione, gli atteggiamenti di rifiuto... Ancora una volta mi fermo qui all’ideale, che esige, in effetti, una forma di miopia. Altro esempio: la vita di quartiere in un arrondissement parigino (...) Ogni programma d’insieme e ogni progetto di dettaglio dovrebbero associare diversi tipi di riflessioni: una riflessione d’urbanista sulle frontiere e gli equilibri interni al corpo della città, una riflessione d’architetto sulle continuità e le rotture di stile, una riflessione antropologica sull’abitare oggi, che deve conciliare la necessità d’aperture multiple sull’esterno e il bisogno d’intimità privata. Grande cantiere di «rammendi» (nel senso delle sarte di un tempo e delle «rammagliatrici», che rammendavano i vestiti strappati o le calze smagliate). Bisognerebbe, in ogni modo possibile, rintracciare le frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Delle frontiere, ossia delle soglie, dei passaggi, delle porte ufficiali, per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna ridare la parola al paesaggio. (...) Ancora uno sforzo verso l’ideale... Questo ideale dovrebbe essere presente nella disposizione interna degli appartamenti più modesti, dove si dovrebbero combinare su piccola scala le tre dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, eventualmente il pubblico (in questo caso familiare) e la relazione con l’esterno. Così formulato, l’ideale è utopico e non è evidentemente di competenza del solo architetto. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già presente. Per concludere, torno all’immagine della sarta e della rammagliatrice. Non è esclusiva dei grandi progetti che possano offrire bellezza a tutti gli sguardi, né del rimodellamento dei grandi paesaggi dove ognuno può perdersi e ritrovarsi. Essa vuole semplicemente ricordare che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto, e che le più grandi imprese sono vane se non lo riguardano almeno un po’.
(Traduzione di Andrea Inglese)
La Stampa 27.3.12
Martha Nussbaum
Cari economisti prendetela con filosofia
Liberarsi dalla dittatura del Pil per vivere felici Parla una protagonista della cultura liberal Usa
di Massimiliano Panarari
Martha Nussbaum è nata a New York 65 anni fa. Di formazione antichistica, insegna Law and Ethics all’Università di Chicago. Il suo ultimo libro, Creare capacità , è uscito da poco per il Mulino
I soldi e il Pil non danno la felicità. A sostenerlo, da un po’ di tempo, sono in diversi. E non stiamo parlando di qualche teorico anticapitalista o degli alfieri della decrescita, ma degli esponenti del filone, giustappunto, dell’«economia della felicità». E di figure come Martha Craven Nussbaum, la celebre filosofa statunitense che insegna Law and Ethics all’Università di Chicago, una delle protagoniste della cultura progressista e liberal internazionale, interprete originale - per usare una sua espressione, che rimanda agli esordi come antichista - di una «concezione aristotelica della socialdemocrazia».
Il suo ultimo libro è infatti dedicato al Creare capacità (il Mulino, pp. 216, € 15), con la finalità, come recita il sottotitolo, e ci racconta in questa intervista, di «liberarsi dalla dittatura del Pil».
Professoressa Nussbaum, come vanno cambiati i criteri di misura del Pil?
«Io non dico di smettere di misurarlo, ma il Pil pro capite non costituisce una rilevazione adeguata del grado di sviluppo. Per cominciare, trascura la distribuzione; e infatti può assegnare valori elevati a nazioni che, al loro interno, presentano diseguaglianze allarmanti. In secondo luogo, non è un buon misuratore di molti dei fattori differenti che fanno avanzare il processo di sviluppo. Sanità e educazione non sono ben correlate al Pil; e il successo della Cina ha mostrato al mondo che anche la libertà politica e religiosa ha ben poco a che fare con questo indicatore. Lo “Human Development approach” (altrimenti conosciuto come “Capabilities approach”) si basa, invece, su quello che i componenti di una popolazione sono veramente capaci di fare e di essere; e, dunque, su quali opportunità dispongono realmente in ambiti come la longevità, la salute, l’educazione, la facoltà per le donne di proteggere la propria integrità corporea, la possibilità per i lavoratori di godere di relazioni di pari opportunità e di non discriminazione e, naturalmente, le libertà politiche e religiose. L’idea è che ciascuno di questi fattori deve essere valutato separatamente, e che tutti si rivelano significativi per poter contare anche su un minimo di giustizia sociale. Il mio paradigma presenta una stretta relazione con la legge costituzionale: una buona costituzione attribuisce a tutti i cittadini diritti fondamentali in questi e altri settori, e il processo politico deve trovare le strade per dare attuazione a tali diritti».
Quali «buone pratiche» esistono e vanno nella direzione da lei indicata?
«La prima da ricordare è l’esistenza degli Human Development Reports del Development Programme delle Nazioni Unite (Undp), e cioè i rapporti, pubblicati a partire dal 1990, che raccolgono dati nei campi al centro del nuovo paradigma; ora imitati dagli Human Development Reports a livello di quasi ogni singola nazione. Negli ultimi dieci anni abbiamo anche assistito alla crescita e al rafforzamento della Human Development and Capability Association, un’associazione internazionale di cui Amartya Sen e io siamo i presidenti fondatori, e della quale fanno parte circa un migliaio di membri di 80 Paesi diversi. Voglio poi menzionare la Banca mondiale che per alcuni anni si è rivelata sempre più ricettiva nei confronti di queste nostre idee. Il presidente francese Sarkozy ha fatto stilare un eccellente rapporto sulla misurazione della qualità della vita, nominando a capo della commissione che l’ha elaborato lo stesso Sen, Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi. Quest’anno ho poi incontrato il Parlamento tedesco che sta producendo un rapporto analogo, e si rivela fortemente interessato all’approccio fondato sulle “capacità” (ovvero le condizioni per poter sviluppare appieno le proprie abilità in un contesto che permetta effettivamente di utilizzarle).
«Ma le cose migliori stanno accadendo in India, dove il governo manifesta una grande attenzione al tema: il capo dei consiglieri economici del primo ministro Manmohan Singh è Kaushik Basu, che al momento della sua nomina era presidente della Human Development and Capability Association, mentre il capo dei consiglieri economici di Sonia Gandhi è Jean Dreze, coautore di Sen. E un’altra nostra collaboratrice, Indira Jaising, una formidabile avvocata impegnata per i diritti delle donne, è stata nominata Vice-Procuratore generale».
In che modo le istituzioni nazionali possono migliorare le capacità dei loro cittadini?
«Le “capacità interne”, che consistono in competenze sviluppate e non innate, sono prodotte dal sistema nazionale di educazione, come pure dall’interesse verso la salute e la sicurezza dell’infanzia. E molto importanti sono anche le leggi contro la violenza domestica. L’educazione dovrebbe sviluppare non soltanto competenze utili sotto il profilo economico, ma anche abilità come il pensiero critico, la capacità di immedesimarsi nella situazione degli altri, la comprensione dell’economia globale e della storia del mondo. E poi ci sono quelle che io chiamo “capacità combinate” e sono più che competenze: vale a dire opportunità reali che esistono esclusivamente quando il governo e il sistema legale di una nazione le rendono concretamente possibili e permettono effettivamente agli individui di scegliere come agire. Mi sto riferendo alle occasioni di impiego, alle leggi che tutelano i lavoratori di fronte alla discriminazione e allo sfruttamento, alle norme che salvaguardano la salute e la sicurezza delle donne, alla protezione delle libertà religiose e politiche, alle disposizioni che difendono la qualità ambientale. Nel caso di ciascuna di queste fondamentali capacità, naturalmente, non è sufficiente fare buone leggi, ma è necessario anche farle rispettare».
Serve anche il pensiero filosofico per cambiare il modello tradizionale di Pil?
«L’approccio della capacità è scaturito dalla collaborazione tra la filosofia e l’economia. L’economia era tradizionalmente una parte della filosofia: Adam Smith, John Maynard Keynes e altri grandi economisti del passato erano anche filosofi. Mentre oggi Sen rappresenta di fatto il solo economista eminente che è anche un filosofo di primo piano. Dobbiamo, quindi, fare nuovamente affidamento sulla cooperazione tra le due discipline. I filosofi sono necessari per riflettere sulle questioni della giustizia sociale e possono contribuire mediante argomentazioni normative complesse, mentre gli economisti possono fornire il know-how tecnico per arrivare a realizzare gli obiettivi. Proprio per questo abbiamo fondato la Human Development and Capability Association».