l’Unità 26.3.12
L’ideologia dei tecnici non ha nulla di neutrale
di Michele Ciliberto
I n molti si sono meravigliati per la durezza e l’intransigenza con cui il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo ministro Elsa Fornero hanno fin qui rifiutato di modificare il testo della riforma del mercato del lavoro, accogliendo le critiche e i suggerimenti che erano stati loro rivolti.
La riforma presenta aspetti interessanti, riconosciuti da tutti, anche dalla Cgil. Perché resistere in questo modo e mettere a repentaglio un risultato importante, creando difficoltà al Pd e rischiando persino una crisi di governo? Credo che la risposta sia semplice ed evidente: perché nella scelta del governo si esprime in modo del tutto legittimo, ma intransigente, l’ideologia di Monti e di Fornero (e uso questo termine in senso forte, non, debolmente, come «falsa coscienza»). Un’ideologia assai potente, presentata come un elemento oggettivo, tecnico, ma imperniata su due elementi di fondo: il primato del mercato che deve essere lasciato libero di muoversi in modo spontaneo, senza interferenze esterne di qualunque genere esse siano; il rifiuto del principio della mediazione, da cui discende quello della «concertazione». Si discute con i sindacati o con i partiti, ma la responsabilità di prendere la decisione è solo e soltanto del governo. «In passato si è dato troppo ascolto alle parti sociali», ha detto due giorni fa il presidente del Consiglio, ribadendo la non negoziabilità della riforma del lavoro.
Si potrebbero citare molti esempi a conferma di questa ideologia: il ministro Fornero ha argomentato il rifiuto a una modifica dell’articolo 18 sostenendo che solo il padrone della fabbrica e non certo il giudice è in grado di stabilire se e quando licenziare un dipendente; il presidente Monti ha sostenuto che la Fiat deve ricordarsi di quanto l’Italia ha fatto per lei, ma può investire dove ed quando vuole.
Questo sul piano dei contenuti. Sul piano della forma il governo ha proceduto sia con le pensioni che con il mercato del lavoro in un modo altrettanto coerente con questa ideologia: intervenendo «dall'alto», con un atteggiamento di tipo «giacobino», senza un reale confronto con le parti sociali e le forze politiche con un netto rifiuto, come si è detto, della «mediazione», vista come origine di tutti i mali. In breve: si tratta di un’ideologia compatta, organica, della quale occorre prendere piena coscienza per capire dove il governo si propone di guidare la società italiana. Un’ideologia confermata da quella battuta, a dire il vero raggelante, che il premier avrebbe rivolto a Camusso: «Dobbiamo avvicinare la Costituzione formale a quella materiale».
La domanda da porre, con spirito costruttivo, è questa: il governo Monti ha avuto, certo, meriti importanti ed è stato giusto favorire la sua nascita e sostenerlo, ma l’Italia ha bisogno di questa ideologia per riprendere a svilupparsi e crescere? È questo il riformismo di cui ha oggi bisogno il nostro Paese? Non si tratta di una ideologia di corto respiro strategico e soprattutto distante dalle esigenze reali dell' Italia oggi?
Oggi l’Italia ha bisogno soprattutto di nuovi «legami» .Questione centrale e delicatissima, essa è ben presente anche ad alcuni dei «tecnici» che sono al governo (basta pensare ad Andrea Riccardi). Ma - e sta qui il punto discriminante fra vecchio e nuovo riformismo è alla luce dei diritti che vanno ripensati i nuovi «legami» da costruire nel nostro Paese. Senza diritti i «legami» diventano infatti una gabbia inaccettabile. Se mi è consentito usare un termine filosofico, i diritti costituiscono la dimensione «trascendentale» del processo storico e come tali, una volta acquisiti, non sono alienabili. Tra democrazia e diritti c’è un nesso diretto, organico.
Il nostro Paese, per la crisi da cui è attraversato, oggi non ha bisogno di interventi che favoriscano la divisione, la contrapposizione tra individui, classi, ceti; non necessita di provvedimenti che contrappongano, in fabbrica, capitale e lavoro. Ha bisogno di politiche che generino coesione, riconoscendo un ruolo ai corpi intermedi. Si tratta di scelte sempre opportune, che diventano addirittura indispensabili in tempi di crisi come questi.
La cultura della mediazione è fondamentale per la democrazia: attraverso di essa si esprime
la possibilità, e la capacità, di misurarsi positivamente con le contraddizioni della realtà e di trovare, volta per volta, un punto di equilibrio, in grado di sospingere avanti l'insieme del sistema sociale e politico. E la mediazione nel senso forte del termine implica il concetto di politica, mentre l’ideologia dei «tecnici» si pone, volutamente, al di fuori della dimensione sia della mediazione che della politica. Si può dire che l’idea stessa di riformismo moderno per alimentarsi ha bisogno di mediazione cioè di partiti e di diritti.
Al fondo, si confrontano due prospettive diverse, entrambe legittime. Converrebbe cominciare a parlarne, confrontandosi in modo aperto anche per ridare respiro e dignità alla politica. Come sapeva già Tocqueville, che era un liberale: «Con l’idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide... senza rispetto dei diritti non vi è grande popolo; si può quasi dire che non vi è società».
l’Unità 26.3.12
Il segretario del più grande sindacato va in tv e invita Monti a tornare indietro sull’articolo 18
Cgil, lo sciopero si farà a maggio
Susanna Camusso attacca il governo: «Monti ha sbagliato i calcoli, credeva che senza di noi avrebbe avuto più consenso, ma non è così». Il leader della Cisl Raffaele Bonanni chiede «dialogo senza estremismi»
di Massimo Franchi
«Il calcolo sbagliato di Monti», «la necessità del dialogo senza estremismi». Da una parte Susanna Camusso, dall’altra Raffaele Bonanni. Domenica televisiva per i leader dei due maggiori sindacati. Le domande dirette che vanno all’osso delle questioni di Lucia Annunziata per il segretario generale della Cgil, il dibattito nazional-popolare de “l’Arena” di Giletti a “Domenica In” per il leader della Cisl. Pubblici diversi, messeggi altrettanto differenziati.
Per Susanna Camusso «nella trattativa sulla riforma del lavoro il presidente del Consiglio ha sbagliato calcolo, pensava che chiudere dando per acquisito che la Cgil non ci stava gli avrebbe dato forza nell’opinione. Non è così, è stato un calcolo sbagliato di Monti». Poi la previsione: «Continuerà un movimento molto serio che premerà sul Parlamento affinché cambi: il Parlamento non può essere impermeabile al Paese». Il leader Cgil ha ribadito che «la partita non è chiusa», rispondendo per le rime al presidente del Consiglio per il quale l’atteggiamento del governo rispetto alle parti sociali ha avvicinato «la Costituzione materiale a quella formale»: «la Costituzione formale prevede che la Repubblica sia fondata sul lavoro e l’Italia in questo modo si sta allontanando da questa previsione».
Sul tema sempre caldissimo dell’articolo 18, la richiesta, reiterata, della Cgil è quella di «trovare una soluzione che reintroduce in tutte le tipologie il reintegro, quello è deterrente», seguendo dunque ad esempio il «modello tedesco».
In collegamento ci sono i delegati sindacali della Mapei, l’azienda del neo-presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Ecco allora che Camusso traccia un parallelo fra lui e il suo predecessore Emma Marcegaglia. Non ci saranno grossi cambiamenti nelle «dinamiche di Confindustria», «certo si potrebbero abbassare i toni», visto che la precedente presidenza era «molto ansiosa di dichiarare l’articolo 18 finito: è sbagliato e non fa bene».
Conferme anche sugli scioperi. «In questi giorni crescono in tutti i luoghi di lavoro», la Cgil seguirà tutto l’iter parlamentare e «lo sciopero generale potrebbe arrivare alla fine di maggio». La data sarà comunque decisa dalla segreteria nei prossimi giorni, tenendo conto del cammino del disegno di legge in Parlamento: lo sciopero generale quindi potrebbe essere indetto «anche prima».
L’ultimo capitolo affrontato riguarda il tema della rottura sindacale registrata martedì davanti a Monti e la possibilità che la si ricostruisca presto, Camusso usa il realismo: «Siamo impegnati a ricostruire l'unità ma ciò che non lo ha permesso è che quando il governo ha forzato, l’unità è sparita».
BONANNI E LA GIACCA DELLA CAMUSSO
Meno di un’ora dopo, Raffaele Bonanni le risponde a distanza: «La politica è malapolitica quando viene gestita dagli estremismi» e «anche in questa vicenda del mercato del lavoro tutto è stretto da estremismi che non favoriscono una via d'uscita autorevole e ragionevole», attacca il segretario generale della Cisl. Poi arriva il «timore» diretto verso la leader Cgil: «Ho il timore che Camusso abbia la giacca tirata da realtà estremistiche al proprio interno». «La soluzione migliore è quella di far dialogare le parti per trovare una mediazione e una via d’uscita in un’Italia che rischia di non avere più un investitore». Quanto alla riforma dell’articolo 18, Bonanni ribadisce di prendersi il merito del ravvedimento del governo sugli abusi possibili sui licenziamenti economici: «Monti, su nostra richiesta e per evitare abusi ha sottolineato il leader Cisl ha detto che farà una norma che stringerà le maglie» per definire i requisiti per i licenziamenti giustificati da cattiva situazione economica delle aziende, «da quelli di altra natura».
UILM NON ESCLUDE SCIOPERO
Il vento di sciopero soffia anche in casa Uil. «Non escludiamo lo sciopero», ha detto ieri Rocco Palombella segretario generale dei metalmeccanici (Uilm) che mercoledì riunisce il direttivo e in quella sede potrebbe anche arrivare chiedere ad Angeletti di indire lo sciopero generale o decidere lo sciopero di categoria. Una scelta che il segretario generale ha detto di «comprendere».
l’Unità 26.3.12
D’Alema «Cambiare la norma è un modo per rafforzare il governo»
Ampio consenso sulla linea della modifica al ddl Lavoro, Pd all’attacco
Bindi: «Dobbiamo scendere in piazza»
Oggi la direzione Pd. Bersani rivendicherà i primi risultati sull’articolo 18 e rilancerà l’alternativa per il 2013
Bindi: «Il partito dovrebbe fare manifestazioni per il lavoro». D’Alema: «La riforma va migliorata»
di Maria Zegarelli
Il Pd sulla modifica dell’articolo 18 non arretrerà di un passo: partirà da qui la relazione del segretario Pier Luigi Bersani in apertura dei lavori della direzione nazionale convocata per stamattina. «La nostra posizione, che solo una settimana veniva descritta come isolata, oggi è condivisa non soltanto dalle parti sociali, ma dalla stessa Cei e da gran parte del Paese», ha detto anche ieri il segretario ai suoi collaboratori, mentre limava il discorso. E questo è un successo sul quale il segretario non intende affatto sorvolare: «C’era chi prevedeva scissioni e spaccature del nostro partito proprio sull’articolo 18, e invece non solo non è accaduto, ma siamo riusciti a riaprire una partita che sembrava chiusa perché noi sappiamo di cosa si parla quando si discute di lavoro, in Parlamento ci sono le nostre proposte di riforma del mercato del lavoro».
E se Bersani conferma che questa sarà la linea e che «alla fine anche il Pdl dovrà sentire la sua base», la presidente del partito, Rosy Bindi, parlando a margine dell’iniziativa dei Giovani democratici a Pisa è anche andata oltre: «Penso che il Pd debba fare manifestazioni per fare capire ai giovani, alle donne, agli italiani tutti, che c’è un partito che mette al centro della propria azione politica il lavoro». Parlando dal palco, poco dopo, aggiunge: «A chi mi chiede come fa un partito a sostenere il governo e a manifestare contro alcuni provvedimenti che emana, io rispondo: ma come fa un partito come il nostro a non dire nelle sedi istituzionali e in ogni angolo del Paese che noi stiamo con i lavoratori e riteniamo il lavoro lo strumento fondamentale per la crescita del Paese?».
Per Massimo D’Alema, intervistato da Fabio Fazio, l’impegno deve essere in Parlamento, «per trovare un ragionevole compromesso» sull’articolo 18 che «è solo una parte di una grande riforma che ha un obiettivo: rendere meno precaria la vita dei lavoratori». D’Alema, come lo stesso Bersani, riconosce «che ci sono delle novità importanti», ma ritiene che «si possa fare di più, soprattutto per l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali». E spingere per questo non vuol dire mettere in difficoltà il governo, «ma renderlo più forte, fino al 2013».
LA RIFORMA
La riforma del lavoro è il passaggio più delicato per il Pd, dove comunque non sono certo passati inosservati i sondaggi (come quello pubblicato ieri sul Corriere della Sera) raccontano di un brusco calo del consenso al governo, fino al 44 per cento. Un segnale chiaro anche per i partiti che lo sostengono. Di questo non possono non tenere conto anche i montiani più convinti del Pd, da Letta a Veltro-
ni, a Fioroni. L’ex ministro oggi tornerà sulla sua preoccupazione maggiore: «Bisogna evitare il contenzioso tra falchi, da un lato e dall’altro. Non vorrei che per ottenere il meglio assoluto si producano danni gravi anche al governo». Dai Modem, Achille Passoni, un passato nella Cgil, ribadirà che è necessario «lavorare affinché in Parlamento si arrivi a una modifica verso il modello tedesco». In tal senso il confronto con il Terzo Polo è già avviato e i margini sono ampi, diverso il discorso con il Pdl ma, come dice Sergio D’Antoni, «Alfano e il suo partito, così sensibili ai sondaggi, non potranno far finta di niente di fronte ai propri elettori, ai quali questa riforma non piace».
I NODI DA SCIOGLIERE
Riforma del lavoro e anche le prossime elezioni amministrative saranno un test importante prima delle politiche del 2013: nel 90 per cento dei comuni il Pd si presenta con Idv e Sel, il «nocciolo» della futura alleanza di governo, mentre in altri il centrosinistra si allarga all’Udc.
Bersani oggi ribadirà che il centrosinistra di cui si parla non ha nulla a che vedere con l’Unione, «la nostra sarà un’alleanza aperta a quelle forze che hanno una cultura di governo, con le altre potrà esserci un confronto, niente di più».
Per vincere le elezioni e dare un governo stabile al Paese, il segretario ne è convinto, il Pd «deve rivolgersi anche all’elettorato moderato, dobbiamo allargare l’alleanza e aprire la stagione delle riforme istituzionali e costituzionali per le quali l’appoggio e il consenso degli elettori moderati è fondamentale». La scorsa settimana ne ha parlato a lungo con Nichi Vendola con il quale i rapporti in questo momento sono sicuramente più fluidi che con Antonio Di Pietro e l’Idv e nelle prossime settimane darà un’accelerazione al
coordinamento politico fra i partiti per iniziare ad affrontare anche i pilastri programmatici su cui qualunque alleanza dovrà saldarsi.
Altro tema caldo della direzione saranno le primarie, dopo Genova e Palermo sono molte le critiche avanzate anche alla linea del Nazareno da parte della minoranza del partito. L’analisi di quelle appena effettuate, con al centro i risultati del capoluogo ligure e del caso siciliano, e l’annuncio di un appuntamento ad hoc, dopo le amministrative, per «mettere a registro uno strumento dice il segretario che ha il nostro brand ma necessita di manutenzione».
In direzione Bersani ribadirà anche che se il Pd non vuole allontanare la fiducia dei suoi elettori dovrà spingere per la riforma della legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari e la riforma dei regolamenti.
l’Unità 26.3.12
Il nodo dell’articolo 18
Scegliere il modello Usa o quello tedesco
Non è lo Statuto dei lavoratori che grava sulla competitività delle imprese quanto invece la burocrazia, le troppe tasse, i ritardi nei pagamenti della PA
Monti ha compiuto una scelta politica per chiudere con la concertazione
di Paolo Buttaroni
Forse è un segno dei tempi che un governo «tecnico» disegni una riforma quella del mercato del lavoro che più politica non si può. E le implicazioni sociali ed economiche non hanno certo contorni vaghi e indefiniti; gli indirizzi del presidente del Consiglio sono precisi: nel breve, medio e lungo periodo. Piaccia o no, è così. E dopo gli anni della convivenza del tutto con il suo contrario, degli annunci, dei rinvii e delle riforme di cui si è persa traccia, il merito della chiarezza va riconosciuto.
È evidente, però, il cambio di registro degli ultimi mesi. Il mandato conferito a Monti era di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile. Regole d’ingaggio non scritte, che avevano consegnato a Mario Monti la maggioranza più ampia della storia della Repubblica. Un conferimento che, nella sua impostazione iniziale, suggeriva cautela nell’affrontare alcune questioni politiche ad alto rischio di generare turbolenze e instabilità.
Il presidente del Consiglio pur dalle prese con una maggioranza innaturale ha scelto, invece, di lanciare una sfida che costringe le forze di maggioranza ad alzarsi dalla panchina e a scendere in campo. Ora, è inevitabile: tutti dovranno fare chiarezza e dire da che parte stanno. A cominciare dal Pd e dal Pdl.
Le risposte dei partiti non si sono fatte attendere. Con Bersani: «Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no», ma «il Pd starà dalla parte dei lavoratori». Con Alfano: «Se si lavora a qualche modifica, non si può immaginare che siano di un solo colore». Con Di Pietro: «Dal governo una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani». Con Casini: riforma «che migliora la situazione».
La scelta di affidare la riforma a un disegno di legge non è stata dettata dal recupero di una qualche forma di cautela. È stato, invece, l’incipit di una partita la cui fine coinciderà con le prossime elezioni politiche, quando Parlamento e governo assumeranno le forme della terza Repubblica.
La riforma del mercato del lavoro segna, quindi, lo spartiacque tra un governo tecnico e un governo politico.
Una svolta con il passato nei metodi e nei contenuti. Nel metodo perché manda in soffitta la concertazione e il patto che da Ciampi in poi conferiva alle parti sociali un ruolo decisivo nelle scelte che riguardavano le politiche del lavoro e del welfare. Monti e Fornero hanno sostenuto che il metodo della concertazione non era più praticabile nelle forme del ’93 perché i sindacati non avrebbero comunque sottoscritto l’accordo. Probabilmente è vero, ma andare avanti, ponendo fine alla concertazione, è stata una scelta politica, non tecnica.
Così come politiche e non tecniche sono state le scelte di contenuto. A cominciare dalla rimozione della norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori: l’articolo 18. La disciplina, cioè, che garantisce, a chi viene licenziato senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti. Al suo posto andranno tutele più generiche e ad ampio spettro discrezionale. Ed è indicativa, in tal senso, la dichiarazione dello stesso premier rispetto al rischio di licenziamenti basati su motivazioni diverse da quelle previste nel perimetro della riforma. «Vigileremo» ha detto Monti. Una risposta che derubrica il tema nella categoria “quisquilie”, perché è evidente che un sistema giuridico deve poggiare su norme vincolanti e inderogabili, e non su vaghe forme di vigilanza sanzionate da rimbrotti di natura morale. L’ispirazione della riforma dovrebbe andar bene alla Fiat di Marchionne, piuttosto che al modello di fabbrica al quale si ispirava e aspirava, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti. Probabilmente, nell’economia generale della riforma, era utile ma non indispensabile sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il contenzioso tra lavoratori e imprese in materia di licenziamenti. Non era indispensabile perché, di fatto, non risolve i problemi che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro stabile. È molto più importante, in tal senso, il riequilibrio, previsto dalla riforma, tra i costi del lavoro a tempo indeterminato e determinato. Quest’ultimo diventa più oneroso e limitato nel tempo, giacché le imprese potranno farne ricorso solo fino a un massimo di tre anni.
Cancellare l’articolo 18, oltretutto, non servirà a dare slancio al sistema Italia, perché la norma riguarda soltanto il 3% delle imprese (ma quasi la metà degli occupati) mentre il restante 97% è soffocato dalla concorrenza sleale, dalla burocrazia, dalle tasse, dalla stretta creditizia e dai ritardati pagamenti, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Alla miriade di piccole e piccolissime imprese, la nostra struttura economica e produttiva, serve ben altro. Banche e governo in primis: le prime ridando fiducia agli operatori economici e alle famiglie, il secondo riducendo il peso della burocrazia e immettendo valore nel sistema con investimenti che aiutino concretamente il Paese a ripartire, cominciando dai consumi interni.
Per questi motivi, cancellare il simbolo dello Statuto dei lavoratori ha un valore più politico che di cifra economica. La stessa ragione che probabilmente ha portato Monti a non accogliere la disponibilità dei sindacati sulla flessibilità in uscita. Disponibilità che riguardava l’adozione del modello tedesco e che affida al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato.
Ma il connotato politico è soprattutto un altro: con la riforma cambierà il focus della regolamentazione, che non sarà più sui lavoratori, ma incentrato prevalentemente sul rapporto tra offerta e domanda. È questo il cambio di prospettiva della riforma Monti-Fornero.
Una riforma che contiene aspetti indubbiamente innovativi e positivi, soprattutto nel momento in cui disincentiva il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese e rende finalmente performanti i percorsi formativi. Sistema che, però, nell’imposta-
zione complessiva, si dispone sul modello anglosassone piuttosto che su quello europeo, quello tedesco, che sembrava dovesse ispirare il testo in discussione. La riforma cambia i paradigmi che hanno fin qui regolato il rapporto tra mondo del lavoro e impresa, spostando a livello aziendale il piano della relazione e invertendo la direzione di marcia che aveva portato le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà.
Il Parlamento dovrà decidere se scegliere un modello economico a metà tra gli Stati Uniti di Clinton e l’Inghilterra thatcheriana, oppure riorientarsi verso un sistema che ci avvicina alla Francia e alla Germania. Dal suo punto di vista Monti ha ragione quando dice che il testo è blindato: la riforma può accogliere piccoli aggiustamenti, ma non grandi cambiamenti che ne stravolgerebbero l’impianto e quindi gli effetti.
I partiti dovranno scegliere, pensando se è quello che serve all’Italia e se il Paese ha una struttura economica adatta a ospitare una regolamentazione come quella varata dal Governo. Il fischio d’inizio è stato dato. Adesso la politica giochi la partita più importante.
l’Unità 26.3.12
Così si è scaricato sui più deboli l’onere della prova
di David Sassoli
La professoressa Paola Severino, avvocato, docente di diritto penale, attualmente Guardasigilli, venerdì nel Consiglio dei ministri poteva essere invitata dal presidente Monti a svolgere una lectio magistralis sugli effetti della nuova disciplina dei licenziamenti economici sull’ordinamento italiano. Ai tecnici e agli economisti, la professoressa Severino avrebbe potuto spiegare il “costo” che la nuova disciplina dei licenziamenti economici produrrebbe su un principio generale del diritto: l’onere della prova. Il principio è sistemato nel Codice civile all’articolo 2697: colui che chiede il giudizio su un diritto negato deve prendersi l’impegno di provare ciò che afferma, assumendosi anche la responsabilità dell’insuccesso. La professoressa Severino avrebbe brillantemente spiegato anche le eccezioni – “presunzioni” – e gli ambiti assai ristretti in cui si può accettare di invertire l’onere della prova.
Se il Consiglio dei ministri avesse ascoltato con attenzione l’illustre giurista ci saremmo risparmiati tante polemiche su una tipologia di licenziamento – per cause economiche che non consentirà mai al lavoratore di dimostrare che il suo licenziamento sottintende ad altre finalità. Polemiche che con troppa superficialità sono state catalogate nell’ambito di un “simbolismo” sociale di stampo conservatore. Se il datore di lavoro propone un licenziamento per ragioni economiche, oggi il lavoratore può ricorrere al giudice dimostrando che le ragioni economiche non sussistono; domani, con la legge Fornero, per ottenere il reintegro il lavoratore dovrebbe dimostrare che il licenziamento non è avvenuto per le ragioni dichiarate ma dovrebbe fornire la prova di quali siano le ragioni reali.
È evidente un rapporto asimmetrico, che pone la parte debole nell’impossibilità di far valere le proprie ragioni. Davanti al giudice, dove si è chiamati ad esprimersi su una causa di licenziamento scelta dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe provare che non si tratta dei motivi manifestati dalla controparte, e che i motivi economici non sussistono. Una prova impossibile da fornire. A questo punto la professoressa Severino, con la competenza che la contraddistingue, avrebbe potuto intrattenere i suoi illustri colleghi sulla “probatio diabolica” – la prova del Diavolo e spiegare quando una prova diventa impossibile da ottenere. Le questioni giuridiche che pone l’istituto del licenziamento per motivi economici sono di grande rilevanza. Se il giudizio è incardinato come ricorso contro un licenziamento per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), il giudice non potrà mai disporre il reintegro anche se accerterà che il licenziamento sia stato illegittimo. Facile, dunque, contrabbandare licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” per nascondere così altre finalità. In tempo di crisi, oltretutto, è alquanto agevole avanzare ipotesi di questo genere. Inoltre, neppure il giudice potrebbe intervenire. Alla mancata sapienza del Consiglio dei ministri tocca ora al Parlamento porre rimedio.
Le forze sociali hanno dimostrato di aver chiara la dimensione dell’impatto umano e sociale del provvedimento; le forze politiche hanno il dovere ora di precisare la base giuridica su cui il Parlamento è chiamato ad intervenire per “ricucire” il senso della giustizia e i principi del nostro ordinamento. Lo strappo avanzato nel disegno di legge, d’altronde, rischia di produrre effetti negativi a valanga, mentre «l’efficacia del diritto è sempre nella determinatezza e specificità della tutela» (Natalino Irti).
La Stampa 26.3.12
Sul modello tedesco Terzo polo e Pdl più vicini a Bersani
E Casini avverte: se continuiamo così prima o poi c’è la crisi
di Amedeo La Mattina
Quella di Maroni potrebbe rivelarsi una profezia. «Non credo che sulla riforma del lavoro la nuova triplice PdlPd-Udc si spaccherà, sono legati da altri interessi e dalla paura di andare al voto». L’ex ministro del Lavoro forse sa qualcosa; magari sabato scorso a Cernobbio, a margine del forum della Confcommercio, ha sentito qualcosa nei conciliaboli. Lì, sul lago di Como, c’erano Bersani, Alfano e Letta. Dopo il pranzo «on air» nella vetrata del ristorante del Grand Hotel Villa d’Este, il vicesegretario del Pd ha avuto un colloquio con il segretario del Pdl. Si è parlato di legge elettorale, ma non solo. C’è chi racconta che l’incontro sia virato sul mercato del lavoro, sul quel controverso disegno di legge che comprende le modifiche all’art. 18. Ora il provvedimento arriverà in Parlamento in una versione che verrà scritta dal ministro Fornero in sintonia con il capo dello Stato. Lo ha spiegato lo stesso Monti a Cernobbio: il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge con la formula «salvo intese» e questo significa che eventuali modifiche potranno essere fatte solo dal governo e dal Quirinale. Così potrà arrivare alle Camere una versione che potrà facilitare il compromesso tra le forze politiche che compongono la maggioranza.
Spiegava Letta in una delle pause dei lavori a Villa d’Este: «Sull’articolo 18, e in particolare sui licenziamenti per motivi economici, si dovrà studiare un meccanismo tecnico che faccia superare l’empasse e consenta di essere votato dal Pd, dal Pdl e dal Terzo Polo. Ci vuole fantasia e un’alzata di ingegno». Chissà se questa «alzata di ingegno» verrà trovata tra Palazzo Chigi e Quirinale. In ogni caso, nelle commissioni parlamentari la «fantasia» non manca mai. Ma per mettere d’accordo i partiti della «strana» maggioranza basterebbe adottare il cosiddetto «modello tedesco»: è sempre un giudice che decide se ricorrono le ragioni economiche per un licenziamento e se queste ragioni non ci sono scatta l’alternativa tra indennizzo e reintegro.
Voci sempre più insistenti raccontano che Udc, Fli e Api sono pronti a convertirsi alla soluzione tedesca. C’è un area di riferimento, che va dalla Cisl a Cl e alla Cei, che spinge in questa direzione. Quanto al Pdl le cose sono un po’ più complicate, perchè c’è una componente di falchi che fa capo all’ex ministro Sacconi e agli ex An La Russa e Gasparri che si oppongono a qualunque compromesso. Alfano invece si sta già predisponendo a sostenere l’accordo tedesco in cambio di un sostanzioso alleggerimento dell’aggravio contributivo per le aziende che ricorrono ai contratti a tempo determinato e ai co.co.pro. Insomma, il segretario del Pdl punterà tutto sulle modifiche dei meccanismi di flessibilità in entrata e per Bersani non è un problema: anzi alcune le ritiene più che legittime.
Al di là dei toni da campagna elettorale che avanza a grandi passi verso il voto delle amministrative di maggio, Pd, Pdl e Terzo Polo sono più vicini di quanto si pensi. Le schermaglie però non mancano. Gasparri accusa Bersani di non voler fare la riforma perché è troppo lacerante all’interno del Pd. E rinnova i sospetti sulla sinistra che prenderebbe tempo per affossare tutto. Casini lo «sminatore» avverte i navigatori che l’emergenza non è finita e che bisogna evitare di tirare Monti da una parte e chi tira dall’altra. «Se si continua così, il governo prima o poi entra in crisi sul serio e sarebbe un atto di irresponsabilità. Oggi è il momento di stare vicini a questo Governo, di aiutarlo e di superare anche le difficoltà che ci sono». Per aiutarlo é necessario trovare una soluzione sulla riforma del mercato del lavoro, che salvi la faccia a tutti. Come? Il vicecapogruppo del Pdl Osvaldo Napoli suggerisce di spostare l’attenzione dal piano del metodo (ddl o decreto), ormai superato, a quello del merito. «Se Bersani annuncia che il provvedimento sarà cambiato nelle aule parlamentari, non possiamo essere da meno. Agli amici preoccupati del Pdl voglio dire che l’esame parlamentare della riforma del mercato del lavoro è un’occasione preziosa per rafforzare l’identità del partito e mettere in campo una strategia politica non più solo difensiva, ma in grado invece di tracciare una linea che divida il campo dei riformisti autentici dai conservatori in maschera». E’ una dichiarazione che ha tutta l’aria di essere stata suggerita dal segretario Alfano, già pronto alla trattativa nelle aule parlamentari.
Repubblica 26.3.12
I quattro dilemmi che lacerano il Pd
Alleanze e primarie, il Pd è in un labirinto Ma sulla premiership Bersani stacca tutti
E la base preferisce il patto con Di Pietro-Vendola a quello con Casini
I democratici restano sospesi tra laburismo e liberismo, sono i più convinti tifosi di Monti ma anche i più vicini alla Cgil. Uno "strabismo" che inevitabilmente genera stress
di Ilvo Diamanti
IL PARTITO Democratico è attraversato da un disagio profondo. Difficile da dissimulare, ma anche da sopportare a lungo. Rischia di uscirne dissociato. Insieme a questo governo di "tregua nazionale".
E al sistema politico di questa Repubblica, post-berlusconiana. Montiana. Sono quattro le questioni - meglio sarebbe dire "dilemmi" - che lacerano il Pd. Gli obiettivi, le alleanze, le primarie e la leadership. In questa sede mi limito a tematizzarle in modo schematico.
1) Anzitutto, gli obiettivi, l´orizzonte strategico. Il Pd oggi è diviso. Non solo al proprio interno, ma "intimamente". Nel senso che leader, militanti ed elettori con-dividono i medesimi orientamenti. Contrastanti. Sospesi e stressati fra laburismo e liberismo. Basti pensare, in primo luogo e soprattutto, al controcanto (contraddizione?) fra l´atteggiamento verso il governo e le sue politiche. Gli elettori del Pd valutano le scelte del governo Monti, nell´ambito economico e del lavoro, in modo largamente negativo. Le considerano, eufemisticamente, poco eque. Sul provvedimento relativo all´art. 18 (come emerge dai dati del sondaggio di Demos) il dissenso degli elettori Pd è netto (67% contrari). Superiore a quello della popolazione (59 % circa).
Essi, tuttavia, sono al contempo, i più convinti sostenitori del governo (80%: quasi 20 punti più della media generale). Stimano Monti (84%: + 17 punti della media generale) ma anche i suoi ministri. Fornero (60%: 9 punti in più della media generale) e Passera (65%: addirittura 15 punti sopra la media generale). Insomma, la base del Pd e animata da sentimenti "lab" ma si affida a una squadra di "lib" convinti.
Peraltro, il 44% degli elettori Pd esprime "molta fiducia" nella Cgil, circa 20 punti in più rispetto alla media della popolazione. Mentre il credito verso Cisl e Uil scende al 27% (6 punti sopra la media) e verso le associazioni degli imprenditori scivola al 19% (2 punti meno della media). Difficile che uno sguardo così strabico non provochi malessere.
2) Un problema accentuato dalla questione delle alleanze. Pur di favorire la nomina di Monti al governo e, insieme, le dimissioni di Berlusconi, il Pd ha accettato di allearsi con l´Udc e, soprattutto, con il Pdl. Una "grossa coalizione". All´italiana - cioè: non ammessa e non dichiarata. In contrasto con l´intesa di centrosinistra, coltivata negli ultimi anni insieme a Idv e Sel. E sperimentata con successo, seppure con qualche sofferenza, alle amministrative del 2010. Tuttavia, alle prossime elezioni (che dovrebbero svolgersi nel 2013, secondo regola) non sarà facile per il Pd (e per il suo gruppo dirigente) scegliere le alleanze. Certamente non potrà riproporre la "grossa coalizione" con il Pdl e l´Udc. Oltre metà degli elettori non lo seguirebbe. Preferirebbe, piuttosto, votare per la Sinistra. Oppure astenersi.
Ma neppure un´intesa "esclusiva" con l´Udc, quindi un patto di Centro-Sinistra, garantirebbe l´unità interna al Pd. La sua base elettorale si spezzerebbe. Un terzo opterebbe, egualmente, per la Sinistra. Con il risultato che prevarrebbe il Centrodestra (Pdl-Lega).
Resta, quindi, l´alleanza con la Sinistra. Con l´Idv e Sel. La più condivisa dagli elettori. Ma non priva di rischi. Perché, inoltre, accentuerebbe il peso degli orientamenti laburisti e di sinistra. Alimentando il disagio della componente "popolare" e "moderata" nel Pd.
3) C´è poi la questione delle Primarie. Non un semplice metodo di selezione del candidato alle elezioni (a diverso livello: nazionale e locale), ma un vero "mito fondativo", secondo la definizione di Arturo Parisi. Utilizzate anche per eleggere il leader del partito. Una procedura di mobilitazione degli elettori e dei simpatizzanti, progettata al tempo dell´Ulivo, soggetto politico "inclusivo" che mirava all´aggregazione delle forze politiche di centro-sinistra, sotto lo stesso tetto. Come l´Unione nel 2006. Ma nel Pd, "partito" maggioritario ed "esclusivo", le Primarie, dopo il 2008, si sono trasformate in un metodo per scegliere il candidato di "un altro" partito. Nell´ultimo anno, è già avvenuto a Milano, Cagliari, Genova. Da ultimo a Palermo. E prima in Puglia. Naturalmente, il problema non è tanto le Primarie, quanto il Pd. Le cui divisioni si trasferiscono nelle Primarie. Occasione per regolare i conti interni, fra leader e componenti. Il che favorisce, ovviamente, i candidati di altre forze politiche.
Tuttavia, gli elettori di centrosinistra e del Pd si sono, ormai, "abituati" alle Primarie. Principale, se non unico, canale di partecipazione alle scelte del partito. Per cui, non a caso, i due terzi degli elettori del Pd si dicono disponibili a votare alle Primarie. Peraltro, il 35% le vorrebbe solo di partito. Una componente superiore (di circa 10 punti) a quella che si osserva nella base di Sel e Idv.
Il problema è che il Pd deve decidere cosa vuol diventare da grande. Un "cartello nazionale", in grado di aggregare molte forze diverse, come l´Ulivo. Oppure un Partito che mira ad attrarre gli elettori dell´area di centrosinistra, come il Pd nel 2008. Un´alternativa che condiziona l´ambito delle Primarie. A livello di partito o di coalizione.
4) Questi dilemmi si riflettono nella questione della leadership. Divenuta fondamentale al tempo della "democrazia del pubblico" (così definita da Bernard Manin), personalizzata e maggioritaria. Oggi, non esistono partiti senza leader che li impersonino. Semmai è vero il contrario. Presidenti senza partiti e, perfino, contro i partiti. È il lascito del Berlusconismo. E della sua crisi, colmata dal ruolo assunto da Napolitano e da Monti.
A questo proposito, è interessante notare come il leader che gode dei maggiori consensi, in vista delle prossime elezioni, fra gli elettori di centrosinistra, sia l´attuale segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Il quale prevale nettamente sugli altri possibili candidati. Degli altri partiti e dello stesso Pd. Bersani. Nonostante sia considerato un leader debole. Forse perché è, comunque, ritenuto competente. In grado di guidare il Governo meglio del partito. O forse perché proprio la sua "debolezza" lo rende adatto a interpretare i dilemmi del Pd. Più che un soggetto coerente e strutturato: un aggregato politico, che raccoglie molte diverse storie, identità e culture. Senza riassumerle. Il che non gli ha impedito di divenire primo partito in Italia - per debolezza altrui. Ma gli ha permesso, anzi, di aggregare, con successo, altre forze politiche, in diverse occasioni recenti. Magari senza imporsi alla guida. Senza imporre la propria guida. Agli altri.
Un "partito impersonale", in mezzo a molti "partiti personali" e a due Presidenti senza partito. Può essere "impersonato", anzitutto e soprattutto, da una persona anti-carismatica. Un leader di buon senso. Un Bersani, insomma. (Detto senza ironia, né, tanto meno, con sufficienza.)
Ciò, semmai, solleva un altro dilemma. Riguarda il rinnovamento della classe dirigente. Tanto evocato quanto, fin qui, eluso e deluso. Impensabile e im-pensato dagli stessi elettori del Centrosinistra.
Il dubbio è se il PD possa avvantaggiarsi della debolezza altrui - e propria - evitando di fare i conti con i suoi dilemmi, sin qui rinviati e irrisolti. Fino a quando gli sarà possibile? Non molto a lungo, penso.
Repubblica 26.3.12
Quel bisogno di equità sociale
di Guido Crainz
Nel momento in cui inizia un´altra fase decisiva per l´articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un´analisi equilibrata dei possibili scenari.
Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda… è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell´articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della "classe operaia" (basti pensare all´accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall´orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l´attenzione sin dall´inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d´acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c´è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (come è inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una "pedagogia per il futuro" e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest´ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall´avvio, i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio. Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune "non scelte" sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie.
Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l´esigenza che le modifiche all´articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un "potere di veto" corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul "dopo Monti", ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.
l’Unità 26.3.12
Nessun regalo alla Mafia
Mafia e concorso esterno. Non toccare ora il reato
Se passasse la tipizzazione proposta da Visconti sarei favorevole. Ma oggi non ci sono le condizioni e si rischia di fare un regalo ai colletti bianchi e ai potenti
di Antonio Ingroia
Al di là della discutibile difesa d’ufficio della requisitoria «suicida» della Procura generale della Cassazione nel processo Dell’Utri, merita considerazione l’analisi di Costantino Visconti, giurista serio che per anni ha studiato le implicazioni del trattamento penale della contiguità mafiosa.
Quindi bisogna davvero chiedersi se non sia venuto il momento di affrontare l’annosa questione della tipizzazione del concorso esterno, in modo tale da potersi confrontare finalmente con una disposizione legislativa.
D’altra parte, se meritano rispetto le posizioni favorevoli alla tipizzazione, lo meritano anche quelle contrarie, che non vanno liquidate con l’accusa di essere mosse dall’interesse di difendere il potere ampio e incontrollabile di avviare indagini a larghissimo spettro e durata senza una minima prospettiva di arrivare a un processo e a una sentenza.
Sgombriamo il campo da queste accuse ingenerose, degne del peggior salotto televisivo, e avviamo un confronto franco e senza pregiudizi, anche perché sarebbe facile replicare che eventuali impostazioni accusatorie così spregiudicate potrebbero essere più agevolmente favorite da fantasiose ricostruzioni, fondate sul reato associativo anziché sul concorso esterno. Sicché, a essere consequenziali, si dovrebbe proporre non solo l’abolizione del concorso esterno, ma anche l’associazione per delinquere, comune e mafiosa, e nessuno credo abbia l’ardire di proporre tanto. Per scongiurare certi rischi, invece, basta applicare i principi fissati dalla Cassazione con rigorosa professionalità.
Più che legittime mi sembrano invece le perplessità sui possibili esiti, oggi, di una tipizzazione del concorso esterno. E lo dico, sebbene io sia stato sempre, in linea di principio, favorevole alla tipizzazione. Certo, se il legislatore si chiamasse Visconti e la formula normativa approvata fosse quella che Visconti ha proposto, sarebbe difficile non convenire con lui che debba essere punito gravemente «chiunque si adoperi per avvantaggiare l’associazione mafiosa strumentalizzando il ruolo ricoperto in enti pubblici o privati oppure l’esercizio di una professione o di un’attività economica». Usciremmo una volta per sempre dagli equivoci della prova del nesso di causalità fra condotta del concorrente ed effettivo rafforzamento dell’associazione mafiosa, e avremmo un testo di riferimento preciso e concreto.
Ma c’è qualcuno che crede che nel dibattito parlamentare odierno un’espressione legislativa del genere troverebbe il consenso per diventare legge? Lo scetticismo è legittimo. Non credo che basterebbe una previsione legislativa ad hoc per risolvere conflitti e problemi. Il concorso esterno non c’entra nulla. C’entra invece la qualità di certi imputati, i concorrenti esterni, i complici, la cui impunità va difesa a tutti i costi.
Ci sono forse mai state polemiche per i tanti amministratori locali, pubblici funzionari o imprenditori, già condannati per concorso esterno e magari oggi in carcere in esecuzione della pena definitiva? Non mi pare proprio. Si è scatenata allora alcuna polemica sulla presunta genericità del concorso esterno, invocandone l’abolizione? Per nulla. È successo solo per Dell’Utri e qualche altro imputato eccellente, i vari potenti che, a torto o a ragione, innocenti fino a sentenza definitiva di condanna, sono stati processati per presunta collusione mafiosa. Ed è accaduto solo per le imputazioni di concorso esterno? Niente affatto. Il processo per collusione mafiosa, oggetto delle più feroci polemiche, è stato certamente quello contro Giulio Andreotti, che non era imputato di concorso esterno, ma di associazione mafiosa. Non c’e ́ dimostrazione piú clamorosa che il problema non è la figura di reato, il concorso esterno, ma è una certa categoria di imputato che si vorrebbe per sempre impunito, visto che il processo al pm si scatena appena ci si permette di indagare su una certa categoria di persone a prescindere dalla figura di reato che viene contestata.
E allora, se il problema non è il concorso esterno, ma i concorrenti esterni, appare velleitario pensare di risolverlo con una legge. Perché le cose sono due: o si modella un testo normativo come quello proposto da Visconti, ma è facile prevedere che una soluzione del genere verrebbe investita dalle solite polemiche ogni qualvolta la si volesse applicare nei confronti di un potente, ovvero si pensa di introdurre una tipizzazione così circoscritta da diventare l’abrogazione per legge della punibilità del concorso esterno. È indubbio che, in linea astratta, si possa prevedere una norma incriminatrice ad hoc che punisca la condotta «agevolatrice dall’esterno» dell’associazione mafiosa, con un ambito di applicabilità né troppo ampio né troppo ristretto, dotata di maggiore concretezza ma senza rinunciare alle sue potenzialità applicative.
Occorrerebbe, però, un confronto serio e costruttivo, e senza doppi fini. Ed è un fatto che il clima meno rovente, apparentemente instauratosi da quando si è insediato il governo Monti, si rompe subito appena si affrontano certi temi, come dimostra appunto la vicenda Dell’Utri. Allora non credo sia questo il momento migliore per mettere mano ad un meccanismo così delicato come il concorso esterno, figura di reato strategica specialmente ora che la mafia è soprattutto mafia finanziaria, mafia dei colletti bianchi. Rischiosi gli arretramenti su questo terreno. Rinunciare in queste condizioni al concorso esterno sarebbe come rinunciare al principio di obbligatorietà dell’azione penale, introducendo un odioso discrimine all’interno dell’universo mafioso, condannando i «picciotti» per salvare i complici, che rappresentano sempre di più l’anima nera del sistema di potere mafioso. Ed invece dei complici dobbiamo salvare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini anche di fronte alla collusione mafiosa.
Repubblica 26.3.12
Esiste nella scuola la questione morale?
di Mario Pirani
Salvo Intravaia su Repubblica (15 marzo) offre un panorama di strafalcioni incredibili, tratto dalle prove di italiano agli esami di maturità, sottoposti al vaglio dell´Invalsi, l´Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, che da qualche anno fornisce i suoi risultati a una opinione pubblica che ne trae impressioni di amaro stupore oppure, per molti altri, di naturale recepimento, trovando in quel linguaggio ignorante e claudicante, ai limiti del paradosso, il riflesso di un generalizzato modo di esprimersi. Ma da dove vengono queste sgrammaticature lessicali, ortografiche, semantiche, da dove nasce "questo smarrimento linguistico" (Marco Lodoli) di chi sembra esprimersi fuori da ogni logica e sintassi? La casistica riportata dai giornali è diventata oggetto di superficiale dileggio e non di riflessione ("Leopardi è un poeta del primo Settecento", "Lanciarsi da un aerio" , "Se gli Ufo non esistessero i nostri studi su essi sarebbero vaghi (non vani, ndr)"; "A livello puramente celebrale". E così via (uno su tre sbaglia i verbi, il 78% commette errori di interpunzione, ecc.).
Tutto questo dovrebbe essere motivo di analisi ma il massimo di risposte risiede nell´imputare al prevalere di massa della "lingua del computer", semplificata, ridotta, sincopata la causa di fondo di una devastazione naturalmente accettata e subìta. Perché – ci chiediamo – non vengono attivati strumenti di contrasto che si sovrappongano al prevalere del fraseggio diserbante dei nuovi mezzi di comunicazione semplificata? Le risposte sono molteplici ma alla radice vi è il venir meno dello studio come "dovere", come "obbligo" che impone fatica, con "risultati" che vengono premiati o sanzionati. Mi soccorre nella ricerca di una risposta un recente saggio, ricco di sollecitazioni: Ragazzi, si copia. A lezione di imbroglio nelle scuole italiane di Marcello Dei, (il Mulino, 2011). Pur essendo, almeno così mi appare, di origini culturali sessantottine, Dei sembra individuare tra le cause del decadimento un orientamento condiviso ormai da gran parte del corpo docente che si ispira ai "principi dell´educazione antiautoritaria, attiva, integrativa, basata su stimoli motivazionali di apprendimento, fedele alla consegna di sostituire la punizione con la comprensione. (…) Ciò che va tenuto presente è che l´indebolimento della relazione insegnamento-apprendimento ha fatto sì che il canone pedagogico della comprensione degradasse in forma di benevolenza a buon mercato".
La libertà di copiare ne è stata uno dei prezzi. La demolizione dell´ordine gerarchico della sintassi ha lesionato profondamente il rapporto tra lingua e pensiero. Per questo può essere utilissima la lettura di queste 240 pagine dedicate al fenomeno del copiare a scuola. Nella prefazione Ilvo Diamanti cita una sferzante definizione di Beniamino Andreatta: "Nessuno ha mai voluto aggredire la vera struttura corruttiva della società italiana, la classe scolastica. Questi ragazzini che vengono addestrati, nei comportamenti quotidiani, a sviluppare una mentalità mafiosa, fatta di complicità contro le istituzioni (...) una solidarietà omertosa, in cui l´obiettivo comune è dato dall´ingannare chi è in cattedra (…) e dove gli individui, anziché perseguire il loro scopo, cioè primeggiare per merito, si coalizzano per lucrare il massimo risultato con il minimo sforzo (…) tradendo ogni principio etico individuale, la trasparenza dei comportamenti". "La pratica dell´imbroglio scolastico – aggiunge Dei – percorre trasversalmente gli strati sociali. (...) Per affrontare il problema, la politica e le istituzioni dovrebbero innanzi tutto definire chiaramente la situazione riconoscendo in modo esplicito che nella scuola esiste una ‘questione morale´. (...) Occorre punire i comportamenti disonesti in nome della coscienza comune".
La Stampa 26.3.12
Università: “Affossata la legge che aiuta i giovani ricercatori”
L’accusa della Montalcini e di Marino al governo: “Così si favoriscono i baroni”
di Andrea Rossi
TORINO Il decreto legge sulle semplificazioni, passato alla Camera, cancella la rivoluzione nel finanziamento per i giovani ricercatori; ora passa all’esame del Senato
La battaglia Accanto, il Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini e Ignazio Marino, senatore Pd
L’ultima battaglia Rita Levi Montalcini ha deciso di combatterla sulla soglia dei 103 anni. Ha trascorso la vita a inseguire il progresso. Ora sta cercando di impedire un passo indietro. Il decreto legge su semplificazioni e sviluppo, già approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, ha cancellato un provvedimento inserito nella finanziaria 2007 che assegnava il dieci per cento dei fondi nazionali per la ricerca secondo un criterio comune nei paesi anglosassoni ma inedito in Italia: la peer review, la valutazione tra pari. Ai bandi potevano partecipare solo ricercatori con meno di quarant’anni. E la scelta dei progetti da finanziare, anziché alle commissioni composte da professori ordinari istituite dal ministero, spettava a un comitato di ricercatori, metà italiani e metà stranieri, tutti under 40. Una mezza rivoluzione, cui la senatrice a vita, premio Nobel per la medicina, aveva contribuito non poco. Nel 2006 il governo Prodi navigava in cattive acque, al Senato contava su un paio di voti di scarto e spesso si reggeva sui senatori a vita. Rita Levi Montalcini lasciò poca scelta: se quel provvedimento non entra in finanziaria io non voto la fiducia.
Entrò, scritto da Ignazio Marino, chirurgo e senatore del Pd, che ora insieme con Montalcini - ha firmato un appello al governo perché «non cancelli il futuro di tanti giovani che coltivano la speranza di poter fare ricerca in Italia». Il progetto ha permesso di assegnare finanziamenti per circa mezzo milione di euro ciascuno a più di cento programmi: 26 su 1500 presentati nel 2007, 57 su mille l’anno dopo, e così via. E di sottrarre la valutazione ai «baroni» per affidarla ai giovani ricercatori, stranieri compresi, svincolati da cordate e blocchi di potere.
Per rendere l’idea basta raccontare la storia di Laura Bonanni. Aveva 33 anni, nel 2007, e un contratto co. co.pro. all’Università di Chieti. Si stava preparando per partecipare al concorso da ricercatrice, ma un docente l’aveva scoraggiata: non passerai mai, in lista c’è un candidato con un cognome più importante del tuo. Allora si presentò al bando del governo, dove la concorrenza era ben più spietata: 1500 ricercatori in corsa per spartirsi 13 milioni di fondi pubblici. Arrivò prima. Al suo progetto di ricerca sulle malattie neurodegenerative la commissione esterna ha assegnato un finanziamento triennale di 600 mila euro. «Questo la dice lunga sul diverso metodo di giudizio utilizzato dai baroni universitari rispetto a commissioni di spessore internazionale», è la diagnosi di Marino. Anche la giovane ricercatrice difende il sistema che rischia di scomparire: «Per la prima volta noi giovani abbiamo potuto proporre idee senza passare attraverso le istituzioni universitarie, e scardinare quel meccanismo per cui solo i professori ordinari possono stabilire le linee che orientano la ricerca». Laura Bonanni, che nel frattempo il concorso l’ha vinto ed è diventata ricercatrice strutturata a Chieti, al dipartimento di Neuroscienze, con quel programma ha avviato collaborazioni internazionali, ha potuto assumere due borsisti. «Mai era successo che giovani ricercatori potessero gestire un progetto in totale autonomia, dal punto di vista scientifico, della programmazione e delle risorse. Il nostro sistema della ricerca, che all’estero osservano con diffidenza per via di certe prassi, ne aveva guadagnato in credibilità».
E adesso? Marino ha presentato un emendamento per cancellare la nuova norma. Minaccia di non votare il testo del governo. «Così si torna indietro. È inaccettabile per un esecutivo guidato da un premier scelto per merito e competenza». Come la misura sia entrata nel decreto sviluppo resta un mistero: in commissione Affari costituzionali, il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi non ha saputo dare spiegazioni e si è riservato di approfondire la questione.
Quando l’ha saputo Rita Levi Montalcini è stata assalita dallo sconforto. «Eravamo riusciti con immane fatica a inserire una norma che ci avvicinava alla comunità scientifica internazionale e ora vogliamo abolirla? Così l’accesso ai finanziamenti sarà di nuovo possibile solo a chi ha le giuste amicizie e non la necessaria preparazione acquisita in anni di studio, magari negli scantinati di qualche facoltà per pochi euro».
l’Unità 26.3.12
In Messico Ratzinger incontra le vittime dei cartelli della droga ma non quelle degli abusi sessuali
Ha incontrato, a sorpresa, le vittime della violenza dei narcotrafficanti, Benedetto XVI. E al Parco del Bicentenario ha pure indossato un sombrero. Nessun appuntamento, invece, con le vittime di Marcial Macieldi Roberto Monteforte
Vi è stato un fuori programma nella visita apostolica di Papa Benedetto XVI in Messico. A sorpresa sabato pomeriggio il pontefice ha avuto un incontro con otto familiari di vittime della violenza dei narcotrafficanti. Lo ha organizzato il presidente messicano, Felipe Calderól.
In questo viaggio non c’è stato spazio, invece, per quel faccia a faccia con altre vittime: quelle che hanno subito abusi da parte dei preti pedofili. Una macchia per la Chiesa che In Messico ha un nome preciso e ingombrante, quello di Marcial Maciel, il potente fondatore dei Legionari di Cristo. Il Papa non incontrerà le sue vittime. Lo ha confermato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. Ha ricordato che non lo hanno né chiesto, né preparato i vescovi messicani. E poi vi sarebbe anche un’altra ragione. Riguarda le vittime. «C’è stata una certa aggressività nel chiedere l`incontro» ha affermato Lombardi. «E anche una certa ambiguità: si diceva di voler incontrare il Papa, ma non lo si voleva ascoltare in un dialogo profondo, di spiritualità». L’intesa non si è trovata. Anzi. La polemica si è fatta più forte. Proprio in concomitanza con la presenza di Benedetto XVI nella città di León, alcune delle vittime hanno presentato il libro-inchiesta sul fondatore dei Legionari di Cristo La voluntad de no saber (La volontà di non sapere) con il quale l'ex prete Alberto Athié, l'ex legionario José Barba e il biografo di Maciel Fernando M. González, grazie alla rivelazione di alcuni documenti riservati del Vaticano, dimostrerebbero come nella Curia romana i crimini di Maciel fossero noti da diversi decenni.
Una ricostruzione contestata da padre Lombardi. «Sia papa Benedetto XVI che il suo predecessore Giovanni Paolo II sono uomini di verità e trasparenza. Penso che sia veramente ingiusto considerare papa Benedetto come qualcuno che ha lavorato contro la verità e le trasparenza». Ha pure sottolineato come quell’invito a «proteggere e accudire i bambini» e «perché mai si spenga il loro sorriso, possano vivere in pace e guardare al futuro con fiducia» pronunciato da papa Ratzinger venerdì pomeriggio a León nel suo saluto a un gruppo di bambini, dopo la visita di cortesia al presidente Calderól, fosse un chiaro riferimento al tema doloroso degli abusi.
(...)
l’Unità 26.3.10
Irachena uccisa
in California Accanto un biglietto: «Vattene, terrorista»
Picchiata a morte una donna irachena in California. L’aggressore lascia un biglietto: «Non è il tuo Paese, terrorista». A poche settimane dall’assassinio di un ragazzo nero in Florida, si riaccende la polemica sull’America razzista.
di Marina Mastroluca
«Tornatene al tuo paese, terrorista». Un biglietto lasciato accanto ad una donna agonizzante con la testa fracassata a colpi di cric. Shaima Alawadi respirava ancora quando la figlia diciassettenne l’ha trovata in una pozza di sangue nel soggiorno di casa, vicino a San Diego, in California: la ragazza era al piano di sopra, ma non ha fatto in tempo a vedere l’aggressore. Ha visto il biglietto. Diceva le stesse cose di un messaggio trovato la settimana prima davanti alla porta di casa. «Questo non è il vostro Paese, è il nostro, terroristi».
Tre giorni di agonia, poi sabato pomeriggio i medici hanno staccato la spina. Shaima, 32 anni e cinque figli tra gli 8 e i17 anni, è morta senza mai riprendere conoscenza, il suo sorriso è rimasto stampato sulla foto pubblicata dai giornali, sotto l’hijab, il velo che le copriva i capelli lasciandole il viso scoperto.
Era arrivata dall’Iraq a metà degli anni ‘90, la sua famiglia era cresciuta negli Stati Uniti. Durante la guerra il marito ha lavorato come mediatore culturale per le forze armate Usa: spiegava ai soldati l’Iraq, le consuetudini, i passi falsi da evitare una volta al fronte. Solo da qualche settimana si erano trasferiti in California: a San Diego c’è una numerosa comunità irachena, la seconda negli Usa, una rete su cui contare. Quando Shaima ha trovato il primo messaggio di minacce, non lo ha preso sul serio. «Mia madre lo ha ignorato, pensando che fosse lo scherzo di qualche ragazzino», ha raccontato Fatima, la figlia maggiore. Un errore, secondo il Council on American Islamic Relations, l’organizzazione che difende i diritti dei musulmani americani. Perché le minacce sono molto più frequenti di quanto non ne vengano denunciate e restano sotto traccia, un problema invisibile.
La polizia conferma il ritrovamento di un messaggio di minacce, ma non privilegia la pista dell’odio xenofobo sulle altre. Gli investiga-tori parlano di un «caso isolato», ancora tutto da chiarire. Ma a pochi giorni dall’omicidio di un ragazzino nero, freddato in Florida da un vigilante bianco solo perché indossava un cappuccio e si trovava nel quartiere sbagliato, la morte di Shaima getta altro olio sul fuoco delle polemiche. Come per Trayvon Martin, sul web è già partita una campagna di protesta. Non sarà una marcia degli incappucciati, come quelle che si sono svolte da New York a Chicago per chiedere giustizia e l’arresto dell’omicida, ma qualcosa di molto simile: «Un milione con l’hijab per Shaima»,. Su Facebook lo slogan appare con la foto di una ragazza velata: «L’hijab non porta scritto sull’etichetta “uccidimi”».
PRESIDENZA “POST RAZZIALE”
Due episodi diversi e terribili a distanza di poche settimane. E a sorpresa il tema della discriminazione irrompe nel dibattito nazionale, surclassando l’economia e il lavoro. L’America che con Obama pensava di aver archiviato il razzismo tra i reperti del passato deve ripetere a se stessa che un nero con un cappuccio non è per forza un delinquente, un velo non fa un terrorista. «La presidenza Obama è “post-razziale” solo nel senso che ci dà una scusa per non affrontare più la questione», scrive Reniqua Allen sul Washington Post. Una scusa, appunto, quando ancora negli Stati Uniti c’è chi mette in dubbio i natali di Obama, e il suo diritto a stare alla Casa Bianca.
Quanto il tema sia divenuto sensibile con l’assassinio del ragazzino della Florida, lo dicono le parole del presidente americano e ancora di più le reazioni in campo repubblicano. Per la prima volta Obama ha parlato da afro-americano, da uomo con la pelle nera. «Se avessi un figlio, assomiglierebbe a Trayvon», ha detto, per testimoniare la sua vicinanza alla famiglia del ragazzo ma anche l’assurdità di questo omicidio. Parole «vergognose» per Newt Gingrich, ex speaker della Camera oggi in corsa per la Casa Bianca. «La questione non è a chi questo ragazzo somigliasse ha detto -. Ogni giovane americano di qualsiasi retroterra etnico dovrebbe essere al sicuro». Peccato che ci sia stato bisogno di manifestazioni di piazza per chiedere di incriminare l’assassino di Trayvon. E qui sta il punto. L’America che protesta non crede che le cose sarebbero andate nello stesso modo se a premere il grilletto fosse stato un nero: cappucci e hijab sono ancora una colpa.
Repubblica 26.3.12
"Vogliamo essere rispettati" ecco la Woodstock degli atei
Il raduno a Washington: "Pregiudizi contro di noi"
Per i giornali è stata la più grande manifestazione di non credenti nella storia
di Federico Rampini
San Francisco - «Vogliamo che siano rispettati i nostri diritti costituzionali, siamo cittadini americani come gli altri». Lo slogan si alza - compostamente - da una piccola folla che si è radunata nonostante la pioggia, nella vasta spianata del National Mall di Washington, tra il Congresso e la Casa Bianca. Non è una minoranza etnica, non sono gay. E´ il Reason Rally, il Raduno della Ragione. L´hanno battezzato anche la Woodstock degli atei. «La più grande manifestazione di non credenti nella storia» l´ha annunciata pomposamente il Washington Post.
L´America osserva incredula. Va bene i gay, ma ora perfino gli atei osano venire "out of the closet", fuori dall´armadio, ribellandosi alla clandestinità? Non è certo un raduno oceanico, ma un paio di migliaia di persone hanno davvero osato l´impensabile, indossando impermeabili e galosce, per ascoltare i comizi dei maitres-à-penser dell´ateismo. C´è Richard Dawkins, scienziato biogenetico autore dei celebri saggi "Il gene egoista" e "L´illusione di Dio". C´è l´astrofisico Lawrence Krauss rinomato per i suoi studi sull´origine dell´universo. C´è una rockband, Bad Religion, che fa onore al suo nome. Per David Niose, promotore della manifestazione nonché presidente dell´Associazione americana umanisti, la "questione atea" è cosa seria. «L´American Religious Survey - osserva Niose - che è il più accurato censimento delle credenze religiose, stima a 34 milioni gli americani che non aderiscono ad alcuna religione, cioè il 15% della popolazione. Hanno un orientamento politico prevalente: atei, agnostici e non-credenti hanno votato per il 75% in favore di Barack Obama nel 2008. Poche constituency sono così compatte. Eppure anche i politici di sinistra li ignorano».
Il grido di dolore è comprensibile. Dal 1980, da quando Ronald Reagan fece della Moral Majority il fulcro della forza conservatrice, la destra si è identificata sempre più strettamente con le correnti religiose integraliste; ma anche i politici democratici hanno cercato di corteggiare i fedeli. Dal predicatore Jimmy Carter, a Bill Clinton e Barack Obama, ogni presidente democratico ha dato prove pubbliche della propria religiosità. L´America ha già eletto un cattolico di origini irlandesi (John Kennedy), il primo presidente nero della storia, e quest´anno potrebbe anche eleggere un mormone, Mitt Romney, esponente di una chiesa che fino a non molto tempo fa esaltava la poligamia. A livello locale e parlamentare, molti politici gay ormai professano apertamente la propria omosessualità. Solo per un ateo forse sarebbe impossibile candidarsi alla Casa Bianca.
Al Raduno della Ragione un solo parlamentare ha osato farsi vedere: Pete Stark, democratico californiano. Poca cosa rispetto alla schiera di politici repubblicani che si fanno sostenere dai pastori evangelici nei comizi elettorali. Ma anche la sinistra radicale ha le sue alleanze di ferro con la religione: da Martin Luther King ai suoi seguaci odierni Jesse Jackson e Al Sharpton, la politica afroamericana è quasi "in appalto" a pastori protestanti. La marcia degli atei per farsi accettare è tutta in salita.
Alla Woodstock atea è intervenuto Nate Phelps, figlio del famigerato pastore della Westboro Baptist Chrch. Il padre Fred va ai funerali dei militari con striscioni che dicono "Dio li ha voluti morti per castigare l´America dei suoi peccati. Dio odia i froci" (sic). Nate Phelps, ateo, si batte per «vincere il terribile pregiudizio secondo cui chi non crede in Dio non ha una morale». Se davvero la religione bastasse a renderci migliori, osserva Niose, «perché l´America ha le diseguaglianze sociali più estreme della sua storia?».
La Stampa 26.3.12
Mr. Smith e il processo al capitalismo
di Francesco Guerrera
Le accuse dell’impiegato di Goldman hanno dato fiato ai critici dell’Occidente Ma ancora manca una realistica visione alternativa del futuro Da Zuccotti Park, l’ex quartier generale di «Occupy Wall Street», il palazzone di Goldman Sachs sembra quasi un miraggio. Un enorme obelisco di vetro e metallo che torreggia un po’ arrogante sul cielo di New York» e che per mesi è stato un obiettivo, visibile ma non raggiungibile, per i ragazzi del «movimento».
Così vicino eppure così lontano fino a quando, due settimane fa, Greg Smith ha colmato la distanza metaforica e reale tra chi a Wall Street si accampa e chi ci lavora.
Smith è passato da sconosciuto impiegato di Goldman a grande accusatore del mondo della finanza mondiale grazie a 1.300 parole al veleno pubblicate dal New York Times.
Una lettera aperta di dimissioni che è diventata un fenomeno virtuale – Google conta circa 70 milioni di menzioni del pezzo – e ha provocato danni reali all’immagine di Goldman e del settore bancario internazionale.
«Non ci voleva. Questa proprio non ci voleva», è stata la reazione a caldo di un mio amico che lavora per Morgan Stanley e che di solito fa salti di gioia quando il rivale storico Goldman è nei guai.
Smith non ci vuole, non tanto per quello che ha detto ma per quello che è diventato: il porta-bandiera di un’opinione pubblica che vede nella finanza la radice di quasi tutti i mali del capitalismo moderno.
Quando Smith spiega che oggigiorno Goldman mette gli utili della banca prima dei bisogni dei clienti, nessuno si dovrebbe stupire.
Le banche d’affari sono associazioni a scopo di lucro ed hanno il dovere di fare soldi, nei limiti della legge, per pagare azionisti ed impiegati. I clienti di Goldman – gli hedge funds, le grandi multinazionali, i super-ricchi – questo lo sanno benissimo. Da sempre.
E sarà anche vero che, come racconta Smith, alcuni suoi colleghi si siano riferiti a clienti chiamandoli «muppets» lo slang inglese che usa le marionette del Muppet Show come sinonimo per «idioti».
Ma il fatto che l’humour dei banchieri sia spesso puerile ed offensivo – questo lo posso confermare non è prova lampante che la finanza sia tutta da rifare, per dirla alla Bartali.
Eppure, quando Smith ha pontificato dall’alto pulpito del New York Times, la gente nel villaggio globale ha applaudito fragorosamente.
«Il re è nudo», hanno gridato con gioia i blog e le colonne dei giornali. Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro nel governo di Bill Clinton, e uno dei santoni intellettuali della sinistra del Partito Democratico, ha persino coniato un aforismo: «Se togli la cupidigia da Wall Street, ti rimane solo il marciapiede».
Reazioni senz’altro comprensibili perché le banche di colpe ne hanno molte e non solo per aver contribuito alla crisi rovinosa del 2007-2009. È difficile difendere Wall Street, la City di Londra e Piazza Affari quando non perdono occasione di dimostrare arroganza, egoismo ed insensibilità ai problemi della gente comune.
Il mea culpa del mondo finanziario dopo i problemi gravissimi degli ultimi anni non è stato né abbastanza lungo né abbastanza sincero e le critiche sono in gran parte meritate.
Ma l’inquietudine evidenziata dalla fama istantanea del pamphlet di Smith va ben al di là di Goldman e Wall Street. Il dimissionario dirigente è diventato, suo malgrado, simbolo e sintomo di un malessere profondo nei confronti del capitalismo.
È un paradosso che, quasi un quarto di secolo dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia e modo di vita che pensavamo trionfanti siano sotto accusa. Dai manifestanti di Occupy ai greci disperati che ergono barricate nelle piazze, a «pentiti» come Mr Smith, il male di vivere dell’Occidente «ricco» sta raggiungendo livelli altissimi.
Persino in Cina, che ha scommesso le sue ambizioni di egemonia globale su un’industrializzazione sfrenata, la nuova leadership parla di coesione sociale, di aiuti alla popolazione più povera e di un rallentamento nella proliferazione del capitalismo.
Il settore bancario, in questo frangente, è danno collaterale: l’agente più visibile, e sgradevole di un sistema che non piace.
I motivi per la crisi di fiducia sono ben noti: la recessione, prima in America ed ora in Europa, il divario sempre più grande tra i ricchi e i poveri del mondo, e le paure di un declino terminale dell’Occidente in favore delle economie emergenti dell’Est e del Sud.
Ma avere coscienza dei problemi non aiuta più di tanto quando le alternative sono poche e poco rassicuranti. Smith, Reich e i ragazzi di «Occupy» distruggono senza ricostruire, attaccano lo status quo senza offrire una visione realistica del futuro.
Non c’è più tempo per utopie, e non solo perché le grandi idee astratte del passato non hanno funzionato, basti pensare al «comunismo dal volto umano», le «terze vie» dei Tito, Castro e l’autarchia dell’India di Nehru.
In questo frangente, con un’economia mondiale in difficoltà e tensioni elevate sia a livello sociale che geopolitico, il pragmatismo è l’unica soluzione. Non abbiamo più il lusso di sognare di sistemi diversi, dobbiamo riformare e riparare ciò che abbiamo.
E la realtà è che, dopo anni di tentennamenti da parte di governi e privati, le riforme stanno arrivando.
In America, il Congresso, la banca centrale ed altri regolatori stanno scrivendo migliaia di direttive che potrebbero rivoluzionare l’economia Usa. Dalle grandi banche alle società di pegno, le regole del gioco bancario in America stanno per cambiare, con l’obiettivo di evitare gli eccessi, errori e frodi che portarono alla crisi.
Il parallelo è con il grande crollo del mercato nel 1929: negli anni seguenti, gli Usa crearono un sistema finanziario che permise all’America di dominare il mondo del commercio per i 70 anni successivi.
In Europa, le riforme saranno più lunghe e dolorose ma forse ancora più importanti che negli Stati Uniti. L’austerità farà male ma, se messa in pratica in maniera seria ed intelligente, permetterà al continente di risorgere senza abbandonare la moneta unica e i frutti di decenni d’integrazione economica. In questo senso, l’emergenza di leader pragmatici come Mario Monti, Mario Draghi ed Angela Merkel è un buon auspicio.
Ma non di solo governo vive l’uomo e, per ora, le aziende e i consumatori mancano all’appello della ripresa economica sia in Europa che negli Usa.
È una questione di tempo: se il settore pubblico farà la sua parte, «gli spiriti animali» di Keynes faranno la loro, spingendo gli imprenditori ad investire e rischiare capitali e i consumatori a comprare.
Come disse Churchill della democrazia, il capitalismo è il peggiore sistema che abbiamo, a parte tutti gli altri che abbiamo provato.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
Corriere della Sera 26.3.12
La crisi è nell'anima, l'allarme di Bruno Forte
di Armando Torno
Bruno Forte, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, ha una bibliografia ricca di scritti pastorali e di spiritualità oltre che di teologia. Non possiamo qui tracciare il suo profilo, giacché si dovrebbe tener conto anche di opere che sconfinano nella filosofia e di alcuni contributi poetici. Diremo semplicemente che Forte si è accomiatato dal 2011 con un libro-intervista dal titolo Teologia per la vita (La Scuola Editrice pp. 160, 14,50). L'opera, nata da un intenso colloquio con Marco Roncalli, è stata seguita all'inizio di quest'anno da La porta della fede. Sul mistero cristiano (San Paolo Edizioni, pp. 128, 11). E ora è giunto in libreria Perché il Vangelo può salvare l'Italia (Rizzoli, pp. 140, 15). In esso l'arcivescovo ha rielaborato e raccolto testi pubblicati soprattutto su «Il Sole 24 Ore» tra il dicembre 2005 e il luglio 2011.
Il titolo sembra ispirato da Dostoevskij e applicato al nostro Paese, anche perché le riflessioni dedicate alla salvezza della Russia e del cristianesimo percorrono molte pagine del Diario di uno scrittore del sommo russo. Ma Bruno Forte, pur ricorrendo a Dostoevskij nel secondo capitolo, desidera rispondere a quesiti riguardanti la «crisi morale e spirituale in atto», più profonda di quella economica, capace di far sentire i suoi effetti e condizionare le vite. È un'analisi senza sconti. Denuncia — si legge nella premessa — i politici che «hanno illuso le masse con un gioco di maschere e di bonario ottimismo», nascondendo rischi e costi, «anteponendo la vanità alla verità». O meglio, hanno preferito «la ricorsa del consenso facile e velleitario alla costruzione quotidiana del bene comune».
Dinanzi al dissesto morale e politico oltre che economico, del quale l'Italia è da tempo un osservatorio privilegiato, si desidera «proporre un farmaco». O meglio, un riferimento sicuro: il Vangelo. Vale a dire il messaggio di Cristo, che Forte vede vissuto anche in personalità moderne quali Alcide De Gasperi, politico «capace di coniugare fede rocciosa e rispetto della laicità». Infine, su questa raccolta di interventi soffia «lo spirito del Concilio Vaticano II», della costituzione Gaudium et Spes, ripresa laddove raccomandava di «stimolare la volontà di tutti ad assumersi la propria parte nelle imprese comuni».
Il libro è suddiviso in tre parti e affronta «la sfida della décadence» o indica «percorsi di speranza»; si chiude con la postfazione «Plaidoyer per la mistica», «arringa» per una «rinnovata esigenza di spiritualità emersa nel compiersi della parabola dell'epoca moderna». Sono interventi che propongono osservazioni e soluzioni con l'aiuto del Vangelo. Forte assicura che è sempre attuale. Aggiungiamo che qui si evidenzia anche la sua utilità. Per salvare un Paese colpito da un male che oscilla tra decadenza e indifferenza.
Corriere della Sera 26.3.12
Strage di Tolosa, il male esiste. Ora non sia giustificato il colpevole
di André Glucksman
Fulmine a ciel sereno o buco nell'acqua? Fino ad allora le elezioni presidenziali francesi si tenevano a porte chiuse, «fra noi». L'estrema sinistra comunista prendeva la Bastiglia con due secoli e mezzo di ritardo. L'estrema destra, figlia di Carlo Martello, sognava di respingere il nemico fuori di Francia: il saraceno, l'anglosassone o i malvagi fantasmi di Bruxelles. Fra partiti responsabili e sovrani, destinati alla magistratura suprema, le tradizionali liti destra-sinistra e sinistra-destra rafforzavano l'impressione di un Paese in assenza di gravità, tagliato fuori dal mondo esterno. Non una parola veniva pronunciata su quella che si conviene chiamare «politica estera», pericoli e sfide strategiche sparivano dalle memorie. Bruscamente, brutalmente, senza prevenire, gli omicidi perpetrati da Mohamed Merah fanno andare in frantumi lo splendido isolamento in cui si dilettavano candidati e commentatori.
Dopo la morte di Bin Laden, Al Qaeda passava per moribonda, la guerra in Afghanistan era destinata all'ultimo ciak (fine 2012 per i socialisti francesi, 2014 per la Nato), il terrorismo era ormai soltanto un'ossessione delle serie televisive americane e l'11 Settembre un passato superato. Era giunta l'ora del dopo violenza, quella dei conflitti «soft»; l'elezione del presidente della Repubblica doveva giocarsi sull'economia, sotto la sorveglianza di esperti diplomati e ponderati. Ma ecco che, accuratamente ostracizzato dagli àuguri ufficiali, il caos colpisce fra Tolosa e Montauban. Davanti all'inattesa intrusione del reale nella irrealtà dei discorsi conformisti, non ci si interroga più su un mondo ideale e migliore, ma trivialmente ci si chiede: a chi toccherà adesso? Cosa fa la polizia? Saprà trovare l'assassino prima che ricominci a uccidere? Si tratta di un individuo isolato, di una banda, di un'organizzazione?
Appena Mohamed Merah viene abbattuto, al termine di un lungo assedio, il dibattito si sposta e torna alle inquietudini franco-francesi. Le forze dell'ordine avrebbero potuto agire meglio e i servizi di intelligence reperire più rapidamente il colpevole, o addirittura bisognava temere che le banlieue entrassero in ebollizione in favore dell'assassino? Tali interrogativi, normali e abituali in una democrazia, imbastardiscono solo se ritenuti sufficienti e esaurienti. A poco a poco riaffiora il pregiudizio che i responsabili ufficiali siano responsabili di tutto: se la repressione avesse represso «in tempo», se le autorità poliziesche, municipali, pedagogiche, psicologiche, mediche non avessero trascurato il caso di un ragazzo alla deriva, se i giovani dei quartieri difficili beneficiassero di cure intensive e di una sorveglianza continua, certo, c'è da giurarlo con la mano sul cuore, avventure così nauseabonde sarebbero bloccate sul nascere! E ognuno brandisce il proprio rimedio-miracolo — giuridico, sociologico o coercitivo — capace di proteggere la Francia dall'orrore.
Impercettibilmente, la responsabilità si sposta, l'omicida non è più che un ragazzo smarrito, mentre si scopre che la Repubblica e le sue debolezze sono le fonti del dramma. Dalla messa in causa dell'assassino si passa alla messa sotto accusa della società, come troppi commentatori tendono a fare; ma il culmine della malafede e del ribaltamento di colpevolezza è raggiunto da un predicatore islamista, ritenuto «moderato», che gode di grande ascolto nelle periferie, nelle università come nelle cancellerie: «Un povero ragazzo, colpevole e da condannare, senza ombra di dubbio, anche se egli stesso fu vittima di un ordine sociale che già lo aveva condannato, con milioni di altri individui, all'emarginazione» (Tariq Ramadan, su tariqramadan.com).
Ed ecco fatto, il carnefice è una vittima, le vittime sono carnefici. Soprattutto, non mettetevi in testa che un individuo di 23 anni sia responsabile delle proprie azioni, l'omicida uccide solo perché prima è già stato ucciso spiritualmente, socialmente, psicologicamente; ucciso da una società razzista, non egualitaria, repressiva e così via. Che la Francia se la prenda con se stessa! Quando si uccidono i suoi soldati (due volte traditori perché di origine maghrebina), quando si assassinano a bruciapelo i suoi bambini (mille volte colpevoli perché ebrei), è colpa sua.
Rovesciamenti così dotti circolano dappertutto, social network compreso. È facile perorare l'innocenza accusando una situazione familiare problematica, una condizione sociale poco invidiabile, un'attualità non allegra, o accusando insulti sconvenienti sputati dagli uni e dagli altri, o magari anche sguardi ostili. Mohamed Merah non navigava nell'oro. Se fosse stato privilegiato dalla fortuna, la spiegazione si invertirebbe: i delinquenti di buona famiglia sono guastati da un'infanzia privilegiata come i delinquenti dei ceti popolari da un'infanzia precaria. Gli assassini integralisti islamici di Algeri (1992-97) avevano un diploma di maturità, Mohammed Atta e i suoi sbirri erano figli della borghesia cairota o saudita. Le dotte spiegazioni girano a vuoto e non chiariscono, anzi confondono. Le statistiche socio-economiche non servono che a rinvigorire discorsi fasulli. Certo, i folli di Allah non dispongono di alcuna esclusiva in materia di omicidi ideologici. Nel cuore dell'Africa come dell'Asia estrema e, appena dieci anni fa, dell'Europa, una qualsiasi passione xenofoba e razzista basta a spedire dei civili all'inferno. E ovunque si sussurrano pseudo-teorie secondo cui, se ogni abitante della Terra potesse mangiare brioche, la vita scorrerebbe come un lungo fiume tranquillo (sono altrettante ingiurie saccenti nei confronti di chi muore di fame. Non dimentichiamo che l'immensa maggioranza dei miserabili rifiuta la legge dei revolver e dei kalashnikov).
La coppia patologica del ciarlone diplomato e del criminale è stata descritta circa due secoli fa da Dostoevskij con un' acutezza degna di Molière. Gli imbecilli che de-responsabilizzano il «demone» e i suoi dogmi sanguinari adducendo a pretesto circostanze sociali attenuanti ripetono un logoro ritornello. Spero, senza crederlo, che la campagna per le elezioni presidenziali si asterrà dall'attribuire l'abominio di Tolosa all'insufficienza dei crediti destinati al rinnovamento urbano. L'idea che l'individuo sia responsabile, che la crudeltà non sia mai sradicata né sradicabile e che occorra combatterla in quanto tale dà fastidio agli animi angelici: per loro, tutto questo è così volgare, se non bassamente poliziesco. Fatto sta che la ruota della disumanità degli uomini gira instancabilmente. Il male esiste. A 7 anni, Myriam Monsonego l'ha incontrato.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Corriere della Sera 26.3.12
Se Aristotele fa bene ai lettori e al mercato
di Pierluigi Battista
Alessandro Baricco trova scandaloso che si vendano 150 mila copie di un'opera di Aristotele, per di più a un euro. Non c'è da stupirsi. I sacerdoti dell'intoccabile (e costosa) Tradizione hanno sempre tuonato contro la perversione dei nuovi tempi quando hanno inventato: la stampa a caratteri mobili, i giornali, il pianoforte a muro, la fotografia, il treno, il romanzo, il fonografo e il grammofono, i dischi, le automobili, la radio, il cinema, la televisione, la penna a biro, il rock, l'hi-fi, il registratore, le videocassette, i poster con Van Gogh, il computer, l'iPod, il tablet. Figurarsi se l'anatema non doveva essere scagliato anche contro i libri in edizione tascabile. La Cultura alla portata di tutti. «Che volgarité», come direbbe la Carla Bruni crudelmente caricaturizzata da Fiorello.
Su Repubblica, commentando il successo in edicola di un libro di Aristotele allegato al Corriere della Sera, «La Costituzione degli Ateniesi», Baricco si fa prendere infatti da un sentimento che definisce, malinconicamente, «tristezza». E perché Aristotele a un euro sarebbe triste? Perché è «come piazzarsi in un luna park con uno Stradivari e per un euro farlo suonare per cinque minuti a chi è disposto a pagare quella cifra (lo zucchero filato è più caro)». Il paragone, anche a non voler soffermarsi sul riferimento un po' frusto alle nefandezze del luna park (la cultura di massa dipinta come fenomeno «da baraccone») appare tuttavia molto azzardato: leggere un libro non è come suonare uno Stradivari, e leggere un libro di Aristotele non significa contaminare, con l'uso di un testo da parte di cervelli meno esperti, la purezza aristotelica. Inoltre, leggere lo stesso testo di Aristotele in edizione lussuosa a quaranta euro o leggerlo in edizione molto economica (solo a un euro, che vergogna) non comporta, per via della differenza di prezzo, esperienze spiritualmente molto diverse. Un poderoso luogo comune racconta che in passato lo spirito fosse più coltivato e raffinato dei tempi che viviamo. È vero il contrario. La società in cui molti lettori possono leggere Aristotele è migliore di quella in cui Aristotele è conosciuto solo da una casta esclusiva di sapienti. La democrazia è migliore dell'aristocrazia. Ascoltare Bach o Mozart con gli strumenti della riproduzione tecnica non necessariamente scalfisce l'«aura» di un'opera, ma la rende più accessibile a chi prima non avrebbe avuto modo di conoscerla. Chi ha inventato le edizioni paperback è un benemerito del progresso e della civiltà. E l'Italia è un Paese migliore e più colto da quando la Bur e gli Oscar Mondadori hanno portato i classici alla portata di tutte le tasche, mettendo a disposizione di un gran numero di persone artisti e scrittori che, quando i barbari non erano ancora alle porte, erano appannaggio di una cerchia ristretta di devoti della grande Cultura.
I libri a buon mercato dimostrano che sono buoni i libri ed è buono anche il mercato. E che il mercato non è contro la cultura. Con la diffusione del libro, le donne, mentre le élites imparruccate bofonchiavano indignate, hanno cominciato a leggere romanzi e i romanzi sono stati un dono spirituale e culturale per l'intera società. La diffusione della cultura a basso prezzo, nella letteratura come nella musica e nell'arte, è un fattore di civilizzazione e di arricchimento sociale. Se si ha fastidio delle mostre affollate, c'è un rimedio: non frequentarle. Se procurano sofferenze i libri a un euro, c'è un rimedio altrettanto poderoso: non comprarli. Se si odia la tv, non la si accende. Se si odia una trasmissione, si usa il telecomando. Questa è la democrazia, che non è solo conta delle teste e dei voti, ma anche costume di una società mobile, in cui chi non ha mai affrontato Aristotele può esserne invogliato grazie a un prezzo molto accessibile. E Aristotele, forse, non si sarebbe nemmeno offeso.
Repubblica 26.3.12
Il convegno
I filosofi e le prospettive del Nuovo Realismo
BONN - Prospects for a New Realism è il titolo della conferenza internazionale, in programma a Bonn da oggi a mercoledì, che segue i convegni di New York e Torino. Vi prenderanno parte filosofi analitici come Bilgrami, Boghossian, De Caro, Marconi, Putnam, Searle, e continentali come Bojanic, Ferraris, Gabriel, Hogrebe, Kern, Poggi. È una situazione che sarebbe stata difficile da immaginare anche solo pochissimi anni fa, quando le due comunità si guardavano con reciproco sospetto. Quella che si dà appuntamento a Bonn è dunque una filosofia globalizzata, e questo è forse l´aspetto più nuovo del "nuovo realismo": la capacità di proporre una nuova sintesi in cui convergono molteplici eredità, dal pragmatismo alla decostruzione, dalla filosofia speculativa tedesca alla riflessione ontologica ed epistemologica anglo-americana. La filosofia non è morta, come si diceva una volta, e sembra anzi più viva che mai.
La Stampa 26.3.12
Facebook e Twitter: ecco le nuove catene
di Marco Belpoliti
Non hanno che da perdere che le proprie catene», così Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista. Le catene definivano la classe operaia, il proletariato. Ma oggi le catene ci sono ancora?
Ho la netta sensazione che si usino poco, che ce ne siano sempre meno in giro, almeno di ferro o di acciaio. Ci sono le catene con lucchetti: cantine, solai, biciclette, motorini; poi le catene da neve, anche se ha preso piede il materiale plastico alternativo. Forse si utilizzano nel Bondage e nelle pratiche fetish, per quanto la corda prevalga per ovvie ragioni di comodità. Scomparsi i punk, le catene esibite su abiti e corpi sono sparite. Di certo oggi si utilizzano sempre meno in agricoltura e nell’industria: per trainare cose, avvolgere oggetti, far funzionare macchinari. La catena di ferro è probabilmente l’emblema di un mondo oramai tramontato. Non si recano più in catene neppure gli arrestati o i carcerati, e le polizie di tutto il mondo usano più volentieri manette di plastica, che pesano poco. Nei veicoli a motore sono sostituite dalla trasmissione ad albero; e anche in quelli a pedale: sono meno bisognosi di manutenzione. Secondo un sociologo, la produzione e il consumo di catene sarebbe la misura della post-industrializzazione di ogni paese.
Le catene sono diventate virtuali, come quelle per compilare le voci di Wikipedia, trasmettere una notizia, realizzare una mobilitazione. «Occupy Wall Street» è una catena di persone. Cosa scriverebbero Marx ed Engels redivivi? Se non ci sono più catene di cui liberarsi, cosa ne sarà della rivoluzione? Le catene non sono scomparse, si sono solo trasformate. Ci sono molti e invisibili allacciamenti che ci tengono legati, che ci stringono da presso, e persino ci opprimono. Non sempre vediamo queste catene immateriali. Oppure sì, ma non possiamo più farne a meno. Le catene attuali sono leggere e piacevoli, riguardano prima di tutto le nostre abitudini comunicative, il modo con cui ci connettiamo e colleghiamo con il mondo, e con gli altri. Ogni anno ne sorgono di sempre nuove: computer, cellulare, Facebook, Smartphone, Twitter, ecc. Sono ovviamente catene di secondo grado: catene che producono catene, così che, in questa meta-incatenamento non le scorgiamo più. L’importante è restare collegati. Chi si scatena rischia di restare solo.