mercoledì 28 marzo 2012

l’Unità 28.3.12
I delegati della Cgil erano stati esclusi perché non avevano firmato il contratto del Lingotto
La sentenza per la Magneti Marelli dà torto a Marchionne e riapre la partita della rappresentanza
Rsa, il giudice dà ragione alla Fiom
«Antisindacale» la decisione Fiat
di Giuseppe Vespo


Oggi si riaprono i cancelli della Magneti Marelli di Bologna e di Crevalcore per i rappresentanti della Fiom-Cgil. Lo ha stabilito il Tribunale di Bologna, che ha accolto le richieste del sindacato guidato da Maurizio Landini.
Le tute blu Cgil sono state messe alla porta qui, come in tutte le altre fabbriche del Lingotto, il primo gennaio di quest’anno. Un’esclusione dovuta al fatto che la Fiom non ha firmato e accettato il nuovo contratto Fiat, costruito sull’ormai famoso “modello Pomigliano”: un contratto che, tra le altre cose, non prevede più la presenza in fabbrica delle cosiddette Rsu rappresentanze sindacali unitarie, elette tra i lavoratori e introdotte con l’accordo interconfederale del 1993 ma contempla solo la presenza delle Rsa le rappresentanze sindacali aziendali, nominate dai sindacati e previste dalla legge (Statuto dei lavoratori).
Per questo, fatte fuori le Rsu all’inizio dell’anno la Fiom ha comunque presentato, come le altre organizzazioni sindacali, la sua lista con i rappresentanti Rsa. Ma i legali del Lingotto hanno rispedito l’elenco al mittente, sostenendo che non avendo accettato le nuove condizioni volute dall’azienda, il sindacato avesse perso il diritto ad una propria rappresentanza in azienda.
Non è così. Almeno per il giudice del Lavoro Carlo Sorgi, il primo dei tanti magistrati chiamati a esprimersi sul contenzioso. Sì, perché le tute blu hanno presentato ricorso in tutti i Tribunali in cui è presente una fabbrica della casa automobilistica. La Fiat si limita a dirsi «stupefatta» per la decisione del giudice Sorgi e la Magneti Marelli annuncia ricorso. Al centro del contenzioso c’è il poco famoso articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Una norma che interviene sulla rappresentanza sindacale in azienda, e che prevede la presenza di Rsa «delle associazioni sindacali che siano firmatarie dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». Su questa base Fiat ha provato a escludere la Fiom.
Ma per il giudice Sorgi è più importante il fatto che «la Fiom è la sigla che conta il maggior numero di iscritti negli stabilimenti Magneti Marelli, circostanza non in discussione, e che la Cgil, sindacato al quale è collegata la Fiom, è il sindacato in Italia che conta il maggior numero di iscritti, e l’esclusione di tale sindacato costituirebbe un grave vulnus al principio di democrazia nelle relazioni industriali ancora più rilevante in considerazione della platea di soggetti che verrebbero privati dei propri diritti sindacali». Il Tribunale ha inoltre imposto alla Marelli la restituzione delle salette destinate alle attività sindacali.
LE REAZIONI
«È la quinta volta, in cinque diversi Tribunali, che nell’ultimo anno la Fiat viene condannata per comportamento antisindacale per atti e azioni contro la Fiom, i suoi iscritti e i suoi delegati», commenta a caldo Maurizio Landini. «Il nuovo contratto imposto dalla Fiat ha l’obiettivo di escludere il sindacato più rappresentativo del settore continua Landini e di limitare le libertà sindacali delle singole persone. È il momento della responsabilità: Fiat applichi in tutti i suoi stabilimenti lo Statuto dei Lavoratori, le leggi e i principi costituzionali».
Siamo di fronte ad una sentenza che rende evidente «la necessità di regolare in via legislativa la materia relativa l’articolo 19 aggiunge Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera Soltanto in questo modo si può evitare l’espansione di contenziosi».
La decisione del giudice Sorgi arriva pochi giorni dopo le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Appello di Melfi impone il reintegro di tre operai licenziati dalla Fiat Sata, scrivono i giudici, per «liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo».
La Magneti Marelli invece era recentemente sulla ribalta per aver espulso dalle bacheche aziendali il nostro quotidiano.

l’Unità 28.3.12
Un precedente destinato a pesare sugli altri ricorsi
La sentenza di Bologna per la Fiom «crea un precedente»
«Il giudice ha preso una decisione innovativa, togliendo d’impaccio i suoi colleghi: ci aspettiamo molte sentenze simili», spiega l’avvocato Focareta.
di Massimo Franchi


La sentenza del giudice Carlo Sorgi di Bologna è la prima di una lunghissima serie. Sono circa una sessantina i ricorsi presentanti dalla Fiom, praticamente in ogni stabilimento italiano del gruppo Fiat contro l’esclusio-
ne dei metalmeccanici della Cgil dalle Rappresentanze sindacali aziendali. «Abbiamo preparato una sorta di format spiega l’avvocato Franco Focareta che è stato integrato con le singole specificità degli stabilimenti. Entro fine mese ci aspettiamo altre sentenze, domani (oggi, ndr) sarà il tribunale di Larino a discutere il ricorso per quanto riguarda lo stabilimento di Termoli», (Campobasso). Il precedente, secondo Focareta, peserà fortemente sulle altre sentenza: «Il giudice di Bologna aveva un’alternativa: sollevare l’eccezione di costituzionalità sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori (che consente ai soli sindacati firmatari degli accordi di essere rappresentanti in fabbrica, ndr). Non l’ha fatto e decidendo di prendere una decisione innovativa ha tolto dall’impaccio gli altri suoi colleghi che avevano lo stesso dubbio. Confidiamo che molti altri giudici si pronuncino così», conclude.
La Fiat fa sapere di non commentare le sentenze, ma annuncia comunque opposizione. Il problema per il Lingotto però è che la sentenza di ieri, tecnicamente, è un decreto. E così saranno le altre che arriveranno. In questo modo l’azienda, anche in caso di verdetti ribaltati nelle opposizioni (che saranno ugualmente celeri), è «intimata» a rispettarla e a riconoscere i delegati Fiom in fabbrica.
Rispetto alla sentenza su Pomigliano, che non ha ancora prodotto (e probabilmente non produrrà) lo stesso effetto semplicemente perché la Fiat non ha ancora ri-assunto un iscritto alla Fiom, la sconfitta per il Lingotto è più cocente. Nel primo caso la Fiat non aveva ancora lo schermo dell’articolo 8 della manovra di Ferragosto del governo Berlusconi, che prevede come i contratti azienda-
li potessero derogare da quelli nazionali. La sentenza di ieri infatti ne derubrica la “potenza” rispetto all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, sostenendo che quest’ultimo vada inteso in senso «estensivo». Per il giudice Sorgi l’esclusione della Fiom produce il cosiddetto «rischio dell’accreditamento»: la Fiat potrebbe decidere di accettare la firma sui contratti solo dalle parti sindacali che più le aggradano. Per evitarlo dunque alla Fiom va riconosciuto di aver esercitato il suo ruolo e di aver diritto alla rappresentanza anche solo avendo partecipato alla trattativa, senza firmare il contratto «per meglio rappresentare, secondo il proprio intendimento, le ragioni dei propri iscritti».
In tutti gli stabilimenti intanto stanno andando avanti le procedure di nomina delle Rsa. La Fiom aveva già deciso di presentare proprie liste, ma fino a ieri l’azienda e gli altri sindacati erano sicuri di negare la richiesta. La sentenza di Bologna rimette in discussione la decisione: andare avanti nelle procedure di nomina senza la Fiom rischierebbe di produrre elezioni sub-judice.

l’Unità 28.3.12
Adesso torni anche la bacheca dell’Unità
di Rinaldo Gianola


Tornano i delegati Fiom alla Magneti Marelli di Bologna e Crevalcore e speriamo che con loro sia ripristinata anche la bacheca de l’Unità, dove era affissa da sessant’anni. C’è dunque un giudice anche a Bologna, dopo Torino e Melfi, che condanna la Fiat per comportamento antisindacale e spiega che la Fiom, come qualunque altro sindacato, ha diritto di esercitare la sua attività, negoziando con l’azienda, praticando la sua critica e se non firma gli accordi deve, in ogni caso, mantenere la sua rappresentanza.
Non si buttano fuori i delegati sindacali perché sono iscritti alla Fiom, a un sindacato non gradito a Sergio Marchionne, così come, aggiungiamo noi, non si sbullonano le bacheche dell’Unità perché scrive cose non gradite al potente manager. È una questione di democrazia, di trasparenza, di convivenza civile. Non si possono discriminare i lavoratori che non firmano un accordo aziendale e se Marchionne nelle sue fabbriche cambia regole e contratti per manovrare senza ostacoli il bastone del comando deve comunque accettare anche la presenza, con piena facoltà all’esercizio di attività sindacali, di delegati che non sono d’accordo con i patti sottoscritti da altri.
La sentenza del giudice Carlo Sorgi offre una momentanea soddisfazione ai lavoratori della Marelli e a tutti coloro che si battono affinché la democrazia e il diritto non si fermino sulla soglia delle fabbriche. La Fiat non ci sta, si dice «stupefatta» e annuncia ricorso così come ha fatto in altre sconfitte. Due settimane fa la Corte d’Appello di Potenza aveva condannato la Fiat perché aveva licenziato tre operai impegnati nel sindacato, nella Fiom, e avevano osato scioperare. Vittorioso e reintegrato anche l’impiegato Capozzi di Mirafiori che aveva usato la mail aziendale per divulgare un volantino. Cosa sta succedendo alla Fiat? Il governo, il ministro Fornero, che spende generosamente la sua credibilità per garantire gli investimenti Fiat in Italia, non possono buttare un occhio a quanto accade oltre i cancelli?
Le cause giudiziarie si moltiplicheranno se non si ritroverà la strada del confronto e del rispetto delle parti, compresa la tutela del dissenso. La cause continueranno se il legislatore non garantirà il pluralismo sui luoghi di lavoro. Oltre alla minaccia portata all’articolo 18, bisogna tener conto della necessità di ridare corpo all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola la rappresentanza sindacale nelle imprese, svuotato di contenuti nel referendum del 1995 e usato dalla Fiat per i suoi obiettivi discriminatori. I parlamentari del Pd Paolo Nerozzi e Achille Passoni hanno presentato un disegno di legge per ripristinare il vecchio articolo 19 finalizzato a garantire la rappresentanza anche alle organizzazioni non firmatarie di contratti collettivi.
Lunedì sera faremo festa a Bologna: l’Unità, il Pd, la Fiom, lettori e lavoratori. Ma la battaglia non è finita.

l’Unità 28.3.12
Cosa unisce il Pd? Il no alla grande coalizione nel 2013
Chi griderà all’inciucio vuole mantenere la legge Porcata
di Cristoforo Boni


Speriamo che la legge Porcata sia davvero eliminata e che il nostro Paese possa finalmente diventare una democrazia europea, in cui il leader del partito che prende più voti diventa premier, formando in Parlamento una maggioranza coerente e rappresentativa degli orientamenti elettorali. Il passo avanti compiuto ieri dai tre segretari è promettente, anche se non risolutivo. Perché il programma di riforma è vasto comprendendo modifiche costituzionali tutt’altro che marginali e nel percorso potrebbero manifestarsi le riserve, oggi taciute per ragioni tattiche.
Guardando al Pd, però, il patto di ieri è un seguito importante della direzione di lunedì. Tante e diverse sono state le letture del voto unanime sulla relazione di Bersani. Forse era inevitabile visto che i più avevano annunciato una spaccatura certa tra laburisti e liberisti, o tra montiani e anti-montiani. Se lo strappo di Monti e Fornero sull’articolo 18 doveva servire per dividere il Pd, il risultato al momento non è stato raggiunto (benché qualcuno già preveda un secondo tempo in Parlamento).
Tuttavia la vera novità del Pd sta altrove. Sta nella consapevolezza che la stagione dell’emergenza non potrà continuare oltre il 2013. Che la Grande coalizione sarebbe una sciagura, per la tenuta democratica prima ancora che per una ragione di partito, e dunque va evitata. Non era del tutto chiaro fino a poco tempo fa. L’irenica teoria della Grande coalizione permanente, magari cullata nell’illusione di una proroga di Mario Monti, è sempre stata fragile ma ora è definitivamente andata in frantumi. Sarebbe surreale che la principale forza di centrosinistra si presentasse alle elezioni proponendo come premier l’uomo che ha rinunciato a un’intesa con le forze sociali, attorno a una seria modifica dell’articolo 18 in direzione del modello tedesco, per ottenere invece una rottura da spendersi con i «mercati» (ma forse destinata a una revisione parlamentare).
È vero che il rischio della Grande coalizione, in un sistema parlamentare, non è mai del tutto eliminabile. Per cancellarlo bisognerebbe confermare la legge Porcata, con quel premio di maggioranza che la Consulta ha già indicato come «incostituzionale» e che in Occidente ha un solo precedente: la legge Acerbo che consentì l’avvento del fascismo. Ma al Pd ora è chiaro a tutti è chiaro che dovrà presentarsi come un’alternativa credibile, con una propria capacità di raccogliere consensi in ampie fasce di elettorato popolare. Questo è il senso dell’unanimità di ieri. Ovviamente resteranno punti di vista diversi sull’equilibrio del messaggio e del programma, resteranno anche riserve sulle correzioni necessarie per applicare in Italia la legge elettorale tedesca. Ma a questo punto non si può più sfuggire alla sfida:oilPdèingradodi lanciare per il 2013 una sua proposta per il governo del Paese o sarà travolto da una crisi di legittimità. È in fondo la sfida fondativa del Pd. Non ci potranno più essere una coalizione confusa o un papa straniero a mascherare eventuali deficit. Il Pd è nato per abbattere lo schermo della coalizione preventiva: e non potrà inventarsene uno oggi per salvarsi.
La riforma elettorale è la conseguenza logica di questa sfida. Ma a questo punto il Pd deve confidare in un comune interesse alla riforma di Udc e Pdl. I centristi potrebbero avere, in questa fase, una convenienza tattica a ostacolare la formazione di bipolarismo di tipo europeo, tuttavia non hanno interesse a conservare il Porcellum (che li costringerebbe ad alleanze preventive). Il Pdl potrebbe far saltare tutto perché non sa ancora cosa fare nel dopo Berlusconi e, nella confusione, potrebbe limitarsi a boicottare il percorso preferito dal Pd. Questo è il rischio più serio. Anche il Pdl però si gioca la propria esistenza e il proprio futuro come partito.
Ultima avvertenza: chi griderà all’inciucio in realtà vuole difendere il Porcellum.

La Stampa 28.3.12
Sparisce l’obbligo di coalizione E’ la fine del bipolarismo
di Marco Castelnuovo


Il 27 e 28 marzo 1994, esattamente diciotto anni fa, gli italiani votavano per la prima volta per un sistema bipolare nel quale i diversi partiti si presentavano uniti in coalizione già prima del voto. Vinse Berlusconi e il suo Polo della Libertà, l’alleanza tra Forza Italia, An e Lega. Non durò molto, a differenza dell’assetto bipolare che resse anche al «Porcellum», il modello elettorale proporzionale con un forte premio di maggioranza in vigore dal 2006.
Si torna alla Prima Repubblica
Ieri, il vertice tra Alfano, Bersani e Casini ha trovato un accordo per modificare l’attuale legge elettorale. Le indicazioni che alla fine vengono messe nere su bianco sono quattro: restituzione ai cittadini del potere di scelta dei parlamentari; indicazione del candidato premier; soglia di sbarramento e diritto di tribuna. Ma la novità più importante è la quarta: il nuovo sistema non sarà «non più fondato sull’obbligo di coalizione».
Ovvero, le alleanze tra i partiti ci saranno ancora, nel momento di formare il governo, visto che è impensabile che in un sistema a più partiti come il nostro una sola lista superi il 50% dei voti. Ma le alleanze verranno decise dopo il voto e non più prima. Un po’ come avveniva nella Prima Repubblica.
In questo modo i partiti avranno mani libere durante la campagna elettorale e non dovranno più concordare programmi e candidati con gli alleati. Un movimento come la Lega, per esempio, sarà libera di presentarsi da sola alle elezioni facendo campagna elettorale usando gli slogan che più le si avvicinano senza dover scendere a compromessi con il Pdl. Ciò non toglie che, il giorno dopo il voto, se insieme superano il 50% dei seggi, Lega e Pdl potranno allearsi per formare il nuovo governo. Centrale diventa il ruolo del terzo Polo che potrebbe diventare naturale alleato di governo sia per il Pd che per il Pdl, pur senza dirlo prima agli elettori.
Modello «ispano-tedesco»
Il modello ricalca quello «ispano-tedesco» più volte annunciato: di fatto un sistema proporzionale basato su collegi uninominali piccoli o medio piccoli (tre o quattro candidati). Come dice il punto numero uno dell’accordo, la scelta degli eletti tornerebbe in questo modo in capo ai cittadini (evitando però il ritorno alle preferenze che gli italiani avevano abolito nei referendum dei primi anni ‘90).
L’altra novità riguarda l’accordo su «soglia di sbarramento e il diritto di tribuna». Come in Germania, la soglia di sbarramento sovrarappresenta un poco chi supera la fatidica «soglia», anche se, per contemperare la misura, chi non la supera avrà comunque una rappresentanza in Parlamento (e questo in Germania non c’è...).
Ultima considerazione sull’indicazione del candidato premier. Ora come ora, se l’indicazione è vincolante sarebbe incostituzionale. La scelta del presidente del Consiglio spetta al Presidente della Repubblica. Ma anche la Costituzione è oggetto di revisione, per cui si vedrà.
L’indicazione del premier
Certo sembra in contraddizione con le novità che spingono a ridare centralità al Parlamento, tipo la fine dell’obbligo di coalizione. In caso di accordo post-elettorale il capo del governo è il candidato indicato dal partito che ha ottenuto più voti o no? Non si sa. L’unica cosa certa è che diventa inutile fare le primarie di coalizione.

La Stampa 28.3.12
Meno parlamentari e compiti diversi per Camera e Senato
di Francesca Schianchi


Diminuzione del numero dei parlamentari, più poteri al premier, avvio del superamento del bicameralismo perfetto, abbassamento dell’età necessaria per l’elettorato attivo e passivo.
Premier più forte
Tutti d’accordo, una bozza di riforma costituzionale c’è già, messa a punto dagli esperti dei vari partiti a partire dalla proposta Violante: adesso, dicono trionfanti i partecipanti al vertice, l’iter in Parlamento è lì lì per cominciare, quindici giorni e la proposta verrà incardinata al Senato, come emendamento a testi già in discussione. «Siamo riusciti a passare dalle parole ai fatti», dichiara soddisfatto il leader Udc Casini: se succedesse davvero, sarebbe questa la vera novità, visto che già a metà febbraio ci fu un vertice «ABC» e il buon proposito, mai realizzato, di presentare a breve il testo.
Ma cosa contiene la bozza? Pilastri sono i punti indicati nel comunicato congiunto. «Riduzione del numero dei parlamentari»: la proposta è di passare da 630 a 500 deputati e da 315 a 250 senatori, «la decisione dovrebbe essere questa: al massimo ci potrà essere una norma transitoria», chiarisce Casini. Dovrebbero poi esserci otto deputati e quattro senatori eletti all’estero. Una dieta complessiva del 20%, lontana dal mitico dimezzamento.
«Rafforzamento dell’esecutivo e dei poteri del premier in Parlamento»: il presidente del Consiglio potrà chiedere al capo dello Stato la revoca di un ministro e lo scioglimento delle Camere e si parla di introdurre la sfiducia costruttiva, che prevede si voti la sfiducia a un governo concedendo allo stesso tempo la fiducia a un altro. Inoltre, si propone di far sì che il governo possa chiedere che a un disegno di legge venga data la priorità nell’ordine del giorno della Camera che lo ha in discussione, e venga votato entro un certo termine.
Deputati più giovani
«Revisione dell’età per l’elettorato attivo e passivo»: si vogliono portare al voto i diciottenni per entrambe le Camere (oggi per il Senato si ha diritto di voto a 25 anni), novità che porterebbe alle urne circa cinque milioni e mezzo di elettori in più. Inoltre, si propone di abbassare anche l’età per farsi eleggere: dagli attuali 25 anni a 21 per Montecitorio e da 40 a 35 a Palazzo Madama.
«Avvio del superamento del bicameralismo perfetto». Dice bene la nota: nella proposta si avanza un avvio, non proprio il superamento definitivo. E’ stato uno dei punti più dibattuti nella fase di confronto tra i «saggi» dei vari partiti: alla fine, non si è arrivati a prevedere la trasformazione del Senato in una vera e propria Camera delle autonomie, la mediazione individuata sarebbe quella di affidare a Montecitorio l’esame di provvedimenti su materie di legislazione esclusiva dello Stato, e a Palazzo Madama materie che rientrano nella potestà legislativa concorrente.
Bicameralismo «eventuale»
Inaugurando però il cosiddetto «bicameralismo eventuale»: le leggi vengono approvate da una sola Camera, salvo che l’altra, entro 15 giorni attraverso il 30% dei suoi componenti, non richiami a sé la legge in questione.
Ora la proposta, parallelamente alla legge elettorale, deve essere condensata in un emendamento e presentata al Senato. Già pronto, ha garantito il presidente Schifani al Capo dello Stato, a darsi un’adeguata organizzazione per esaminare al più presto le riforme. Anche se qualcuno continua a nutrire scetticismo, come il leghista Calderoli: «Voglio vedere le carte, finora ho visto in circolazione solo bari o illusionisti... ».

La Stampa 28.3.12
Giochi di veti e spiragli sulle riforme istituzionali
di Marcello Sorgi


Anche se Napolitano e Schifani, alla fine di un incontro al Quirinale, si sono affrettati a sottolinearne l’importanza, e il presidente del Senato, in particolare, ha garantito che a Palazzo Madama si farà di tutto per favorirne l’iter parlamentare, è lecito dubitare ancora una volta che l’accordo siglato ieri dai segretari dei tre partiti di maggioranza, assente Monti, sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale, sia da considerare definitivo.
E’ già accaduto in passato che intese come quelle di ieri sera siano state annunciate per essere subito dopo dimenticate o travolte dalle polemiche del giorno per giorno.
Negli ultimi sei mesi è stato svolto un buon lavoro istruttorio, più volte annunciata l’intesa su rafforzamento dei poteri del premier, distinzione delle funzioni tra le due Camere, riduzione del numero di deputati e senatori, oltre che su un sistema elettorale più proporzionale, in grado di seppellire il Porcellum e di rimettere la scelta dei candidati da eleggere nelle mani degli elettori.
Ma poi il percorso delle riforme s’è sempre arenato prima di partire, complici le tensioni politiche crescenti all’interno della maggioranza e tra i partiti e il governo.
Alfano, Bersani e Casini (quest’ultimo promotore dell’incontro a tre) giurano che questa sarà la volta buona, considerano ormai superato il gioco dei veti reciproci, e anche nel caso in cui le riforme istituzionali dovessero di nuovo fermarsi (per attivare la procedura di revisione costituzionale, che prevede quattro votazioni a intervalli non minori di tre mesi, il tempo di qui alla fine della legislatura è poco), la legge elettorale potrebbe procedere per conto proprio, a partire dall’impegno sancito ieri di muoversi per un sistema che non richieda di indicare prima del voto le alleanze e lasci ai partiti le mani libere per trattare sul governo dopo i risultati delle urne.
Di qui a trovare l’intesa anche sugli altri punti (due su tutti: la soglia dello sbarramento per i partiti minori e a chi assegnare, coalizioni o partiti, il premio di maggioranza), tuttavia ne corre. E al di là dei pubblici anatemi, l’ipotesi di votare ancora una volta con il Porcellum rimane nei retropensieri di tutti i leader dei partiti. I segretari della maggioranza promettono di riparlarne già la prossima settimana, in tempo per scambiarsi gli auguri di Pasqua. Passata la quale, la campagna elettorale riprenderà fino a maggio. Volenti o nolenti, di riforme e di articolo 18, Alfano, Bersani e Casini potranno seriamente ricominciare a occuparsi solo a giugno.

Corriere della Sera 28.3.12
Parisi
«Il partito sbaglia. Traditi gli elettori»
di Alessandro Trocino


ROMA — «L'unica notizia nuova è che il vertice si è svolto nella stanza di Berlusconi. Il che rende evidente che il cosiddetto ABC non è altro che un BBC, Berlusconi-Bersani-Casini». Arturo Parisi è sarcastico ma per nulla di buon umore. Lo storico esponente referendario, membro del Pd, deplora l'accordo e lo definisce «un grande imbroglio».
Perché un imbroglio?
«Innanzitutto nel metodo del fatto compiuto. Male per il Pdl, abituato da sempre a prendere ordini dal capo. Malissimo per un partito che si chiama democratico che, nascondendosi dietro un oscuro patto Violante, rovescia l'ispirazione originaria del Pd. Un imbroglio poi nel contenuto. Pensi al ritorno del nome del premier sulla scheda, in un sistema che escludendo l'indicazione della alleanza di governo, fa una promessa che sa di non poter mantenere».
Basta per definirlo un imbroglio?
«Pensi anche all'impegno che per Bersani sembrava un'ossessione: la denuncia della personalizzazione della politica, preso a segno distintivo del famigerato ventennio».
Però c'è la riduzione dei parlamentari.
«Partiti dalla riduzione alla metà, siamo al momento a una sforbiciata del 18 per cento. Partiti all'inseguimento della piazza, aumentiamo così la distanza dai cittadini, man mano che le parole si allontanano dai fatti».
Per Massimo D'Alema il bipolarismo coatto non ha funzionato.
«Certo la transizione è incompiuta. Ma dire che il nostro sistema è peggiore di quello della prima Repubblica vuol dire puntare solo sulla smemoratezza dei cittadini. Due dati: la media di durata dei governi e la curva in aumento del debito pubblico».
I cittadini potranno scegliersi i parlamentari.
«Il 50 per cento delle liste sono bloccate. Se va bene, i partiti decideranno il 75 per cento dei parlamentari. E questo sarebbe il superamento del Porcellum?».
Luciano Violante al «Corriere» ha detto che la «casa sta bruciando».
«È l'unico punto che condivido. La domanda è: l'intesa è capace di frenare l'incendio antipolitico? La mia risposta è no. La verità è che i partiti mentono. L'acqua sporca con la quale vorrebbero spegnere l'incendio diventerà benzina. Sarebbe molto meglio che avessero il coraggio di dire: "Si stava meglio quando si stava peggio"».

La Stampa 28.3.12
Sondaggio dell’Istituto Piepoli
Frenata dell’ottimismo dopo il decreto sul lavoro


Sarà vero, come dice il Presidente del Consiglio, che gli italiani comprendono meglio dei politici il peso e la portata delle riforme che il governo sta proponendo in questi mesi. Ma non sono tutte rose e fiori, almeno stando a quanto hanno risposto gli interpellati dai sondaggisti dell’istituto Piepoli. La domanda era semplice: dopo le recenti dichiarazioni di Monti, la sua fiducia nell’Italia è aumentata o diminuita? Ebbene, per 19 italiani su cento la risposta è sì, la fiducia è cresciuta. Per il 16 per cento, invece, è diminuita. Uno scarto molto piccolo tra entusiasti e delusi. Reso così esiguo, sostengono gli studiosi dell’istituto, dall’ultima riforma del governo, quella tanto contestata sul lavoro e sull’articolo 18. Riforma, va detto, ben lontana dall’essere legge. Prima servirà l’approvazione del Parlamento, e ci sono tutti gli estremi perché la battaglia alle Camere sia serrata e foriera di novità.
Comunque, l’effetto annuncio è bastato per raffreddare qualche entusiasmo. E forse, non sono estranei ai malumori anche i prelievi in busta paga per le addizionali da versare agli enti locali. Niente di pesante, ma tutto fa.
Facciamo un po’ di conto. Per scoprire che due terzi degli italiani sono al palo. Ben 62 su cento sono rimasti indifferenti alle dichiarazioni del premier e agli atti del governo. Il che significa che se erano pessimisti prima lo rimangono anche adesso, e se erano ottimisti, ottimisti restano. Poi c’è un quattro per cento che si dichiara senza opinione, e non si capisce come mai.
Ma veniamo ai perché che stanno dentro le due categorie, quella dei pessimisti e quella degli ottimisti. I primi temono per la mancanza di posti di lavoro, per la diminuzione dei consumi, e anche per gli speculatori in agguato sui titoli italiani. I secondi, invece, ritengono che il peggio sia passato, e che il 2012 saqrà l’anno dell’inversione di tendenza. Anche in virtù di un accresciuto prestigio internazionale del nostro Paese. Qualcuno si spinge oltre e vede un panorama economico in cui le aziende torneranno a investire.
Il sondaggio è stato eseguito dall’Istituto Piepoli il giorno 26 Marzo con metodologia Cati., su un campione di 500 casi rappresentativo della popolazione italiana dai 18 anni in su.

l’Unità 28.3.12
«Da Parigi a Lisbona la sfida dei progressisti»
Il responsabile esteri del Pd: la visita di Bersani in Portogallo per rilanciare un’altra idea di Europa
di Umberto De Giovannangeli


Domani (oggi, per chi legge, ndr) saremo a Lisbona per allargare la discussione iniziata a Parigi, a un Paese del Mezzogiorno europeo, troppo spesso ridotto alla caricatura dei Pesi della dolce vita». A parlare è Lapo Pistelli, responsabile Relazioni internazionali del Partito democratico. L’Unità lo ha intervistato alla vigilia della missione di due giorni a Lisbona di Pier Luigi Bersani. Una due giorni fitta di incontri: il leader del Pd avrà colloqui con il nuovo leader dei socialisti portoghesi António José Seguro e con lo storico leader portoghese Mário Soares. Inoltre, Bersani incontrerà il Governatore della Banca del Portogallo, Carlos da Silva Costa, il presidente del Parlamento, Assunçao Esteves e il leader del sindacato UGT, João Proença. Insieme a Bersani, faranno parte della delegazione Pistelli e e Giacomo Filibeck, coordinatore dipartimento Esteri del Pd.
Qual è il segno politico della missione in Portogallo del segretario del Pd? «I segni sono due: c’è un segno territoriale, nel senso che è la prima visita del segretario del Pd in un Paese dell’Europa mediterranea. Il secondo segno è di natura politica ed economica: toccare con mano le condizioni di un Paese che sta sperimentando le ricette rigoristiche della Commissione europea per superare la crisi».
Sui limiti delle ricette rigoristiche si sofferma il «manifesto di Parigi» sottoscritto da Bersani, Gabriel e Hollande. Come si proietta quella riflessione sulla situazione portoghese? «Quelle ricette sono insufficienti. C’è grande preoccupazione in Portogallo per la contrazione del Pil registrata nel primo trimestre di questo anno. Il Paese non ha reagito con le modalità greche, ma anche il Partito socialista di Seguro ha collaborato nel determinare un clima di unità nazionale, tuttavia l’economia non è comunque ripartita. E oggi i socialisti, attualmente all’opposizione, chiedono il respiro di un anno in più per poter assorbire meglio la cura da cavallo».
Da Parigi a Lisbona: è la sfida alle ricette neoliberiste da parte dei progressisti europei?
«C’è stata un’attenzione sbagliata nel voler cristallizzare Parigi in una fotografia. Parigi è il fotogramma di un film che comincia prima e che proseguirà ben oltre. Non ci dimentichiamo che Sigmar Gabriel, segretario della Spd tedesca, Francois Hollande, leader del Ps e candidato all’Eliseo, Jorge Burgos, vice presidente della Dc cilena, erano con noi in piazza San Giovanni a Roma il 5 novembre scorso; che Hollande ha fatto con il Pd il suo primo bilaterale all’estero come candidato alla Presidenza francese. Oggi siamo a Lisbona per allargare ulteriormente la discussione, iniziata a Parigi, a un Paese del Mezzogiorno europeo, il Portogallo, troppo spesso ridotto alla caricatura dei Paesi della dolce vita. E dopo Pasqua, i leader parlamentari di mezza Europa e non solo, verranno a Roma per rafforzare la collaborazione tra gruppi parlamentari progressisti. Si tratta della costituzione, faticosa e paziente, di una piattaforma politica progressista europea e globale; il tentativo di leggere il futuro con occhi diversi; la reazione alla passività verso lo strapotere dei mercati».
Un impianto progettuale ambizioso, quello del «manifesto di Parigi». Si può parlare di una sfida epocale? «Certamente è oggi più forte la consapevolezza che i cicli politici condizionano fortemente le realtà di ogni singolo Paese. Negli anni Ottanta furono Reagan e la Thatcher; negli anni Novanta, Clinton e Blair...».
Ed oggi?
«Oggi lavoriamo per uscire da un ciclo segnato dalla destra europea e dal suo fallimentare bilancio».

Repubblica 28.3.12
L’errore del bruco
di Barbara Spinelli


C´è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell´Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che «se il Paese non è pronto» lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l´Europa, come promette, o percepisce solo l´austerità sollecitata in agosto dall´Unione?
In realtà l´Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l´Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell´articolo 18 e altre misure d´austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni ‘30. Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi ci preparerebbe un po´. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un´Europa politica, un´assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l´assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella). È segno che ovunque c´è oggi sete di un´agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l´Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l´appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un´Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l´insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. «Nessun nemico a sinistra», era l´antico motto. Oggi a sinistra s´affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l´antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c´è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l´aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d´altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l´essenziale resta dietro la porta. L´essenziale è l´Europa: l´ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge «l´ordine in casa» prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l´inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo – già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente – le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma «individui sparpagliati, che semplicemente ‘si conoscono´» (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l´autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece – ha la forza dello status quo – ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado. Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l´infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l´Unione la sognano soltanto. Quando esigono «più Europa» (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più. Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un´altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l´automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un´abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l´Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l´ossigeno che ci evita l´asfissia. Monti ritiene che «non c´è bisogno» di Stati Uniti d´Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, «piccoli passi».
Come ricordano alcuni deputati, in un´interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un «processo costituente verso un´unione politica dei popoli europei», metta «al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita», proponga il ricorso a eurobond e project bond come «strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo». Non s´intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all´indolenza dei politici nazionali. La chiama l´«errore del bruco». L´umanità-bruco vive la condizione della crisalide, «ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare». Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell´800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l´alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.

Repubblica 28.3.12
L'articolo 18 e la Costituzione
di Gianluigi Pellegrino


Caro direttore,un mio diritto ed il potere del giudice a riconoscerlo possono dipendere dalla mera volontà del mio avversario in causa? Sicuramente no per fondamentali principi costituzionali. È allora in poche righe del documento approvato dal Governo il 23 marzo la sostanziale confessione dell´incostituzionalità (che sembra davvero manifesta) della previsione che si vorrebbe inserire nel nuovo testo dell´art. 18, là dove a pag. 10 si legge che ad assumere importanza decisiva ai fini dell´intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è "la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro".
Questo infatti vuol dire, come esplicitato nello stesso capitolo del testo governativo, che a parte l´ipotesi del licenziamento discriminatorio o disciplinare camuffato, in tutti gli altri casi di licenziamento pure manifestamente illegittimo perché arbitrario (non essendovi né ragioni disciplinari né ragioni economiche per disporlo), il diritto del lavoratore al possibile reintegro viene assurdamente condizionato al tipo di "bugia" che l´imprenditore ha ritenuto di inserire nella lettera di licenziamento (appunto la decisiva "motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro").
Se il datore di lavoro avrà arbitrariamente allegato inesistenti cause disciplinari allora il lavoratore ha diritto al reintegro; se invece l´imprenditore avrà allegato, altrettanto arbitrariamente, inesistenti ragioni economiche, solo per questo il reintegro è escluso!
L´incostituzionalità è quindi intrinseca a questo progetto di riscrittura dell´art. 18 e riguarda i cittadini in quanto tali prima ancora che come lavoratori. Principi fondamentali della nostra Costituzione impediscono che l´ambito di tutela di ciascuno di noi dipenda dalla volontà della nostra controparte (art. 24). Ed è sempre la Costituzione che impedisce che situazioni identiche vengano trattate in modo diverso (art. 3). E non c´è dubbio che un licenziamento privo dei requisiti di legge, lo è allo stesso modo a prescindere da quale sia la falsa allegazione che lo supporta.
Il progetto del Governo invece consegnerebbe la seguente assurda situazione. Se un imprenditore vuole semplicemente licenziare (non per discriminazione ma) per semplice voglia di farlo senza che ve ne siano le sole ragioni che l´ordinamento prevede per giustificarlo, ebbene l´ambito di tutela del lavoratore dipenderà incredibilmente da quale falsa ragione il datore di lavoro deciderà di allegare nell´illegittimo ben servito. Se scriverà che è per ragioni disciplinari, il giudice che ne accerta l´inesistenza potrà reintegrare il lavoratore. Ma se invece il capo azienda scriverà che è per ragioni economiche, il diritto al reintegro del lavoratore svanirà di incanto, e il giudice che pure accerti l´inesistenza anche di quel motivo, viene per legge costretto a poter accordare solo l´indennizzo. E ciò solo in ragione di ciò che il datore di lavoro ha (falsamente) dichiarato.
L´incostituzionalità è quindi intrinseca nel progetto del Governo per una sua clamorosa contraddittorietà interna. Perché da un lato afferma il giusto principio generale in base al quale in caso di licenziamento illegittimo può esservi anche il diritto al reintegro (a seconda dei casi che verranno accertati dal giudice); però poi d´improvviso crea una fessura dove questo diritto svanisce di incanto e per sola volontà della parte che ha interesse a farlo svanire. Una fessura che all´evidenza rischia di diventare voragine contraddicendo lo stesso impianto che il Governo ha stabilito di seguire.
A ciò si aggiunga che la salvaguardia infine inserita dal Ministro Fornero per i casi in cui il lavoratore riesca a dimostrare che si sia camuffato un licenziamento discriminatorio o disciplinare, non solo non risolve la questione ma rende l´ingiustizia ancora più clamorosa. Ed infatti arriviamo al paradosso che dinanzi a un licenziamento non discriminatorio ma arbitrario che allega inesistenti ragioni economiche, ha maggiore tutela il lavoratore che possa dire di essersi macchiato di qualche colpa disciplinare rispetto a quello che invece nessuna colpa possa attribuirsi!
Il punto è che Costituzione alla mano, a parte le ipotesi di nullità del licenziamento per discriminazione, tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo devono avere lo stesso ambito di tutela, quale esso sia. È senz´altro legittima l´opzione del Governo di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema più flessibile dove l´intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto. Ma così deve essere sempre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Non può certo una delle parti in causa determinare quali siano i diritti della controparte e quali siano i poteri del giudice, pena la frontale violazione dell´art. 24 della Costituzione che garantisce ad ogni cittadino (lavoratore o meno che sia) la quantità e l´intensità delle tutele apprestate dall´ordinamento, non certo dalla volontà del suo avversario in causa.
È davvero sorprendente che si stia creando tutto questo sconquasso su una ipotesi normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami di costituzionalità.

l’Unità 28.3.12
Peluffo: «Necessari i fondi per l’editoria. Li assegneremo per le copie vendute»
di R. M.


In Commissione Cultura il sottosegretario con delega all’editoria annuncia i nuovi criteri per l’assegnazione dei fondi. Passando dalla carta all’on-line, le testate potranno continuare a ricevere parte dei contributi.

«Il sostegno pubblico all’editoria si conferma necessario e strategico». È un riconoscimento importante quello che arriva dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Paolo Peluffo che ieri in audizione alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati, ha risposto alle interrogazioni di Beppe Giulietti e di altri parlamentari sulla crisi che colpisce l’editoria. Il dato è drammaticamente evidente: le testate chiudono. Il governo riconosce che occorre intervenire e presto visto che i mercati editoriali stanno cambiando «a velocità sconvolgente». Ma «i criteri vanno cambiati» afferma il sottosegretario che conferma la disponibilità dei 120 milioni di euro per quest’anno, ma annuncia quali saranno i «nuovi criteri di erogazione» che verranno indicati con una «legge ponte» per i prossimi due anni, mentre dopo ci sarà una legge delega per riformare il settore. Quindi, se il riparto dei fondi quest'anno si farà con le regole precedenti (quelle del decreto Bonaiuti), dal 2013 i primi cambiamenti per poi arrivare, da 2014, a una nuova disciplina.
Quattro i punti elencati dal sottosegretario: contributo riservato alle copie vendute ovvero alle copie «lette»; detrazioni dei costi per le imprese per un numero più limitato di voci ma «facilmente controllabili», in primis «giornalisti e poligrafici» assunti regolarmente a tempo indeterminato. Peluffo annuncia che una stretta ci sarà da subito con un aumento dei controlli nelle aziende che dovranno essere superiori al 10%. Vi dovrebbe essere pure la possibilità richiesta da Giulietti di passare dalla carta stampata all'on-line non più solo per i giornali politici conservando una parte del contributo. È confermato l’impegno per una informatizzazione delle edicole per consentire una tracciabilità delle vendite. Per questo si è previsto di investire 10 milioni di euro. Per il dopo 2014, poi, un altro provvedimento, che dovrà essere comunque una legge delega. Sottolinea pure, il sottosegretario, l’esigenza per l’Italia di recuperare terreno sul terreno delle piattaforme digitali.
Resta aperto il problema delle risorse. Per quest’anno, grazie ai 120 milioni di euro trovati, si è rimediato all’emergenza. «Sono sempre pochi», ammette Peluffo che non esclude altre risorse a fine anno. Il problema resta per i prossimi due anni (la finanziaria prevede 56 e 64 milioni). Per il sottosegretario la soluzione va trovata definendo meccanismi sostenibili, chiari e trasparenti ed eliminando le distorsioni presenti nei vecchi meccanismi.
E resta aperto anche il punto delicatissimo posto da Giulietti: l’impatto della modifica dell’«articolo 18» della legge sul mercato del lavoro sulla stampa, alle prese con una crisi pesante. Peluffo si è preso l’impegno di sollecitare al ministro del Lavoro, Elsa Fornero, un tavolo per affrontare il problema. Un’assicurazione apprezzata dalla Fnsi che in una nota chiede una rapida definizione del tavolo visto il rischio che «vere e proprie discriminazioni possano compiersi mascherandole con problemi determinati dalla crisi o, domani, con mere ragioni economiche, arrivando a espulsioni ingiuste dal lavoro». Il sindacato dei giornalisti chiede che al tavolo siedano anche il ministero dello Sviluppo Economico e il mondo delle imprese, «affinché i processi siano regolati da un sano principio di corresponsabilità e equità».

l’Unità 28.3.12
F-35? Non sono prioritari
Il Parlamento lo dica
di Flavio Lotti


I l grande imbroglio. L’ammiraglio-ministro tecnico della Difesa, Giampaolo Di Paola, ci sta lavorando incessantemente da parecchi mesi. E oggi, alla Camera dei Deputati, ha uno dei passaggi più delicati. Ad attenderlo ci sono ben otto mozioni sugli F-35 presentate da altrettanti gruppi e sottogruppi parlamentari.
Ma andiamo con ordine. Il 14 febbraio l’ammiraglio Di Paola ha annunciato un progetto di riorganizzazione dello strumento militare italiano che prevede tra l’altro la riduzione degli F-35 (da 131 a 90) e dei soldati (da 180 a 150.000). Dove sta l’imbroglio? Nel dire una cosa e nel farne un’altra. Altro che riduzione delle spese militari. Se venisse approvato il progetto del ministro produrrebbe un vero e proprio aumento della spesa pubblica. Alla faccia di tutte le manovre rigoriste che stanno mettendo in ginocchio milioni di giovani e meno giovani, famiglie, associazioni, scuole, imprese, Enti Locali e Regioni.
La prima parte dell’imbroglio sta nello scaricare una parte del personale e dei suoi costi sulle altre amministrazioni dello Stato per poter spendere di più in armi. La seconda, e non meno grave, parte dell’imbroglio sta nel tentativo di modificare radicalmente il profilo delle nostre Forze armate senza alcun mandato parlamentare. Il modello del ministro non ha nulla a che vedere né con il dettato costituzionale né con le «missioni di pace» previste dalla Carta dell’Onu. È un modello fortemente aggressivo imperniato sulle portaerei, sui cacciabombardieri e sulla capacità di partecipazione alle guerre ad alta intensità come quella che qualcuno sta progettando in Iran. Ma tutto ciò non si può e non si deve dire.
Per questo il ministro ha messo il veto sul progetto di «Istituzione di una commissione parlamentare per l’elaborazione di un Libro bianco sulla Difesa e sicurezza nazionale» proposto dal Partito democratico in entrambi i rami del Parlamento. Per questo il ministro non vuole che si parli di «nuovo modello di difesa» ma solo di «riorganizzazione dello strumento militare».
Per questo il ministro pretende che il Parlamento si affretti ad approvare una «legge delega-in-bianco» che gli lasci il bilancio inalterato e la possibilità di fare quello che vuole. È troppo chiedere che qualcuno intervenga? È troppo invocare un po’ di ragionevolezza? Può essere che a qualcuno il Parlamento possa costituire un intralcio, ma i parlamentari che ne pensano?
Tra le otto mozioni che oggi saranno votate dai nostri deputati ce n’è una dell’Idv che dice di no agli F-35 e a tutto il resto, come la pensano tanti italiani. Ma ce n’è anche un’altra firmata da 22 deputati di diversi partiti (tra cui Pezzotta, Sarubbi, Carra, Giulietti, Castagnetti, Lucà, Bobba) che chiede al governo di «rinviare qualunque decisione relativa all'assunzione di impegni per nuove acquisizioni nel settore dei sistemi d'arma, sino al termine del processo di ridefinizione degli assetti organici, operativi e organizzativi dello strumento militare italiano». Come a dire: non toglieteci anche la dignità. Prima discutiamo compiti e obiettivi delle nostre Forze armate e poi decidiamo gli acquisti di cui abbiamo bisogno. È troppo anche questo?

l’Unità 28.3.12
Una legge da cambiare
Il diritto d’autore ai tempi di Internet
di Luigi Vimercati


L ’audizione del presidente dell’Autorità garante per le comunicazioni (Agcom), Corrado Calabrò, nei giorni scorsi al Senato ha portato un po’ di chiarezza sulla questione del regolamento del diritto d’autore. Che ci sia un’urgente necessità di disciplinare la materia, nessuno ne dubita. Ma che la soluzione invocata da alcuni portatori di interessi, in particolare quelli rappresentati da Confindustria, possa essere il procedere a passo militare, con il solo intervento dell’Autorità, si è rivelata una strada impraticabile. In un Paese a democrazia liberale, è il Parlamento che definisce i reati e prevede le sanzioni. Così è avvenuto in Francia. Di questo si discute nel Congresso degli Stati Uniti. Gli organi amministrativi possono e debbono operare in conformità alle leggi. Non sono e non possono diventare organi legislativi. Nessuna urgenza può autorizzare simile forzatura.
Per questo è necessario affidare al Parlamento il compito di elaborare e approvare una nuova norma primaria che riveda la vecchia legge sul diritto d’autore del 1941. Epoca in cui non esisteva internet e nemmeno la televisione. È necessaria una nuova legge di sistema, che faccia i conti su come regolamentare il diritto d’autore ai tempi della rivoluzione digitale. Il lavoro legislativo deve porsi il duplice obiettivo di tutelare le opere dell’ingegno, il lavoro prezioso di autori, artisti, più in generale di tutti coloro che producono valore nel campo dell'industria culturale italiana, e contemporaneamente i diritti di libertà d'informazione e di espressione di tutti i cittadini, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione.
Nel nostro ordinamento non c’è una norma che autorizzi l’Agcom a irrogare in via generale sanzioni a tutela del diritto d’autore. L’Autorità può vigilare al fine di prevenire e accertare le infrazioni, ma la legge non le attribuisce un potere sanzionatorio. Dico questo per mettere sul binario giusto la disciplina sul diritto d'autore. La strada maestra non può che essere quella già indicata in diverse sentenze dalla Corte di giustizia europea, la quale ha ritenuto non conformi al diritto comunitario sistemi di filtraggio dell’accesso a internet, volti a impedire il trasporto di materiale protetto dal diritto di autore (caso Scarlet-Sabam). E che, in ogni caso, ha ritenuto dover sussistere un giusto equilibrio tra la tutela del diritto di proprietà intellettuale, da un lato, e la tutela della libertà d'impresa degli internet e hosting providers, della privacy e del diritto all'informazione dei cittadini, dall' altro.
Sintetizzando con una semplice battuta, che prendo a prestito dal blogger Stefano Quintarelli: «no enforcement without user rights», ossia diritto d’autore e diritti di libertà dei cittadini procedono insieme.

il Riformista 28.3.12
La crociata di Renzi
di Cinzia Romano


Il sindaco di Firenze Matteo Renzi non si accontenta più di “rottamare” chiunque sia nato un mese prima di lui e di bollare come “ideologica” qualsiasi battaglia per i diritti conquistati, sia che si tratti di lavoratori che di donne. Se al segretario del Pd Bersani ha ricordato che «lo Statuto dei lavoratori è del 1970, quando la smetterai di parlarci dell’Italia di allora per parlarci di quella del 2030?», alle donne fiorentine ha rifilato un nuovo regolamento di polizia mortuaria con il quale si prevede di realizzare uno spazio nel cimitero monumentale di Trespiano per «i feti che non siano stati dichiarati morti, per i prodotti abortivi e quelli del concepimento».
I movimenti e le associazioni femminili, in testa il comitato di Firenze di Se Non ora quando e Libere tutte, sono insorte contro «la mancanza di coraggio nell’attaccare in maniera diretta la 194 e l’uso di mezzi subdoli e interventi di alto valore simbolico per colpevolizzare le donne che scelgono l’interruzione volontaria di gravidanza». Non sono mancate critiche dalle parlamentari del Pd e delle donne di sinistra. Imbarazzante e sgradevole il silenzio o l’appoggio al sindaco delle assessore della giunta paritaria!
Vecchia battaglia ideologica, l’ha bollato il sindaco dai modi ruvidi e spicci, inversamente proporzionali al suo pensiero light!
Sta di fatto che il “nuovo che avanza” ha ridato fiato ad organizzazioni neofasciste, Casaggì e Giovane Italia che hanno organizzato un blitz contro i consultori di Firenze, contrassegnati come scena del crimine con tanto di nastro giallo e minacciose scritte come «L’aborto è un’infamia difendi la vita». Si tratta delle stesse organizzazioni che ogni anno celebrano i cecchini nazi-fascisti che sparavano dai tetti ai civili durante la Liberazione di Firenze. E il sindaco di Prato e il governatore della Campania, per non essere da meno del primo cittadino di Firenze, stanno replicando l’iniziativa. Lunedì l’ultima parola spetterà al Consiglio comunale che dovrà decidere se il nuovo regolamento è così fondamentale visto che c’è già una legge che permette alle madri e alle famiglie che lo richiedono di dare sepoltura ai feti.
La Firenze del 2012 (non ci avventuriamo a immaginare quella del 2030) con il sindaco Renzi somiglia tanto a quella del 1980, da dove partì la raccolta di firme del Movimento della vita di Carlo Casini (fiorentino, ora europarlamentare) per abrogare la legge 194. Gli italiani nel 1981 bocciarono sonoramente quella crociata. Ci auguriamo che Firenze e l’Italia di oggi siano se non migliori almeno simili a quelle di trenta anni fa.

La Stampa 28.3.12
Lusi: così ci spartivamo i rimborsi elettorali
L’ex tesoriere della Margherita 7 ore dal pm: “Non ero solo. E i vertici sapevano tutto”
di Grazia Longo


ROMA «Non ho rubato per me. I soldi erano spartiti all’interno di un gruppo di persone, ma i leader della Margherita sapevano tutto». È un fiume in piena Luigi Lusi, l’ex tesoriere della Margherita indagato di aver sottratto 20 milioni dalle casse del partito per suoi usi privati.
Durante l’interrogatorio fiume di ieri - dalle 15.30 alle 22 - vuota il sacco davanti al neo procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Alberto Caperna e il pm Stefano Pesci su quasi 200 milioni di euro finiti nelle casse del partito come rimborsi elettorali e poi suddivisi tra vari esponenti.
«I vertici erano informati di ogni cosa - insiste Lusi, assistito dall’avvocato Luca Petrucci - e io mi sono accollato anche le spese di altri miei colleghi». Affermazioni che scateneranno sicuramente una bufera politica, dalla quale però non sono esclusi neppure nuovi filoni d’inchiesta penale. La procura, infatti, non solo ha l’obiettivo di verificare se e in che modo sono coinvolti i «leader della Margherita». Ma punta anche a capire come sono stati spesi quei 200 milioni di euro. La procura, del resto, sin dalle prime fasi dell’inchiesta, in collaborazione con la Guardia di Finanza, ha concentrato l’attenzione sull’eventualità che anche qualcun altro della Margherita sapesse dell’appropriazione indebita del senatore Lusi. Possibile che nessuno si fosse accorto di tutti quei milioni di euro spariti nel nulla?
Ieri, la nuova verità di Lusi. Durante il primo interrogatorio, il 14 gennaio scorso, aveva addossato le responsabilità solo di sé, proponendo un patteggiamento e la restituzione immediata di 5 milioni di euro al partito. Stavolta no. Stavolta racconta per filo e per segno il «coinvolgimento dei vertici della Margherita». Il verbale dell’interrogatorio è stato secretato. Trapelano comunque le accuse dell’ex tesoriere. Che cosa gli ha fatto cambiare idea?
Forse l’esposto presentato da Francesco Rutelli? Forse la sensazione di essere scaricato da quei «vertici che avevano ben chiaro il meccanismo di spartizione del denaro»? Luigi Lusi non ha tradito le aspettative che aveva creato con quel fuori onda di «Servizio Pubblico» rilanciato poi dal Tg La7. Dove parlava chiaramente di quei 200 milioni «che ho lasciato nelle casse del partito. Dove sono finiti? Li abbiamo usati tutti per pagare il personale e i telefonini? ».
Ieri ha spifferato tutto. «Ho parlato di conti, di tutti i conti. Ho risposto a tutte le domande dei pm. Ora mi sento più sollevato e più sereno». Già appena arrivato in procura, alla domanda dei cronisti se era imbarazzato per le spese folli per i resort extralusso e le cene da nababbo, aveva risposto: «Qualcun altro ha usato le mie carte di credito».
Di fronte ai pm ha dirottato su altri le sue responsabilità. Ha raccontato la verità? O sono solo fantasie? I magistrati hanno definito a definire il suo atteggiamento «predatorio». Qualche esempio? Due ville ai Castelli romani, uno splendido appartamento al centro di Roma e la ristrutturazione faraonica di altre case. Non basta: nell’elenco degli acquisti accertati dalla Guardia di finanza ecco i viaggi in esclusivi resort, pranzi e cene in costosi ristoranti, fine settimana nelle capitali europee. Sempre e solo a spese della Margherita.
Un altro filone delle indagini verte a verificare se Lusi ha trasferito in Canada parte del suo tesoretto o altro denaro per conto di altre persone. È in corso una rogatoria internazionale con le autorità di Toronto per stabilire il reale utilizzo di «Filor Ltd», la società di diritto canadese che l’ex tesoriere della Margherita e sua moglie hanno utilizzato per portare i soldi all’estero. E’ stata la Guardia di Finanza, esaminando i documenti relativi allo scudo fiscale (grazie al quale, nel 2008, la coppia ha fatto rientrare in Italia circa due milioni di euro) a scoprire il ricorso a «Filor Ldt». I vertici del partito sapevano?

il Fatto 28.3.12
La manna cinese contro lo spread
Il presidente Hu: “Investimenti in Italia”
di Stefano Feltri


C’è stato un tempo, non lontano, in cui mentre Silvio Berlusconi predicava che “la crisi non esiste e i ristoranti sono pieni” il ministro del Tesoro Giulio Tremonti passava le notti al telefono. Provava a convincere i grandi fondi sovrani, dalla Norvegia al Kazakistan fino alla Cina, a investire in Italia, a fidarsi dei suoi Btp nonostante lo scetticismo sui mercati. Sono passati pochi mesi, molto è cambiato ma non tutto. Nella sua tournée asiatica, ieri Mario Monti ha incontrato il presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao, in Corea del Sud. A Pechino il presidente del Consiglio ci arriverà il 30 marzo e incontrerà il primo ministro cinese Wen Jiabao. Ma intanto incassa la promessa di Hu: il presidente dirà alla sua business community di investire in Italia, secondo quanto riferiscono dalla delegazione italiana. Alla De Tomaso di Tori-no, per esempio, aspettano da mesi fantomatici acquirenti cinesi.
MA È CHIARO che gli investimenti che servono di più, in questo momento, sono quelli finanziari. Non si può dire apertamente, guai a dare l’impressione di mendicare soldi all’estero, i mercati rischiano di andare nel panico. Già sono nervosiperilritornosullascenadei partiti e le tensioni sulla riforma del lavoro, con lo spread che sta risalendo e ieri è arrivato 323 punti. Ma servono investitori. I cinesi sono tra i pochi che hanno soldi da spendere, con le loro riserve di 3.200 miliardi di dollari. Nell’andare in Corea, Monti ha fatto scalo “tecnico e politico” ad Astana, in Kazakistan: certo, nel Paese di Karim Masimov c’è il giacimento dei Kashagan da cui dipendono molte delle prospettive future dell’Eni, ma Astana ha anche un ricco fondo sovrano che, in gennaio, sembrava interessato a investire in Unicredit. Tutto smentito, ma è meglio coltivarseli partner così liquidi.
È la Cina però il bersaglio grosso. I numeri spiegano perché Pechino è tanto importante: stando all’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, il 46 per cento del nostro debito è in mano a investitori stranieri. Sono dati di giugno 2011, prima del grande dramma dello spread. Da allora le cose sono peggiorate, le banche dell’Eurozona hanno dovuto investire nei debiti dei rispettivi Paesi, gli americani hanno alleggerito le loro posizioni (i due casi più celebri sono il fondo MF Global, che ha fatto crac, e Morgan Stanley che ha imposto al Tesoro la chiusura di alcuni derivati). I dati ufficiali su do-v’è finito il nostro debito non ci sono, si va per stime: almeno un 10-15 per cento è in Asia. Il Tesoro italiano, sotto la gestione di Maria Cannata, responsabile del debito pubblico, è sempre più creativo: è appena partito un nuovo Btp retail, da vendere direttamente alle famiglie. Ma dalle colonne del Sole 24 Ore Guido Tabellini, rettore della Bocconi e allievo prediletto di Monti, ha avvertito che sarebbe “un errore fatale” affidarsi al patriottismo del debito: soltanto se i nostri titoli sono nelle casse di Paesi stranieri avremo un po’ di potere contrattuale, perché la crisi dell’Italia causerebbe danni anche ad altri.
Ma i cinesi non sono più quelli di una volta, che non sapevano dove mettere i Renminbi pur di tenerne basso il cambio. Quando in autunno il capo del Fondo salva Stati europeo, Klaus Regling, è andato a Pechino a chiedere capitali è tornato a mani vuote. Niente regali. Al G20 di novembre, a Cannes, Pechino ha dato il via libera al potenziamento del Fondo monetario internazionale soltanto a condizione di contare di più nella governance. Trattare con la Cina è quindi sempre più difficile, infatti a novembre il viceministro Vittorio Grilli aveva fatto un viaggio esplorativo tra Singapore e Hong Kong, pare senza risultati decisivi. Per Monti la missione è particolarmente complessa visto che la sua visita a Pechino coincide con una tensione senza precedenti: da un lato la frenata della crescita (solo +7,5 per cento nel 2012) dall’altro la difficile successione a Hu, con l’epurazione del delfino designato Bo Xilai, scomparso chissà dove.
IL DOSSIER DEBITO, però, è cruciale. Nel 2012 scadranno 400 miliardi di euro di Btp. Non è pensabile che siano ancora le banche italiane a farsene carico, una perdita di valore di quei titoli a causa di una ripresa dello spread potrebbe dar loro il colpo di grazia. Gli investitori internazionali sono sempre più preziosi. A suo tempo Giulio Tremonti era riuscito a farsi benvolere a Pechino, il Partito comunista lo invitava a tenere lezioni sulla crisi alla scuola per i giovani (il ministro aveva depurato le sue teorie dagli accenni alla minaccia dell’Asia). Monti ha meno rapporti, ma può contare sulle sponde della Commissione trilaterale che gli ha permesso negli anni di coltivare un utile network asiatico, soprattutto in Giappone.

La Stampa 28.3.12
Gli investimenti
Energia, ambiente e meccanica La lunga marcia nella Penisola
Pechino ha riserve per 3.500 miliardi di dollari, quasi il doppio del nostro debito
di Marco Alfieri


MILANO I cinesi in Europa sono interessati a fare partnership e investire su energia, industria con buona tecnologia, ambiente, infrastrutture e banche», racconta una fonte diplomatica. «Se fate sul serio, c’è spazio anche per voi italiani…».
La brutta fotografia del sistema Italia che Mario Monti si è portato in valigia potrebbe presto abbellirsi. Ieri dal presidente cinese Hu Jintao è arrivato l’invito ad investire in Italia, antipasto degli incontri che il nostro premier avrà a Pechino con il primo ministro Wen Jiabao, il presidente del fondo sovrano Cic, Lou Jiwei, che gestisce masse per 410 miliardi di dollari e poi, al Forum di Boao, con il futuro premier Li Keqiang. Senza leva keynesiana e un programma di grandi investimenti pubblici spinti dall’Ue, non resta che attirare investimenti diretti da Paesi come la Cina che hanno necessità di valorizzare la montagna di riserve accumulate: 3.500 miliardi di dollari, quasi il doppio del nostro debito pubblico. «La Cina può dare un supporto decisivo al superamento della crisi Ue. Tra l’altro ha cominciato a comprare Btp…», spiega a margine della presentazione del rapporto annuale della fondazione Italia Cina, il vice presidente Mario Zanone Poma.
A fine 2011 solo il 3,5% degli investimenti diretti totali cinesi è affluito nel Vecchio Continente. Ma lo scenario sta cambiando. Gli ultimi colpi della campagna europea sono stati l’acquisto dell’8,6% della Thames Water (fornisce l’acqua potabile a Londra) con il fondo Cic, e del 21,3% di Energias de Portugal da parte del colosso Three Gorges, che l’ha pagata al governo di Lisbona in difficoltà il 50% in più del valore di Borsa.
Dentro a questo risiko l’Italia resta periferia. Gli investimenti diretti in entrata dalla Cina sono briciole: 181 milioni di euro nel 2009; appena 65 nel 2010. Lo abbiamo già scritto: Pechino è spaventata dall’immobilismo e la vischiosità italiana.
Le parole di Hu Jintao cambiano però la prospettiva per aziende e fondi cinesi, abituati a rispondere alle sollecitazioni del potere politico. Le riforme messe in campo dal governo Monti abbozzano la traiettoria di un paese che sta imboccando una discontinuità virtuosa. Più credibile in chiave europea dove Pechino ha bisogno di interlocutori capaci di correggere la rotta rigorista imposta dal cancelliere Merkel. Ma soprattutto il nuovo corso italiano incrocia la transizione verso un’economia più attenta ai consumi interni a maggior valore aggiunto. Pechino ha fame di acquisire all’estero quel mix di tecnologie mature e di abilità tecniche da riversare in quelle industrie strategiche indicate nel 12˚ Piano quinquennale (oggi rendono il 3% del Pil, entro il 2015 saliranno all’8%): bio-tecnologie, Information Technology, materiali innovativi, energie rinnovabili, combustibili alternativi, protezione ambientale.
In questo senso la «periferia» Italia appare un paese ricco di sapienza industriale, utile a migliorare la produttività della propria industria. Su ecologia, agroalimentare e componentistica meccanica, il made in Italy è nelle condizioni di fornire tecnologia a complemento dei loro processi di produzione. Basta guardare la lista delle imprese al seguito del vice ministro del commercio, Jiang Yiaoping, in missione in Europa (l’altro giorno era a Roma), per capire l’identikit dei nuovi potenziali investitori. C’era ad esempio il gigante dell’energia elettrica Harbin Electric, che ha sedi dal Vietnam al Sudan alla Turchia e una capacità di 20mila Mw; Sedin, conglomerato molto forte nell’industria chimica; LiuGong, che possiede il 14,5% di quota mondiale nella fabbricazione di ruspe; Henan Deng Feng, specializzata nella lavorazione del carbone e del cemento; oppure Bejiing, attiva nel trattamento e distribuzione delle acque in 18 province cinesi. Ma è chiaro che ci vuole nuova autorevolezza politica per passare dai contatti al business e portare l’interscambio Italia-Cina a quegli 80 miliardi di dollari entro il 2015 che i due paesi auspicano nei documenti ufficiali.
L’altro grande dossier aperto, dopo le parole di Hu Jintao, sono le partecipazioni strategiche. Pechino si è finora tenuta distante dallo shopping in grandi gruppi occidentali. Ma oggi la crisi europea, che mette in saldo aziende ricche di tecnologia, cambia le carte in tavola. Al centro degli interessi ci sono certamente i gioiellini della nostra industria militare, quote di Enel (che ha molto debito), e soprattutto di Eni. «Si sa che Pechino sta cercando di sviluppare gas da scisti e, proprio con il cane a sei zampe, suo concorrente in Africa, potrebbe avviare progetti per la cattura di gas dannosi», rivela una fonte. Infine «c’è interesse per Alitalia, nella logica dell’Italia piattaforma tra Africa e nord Europa, e per la portualità. Con la Grecia in crisi, sarà utile capire la politica logistica del nuovo governo…».

Repubblica 28.3.12
Le mani su 75 società e 4% dei titoli di Stato l´avanzata del Dragone nel nostro Paese
Siamo il quinto partner commerciale di Pechino
di Elena Polidori


Nelle ore più drammatiche della crisi del debito, Berlusconi sperò negli investimenti degli orientali
Nel 2011 abbiamo esportato beni per 11 miliardi con una crescita del 16,2 per cento rispetto all´anno prima

ROMA - «Dirò di investire in Italia», promette il presidente cinese Hu Jintao incontrando Mario Monti a Seul. In realtà l´avanzata del Dragone nella Penisola è già in corso. Sono 75 le imprese italiane controllate o partecipate dai capitali cinesi. Hanno un fatturato di 1,65 miliardi di euro e occupano 3 mila dipendenti. Sono concentrate per il 49% in Lombardia, il resto in Veneto, Piemonte, Liguria e Emilia Romagna. Poco si sa invece degli investimenti cinesi in titoli pubblici italiani se non che da sempre, e ancor più durante l´era Berlusconi, ci sono stati contatti diretti del Tesoro con le autorità di Pechino per convincerle a comprare Bot, Cct, Ctz e tutto l´armamentario tecnico del nostro debito pubblico. Ancora nell´agosto scorso, nel pieno della crisi dei Paesi deboli di Eurolandia, l´allora ministro Giulio Tremonti, che pure in passato aveva criticato l´aggressività commerciale di Pechino, inviò in Cina l´ex direttore del Tesoro Vittorio Grilli, oggi viceministro dell´economia, proprio con questa mission. Un anno prima, nell´ottobre del 2010, per accogliere al meglio il premier Wen Jiabao, invitato in Italia per celebrare i 40 anni di rapporti diplomatici tra i due Paesi, Berlusconi fece perfino vestire d´oriente la via romana dei Forti Imperiali illuminandola con le tipiche lanterne rosse, simboli per i cinesi di buon augurio per il futuro. Al momento la Cina ha in portafoglio il 4% dei titoli italiani pari a poco più di 64,6 miliardi di euro, cioè una quota del 17% del complesso dei titoli dell´eurozona in mano a Pechino. Che, nei mesi di maggior tensione del debito sovrano, ha scelto di stare alla finestra.
Al contrario, si intensificano le relazioni industriali. L´ultimo incontro tra 18 grandi gruppi cinesi e 60 aziende italiane risale ad appena una settimana fa, presente il viceministro del commercio, Jiang Yaoping. Dalle sue dichiarazioni emergono anche le linee strategiche lungo le quali il Paese intende muoversi: più interscambio e più collaborazione nei settori dell´alta tecnologia. Secondo Yaoping, l´Italia è oggi il quinto partner commerciale della Cina.
Invitalia, l´Agenzia nazionale per l´attrazione degli investimenti che dipende dal ministero per lo Sviluppo, dispone di una mappa aggiornata dello shopping cinese nel Belpaese. E dunque: sono freschissime (gennaio) le intese per acquisire il 75% del gruppo Ferretti, famoso per i suoi yacht da parte della Shandon Heavy Industry Group-Weichai. Da tempo è stata acquisita la Benelli di Pesaro (motociclette). Nel settore dell´abbigliamento, la Sergio Tacchini parla cinese ormai dal 2007; nel mondo delle energie alternative, la Italsolar e Kerself. Il business più grosso riguarda la Cifa, colosso dei macchinari per il calcestruzzo e l´edilizia.
Nella storia industriale recente spesso si è parlato della Cina anche come "cavaliere bianco", cioè come salvatore di aziende italiane in difficoltà. E´ anche capitato però che il cavaliere svanisse. Nel caso della Antonio Merloni, per esempio, sulla cordata cinese Nanchang Zerowatt Electronic Group alla fine l´ha spuntata la J&P. Per la De Tomaso (auto) la salvezza sembrava arrivare dal gruppo Hatyork, ma all´incontro chiave con il ministero nessuno si è presentato. Di possibili capitali cinesi si era parlato anche per Termini Imerese (il fondo Hong Kong Tai), poi non se n´è fatto nulla. Ora ci sarebbe un interesse di Pechino per Irisbus.
Dai dati elaborati dall´Ice (Istituto per il commercio estero) nel 2011 l´Italia ha esportato verso Pechino beni per oltre 10 miliardi di euro con un incremento del 16,2% sull´anno prima. Le importazioni sono aumentate dell´1,8% passando da 28,7 miliardi a 29,3 miliardi.


La Stampa 28.3.12
Messico, dove i narcos “governano” le città invocando il nome di Dio
I signori della droga fanno leva sulla fede per legittimare il potere
di Federico Varese


Federico Varese e criminologo e insegna a Oxford

Il Papa ha ricordato «debolezze e mancanze» del clero messicano durante la sua omelia nella maestosa cattedrale di Leon, a Città del Messico. Settori della Chiesa si sono infatti mostrati troppo teneri con i narcos e ha fatto bene il Papa a richiamarli alla loro missione. Al pari dell’Italia, anche in Messico i gruppi criminali cercano il consenso dei religiosi e si presentano al mondo come estremamente devoti. Ma, a differenza del nostro paese, le chiese evangeliche americane hanno un grande seguito tra i criminali messicani.
Il caso più eclatante di intreccio tra criminalità organizzata e religione è quello della Familia, il cartello che opera nello stato di Michoacàn, situato nella parte centrale del paese e affacciato sull’Oceano Pacifico, una regione fino a pochi anni famosa per le rovine pre-colombiane e le farfalle rare. Nel 2006, la Familia fece il suo debutto in pubblico gettando cinque teste mozzate sulla pista da ballo di una discoteca. Il messaggio avvertiva: «La Familia non uccide per denaro, non uccide le donne, non uccide gli innocenti, muore chi deve morire. Questa è: Giustizia Divina». Da allora, la regione è stata inondata di «narcomensajes» (narcomessaggi) mandati ai giornali o diffusi in forma di volantini plastificati. Ad esempio, La Familia ha annunciato di voler porre fine alle estorsioni, ai rapimenti e allo spaccio di droga nel proprio territorio. Inoltre, ha intimato alla polizia di consegnarle i carcerati in attesa di giudizio. Toccherà al cartello fondato dal contadino Nazario Moreno González comminare il giusto castigo. Le punizioni sono diverse a seconda del crimine commesso: si parte da l’obbligo di recitare il rosario sotto tortura a costringere l’accusato a mostrarsi in pubblico con un’insegna che recita: «La Familia è qui per ripulire la tua città». Fino al corpo mutilato e fatto a pezzi gettato nella strada principale del paese.
Questi narcos non solo puniscono, ma controllano parte dell’élite politica dello stato, e mediano i conflitti tra proprietari terrieri. Chi si ubriaca o picchia la moglie viene umiliato di fronte alla propria comunità. I giornalisti sono costretti a scrivere delle loro opere caritatevoli: prestiti a buon mercato, soldi per parrocchie e scuole, auditori, campi di calcio, mense per i poveri. La Familia è insomma molto di più di un gruppo di trafficanti di droga, ma aspira ad essere l’unica autorità legittima in questa parte del mondo.
Come ogni stato emergente che si rispetti, anche la Familia invoca il potere divino. Ad esempio, si diventa membri a pieno titolo dopo aver partecipato ad una serie di ritiri spirituali, preghiere quotidiane, discussioni di gruppo e la rinuncia all’uso della droga. Alla base del gruppo vi sono due testi fondanti, che devono essere imparati a memoria dagli adepti: Los Pensamientos del Mas Loco, scritto dal fondatore Moreno Gonzales, e il Codice dei Cavalieri Templari di Michoacàn. Mi è capitato di avere tra le mani entrambi. Los Pensamientos è un libretto senza prezzo di un centinaio di pagine, con in copertina l’immagine della giustizia con la bilancia e la spada, e all’interno illustrazioni tratte dalla Bibbia disegnate dallo stesso Moreno. L’ispirazione dell’autore sono gli scritti del predicatore John Eldredge, che propugna un’immagine machista e misogena della fede, l’amore per le armi, la caccia e la condanna senza appello dell’omosessualità. Per Eldredge, gli uomini hanno un cuore selvaggio e indomito, «castrato» dal cristianesimo tradizionale. Moreno vi ha aggiunto una vena localista di resistenza contro il potere federale.
Il Codice dei Cavalieri è molto più breve e contiene 53 precetti che devono essere seguiti, pena la morte, dagli affiliati (in questo caso le illustrazioni sono tratte da materiale pubblicitario per il film Arn: L’ultimo Cavaliere, 2007). Il soldato «deve amare e servire in maniera imparziale tutta l’umanità», «che c’è un Dio, una vita creata da Lui, una verità eterna, uno scopo divino di servire Dio». Le punizioni per chi trasgredisce sono parte di un rito elaborato. Si arriva fino a mettere in scena una esecuzione: dopo che è stato letto l’atto d’accusa, al condannato viene data la possibilità di pregare per la sua anima. Verrà poi trucidato da colui che aveva per primo suggerito il suo nome al gruppo.
È stato Moreno, morto nel 2010, ad introdurre a questo tipo di religiosità ne la Familia. Mentre si trova a lavorare negli Stati Uniti, abbandona la fede cattolica e si avvicina alla Chiesa Evangelica Pentecostale Carismatica. Al suo ritorno in patria, ne adotta la filosofia e la struttura organizzativa. Ha anche finanziato la distribuzione di bibbie, la traduzione in spagnolo del libro di Eldredge Wild at Heart, l’apertura di centri di riabilitazione per tossicodipendenti (che sono in realtà delle carceri brutali e luoghi di reclutamento per la Familia) e di chiese evangeliche. Stupisce che i leader di queste denominazioni non sentano il dovere di fare un serio esame di coscienza circa il fascino che esse esercitano sui narcos. E non li denuncino di fronte al loro Dio, una volte per tutte.

La Stampa TuttoScienze 28.3.12
È il Popolo del cervo rosso l’ennesimo anello mancante?
L’ipotesi è che quelle ossa racchiudano una linea evolutiva sconosciuta
“In Cina potremmo avere scoperto una nuova specie umana”
di Gabriele Beccaria


Fronte sporgente, naso schiacciato, mandibola larga e molari sproporzionatamente grandi. E all’interno un cervello nella norma, più o meno dello standard umano attuale. Un mix così, di tratti fisici primitivi e di caratteristiche cerebrali moderne, ha talmente stupito i paleoantropologi da far provare loro il brivido della grande scoperta. E se si trattasse di una specie umana finora sconosciuta? C’è chi, rapito dall’entusiasmo, l’ha già battezzata e ha attributo i resti di quattro individui dell’Età della Pietra, emersi nella Cina sudoccidentale, al nuovo e misterioso «Popolo della caverna del cervo rosso».
Non bastavano, accanto ai Sapiens, i massicci Neanderthal, i piccoli Floresiensis e gli sfuggenti Denisova. Adesso nell’albero sempre più confuso della nostra complicata discendenza potrebbe essere apparso un ulteriore ramo, tanto più sorprendente perché risale a tempi darwinianamente recentissimi, vale a dire un periodo compreso tra appena 14300 e 11500 anni fa, un refolo temporale, secondo gli standard di chi indaga le origini dell’uomo. E così la discussione tra scienziati si è subito riaccesa. Il capo del team internazionale, l’australiano Darren Curnoe, professore della University of South Wales, è dell’idea che l’evento di cui è protagonista sia davvero di quelli storici. E l’ha spiegata così: «Penso che le prove tendano a pendere verso l’ipotesi che i “Red deer cave people” rappresentino una nuova linea evolutiva umana».
Riemersi dalle caverne di Longlin e Maludong, accanto ad abbondanti tracce di banchetti a base di cervo (di qui il loro nome), questi cinesi arcaici - ipotizza Curnoe - potrebbero appartenere a uno dei primi gruppi emigrati dall’Africa all’Asia. Vissuti in relativo isolamento, non si sarebbero incrociati con gli altri abitatori della zona e quindi - si spiega in un articolo su «Plos One Journal» - non ci sarebbero stati gli scambi genetici che hanno invece segnato le vicende di altri antenati, nomadi irrequieti e avventurosi. «Di certo questa scoperta disegna un quadro di incredibile diversità, che fino a un decennio fa sarebbe stato impensabile», ha sottolineato Curnoe. E, se i tempi e le rotte del popolamento dell’Asia restano così vaghi da lasciare ancora vasti spazi vergini nelle nostre conoscenze, la «Gente del cervo» è ancora più interessante perché si colloca in un periodo-chiave, nella decisiva fase di passaggio dalla caccia a quella delle forme arcaiche di agricoltura.
Intanto proseguono le analisi in laboratorio e le ricerche sul campo, visto che i fossili sono stati raccolti in tempi diversi, nell’ultimo ventennio, ma studiati con tutto l’high tech biologico solo di recente. «L’epoca tra 15 e 11 mila anni fa è conosciuta come la transizione Pleistocene-Olocene - ha commentato lo scienziato australiano - e fu allora che si assistette a un cambiamento del clima e all’estinzione in molte zone del mondo della megafauna, compreso il grande cervo rosso individuato a Maludong». E contemporaneamente avvenne l’altra rivoluzione. «Gli umani moderni cominciarono a fabbricare stoviglie e a raccogliere riso selvatico: si tratta dei primi passi verso la coltivazione vera e propria. La “Gente del cervo” viveva in quello stesso mondo. Ma al momento non abbiamo idea di quale sia stato il loro ruolo».

La Stampa TuttoScienze 28.3.12
Matematica e cultura
Aprite quella porta sui numeri
Non è facile decifrare la sua irragionevole efficacia
Difficile ma ipnotica: “E’ la matematica a dominare ogni nostro gesto”
di Michele Emmer


Il 23 settembre 1949 va in stampa un libro destinato a diventare famoso: «Le modulor. Essai sur une misure harmonique à l'échelle humaine applicable universellement à l'architecture et à la mécanique». Autore Le Corbusier.
Aveva un sogno l'architetto francese: «Il mio sogno è di erigere, nelle aree fabbricabili, una griglia delle proporzioni, che serva come indicazione per l'intero progetto, un modello che presenti un’infinita serie di differenti combinazioni e proporzioni e che il muratore, il carpentiere, il falegname dovranno consultare ogni qualvolta debbano scegliere le misure per il loro lavoro; in modo che tutte le opere saranno unificate dall'armonia. Prendiamo un uomo con il braccio alzato che in questa posizione raggiunga l'altezza di due metri e venti... Con tale griglia da costruzione, disegnata per essere in armonia con l'uomo collocatovi dentro, sono certo che si otterranno una serie di misure concilianti la dimensione umana a quella matematica». Perché la matematica?
«La matematica è la struttura regale studiata dall'uomo per avvicinarlo alla comprensione dell'universo. Afferra l'assoluto e l'infinito, il comprensibile e l'eternamente ambiguo. Ha muri sui quali si può salire e scendere senza alcun risultato; ogni tanto c'è una porta, allora si apre, si entra e ci si trova in un altro regno, il regno degli dei, il luogo che racchiude la chiave dei grandi sistemi. Queste porte sono le porte del miracolo».
Qualche anno dopo, nel 1958, un artista olandese destinato a diventare famoso, Maurits C. Escher, apriva un'altra porta: «Mi è capitato di imbattermi nel problema della divisione regolare del piano, delle figure che si ripetono all'infinito. Ho visto un alto muro e, dato che avevo la premonizione che nascondesse un enigma, vi sono salito con qualche difficoltà. Una volta arrivato dall'altra parte, mi sono ritrovato in un luogo selvaggio e ho avuto grande difficoltà a trovare la mia strada, sino a quando sono arrivato alla grande porta aperta della matematica».
Negli stessi anni di Escher Paperino compiva un viaggio nel regno della «matemagica» che si concludeva con le parole: «Non ci sono limiti a ciò che la mente può concepire e creare. Ogni giorno che passa le porte si spalancano su nuove conquiste scientifiche e le porte che oggi sono chiuse saranno aperte domani, con la stessa chiave: la matematica! La matematica è l'alfabeto con cui Dio compose l'Universo».
I legami tra la matematica e le arti, la letteratura, la poesia, l'architettura, la musica, il teatro e il cinema, hanno una storia antica che si rinnova continuamente. Insomma, il rapporto è inestricabile e la matematica è parte essenziale della cultura. «La matematica è una forza culturale di primo piano nella civiltà occidentale ha osservato Morris Kline, nel 1953, in “Mathematics in Western Culture”. - La matematica ha determinato la direzione e il contenuto di buona parte del pensiero filosofico, ha distrutto e ricostruito dottrine religiose, ha costituito il nerbo di teorie economiche e politiche, ha plasmato i principali stili pittorici, musicali, architettonici e letterari, ha procreato la nostra logica e ha fornito le risposte migliori che abbiamo alle domande fondamentali sull'uomo. Infine, essendo una realizzazione incomparabilmente raffinata, offre soddisfazioni e valori estetici almeno pari a quelli offerti da qualsiasi altro settore della cultura». Si dirà, parole di un matematico!
Non ci sono dubbi che negli ultimi anni, oltre ad un travolgente utilizzo di idee e strumenti matematici in tutti i campi del sapere e delle tecnologia, i rapporti tra matematica e cultura hanno visto una grande ripresa. Dal teatro all’architettura. In questo ultimo caso non solo come strumento del costruire, ma come fonte di ispirazione di nuove forme e idee. Il che non deve tuttavia far cadere nell'errore che la matematica sia una disciplina semplice e facilmente divulgabile.
«La matematica è un mondo a sé stante e bisogna viverci a lungo per sentire tutto ciò che necessariamente vi appartiene», ha osservato Robert Musil ne «I turbamenti del giovane Törless». A se stante ma, per dirla con una frase del fisico Eugene P. Wigner, è indubbia «l'irragionevole efficacia della matematica», non solo per le scienze della natura ma anche nella cultura.
«La matematica non è solo uno dei mezzi essenziali del pensiero primario, ma anche una scienza delle proporzioni. E, poiché questa scienza ha in sé questi elementi fondamentali e li mette in relazione significativa, è naturale che simili fatti possano essere trasformati in immagini». Parole di uno dei grandi artisti del Novecento, Max Bill, nell'articolo «Il modo matematico di pensare nell'arte del nostro tempo», pubblicato nel 1949, lo stesso anno del libro di Le Corbusier.
A questi temi è dedicato da 14 anni, a Venezia, il convegno «Matematica e cultura»: l’edizione che si apre il 30 marzo tratterà di cinema, letteratura, musica e della tante applicazioni della matematica (info su www.mat.uniroma1.it/venezia2012). Con un omaggio a un genio dei numeri come Alan Turing: nel 2012 si celebrano i 100 anni della nascita.

"RUOLO: E’ PROFESSORE DI MATEMATICA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA IL LIBRO: «NUMERI IMMAGINARI. CINEMA E MATEMATICA» BOLLATI BORINGHIERI"

Corriere della Sera 28.3.12
Perché chi sa leggere la Qabbalà ha una chiave per capire il mondo
Haim Baharier: Bibbia e psicoanalisi ci salvano dalle paure d'oggi
di Stefano Jesurum


E ra stata l'assoluta ritrosia dell'uomo a spingermi, anni fa, sulla tortuosa via che portava alla scommessa di «strappargli» la sua prima intervista. Scopro oggi, alla pagina finale del Qabbalessico, che «una parola condensa tutti i significati e i percorsi che dallo studio della Qabbalà si possono trarre». La parola è ritrosia.
Da quel lontano 1997, Haim Baharier, ora 65enne, è dimagrito ma certo non indebolito, la stanza dove riceve è la stessa, essenziale, la gran barba da grigia s'è fatta candida. Nel frattempo ha pubblicato varie opere, le ha vendute bene, ha riempito i teatri. Boom mediatico, una sorta di corsa ad ascoltare lo strano Maestro di ermeneutica biblica, lo studioso dirompente di Torah e Talmud ch'è insieme psicoanalista, coach per manager di gran vaglia, e chissà cosa altro ancora. C'è da giurare che ci sarà la coda anche al Franco Parenti di Milano dove, il 2 aprile, terrà ciò che pomposamente chiama una lectio magistralis e ironicamente la titola «Polenta e Qabbalà»: il lancio di Qabbalessico, specie d'abbecedario anarcoide edito da La Giuntina, manuale di difesa dalla quotidianità, vademecum che taglia le gambe alle promesse magiche e alle esaltazioni religiose, piccoli, profondi graffi che scalfiscono il luogo comune.
Baharier coglie spunti e lancia ami ovunque: precarietà, Suv, (non)etica della finanza, Internet, singletudine, ecologia, gossip, vegetarianesimo. Parla e scrive di democrazia e diversità, di accesso e di separatezza. Di ritrosia. Non è cambiato: «Un tempo avevo solidi amici e solidi nemici, adesso ho un po' più di nemici solidali». È il rischio dell'uscire allo scoperto, no? «Ricordo quand'ero bambino a Parigi e papà mi portava in un tempio frequentato solamente da reduci come lui, visi scavati e occhi allucinati. Io entravo e subito mi schiacciavo contro il muro, pensavo che i locali degli ebrei fossero tutti così, normalmente pieni di fantasmi. Un giorno papà mi guardò e disse: "Non farti così piccolo, non sei così grande". Compresi anni dopo l'insegnamento: i timidi sfuggono alla realtà perlopiù in altezza, verso una superiorità consolatoria; gli autentici "piccoli", i veri ritrosi, sono quelli sempre pronti nella vita a disfarsi in un attimo del proprio bagaglio di certezze; solo i grandi ne sono capaci». Così, con un piede nella globalizzazione e uno nel protezionismo, siamo tentennanti, e le sicurezze sono come corazze. Ma... «Se scegli la corazza sei simile al granchio: lo scheletro che hai come guscio ti lascia molle dentro, e ti mangiano».
A leggerlo e ad ascoltarlo, ci si rende conto che Haim è un po' ciò che dice, o dice ciò che è: «Gli antichi profeti d'Israele profetizzano il passato, filtrano dal passato gli insegnamenti da bisbigliare al futuro. Se non interpello la memoria e la venero soltanto, non trasmetto, clono». Dalla rockstar Madonna in giù è un circo che straparla di Qabbalà, contrabbandata come materia per pochi eletti, fascinazione svilita e trascinata a terra, perché? «Sono tempi di promiscuità, di idoli-religioni, di magie della Rete. Credo occorra reimmergere il nuovo nell'antico, ritornare a Mosè e alle sue allungatoie. La gente cede al canto delle sirene, alle consolazioni facili, ai misticismi. Le ortodossie che vantano piene le loro scuole e i loro templi mi mettono i brividi».
Mercati, default, paure. «Siamo preda degli alcolisti della finanza. All'alcolista non basta più gustare il buon vino, vuole godere degli effetti che il vino gli dà. E pensare che per i Maestri chassidici mangiare e bere in eccesso ha un significato: l'uomo di fronte a Dio è un esiliato ed essere nel progetto divino significa innanzitutto accettare l'infinita distanza di Dio e da Dio. L'invito non è solo di accettare questa distanza ma di enfatizzarla attraverso una materialità spinta all'eccesso. Bere e mangiare senza misura ti assicurano che sei nei disegni del Dio periferico». In fondo, racconta Haim dei suoi Maestri, se è facile portare la nostra bassezza nel sacro dei nostri templi, perché mai non si dovrebbe portare santità nel profano della nostra tavola?
La distanza, o meglio la separatezza, un concetto su cui insiste moltissimo. Da Qabbalessico: «Le nazioni democratiche sembrano non amare le faglie unificanti, per mettere insieme gettano ponti, vorrebbero tutti sposati e votati a una causa comune. Cercano di appianare le divergenze. In realtà la democrazia autentica dovrebbe nutrirsi di opposizioni, crescere attraverso di esse, non eliminarle ma integrarle... nella tradizione qabbalistica il registro più alto è quello collettivo, dove le diversità si integrano senza squalificarsi. Questo livello esprime una tensione talmente delicata che la sua deriva più pericolosa è l'appiattimento». Servono insomma muri «che uniscono più di qualsiasi ponte», e l'eco delle vicende israelo-palestinesi rimbomba nel centro di Milano. «È la fisicità del discernimento». La distanza serve a capire e comunicare, «guarda in pittura, pensa a Leonardo. Dobbiamo contemplare la distanza e poi vedere se c'è un modo non di colmarla bensì di percorrerla».
E questo libriccino? Baharier dice che vuole venderne molti, cioè essere accessibile, far vedere che la Qabbalà è un mito che qualcuno crede di conoscere. «Nessun qabbalista degno di questo nome, neppure sotto tortura, ammetterebbe di essere un qabbalista. Stuzzicai Moshe Idel (il più grande studioso vivente di Qabbalà dopo la morte di Gershom Sholem, ndr) chiedendogli se lui lo fosse. "Pettegolezzi... sono solo pettegolezzi!"». Che cos'è la Qabbalà? «Più facile dire ciò che non è. In apparenza è qualcosa che ribalta. Rovescia le parole, conta il valore numerico delle lettere, gioca con te e questo giocare trae in inganno: o la si considera una cosa seria quanto il libretto d'istruzioni del televisore, oppure come un passatempo enigmistico. Si confondono i mezzi con l'obiettivo: sarebbe come reputare alienati i nostri figli perché giocano. Mentre in realtà sappiamo che attraverso il gioco si strutturano. Di certo la Qabbalà ha a che fare con la lettura degli spazi bianchi tra le parole, però una volta che hai letto gli spazi bianchi e scrivi l'interpretazione, hai creato un nuovo spazio nero e lo spazio bianco che si forma in mezzo se la ride».
E che cosa insegna? «Per esempio... a sterminare! Il testo biblico dice che devi sterminare il nemico implacabile dei figli d'Israel, Amalek, lo devi annientare insieme a tutto il suo popolo, donne, bambini, anche i suoi animali. Ovviamente siamo tutti colti, non si parla più del disagio che la prima lettura comporta ed è nostra abitudine leggere sospesi, già ancorati al senso nuovo. La tradizione qabbalistica accetta e promuove l'uso della memoria arricchita dinanzi al testo ma avverte: in prossimità della lingua sacra, la zona è interdetta al volo, s'impone un rapporto stretto, a quota pergamena. Se il testo percuote, devi prendere il colpo in faccia; perché lo vuole il testo e perché solo da contuso potrai afferrarne il senso profondo. Se il testo dice che devi comportarti più o meno come i nazisti con gli ebrei vuol dire che ti sta segnalando una urgenza».
Come nel sonno gli incubi segnalano un allarme? «Sì, esatto. Amalek, capo di un popolo senza nome e senza volto, forse ce lo portiamo dentro, dobbiamo individuarlo in noi stessi e combatterlo fin da bambino, annientarlo». Capire per poi smontare tutto, decostruire per ricostruire. Una sorta di moto perpetuo, per arrivare dove? «Per chiedersi, ad esempio, se questa che hai fatto è una buona domanda o no. È già un primo passo. Sapere dove vado è importante quanto come ci vado, secondo quali principi e quale etica. Capisco che sto camminando secondo un orientamento serio quando i miei principi sono condivisibili da qualcun altro, e avanti così, un passo dopo l'altro».
Si può intraprendere questo cammino senza avere fede, senza credere in Dio? «Lo stai chiedendo a un qabbalista?». No, neanche sotto tortura diresti di esserlo. Sorride. «Beh, questa domanda fatta nel 2012 non è la stessa domanda fatta cento, mille o tremila anni fa». Pausa, poi Haim Baharier dice l'indicibile. «L'Occidente cristiano si fonda sul deicidio, e non parlo della crocefissione di Gesù, né di Nietzsche e la sua morte di Dio...». Quindi spiega, spiega, spiega, e il racconto continua. Infinito come lo studio che ci sta dietro.

Corriere della Sera 28.3.12
La politica casa di vetro. Così la voleva Plutarco
Per una classe dirigente di alto profilo etico
di Giuseppe Bedeschi


Definiamo «classico» uno scrittore quando le sue opere, pur maturate in una certa società e in una certa epoca, e quindi legate per mille fili a quella società e a quell'epoca, tuttavia le trascendono in notevole misura, ed esprimono idee e pensieri che parlano alle generazioni successive, anche a distanza di parecchi secoli. Plutarco è appunto un «classico»: Erasmo da Rotterdam fu tra i suoi primi divulgatori in Europa; un suo grande ammiratore fu Montaigne, che per i suoi Essais trasse molti spunti dallo scrittore greco; suoi appassionati lettori furono Rousseau e Montesquieu: nello Spirito delle leggi la presenza di Plutarco è costante. In Italia Alfieri, Foscolo e Leopardi guardarono a lui con forte interesse e vi si ispirarono. Ma questi sono solo alcuni grandissimi nomi: in realtà, per ricostruire la storia della fortuna di Plutarco nella cultura europea non basterebbe un grosso volume.
Al centro dei Consigli politici (redatti probabilmente intorno al 100 d. C.) è l'arte di conservare la pace. «La cosa migliore — dice Plutarco — è provvedere per tempo che non abbiano mai a scoppiare tumulti e considerare che questa è la funzione più nobile dell'arte politica. Pensa che i maggiori beni da desiderarsi per la città sono la pace, la libertà, la prosperità, l'incremento del popolo, la concordia». Perciò Plutarco giustifica e apprezza il dominio romano sulla Grecia, senza che venga mai meno in lui l'orgoglio di appartenere alla stirpe greca e alla sua cultura: tale dominio garantisce infatti quel bene supremo che è la pace. Oggi, egli dice, «è ormai dileguata e addirittura scomparsa ogni guerra tra i greci e contro i barbari, della libertà poi i popoli ne hanno parte quanta ne concedono loro i dominatori, e l'averne di più forse non è bene».
Nei Consigli politici Plutarco svolge poi una serie di finissime considerazioni sul ruolo della politica nella società, sul rapporto politici/cittadini, sul come i primi devono rapportarsi ai secondi. Direi che la politica, pur vista nella sua autonomia, viene considerata da Plutarco nella sua dimensione morale, con la consapevolezza che, se essa diventa immorale, non è più nemmeno politica, bensì è tutt'altro: è caccia, o pascolo di bestie senza ragione. È qui l'aspetto più affascinante dei Consigli politici, sfuggito a pur esimi studiosi.
Così, per esempio, il grande storico dell'antichità Moses Finley, nel suo libro La politica nel mondo antico (1983), dopo aver rilevato che Plutarco cita molti passi di scrittori greci e latini, che hanno per oggetto il comportamento decoroso, l'onestà, la moderazione dello stile di vita, aggiunge: «Non molto riesco a trovare nel saggio che abbia attinenza con problemi fondamentali, o anche solo con quelli che potevano essere tali nel passato, e non vi trovo nulla che illumini la politica così del passato come del presente». Giudizio, questo, che può forse essere giustificato se si vuole dire che nei Consigli politici non ci sono sviluppi dottrinali importanti rispetto alle concezioni politiche di Platone e di Aristotele; ma che non può non essere respinto se si considera quella dimensione morale della politica di cui dicevamo prima, e che è al centro della riflessione di Plutarco.
«Quelli che si occupano di politica — egli dice — non solo debbono dare conto di quello che dicono e fanno in pubblico, ma si indaga anche con curiosità sul loro banchetto, sugli amori, sul matrimonio, su quanto fanno di scherzoso o di serio». Perciò, aggiunge Plutarco, Livio Druso, il tribuno della plebe, «ottenne giustamente fama, poiché, siccome la sua casa aveva molte parti ben esposte alla vista dei vicini e un artigiano lo assicurava che per soli cinque talenti le avrebbe mutate e orientate in maniera diversa, disse: "Ne avrai dieci se renderai la mia casa tutta trasparente perché tutti i cittadini possano vedere in che modo vivo io"». Dunque, un politico può avere la fiducia piena dei suoi concittadini solo se — oltre a essere un buon politico, naturalmente — ha una vita lineare e specchiata, cioè se non si appropria di quello che non gli appartiene, se non abusa della carica per conseguire vantaggi per sé, per i parenti, per gli amici, e quindi solo se concepisce la propria attività come un puro e semplice servizio a vantaggio della comunità alla quale appartiene.
Quanto drammaticamente attuali suonano oggi le considerazioni di Plutarco!

Corriere della Sera 28.3.12
Come governare la polis


Lo spunto dei Consigli politici, il volume dei «Classici del pensiero libero. Greci e Latini» in edicola domani, fu la richiesta di suggerimenti da parte di un amico in procinto di assumere una carica pubblica. Ma Plutarco colse l'occasione per scrivere un'opera che superò di gran lunga il pretesto, come spiega la prefazione inedita di Luciano Canfora al volume: l'autore delle Vite parallele, greco divenuto cittadino romano dell'Impero, compose ammaestramenti per il successo nella vita politica che molto dicono del suo studio sul potere e sulla fama, e sono rivelatori della condizione della provincia («Devi tener l'occhio fisso ai calzari dei romani che sono sopra la tua testa»). Accanto all'opportunità del comportamento nei rapporti con i romani, spiega Canfora, lo scrittore greco però «continua a pensare alla lotta politica come ad uno scontro ravvicinato e tutto cittadino», secondo la tradizione greca, con consigli sulla condotta, sull'etica, sull'istruzione, sull'abbigliamento e perfino sugli atteggiamenti da assumere in pubblico e con i propri nemici. (i.b.)

Corriere della Sera 28.3.12
Aristofane, la nostalgia di Atene forte e austera
Amaro sarcasmo sul declino dei costumi
di Franco Manzoni


Come educare le nuove generazioni? In che modo risolvere l'eterno conflitto tra padri e figli, vecchi e giovani, tradizione e novità? Aristofane cercò di rispondere a questo dilemma con la commedia Nuvole (titolo originale Nephélai). La maiuscola del titolo, senza articolo, pare necessaria proprio a indicare le nuove divinità, che l'autore afferma inventate dal personaggio Socrate. È uno dei testi più noti della drammaturgia antica e risulta di un'attualità sconvolgente ancora oggi. Con un preciso messaggio sul ruolo dell'intellettuale e su come controllare il futuro della società attraverso l'educazione dei giovani. Inoltre assume anche un andamento «noir», che inaspettatamente presenta un finale violento, quasi tragico: la distruzione del Pensatoio, dove un ridicolo Socrate viene rappresentato istruire i propri discepoli appeso dentro una cesta di vimini.
Sotto il terrore delle innovazioni, Aristofane reagisce indicando un solo responsabile. In questo far coincidere nel 423 a. C. la figura di Socrate con quella del corruttore supremo, l'autore testimonia quale poteva essere l'opinione dell'uomo della strada. Ma questa commedia riuscì a influenzare i giudici nel condannare a morte Socrate 24 anni dopo? Probabilmente no. Semmai le Nuvole sono una testimonianza di uno stato d'animo diffuso, visto che lo stesso Socrate fu bersaglio di altri comici, come Eupoli, Amipsia e Callia.
In ogni caso la parodia aristofanea non passò inosservata, tanto che nel 399 a. C. Socrate la ricordò nel celebre processo da lui subìto: «Avete potuto vedere voi stessi nella commedia di Aristofane, dove un tal Socrate si dondolava e diceva di vagare per l'aria e cianciava di tante altre sciocchezze, di cui io m'intendo poco o nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 19c).
Il testo della commedia, che ci è pervenuto, è costituito da due parti. In aggiunta all'opera quasi complessiva del 423 a. C., Aristofane riscrisse la parabasi, la parte della commedia in cui il poeta era uso esporre il proprio pensiero per mezzo del coro, nella quale rintracciamo il proposito dell'autore di riproporre in gara per l'anno 419-418 ancora le Nuvole.
Nel 423 a. C. durante le Dionisie (a fine marzo), la giuria assegnò infatti il primo posto alla Damigiana di Cratino e il secondo al Conno (ossia la Vulva) di Amipsia, relegando Nuvole all'ultimo. È possibile ipotizzare che sul giudizio abbiano influito le pressioni politiche di Alcibiade, favorevole a Socrate e deciso a difenderne l'onore. La sconfitta fu cocente per Aristofane, tanto che l'anno successivo, nella parabasi delle Vespe, l'autore affermò che la sua precedente opera non era stata capita. Ne deduciamo che non si sia conservato il testo integrale della rappresentazione del 423, ma un collage pronto per una nuova messinscena. Le fonti attestano comunque che le Nuvole non furono mai rappresentate una seconda volta.
Protagonista della commedia è Strepsiade (il nome letteralmente significa «colui che distorce» la giustizia), un contadino inurbato che da un infelice matrimonio ha avuto il figlio Fidippide, uno scialacquatore. Morso dai debiti del figlio, il vecchio medita di mandarlo a farsi istruire da Socrate. Ma il giovane rifiuta. Allora Strepsiade decide di andarci lui stesso. Ma alla fine Socrate scaccia il contadino. L'anziano costringe il figlio ad andare a scuola dal Maestro. I risultati? Quando arrivano i creditori il giovane, attraverso l'uso di sofismi, li allontana, deridendoli e insultandoli.
Strepsiade è felice. Ma il disastro è nell'aria. Piange per le percosse del figlio. Fidippide sostiene che è nel suo diritto battere il padre come Strepsiade picchiava lui bambino per educarlo. Il giovane dimostra al papà che lo ha pestato solo per il suo bene, a maggior ragione poiché «i vecchi sono due volte bambini». A Strepsiade non resta che la vendetta: con l'aiuto dei servi incomincia ad abbattere a colpi d'ascia il Pensatoio e, salito sul tetto, vi appicca il fuoco. Così, fra le grida di Socrate e dei suoi discepoli, il Pensatoio viene distrutto.
In piena guerra del Peloponneso, l'attenzione di Aristofane si rivolge ad un argomento fonte di accese discussioni. L'antica educazione, che aveva formato i soldati di Maratona, era messa in crisi dalla paidèia sofistica e dal pessimismo pacifista. Il conservatore Aristofane rimpiangeva l'Atene di un tempo, celebrata dai greci come creatrice di grandi ideali, la città che aveva liberato l'Ellade intera dall'invasione dei barbari persiani.

Corriere della Sera 28.3.12
La sofistica messa in ridicolo


Con la ferocia che ne fece il massimo commediografo del suo tempo, Aristofane prese di mira nelle Nuvole Socrate e i sofisti, considerati colpevoli di corrompere la gioventù ateniese con i loro insegnamenti giudicati astrusi. Nella prefazione inedita a quest'edizione in edicola sabato con il «Corriere», il critico Franco Cordelli ricorda gli spettacoli più importanti e recenti tratti dall'opera di Aristofane, e spiega come «per noi moderni società e politica siano la medesima cosa. Lo stesso non si potrebbe dire per i Greci del V secolo a. C.». E distingue un altro bersaglio della commedia: non solo Socrate, che inganna il vecchio Strepsiade educandone il figlio Fidippide alla rivolta contro il padre, bensì Strepsiade stesso, ossia «l'ateniese medio, l'uomo del popolo che ciecamente si offre quale vittima sacrificale». Le uscite della prossima settimana saranno la Poetica di Aristotele con l'inedita prefazione di Guido Paduano, in edicola il 5 aprile, e il 7 aprile La guerra del Peloponneso (il libro primo) di Tucidide, con la prefazione inedita di Sergio Romano. (i.b.)

Corriere della Sera 28.3.12
Anoressia
Il male-enigma dell'anima che non riconosce frontiere
di Alberto Bevilacqua


Ho capito qualcosa del male-enigma di queste ragazze anoressiche (ma è giusto, ormai, il termine?) che amano un solo piacere: infliggere al corpo, e alla gioventù del corpo, la pena del dimagrimento, di uno spolpamento che le riduca alle ossa, come, alle ossa, riduce il corpo solo la morte.
Rivedo una pianura ugandese. Una distesa di ragazzini, i famosi «bambini soldati», a cui i guerriglieri avevano messo in mano un fucile, un mitra M16, e intorno alla vita un attorcigliato serpente di pallottole e caricatori. Ragazzini strappati alle loro famiglie, nelle quali avevano conosciuto la fame imposta dall'indigenza. Ora, quelle creature, in cambio dell'investitura crudele che avevano subito, potevano, volendo, mangiare. Ma non mangiavano. Con un minimo di energie, sostenevano le armi sui loro corpi scheletrici, fieri di questa umana aberrazione. Ho letto nelle loro menti. Sembravano dire a chi li guardava esterrefatto: ci hanno ucciso l'anima, la nostra anima si è come liquefatta, ha lasciato un buco in noi, e non abbiamo potuto farci nulla. E dunque la nostra vendetta, il nostro grido di reazione, terribile come «il grido di Munch», stanno nel ridurre a zero il nostro corpo. Che scompaia. Che non subiscano, almeno le nostre carni, questo peso dell'umiliazione.
Le giovanissime che si riducono a diciannove chili, non subiscono torture di guerriglieri torturatori. Ma nascondono, nella loro intimità più oscura e sfuggente, torture d'altra natura. Torture che le spingono alla voluttà della morte: più esattamente, a un misticismo patologico del sacrificio umano di se stesse, in nome di una divinità che strappa il libero arbitrio, che sembra ripetere: «voi non avete diritto alla vita, io vi voglio escluse dalla vita».
E le ragazze vogliono essere riconosciute sia nella loro condanna che nella protesta del loro essere, esistere, infliggendo a loro volta un'umiliazione alla divinità creante che le emargina: ossia l'amaro, velenoso sorriso di scherno che consiste nell'assecondarla. Il senso è: «Tu, entità creatrice, non mi vuoi in ciò che mi hai dato, dopo nove mesi di una formazione, in un ventre, della mia identità, e io ti ributto in faccia ciò che mi hai dato».
C'è un duello di tragica dignità in queste povere vittime di una psiche lacerata. È diverso dall'istinto suicida. Il suicidio si riduce al lampo sinistro di un atto. Nel nostro caso, agisce un cilicio fatto di molti atti, di dialogo carnale con le odiate ombre persecutorie. Credo si tratti della schermaglia più impietosa fra l'origine dell'esistenza e la patologia di questa origine, quando annulla, cancella, come si può spazzar via da una lavagna una figura amorosamente tracciata col gesso.

Repubblica 28.3.12
La nostalgia globale in un mondo di emigranti
di Federico Rampini

Mai prima d´ora l´umanità aveva avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. I costi psicologici del nomadismo planetario sono però in aumento. La nostalgia è diventata la nuova patologia della globalizzazione. Sono molti gli espatriati che soffrono di depressione. Ma pochi ne parlano
In totale sono 215 milioni le persone che si sono trasferite all´estero
Ci sentiamo cosmopoliti, eppure non siamo così facilmente sradicabili
Skype, Facebook e email danno l´illusione che basti poco per annullare le distanze
In tanti invece stanno peggio proprio dopo una videochiamata con i propri familiari

È il vero male del secolo, la nuova patologia diffusa dalla globalizzazione? Ha un nome antico: "Nostalgia di casa". Nell´Ottocento, all´alba delle migrazioni mondiali legate alla prima rivoluzione industriale, era un termine medico, usato nelle riviste scientifiche come descrizione di una vera malattia. Oggi viviamo nell´epoca delle migrazioni "2.0", un salto di civiltà ci ha trasportati in un universo senza frontiere e senza distanze. Mai prima d´ora l´umanità ha avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. Emigranti poveri in fuga dal sottosviluppo o dalle guerre; espatriati di professione; "cervelli" che si spostano all´estero in cerca di migliori opportunità scientifiche. La tipologia è vasta, ma si scopre che non siamo così facilmente sradicabili, esportabili, adattabili. I costi psicologici del nomadismo globale sono in aumento. I numeri delle nuove migrazioni sono impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella storia. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell´ultimo quindicennio.
I numeri delle nuove migrazioni sono impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella storia. I dati della Organizzazione internazionale per le migrazioni rilevano solo per gli Stati Uniti un flusso in ingresso superiore a un milione di nuovi immigrati ogni anno. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell´ultimo quindicennio. E questa cifra non include le migrazioni interne, che possono comportare ugualmente spostamenti su grandi distanze, esperienze di sradicamento estremo. Basti pensare ai 10 milioni di contadini cinesi che ogni anno abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli costiere come Pechino o Shanghai. Anche il lavoratore americano licenziato a Detroit che si sposta per cercare un´occupazione in Arizona, fa un salto di qualche migliaio di chilometri, a grande distanza da dov´è cresciuto e da dove vivono i suoi affetti. Gli immigrati "interni" sono 740 milioni.
In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l´esperienza dell´emigrazione: un essere umano su sette. E diventeremo molto più numerosi, ben presto. L´ultimo sondaggio Gallup World Poll rivela infatti che sono un miliardo e cento milioni coloro che «vogliono spostarsi temporaneamente all´estero nella speranza di trovare un lavoro migliore». Altre 630 milioni di persone vorrebbero «trasferirsi all´estero in modo permanente». Un terzo dell´umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita "altrove". Ai due estremi del ventaglio delle migrazioni, ci sono disperazione e libertà. Le diseguaglianze crescenti aumentano la pressione per abbandonare i luoghi più miseri e inospitali. Al tempo stesso è diventato più facile andarsene, e viviamo in una cultura che esalta la mobilità come un valore positivo. Il giovane italiano neolaureato, che ha assaggiato l´esperienza dell´estero con un programma Erasmus di studio in una facoltà straniera, sente dire che «i migliori se ne vanno», vede talenti che si affermano dopo avere spiccato il volo verso gli Stati Uniti.
Ma è proprio vero che il XXI secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili? Una studiosa americana delle migrazioni, Susan Matt della Weber State University, dimostra che è una forzatura. «Il cosmopolitismo - spiega la Matt - e cioè l´idea che gli individui possono e debbono sentirsi a casa propria in ogni angolo del mondo, risale nientemeno che all´Illuminismo. Solo ora però è diventata senso comune, valore di massa, come un ingrediente costitutivo dell´economia globale. Tuttavia dopo un decennio di ricerche sulle esperienze e le emozioni degli immigrati, ho scoperto che molti di coloro che lasciano casa in cerca di un futuro migliore finiscono per subìre uno spaesamento dagli effetti depressivi. Pochi ne parlano apertamente». Gli effetti collaterali possono variare a seconda dello status socio-professionale: non vivono la stessa vita il messicano immigrato a Los Angeles per lavorare come cameriere o giardiniere, e il giovane matematico italiano che ha vinto una cattedra a Berkeley. La Matt però ha scoperto che la sindrome nostalgica è interclassista, colpisce anche chi vive in condizioni migliori. «Skype, Facebook, le email e i cellulari traggono in inganno - sostiene la ricercatrice - perché danno l´illusione che migrare sia diventato indolore, che le conseguenze siano irrilevanti perché ormai basta un clic sulla tastiera per cancellare le distanze».
Le tecnologie hanno aiutato anche i più poveri. Per l´espatriato di élite, già trent´anni fa viaggiare era facile. Oggi con le compagnie aeree lowcost il volo intercontinentale è accessibile a masse sempre più vaste. La videotelefonata internazionale gratuita con Skype è nelle case di tutti, compresi i latinos che arrivano in California per lavorare negli aranceti e nella raccolta dei pomodori. La velocità di diffusione "democratica" di queste tecnologie è strepitosa. Lo documenta una ricerca della fondazione Carnegie: ancora nel 2002 solo il 28% degli immigrati qui negli Stati Uniti telefonava ai familiari almeno una volta alla settimana; oggi oltre il 66%. E tuttavia uno studio pubblicato nella rivista scientifica Archives of General Psychiatry dimostra che i messicani immigrati negli Usa hanno tassi di depressione superiori del 40% ai loro familiari rimasti in Messico. «Una imponente mole di ricerche - conferma Susan Matt - documenta lo stesso fenomeno in altre comunità etniche. Tutti i nuovi arrivati in America soffrono di alte percentuali di depressione e sindromi da stress di acculturazione».
Nonostante il maggiore benessere che spesso premia coloro che imboccano la strada dell´emigrazione, le percentuali di ritorno sono più elevate di quanto si creda. «Dal 20% al 40% di tutti gli immigrati negli Stati Uniti, finiscono per ritornare al paese d´origine». Tutto ciò non stupiva affatto gli psicologi dell´Ottocento. Nell´epoca dei pionieri, dopo la conquista del Far West e la febbre dell´oro (il primo boom d´immigrazione globale verso la California nel 1848), i medici studiavano sistematicamente le "malattie da emigranti", e il termine "nostalgia" ricorreva nel vocabolario clinico, come una sindrome precisa e talvolta fatale. Un articolo del 1887 sull´Evening Bulletin di San Francisco descriveva in modo dettagliato e struggente gli ultimi giorni di vita di un sacerdote irlandese, il reverendo McHale, «ucciso dai dolori della nostalgia di casa». Le riviste mediche americane di quell´epoca erano piene di una casistica simile. Parlare di nostalgia non era un tabù, nonostante che l´America fosse stata costruita su una visione gloriosa e positiva della mobilità, dello spirito di avventura, della voglia di conquista di nuovi territori.
«Oggi invece - osserva Susan Matt - le discussioni esplicite di questo fenomeno sono rare, anche nella comunità scientifica. Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell´emigrare siano un ostacolo imbarazzante, sulla strada del progresso e della prosperità individuale. L´idea che sia facile sentirsi a casa propria in ogni angolo del pianeta, deriva da una visione dell´umanità che celebra l´individuo solitario, mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo passato». In quanto all´illusione che le tecnologie abbiano abbattuto frontiere e distanze, la psicologa messicana Maria Elena Rivera ha raggiunto la conclusione opposta: molti suoi pazienti soffrono ancora più acutamente la lontananza da casa, dopo avere "assaggiato" l´atmosfera di una cena tra familiari e amici... osservata a mille chilometri di distanza sullo schermo di un computer o di un´iPhone via Skype.

Repubblica 28.3.12
I luoghi della memoria
Lo struggente viaggio tra le città del mondo
di Gabriele Romagnoli

Metti di aver cambiato 8 città in 4 continenti. Ventisei appartamenti aperti e chiusi (trauma da trasloco? Basta sopravvivere la prima volta). Poi qualcuno ti chiede: non hai nostalgia di casa? Cerchi la risposta, ma quel che non trovi è "casa". Nella mente si crea una sovrapposizione di immagini e sensazioni: i portici di Bologna lungo le avenues di Manhattan al fondo delle quali luccica il mare di Beirut. Alle sue spalle, Superga. Anni fa (la città, all´epoca, era Roma), mi proposero di scrivere una serie televisiva, così originale che non andò mai in onda. Storie fantastiche unite da un solo filo conduttore: lo scenario. Avevano fatto progettare a Vittorio Storaro "CurioCity", così doveva chiamarsi la serie, con fondali che riproducevano parti di Roma e Londra, Parigi e Berlino. Una città della memoria, che avevi abitato e lasciato, dove forse ti era accaduto qualcosa o forse l´avevi sognato.
Più vivi e traslochi, più quella diventa la tua residenza: la città della memoria, la topografia dei ricordi che ti consenti.
Diceva Norman Mailer, essendosi sposato sei volte, che il matrimonio equivale alla vita in una città: «Per un po´ Los Angeles, meravigliosa esperienza. Poi Barcellona, altrettanto interessante. E così via..». Trascurando l´ipotesi di "sposarsi" a Frosinone, con tutto il rispetto per Frosinone. Vero è però anche il contrario: vivere in una città equivale a una relazione sentimentale. Andarsene provoca strascichi e sofferenze, non importa chi lascia chi e perché. Ricordo ancora la notte in cui abbandonai Beirut. L´aereo partiva all´alba. Il taxi attraversò la corniche in piena notte, il vento piegava le palme, il muezzin per la prima volta mi sembrò emettere un canto anziché un grido. Chiesi all´autista di accelerare e ridurmi lo strazio.
La prima mattina dopo aver lasciato New York aprii la finestra e vidi sullo sfondo il cupolone, ma davanti agli occhi un cestino che scendeva dalla finestra per ricevere la spesa dal panettiere, come in un film neorealista. Sintonizzai Mtv e partirono i Pet Shop Boys, dio li perdoni, con "New York City Boy", quella che promette: non avrai mai un giorno di noia. Rimasi attonito ad ascoltarla fino alla fine, e ce ne vuole di malinconia.
Cambiare tanto, forse troppo, significa non tenere più insieme niente. Dimenticare per poter proseguire. Se ti manca una città, o una persona, puoi crearle un posto nel tuo cuore, ma con sei ti si sfondano le pareti dei ventricoli. E poi ogni volta che cambi residenza cambi anche tu e se torni nessuno ti riconosce, non veramente. I tuoi compagni di scuola che non si sono mai mossi dalla città dove sei nato continuano a guardarti cercando le tracce di quello che eri, di un´evoluzione che non hanno condiviso, riesumano aneddoti che proprio non rammenti perché non avevi più spazio nel file di quel gran casino che è stata la tua vita e hai cancellato la prima liceo. O hai fatto delle scelte e tenuto soltanto quel con cui potevi convivere: istinto di conservazione è anche tradire la memoria con l´indifferenza. Gli expats con cui hai bevuto tremendi liquori contraffatti nelle feluche lungo il Nilo hanno cambiato altrettante città, per un po´ vi siete inseguiti via mail da Istanbul a Shanghai, poi sono mutati anche gli account e quella era comunque la scusa per staccarsi. Così torni in gusci vuoti che assomigliano troppo a se stessi e ti segnano il tempo trascorso. Le città che hai lasciato sono ombre di meridiane sul tuo volto, più profonde delle rughe che ti aspettano al varco. Smetti di frequentarle. Vai avanti.
"Che ci fai a Milano?".
Era la prossima tappa (unisci i puntini, qualcosa apparirà), era un posto come un altro, era l´Everest che era lì e allora: su. Un giorno mi ricorderò del tram della linea 19 che passava sferragliando nella neve, di quelli che ballavano il tango a mezzanotte dietro Piazza Affari, delle russe con gli uomini orrendi al bar di corso Sempione, o forse quello era a rue Monot, a Beirut. Vuoi sapere, davvero, di che cosa ho nostalgia? Di quello che non è mai accaduto. Del campus di una università della California dove non ho studiato, della casa con vista sulla Table Mountain che non ho mai arredato, del prossimo luogo dove andrò, con un bagaglio a mano, un passaporto valido almeno sei mesi e una ferma determinazione a non farmi mancare mai qualunque cosa lì possa esistere o accadere.