l’Unità 25.3.12
Intervista a Susanna Camusso
«Il Paese è con noi, lo dicono le piazze. Il governo cambi rotta»
Il segretario Cgil: «Colpire i lavoratori, aprire la strada agli abusi delle imprese. A questo serve la riforma? Non c’è nulla per la crescita»
di Oreste Pivetta
Applausi e ancora applausi per Susanna Camusso, applausi anche dalla platea di Cernobbio, dal Forum di Confcommercio, quando ha ripetuto che è ora di discutere di ripresa, dei modi per avviare una crescita del Paese e ha ricordato che gli strumenti sono il rilancio degli investimenti e una politica fiscale che risparmi il lavoro e che abbassi le aliquote Iva.
Applausi incoraggianti, segretario? Vuol dire che si sta realizzando, magari occasionalmente, qualcosa di simile ad un’alleanza per il lavoro? Da leggere insieme con le prime caute dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria, Squinzi. Insieme con le stesse voci di disaccordo che si sarebbero levate all’interno dello stesso consiglio dei ministri. Sperate che il Parlamento possa tenerne conto? «Parlerei di un sentimento comune che non appartiene solo ai lavoratori. Ne abbiamo le prove, lo dicono anche i sondaggi. In gran parte del Paese si riconosce cioè come sia sbagliato pensare di ridurre le tutele in questa stagione di crisi, come un passo di questo genere inasprisca la condizione di tanti. Ci auguriamo che il Parlamento dia ascolta a queste volontà». Intanto avete confermato sedici ore di sciopero.
«Sedici ore di sciopero, mentre si intrecciano tante iniziative di lotta. Pensiamo a scioperi in contemporanea in tutti i territori, mentre si discute in Parlamento. Immaginiamo altre proteste, eserciteremo la fantasia. Promuoveremo una raccolta di firme, chiederemo sostegno a quanti possono. Abbiamo apprezzato, ad esempio, la lettera di un gruppo di giuristi, con chiarezza contro le modifiche all’articolo 18».
Proteste ci sono già state, proteste spontanee di lavoratori sono le diverse sigle sindacali. Vuol dire che l’unità del sindacato si va ricomponendo dal basso?
«Rispetto al tema dell’unità sindacale la sensibilità dei lavoratori è sempre alta. La reazione, per tante categorie, è stata unitaria. È un insegnamento? Bisogna andare avanti. Certo se si fosse mantenuta, al tavolo della trattativa, una opinione comune, non sarebbe finita così, perché il governo non avrebbe avuto la forza di accelerare i tempi su una proposta non condivisa. Ma non è il momento di recriminare. È il momento invece di valorizzare l’impegno dei lavoratori a difesa di un principio: che venga colpito il licenziamento illegittimo. E qui aggiungo qualcosa, perché mi pare d’assistere a una gran confusione, mentre il problema è chiarissimo: non è questione di distinguere tra licenziamenti per motivi economici, licenziamenti disciplinare, licenziamenti discriminatori, il punto è l’illegittimità del licenziamento, a qualsiasi categoria appartenga. Se il licenziamento è illegittimo, se l’illegittimità è stata accertata, sarà diritto del più debole, cioè
del lavoratore, scegliere tra reintegro e indennizzo».
Considerando che, tolto di mezzo il reintegro, scatteranno solo licenziamenti per ragioni economiche... Siamo nel paese dei furbi...
«Infatti non accetto il ragionamento che in tanti fanno contro di noi, spiegando che non si può fare una legge in ragione del fatto che esistono i furbi, per impedire le loro furbizie. Mi pare che una legge si possa fare anche per colpire le devianze. Non siamo un Paese di assassini, ma le leggi contro l’omicidio non mancano. E poi una segnalazione la vorrei fare: il governo ci rassicura che non saranno consentiti gli abusi, che le maglie saranno strette. È un’intenzione degna del massimo rispetto. Ma è un’intenzione che rivela anche il timore che abusi se ne compiano, perché la norma consente evidentemente gli abusi. Siamo al riconoscimento della debolezza e della insostenibilità della legge, alle quali si può rimediare stabilendo che è l’illegittimità che si sanziona, a prescindere dalle motivazioni del licenziamento...».
La discussione è aspra, anche perché capita in mezzo ad una crisi pesantissima e dopo una legge di riforma delle pensioni, che Raffaele Bonanni ha definito crudele... Non hanno scelto il momento sbagliato?
«Qui sta il punto. Si vuole andare ad una riforma che non produrrà alcune effetto sulla crescita del Paese...».
Il ministro non vi ha presentato una bella tabellina indicando le previsioni di espansione del mercato del lavoro, riformato come si deve l’articolo 18? «Nessuna tabella perché nessuno è in grado di fornirla, per la semplice ragione che effetti benefici non ce ne saranno. Siamo da capo, con una riforma del lavoro, ma senza crescita, che si aiuta per altre vie, dal fisco meno pesante sulle buste paga alla riduzione dell’Iva, dagli investimenti alle infrastrutture, dalla lotta alla corruzione all’innovazione e alla formazione. E per quanto riguarda le pensioni, si è prodotta una riforma che ne cancella il valore di welfare sociale, allungando i tempi del lavoro proprio quando viene meno il lavoro, creando una serie ingiustizie, violando diritti in essere, cancellando le fondate e motivate aspettative di migliaia di persone».
Lei ha denunciato il rischio che si inasprisca la tensione nel Paese.
«Il rischio c’è, se ad esempio nel lavoro invece di creare stabilità si vanno a introdurre ragioni di incertezza e di ansia, se per liberalizzare si sostiene l’idea di tener negozi aperti ventiquattro ore su ventiquattro, in un sistema del commercio che non è in grado di sostenere un simile peso, con la manovra sulle pensioni. Certo che c’è il rischio che la tensione salga, perché si continua nell’idea che si possa dividere il Paese. Noi abbiamo sempre dato molto peso alla convinzione di un accordo e, invece, abbiamo visto che il governo questa convinzione non la coltivava». Spiegazione di alcuni: si fa tutto per lo spread e per l’Europa, quasi su dettatura dell’Europa. Massimo Riva ha scritto che per inseguire l’Europa siamo diventati più tedeschi dei tedeschi. È d’accordo?
«La sensazione che si voglia fare la parte dei primi della classe. Poi succede che un intervento come quello sulle pensioni ci allontana addirittura dall’Europa. Se si vuole intervenire sull’articolo 18, si prenda pure a modello un Paese vicino al nostro, un Paese industriale, un paese come la Germania, ma si rispetti il modello che è molto più favorevole al lavoratore e non cancella affatto l’opzione del reintegro».
Il “Corriere”, un paio di giorni fa ha brindato alla fine della concertazione. La concertazione è morta?
«Sono sempre convinta che la concertazione sia una risorsa per la democrazia e che assolutamente non condizioni o limiti le prerogative del Parlamento. La concertazione si regge sulla mediazione. Bisogna essere convinti del valore della mediazione e cercarla».
Che cosa si attende dalla nuova Confindustria? Squinzi, senza dichiarar nulla, è stato chiaro sull’articolo 18, ma anche sull’importanza della contrattazione nazionale.
«Dopo una stagione difficile, spero in una ripresa delle relazioni in coerenza con quanto s’è ipotizzato con l’accordo del 28 giugno. Il nuovo presidente di contratti nazionali ne ha firmati molti, riconoscendo che proprio i contratti nazionali sono strumenti di regolazione di una competizione sana, corretta, trasparente».
Come si è trovata a tavola, a Cernobbio, con Monti, con due ministri, Gnudi e Profumo, con Alfano, con Sangalli, presidente di Confcommercio, e poi con Bersani. S’è parlato di riforma del lavoro?
«Mi è parso che il Presidente del consiglio non ne avesse alcuna intenzione e quindi il tema è rimasto lontano da quella tavola. S’è parlato soprattutto di calcio. Sangalli è milanista e aspettava la partita».
Repubblica 25.3.12
Camusso: "Senza il reintegro tensioni sociali fortissime"
di Paolo Griseri
Cisl cerca una soluzione anti-abusi. La risposta:"Non basta"
Si profila uno schema Bonanni per evitare che passino espulsioni discriminatorie
Il tentativo della Cgil è quello di creare un asse con Uil e Partito democratico
CERNOBBIO - Ipotesi di accordo? Soluzioni per superare il braccio di ferro con il governo? «Non è il momento. Le distanze sono nette e sarebbe ipocrita negarle. Per adesso serve rafforzare la mobilitazione e gli scioperi per premere sul Parlamento e ottenere una modifica del testo. Il principio deve essere chiaro: se un lavoratore è stato ingiustamente licenziato deve aver il diritto di vedersi cancellare quel licenziamento». Susanna Camusso rilancia e apre così la fase due della battaglia sull´articolo 18: dare voce alle piazze d´Italia per convincere la politica che abolire il reintegro per un licenziamento ingiusto significa perdere milioni di voti. E a Elsa Fornero che esprimeva il rammarico per la non piena condivisione della riforma, la Camusso replica: «Il governo aveva tutte le condizioni per non rammaricarsi, le sue sono ora lacrime di coccodrillo».
Quanto allo sciopero generale, sarà anche «fisiologico», come dice Monti, ma c´è da immaginare che i partiti in campagna elettorale avranno un atteggiamento meno distaccato. Le imminenti elezioni amministrative aiutano la fase due. «Ma anche senza elezioni - osserva Camusso - non si sarebbe riusciti ad approvare il testo prima di due mesi. E´ un tempo utile per ottenere le modifiche in Parlamento». Il nodo è sempre quello dei licenziamenti ingiusti di tipo economico: «Se sono ingiusti devono poter essere annullati. In fondo il reintegro è questo. Senza questo la riforma non è accettabile ed è destinata a creare tensioni che rischiano di aumentare nelle prossime settimane. Nessuno si chiede perché ci sono state tante proteste?».
Nella sala del convegno di Confcommercio c´è qualcuno che ha in mente una soluzione diversa dal ritorno al reintegro. É Raffaele Bonanni che alle 10 del mattino esce dalla prima sessione del dibattito con l´animo più sereno del giorno precedente: «Ho parlato con il ministro Fornero e credo che una soluzione si possa trovare», dice il leader della Cisl che spiega: «Bisogna evitare che i licenziamenti ingiusti di tipo economico diventino il canale con cui si giustificano i licenziamenti discriminatori. Un canale in cui passa l´acqua buona e quella reflua».
E´ accettabile lo schema di Bonanni? Davanti alla caffetteria Camusso sorride: «Bonanni ha il difetto di agitarsi molto e di cercare di mettere sempre il cappello alle soluzioni. Ma il suo schema non va bene. Perché il giudice che decide deve poter reintegrare il lavoratore, se riconosce che è stato ingiustamente licenziato. Anche per motivi economici. Se non c´è il reintegro, nemmeno l´intermediazione del giudice è accettabile». Più tardi, dal palco il segretario della Cgil riassumerà così questa posizione: «La modifica dell´articolo 18 non va bene perché introduce una distinzione che rende meno esigibile un principio, come se esistessero livelli di ingiustizia diversi».
Ora comunque la discussione ha qualche settimana in più. Anche il governo si è reso conto che forzare la situazione sarebbe stato controproducente. Le stesse critiche avanzate dalla Cisl confermano che il fronte della protesta va oltre la Cgil. Ma Camusso è prudente, non è ancora il momento di cantar vittoria: «E´ un fatto che anche nella Cisl è emerso un disagio tra gli iscritti. Strutture territoriali hanno partecipato agli scioperi. La Uil è anche più diretta nella critica. Certe posizioni del segretario della Uilm Palombella, e le stesse dichiarazioni di Angeletti chiedono una sostanziale modifica della norma». Passano due ore e Angeletti scrive lapidario sul sito della Uil che «la scelta fatta dal governo non consentirà nessuna approvazione prima delle ferie e forse neanche dopo. Chiederemo ai gruppi parlamentari di apportare le necessarie modifiche».
Sembrerebbe, insomma, una giornata positiva per il segretario della Cgil. Si profila un asse con la Uil e con Bersani sul principio: i licenziamenti ingiusti devono essere annullati e non monetizzati, a meno che non lo chieda il lavoratore. La Cisl sembra invece cercare una strada molto stretta che consenta di evitare il reintegro difendendosi contemporaneamente dagli abusi delle imprese.
Nel parco di Villa D´Este la giornata tutti si incontrano con tutti alla ricerca di un´immagine di concordia nel mezzo dello scontro più duro della breve vita del governo Monti. Camusso non accetta la ricerca di un punto di mediazione a tutti i costi. «Innanzitutto non ho fatto, neanche oggi, incontri segreti, vertici riservati. Non è il mio stile. Non condivido questo metodo. Credo che noi abbiamo ottimi argomenti per ottenere dalla politica e dal governo una modifica sostanziale della riforma. Non capisco quale mediazione sia possibile senza tornare a inserire il reintegro come diritto di tutti i lavoratori ingiustamente licenziati». Eppure questa richiesta era già stata respinta in un vertice tra i leader dei sindacati e il ministro Fornero: «E´ vero, Fornero ci aveva detto che sui licenziamenti economici non ci sarebbe stato reintegro e che non ci sognassimo di trovare una mediazione rivolgendoci al presidente del Consiglio. Ci aveva avvisati: "Su questo punto Monti è molto più cattivo di me"». Così il compito della fase due è quello di far cambiare idea al premier. L´obiettivo degli scioperi delle prossime settimane è quello di riaprire la partita.
l’Unità 25.3.12
Battaglia decisiva
di Claudio Sardo
La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali, volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti.
Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del riformismo e dell’innovazione.
È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità, anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello «strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante. L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo Ciampi.
Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali, che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro» espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste e pone dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento, anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di segno riformista.
Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?». Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier, ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel vetero-laburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva «facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore «ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»).
Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune. La coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita.
l’Unità 25.3.12
Chiara Saraceno
«Monti sia coerente. O tratta con tutti o con nessuno»
La sociologa: «Si bandisce la concertazione coi sindacati ma si accettano veti da notai e farmacisti. Questa riforma serve a poco, addirittura inutile per i giovani e le donne»
di M.Fr.
Mi ha colpito molto un’espressione usata da Monti, ovvero che il governo non vuole la concertazione, come se la concertazione fosse un inciucio. L’inciucio il governo e il Parlamento lo hanno fatto sulle liberalizzazioni con i tassisti, i farmacisti, le varie lobby. Quando si dice, poi, che i sindacati non devono avere potere di veto è giusto, ma poi non si dovrebbe permettere che lo abbia Mediaset sulle frequenze o la Chiesa Cattolica su molte altre questioni». Professoressa Saraceno, il governo dei tecnici manda in pensione solo la concertazione. Dicono sia un elemento di modernità...
«Pensare che i sindacati vanno solo consultati e poi si decide da soli, rischia di mutare radicalmente i rapporti di potere tra soggetti sociali producendo forti squilibri. Si può sostenere che sono poco rappresentativi, ma allora i tavoli vanno allargati ad altri soggetti, non chiusi. Concertare significa tentare di raggiungere un accordo, è fondamentale in una democrazia. Non si può parlare di modello tedesco e poi di inciucio: in Germania la concertazione e la cogestione sono regole, modelli».
La modifica dell’articolo 18 è il simbolo di questo nuovo modo di trattare. Ma il governo sostiene che sia solo una parte della riforma e nemmeno la più importante. È d’accordo?
«È una parte, ma condiziona tutto il resto. L’articolo 18 è una questione simbolica soprattutto per il governo, che ha voluto portarla a casa ad ogni costo. A rischio di fare un pasticcio, di tirarsi la zappa sui piedi, il governo ha voluto modificare a tutti i costi i rapporti di forza tra i singoli lavoratori e datori di lavoro, indebolendo ulteriormente i primi, togliendo il potere deterrente che ha quella norma. Questo non credo che produrrà ondate di licenziamenti, ma di sicuro creerà un contenzioso giudiziario fortissimo. In questo è stato il governo a dimostrarsi ideologico».
Elsa Fornero ha sempre parlato di giovani. La riforma li tutela realmente di più?
«Solo parzialmente. C’è qualche tutela in più, come l’attenzione agli abusi su co.co.pro e partite Iva. Ma la gran parte delle nuove norme non riguarda i trentenni, la categoria cioè più in difficoltà oggi. Il contratto di apprendistato potrà favorire i giovani sotto i trentenni che entreranno nel mondo del lavoro, ma non chi ha 30 anni e più. Per quanto riguarda gli ammortizzatori si parlava di universalità, ma c’è solo un piccolo allargamento perché si lascia come requisito le 52 settimane di lavoro nel biennio e i 2 anni di anzianità di contribuzione. Per loro ci sarebbe il mini Aspi, ma è la solita mania italiana di prevedere tanti istituti ad hoc, come la disoccupazione a requisiti ridotti in agricoltura o nell’edilizia. Sarebbe stato meglio prevedere una sola misura, modulata secondo l’anzianità contributiva, come negli altri Paesi. In ogni caso continuano ad essere esclusi i co.co. pro. Va poi sottolineato che tutte queste modifiche non produrranno un solo posto di lavoro».
L’altro cavallo di battaglia di Fornero è il lavoro femminile. Qua la riforma produce più risultati?
«Ancora meno. La norma sulle dimissioni in bianco è importante, ma è un atto dovuto, di reintrodurre quei controlli che erano stati cancellati sciaguratamente dal governo Berlusconi. Sul resto non vedo risultati. I problemi dell’occupazione femminile sono la scarsa domanda di lavoro e la conciliazione con la vita familiare. E non sono stati affrontati».
E i congedi di paternità? Quelli sono positivi, no?
«Una cosa carina, niente più. Se si vuole che i padri condividano la cura dei figli, tre giorni non bastano. Io avrei chiesto di pagare di più i congedi, quella sarebbe stata una svolta. Oggi in Italia i genitori hanno 10 mesi di congedo dopo la maternità. I primi sei mesi sono pagati al 30%, gli altri quattro non lo sono affatto. E non mi si venga a dire che è un passo avanti nella verso la parità. Lo sarebbe solo se oltre alla quota riservata (10 mesi divisibili fra i due genitori) che abbiamo in Italia, si alzasse il livello di copertura dello stipendio almeno al 50%, come chiede l’Unicef». C’è poi il voucher per il baby-sitting...
«La norma non è chiara, ma comunque, incoraggiando il ritorno al lavoro della donna al più presto, va in direzione opposta rispetto, ancora una volta, alla Germania, l’ultimo Paese avanzato ad adottare una normativa che invece consente ai genitori a stare, eventualmente alternandosi, con il figlio per tutto il primo anno di vita. In più l’idea del baby sitting va contro il principio che i servizi per l’infanzia devono essere strumenti educativi. In Italia sono troppo pochi, ma hanno una grande tradizione di eccellenza».
Bisogna però riconoscere che tutta questa riforma è fatta senza risorse. Dove si potevano trovare?
«A parte i giusti e autorevoli pareri sul rischio che continuando a tagliare non si potrà crescere, io avrei utilizzato le poche risorse disponibili per creare un po’ di lavoro per giovani e donne, producendo coesione sociale. E il modo migliore era investire sulla riqualificazione ambientale ed urbana e sui servizi alla persona. E non lo si è fatto per niente».
l’Unità 25.3.12
Il presidente del Copasir parla al congresso dei Giovani democratici
Articolo 18 «Il governo si è creato un problema da solo. Noi leali»
D’Alema: «La trappola contro il Pd e la Cgil non è scattata»
Massimo D’Alema interviene alle assise dei Giovani democratici. Sulla riforma del mercato del lavoro, dice, «la trappola contro il Pd e la Cgil non è scattata». Fassina: «Esecutivo meno responsabile dei sindacati».
di Vladimiro Frulletti
D’Alema guarda alla sua destra e indica i manifesti arancioni con cui i Giovani democratici hanno tappezzato la sala del loro congresso nazionale a Siena, che ha confermato alla segreteria Fausto Raciti. Raccontano di tanti «e se...». «E se i partigiani non fossero saliti in montagna»; «E se Peppino si fosse fermato a 99 passi»; «E se i Mille si fossero fermati a Quarto». E, soprattutto, se «gli operai non avessero scioperato per le 8 ore».
D’Alema li indica e spiega che sta lì il senso della politica che è il «prendere il destino nelle proprie mani». Era vero ieri, spiega il presidente del Copasir, ed è ancora più vero oggi che dal loro Olimpo i mercati ispirano la vita pubblica. Quindi non può stare che lì, in quegli «e se...», il ruolo che il Pd sta svolgendo oggi, anche sulla riforma del lavoro: sostegno leale («non c’è nessuna slealtà», dice alle tv che lo pressano sulle sue critiche all’esecutivo), ma portando in Parlamento le richieste dei lavoratori.
IL PASSO AVANTI
Monti per D’Alema è stato «uno straordinario passo in avanti». A chi coltiva ripensamenti suggerisce di «chiudere gli occhi e pensare a chi c’era prima». E però il governo sull’articolo 18 «s’è creato un problema da solo, commettendo un errore. E noi intendiamo correggerlo». Anche per il bene di Monti, che deve governare fino al 2013 pure
per permettere al Parlamento di cambiare la legge elettorale.
OVAZIONE PER FASSINA
Ma quell’errore forse il governo l’ha commesso anche nei confronti del Pd. «Non è scattata la trappola dice D’Alema per spaccare il Pd e isolare la Cgil». Il Pd è rimasto unito e anche Cisl e Uil vogliono cambiare quella norma «sbagliata e confusa». C’è un «vasto schieramento» che chiede sia cambiata, ragiona, e noi «in Parlamento ci faremo portatori di questa richiesta».
Alla ministra Fornero che si dice rammaricata, il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, accolto da una vera ovazione dei delegati, risponde che lo è anche il Pd, «perché il governo non ha colto l’opportunità che ha avuto». Per Fassina, infatti, mentre i sindacati si sono comportati in maniera responsabile («erano tutti pronti a chiudere sul modello tedesco»), «il governo non ha mostrato lo stesso senso di responsabilità». Quanto al Pd Fassina pensa che resterà unito: «Discuteremo, ma troveremo lasoluzione». Che sta, appunto, nel cambiare il testo uscito dal Consiglio dei ministri.
La democrazia prevede, spiega D’Alema, che un disegno di legge possa essere discusso e anche cambiato. Quella democrazia che, ironizza, non a tutti gli osservatori sembra piacere molto. Come non piacciono i partiti. «Del resto, se i grandi capitali possiedono i giornali, poi è normale che i giornali scrivano quello che vogliono i mercati».
D’Alema dice che per i mercati, per il «legittimo» obiettivo di rendere massimo il rendimento dei capitali, c’è da avere rispetto. Ma che il rispetto, ed è qui che sta il ruolo della politica, c’è da averlo anche per altre esigenze, a cominciare dal lavoro. È quello che in questi anni non è successo col «dogma liberista» che non solo ha prodotto profonde disuguaglianze, ma ha fallito sulla crescita. Perché disuguaglianza e svalutazione del lavoro producono declino. Il destino dell’Europa, se non sarà «un nuovo centrosinistra» a prenderne la guida.
LA NUOVA EUROPA
Questo l’obiettivo di fondo del Manifesto di Parigi in cui D’Alema vede un «nuovo approccio della sinistra» all’unità europea che prima o aveva sottovalutato (la terza via blairiana che enfatizzava troppo le magnifiche sorti della globalizzazione) o guardato con diffidenza (la socialdemocrazia continentale per cui il welfare era garantito solo dallo stato nazionale). Cita Gramsci e la sua intuizione post crisi del ’29 su cosmopolitismo dell’economia e nazionalismo della politica, per spiegare che serve un’Europa politica e guidata da una «nuova cultura progressista» per cambiare il paradigma per cui il problema europeo è il debito pubblico. «Il nostro problema è la crescita» scandisce. E in Italia questo cambiamento ci dovrà essere nel 2013. Perché «dopo questo governo tecnico dice D’Alema ci candideremo noi a guidare il Paese». Avvertendo così i fautori di un allungamento della parentesi tecnica. «Chi non è d’accordo conclude è una piccola élite che vuole metter al bando non i partiti, ma la democrazia».
il Fatto 25.3.12
Modello tedesco
Gli operai italiani hanno problemi di soldi, non solo di diritti: 1400 euro alla Fiat, 2600 alla Volkswagen
di Vittorio Malagutti
Marta Cevasco e Jurgen Schmitt, sono due operai metalmeccanici. Hanno quasi la stessa età: 52 anni la signora italiana e 50 il suo collega tedesco, un'anzianità di servizio simile, entrambi tengono famiglia (coniuge e un figlio) e fanno più o meno lo stesso lavoro non specializzato. Qual è la differenza tra i due colleghi? Semplice: lo stipendio. Jurgen guadagna molto di più. A fine mese l'operaia italiana arriva a 1.436 euro, quasi la metà rispetto al metalmeccanico tedesco, che porta a casa una retribuzione 2.685 euro.
A conti fatti, Marta e Jurgen sono divisi da 1.250 euro. Chiamatelo, se volete, lo spread del lavoro. E anche qui, come succede per la finanza pubblica, vince la Germania. O meglio vince Volkswagen e perde Fiat, perché i due operai che abbiamo scelto per questo confronto sono dipendenti delle due più importanti aziende automobilistiche dei rispettivi Paesi. Jurgen passa le sue giornate alla catena di montaggio dello stabilimento di Wolfsburg. Marta invece lavora in una fabbrica del gruppo del Lingotto.
I NOMI SONO di fantasia, ma le buste paga, pubblicate in questa pagina, sono reali. E i numeri suonano come la conferma della superiorità del modello tedesco. Un sistema che garantisce retribuzioni più elevate. Ma non solo. Anche in Germania, ancora più che in Italia, lo stipendio è falcidiato da pesanti prelievi sotto forma di tasse, e, soprattutto, contributi previdenziali e assicurativi. In cambio, però, questa montagna di soldi contribuisce a finanziare un welfare che nonostante i tagli degli anni scorsi (a cominciare dalle riforme varate tra il 1998 e il 2004 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder) rimane ancora uno dei più efficienti d'Europa. Dalle nostre parti, invece, i contributi restano alti, ma il welfare si sta squagliando.
Vediamo un po' più nel dettaglio il caso tedesco. Jurgen parte da una paga base di poco superiore a 3 mila euro e con alcune ore di straordinario notturno arriva a superare un compenso mensile lordo di 3.700 euro. Le trattenute previdenziali e assicurative sfiorano i 700 euro, di cui 336 per la pensione e 267 euro di casa malattia. Se si considera che l'imponibile ammonta a 3.380 euro circa, i contributi pesano per il 20 per cento circa. Marta invece paga circa 170 euro per la pensione. Poi però ci sono circa 18 euro per il fondo previdenziale integrativo e altri 16 euro sono destinati all'assicurazione sanitaria supplementare. Alla fine questi contributi assorbono l'11 per cento di un imponibile pari a circa 1.800 euro, contro il 20 per cento di Jurgen. Poi ci sono le tasse, che pesano sullo stipendio per meno del 10 per cento (9,89 per cento) nel caso dell'operaio Vw. Le ritenute fiscali della dipendente Fiat, al netto delle detrazioni, valgono invece il 13 per cento circa dell'imponibile. Morale: per Marta meno stipendio e più tasse. Peggio ancora: anche se le imposte sono maggiori, l'operaia italiana riceve servizi meno efficienti rispetto al collega di Wolfsburg.
VA DETTO che anche in Germania la situazione può cambiare, anche di molto, da un'azienda a un'altra. E spesso anche tra i reparti della medesima fabbrica. Alla Volkswagen di di Wolfsburg abbondano, anche se restano comunque in netta minoranza, i lavoratori part time e a tempo determinato, con retribuzioni anche del 20-30 per cento inferiori a quella dei loro colleghi. Jurgen e Marta però fanno parte entrambi della stessa categoria di, per così dire, privilegiati: gli assunti a tempo indeterminato.
Resta il fatto che nel regno di Sergio Marchionne l'operaio se la passa molto peggio rispetto al collega delle fabbriche tedesche della Volkswagen. Il capo del Lingotto però chiede ancora di più. Chiede nuovi sacrifici e maggiore flessibilità. Solo così Fiat tornerà grande, dice. Il gruppo di Wolfsburg si muove diversamente. Negli ultimi anni ha spostato una parte importante della produzione in aree del mondo a basso costo del lavoro (Cina, Slovacchia, Messico), ma quasi la metà dei suoi 500 mila dipendenti vivono comunque in Germania e di questi la gran parte percepisce stipendi ben più elevati rispetto a quelli della Fiat. Eppure Volkswagen, anche al netto delle partite straordinarie, vanta profitti ben più elevati del concorrente italiano. Non sarà che l'arma vincente dei tedeschi sono i prodotti, pensati e realizzati grazie a imponenti investimenti in ricerca e sviluppo? Marchionne su questo punto resta un po' vago. In compenso, da buon liberista all'italiana, continua a chiedere all'Europa interventi straordinari, con soldi pubblici, per ridurre la sovracapacità produttiva in Europa. Da Wolfsburg rispondono: noi non ne abbiamo bisogno.
il Fatto 25.3.12
L’equilibrato governo di destra
di Furio Colombo
È una vita da gatti. Ogni giorno devi calcolare con cura di quanto ti sposti e dove con precisione fai il salto. Ci sono passaggi che devi evitare e altri che torni a percorrere. Sono passaggi sicuri ma anche obbligati. Devi essere rapido a scansarti e svelto a farti trovare nel posto giusto. Indispensabile mantenere perfetto equilibrio anche sui cornicioni a strapiombo. Non è una metafora.
È una buona descrizione di ciò che accade in politica adesso, nel governo, nel Parlamento, nei partiti. Poiché si tratta di “governo tecnico” noi (più o meno tutti noi, più vicini o più lontani dal mondo attivo della politica ), non sappiamo quanti e quali punti di equilibrio o di squilibrio vi siano dentro il governo. Di certo, non vi sono le spinte estremistiche (in senso economico) che segnano e turbano la vita americana (Romney, Santorum, Gingrich ), non c’è l’estremismo delle destre politiche che intaccano la democrazia in vari Paesi europei (Ungheria soprattutto).
È EQUILIBRATO il governo, ho detto, tenendo conto, però, del clamoroso spostamento comunque avvenuto nel mondo conservatore dai tempi di Thatcher e di Reagan, spostamento che continua e punta abbastanza apertamente alla abolizione o colonizzazione dei sindacati, alla continua riforma del welfare in forme sempre più limitate e a una premiazione del merito che finisce con il coincidere con il censo. Non giova alla ricerca di equilibrio del presidente del Consiglio “tecnico”, il legame, finalmente solido (e collaudato da pregressi incarichi importanti) con l’Europa. È stato utilmente osservato che c'e un contrasto evidente fra la Costituzione italiana, fondata sul lavoro, e la Carta europea, fondata sul mercato. Infatti quasi tutto ciò che “l’Europa ci chiede” viene dal mondo dei valori conservatori, dunque dal mercato (definizione ambigua che copre sia gli “spread” e gli scatti di borsa, sia persuasioni totalmente ideologiche come il presunto valore salva-imprese della libertà di licenziare). Inevitabile, poi, calcolare la spinta della destra che era insediata al governo e nella maggioranza berlusconiana.
DA UN LATO le scorie di quel mondo sono diffusamente presenti nelle stanze svuotate in fretta da Berlusconi e associati (dati, fatti, documenti, decisioni già prese e non cancellate, nonostante la loro bizzarria e varietà). Dall'altro le persone restate o reinserite prendendole da spazi interni o vicini al mondo di Arcore. Non ci sono tracce, in tutto ciò che è “tecnico” di superstiti dell' opposizione anti-berlusconiana. Il governo tecnico, dunque, senza essere definibile di destra, è spostato a destra, nel senso di considerare bene comune e strada della salvezza soltanto ciò che il prevalente pensiero conservatore del mondo considera indispensabile o per vera e profonda persuasione, o per “non essere puniti dai mercati” (un assunto più religioso che tecnico, che ha molti credenti anche a sinistra). Ora osserviamo il Parlamento. Credo sia inevitabile dire (meglio: constatare) che il Parlamento di un governo tecnico è un Parlamento tecnico. La frase "adesso la parola tocca al Parlamento", che continuiamo a sentir dire dai telegiornali ma anche da leader politici, è priva di rapporto con ciò che effettivamente accade. Il parlamento è una vasta maggioranza di ex avversari che parlano a lungo per dire e ripetere il loro congiunto e contrapposto sostegno al governo e di una piccola minoranza, la Lega Nord (e - ma solo a volte - l'Italia dei Valori), che vota contro per ragioni politiche che contano altrove e si spiegano altrove ma suonano spesso estranee al dibattito, che, comunque, non è un dibattito. Alle spalle di questa manifestazione parlamentare di sostegno da parte di partiti diversi allo stesso governo, con le stesse ragioni, ci sono partiti che non condividono nulla, tranne il lavoro appena descritto in Parlamento. Non è poco. Ma tutto il resto, che rappresenta e giustifica l'esistenza stessa di un partito e la sua sfida costante al partito avverso? È strano ciò che è avvenuto, e qualche storico o politologo noterà il fenomeno. I partiti si sono astenuti dall'esistere, anche in presenza della distanza sempre più grande fra politica e opinione pubblica (un pericolo mortale per i partiti, però costantemente ignorato), finché pezzi organizzati di vita non politica (le cosidette parti sociali) hanno cominciato a dissentire, poi a opporsi, poi a resistere. A questo punto due fenomeni diversi e sovrapposti scuotono il Paese. Uno è la continuazione della "pax tecnica" che lega il Governo al Parlamento. L'altro è la forte vibrazione imposta all'edificio politico, dal brusco sottrarsi al gioco della pace delle parti sociali.
È UNA RIVOLTA, che scuote soprattutto il Partito democratico. Ma quella rivolta è un accidente o è stata calcolata? Diremo che è un errore, una trappola o, con linguaggio d'altri tempi, “una provocazione di destra”? È ciò che sapremo al prossimo numero di "spread", di borsa, di investimenti, di occupazione e licenziamenti. Ma anche dalla risposta finale di ciò che resta della sinistra. Inutile negarlo. Tutto il peso si scarica qui. Inevitabile pensare che il tentativo di rompere in questo punto sia un progetto non tecnico. Mandante?
Repubblica 25.3.12
Così non si combatte la piaga del precariato
di Luciano Gallino
Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale.
Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le "Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali" o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata - in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre - perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato "assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce."
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.
Corriere della Sera 25.3.12
Il consenso per l'esecutivo cala al 44%
La riforma non piace a due italiani su tre
di Renato Mannheimer
Il progetto di riforma del mercato del lavoro varato dal governo potrebbe, nelle prossime settimane, causare significative fratture nel quadro politico.
Infatti, il provvedimento ha già provocato un calo sensibile nel tasso di approvazione espresso dai cittadini nei confronti dell'azione dell'esecutivo. Dal 50-60% di consenso rilevato sino agli inizi di marzo, la percentuale di giudizi positivi verso il governo è bruscamente scesa al 44%. Ciò significa che, in questo momento, la maggioranza, seppur lieve (54%), della popolazione esprime una insoddisfazione verso l'operato dell'esecutivo. Potrebbe trattarsi di una reazione d'impulso — forse momentanea e destinata a rientrare — agli ultimi provvedimenti (che, come vedremo tra breve, non incontrano l'approvazione della popolazione), ma potrebbe rappresentare anche il segnale d'inizio di un trend negativo nel consenso per il governo. Il calo di fiducia ha riguardato prevalentemente gli operai e i lavoratori dipendenti di livello medio-basso, ma anche studenti, pensionati e casalinghe. Viceversa imprenditori, liberi professionisti, ma anche impiegati e quadri, specie se possessori di un titolo di studio elevato, hanno mantenuto immutata la loro fiducia per il governo. Dal punto di vista dell'orientamento politico, si è verificato un vero e proprio crollo di consensi (-32%) nell'elettorato della Lega Nord che, fino a ieri, esprimeva, malgrado tutto, nella sua maggioranza, una tiepida approvazione verso l'azione dell'esecutivo. Ancora, come era forse prevedibile, un notevole decremento di approvazione (-17%) si manifesta tra i votanti per il Pd (la cui maggioranza continua però a sostenere il governo) e, seppure in misura minore (-10%), tra quelli del Pdl (ove la gran parte oggi è ostile all'esecutivo). Persino tra l'elettorato dell'Udc — che, tradizionalmente, ha sin qui appoggiato più decisamente il governo — si registra una diminuzione di fiducia (-9%).
Come si è detto, questo trend è legato alla insoddisfazione della maggioranza degli italiani verso le decisioni assunte riguardo al mercato del lavoro e, in particolare, riguardo alla riforma dell'articolo 18. Più del 40% della popolazione dichiara di avere seguito bene la vicenda, mentre un altro 46% l'ha seguita con attenzione minore. Solo il 14% si dichiara all'oscuro della questione. A fronte di questo diffuso interesse, il giudizio sulle decisioni dell'esecutivo è negativo per più di due italiani su tre (67%). Le criticità maggiori si rilevano al Sud e tra gli operai, mentre tra imprenditori e liberi professionisti prevale l'accordo sul progetto di riforma. La valutazione negativa risulta maggioritaria nell'elettorato di tutte le forze politiche con una ovvia accentuazione nei partiti di opposizione: ma essa si riscontra anche tra i votanti per il Pdl (58% di insoddisfatti) e il Pd (67% di giudizi negativi). Naturalmente, i motivi di dissenso sono diversi, talvolta opposti. Gran parte dei votanti per il Pdl rimproverano al governo una insufficiente tenacia, mentre l'elettorato del Pd conferma la già nota ostilità alla revisione dell'articolo 18. Oltre al contenuto, viene comunque criticato anche il metodo seguito dal governo, ritenuto, ancora una volta da quasi due italiani su tre (63%) «troppo decisionista».
Questa situazione comporta problemi rilevanti per entrambi i partiti maggiori, che debbono necessariamente risolvere la contraddizione tra la necessità di proseguire con l'appoggio all'esecutivo e la prevalenza, nel proprio elettorato, di un orientamento contrario alle ultime decisioni di Monti e della sua compagine. I dilemmi probabilmente maggiori si manifestano nel Pd, ove il segretario Bersani vede da un verso accolte dall'esecutivo molte proposte di merito avanzate in passato dallo stesso Pd e dall'altro non può non tener conto di una base per più di due terzi ostile al provvedimento sul mercato del lavoro. È probabilmente anche questo stato di cose ad avere suggerito al segretario del Pd la recente accentuazione delle posizioni critiche, espresse ad esempio nell'ultima sua partecipazione a Porta a Porta, verso le decisioni del governo.
Ma, soprattutto, tutto ciò indebolisce l'immagine dell'esecutivo nell'opinione pubblica che, di colpo, si trasforma da positiva in negativa. È vero che la compagine guidata da Monti, per sua natura, prescinde dall'appoggio della maggioranza della popolazione, ma è vero anche che quest'ultimo rappresenta in ogni caso un elemento di stabilità di grande rilievo. La cui assenza può avere conseguenze oggi imprevedibili. Ma, naturalmente, è possibile che, acquietatasi, anche grazie ai tempi della discussione parlamentare, la polemica sull'articolo 18, il governo riprenda il consenso oggi attenuato.
La Stampa 25.3.12
Napolitano
Le ragioni di un annuncio in anticipo
di Marcello Sorgi
Maturato da tempo, comunicato a gennaio a una platea di studenti e reso noto ieri in occasione della trasmissione di un programma di Rai Storia dedicato alle istituzioni, il «no» di Napolitano all’ipotesi di un bis della sua presidenza, di cui per la verità sempre più spesso si sentiva parlare negli ultimi tempi, non va interpretato con il metodo delle letture trasversali con cui in genere si esaminano le mosse dei politici italiani.
Se dice che non si ricandida, insomma, vuol dire esattamente quel che ha detto, non il contrario, e neppure che lo ha fatto per stanare la sincerità o meno di quelli che puntualmente, come succede quando il settennato volge verso la fine, hanno cercato anche stavolta di avviare anzitempo la corsa per il Quirinale.
Semmai c’è da riflettere sul momento - gennaio 2012 - in cui Napolitano ha deciso di mettere agli atti la propria indisponibilità per un’eventuale ricandidatura.
Gennaio infatti, dopo il novembre 2011 che l’aveva preceduto, era il mese in cui legittimamente l’esperimento del governo tecnico voluto dal Capo dello Stato, dopo le dimissioni di Berlusconi, poteva già dirsi riuscito. L’esecutivo guidato dal professor Monti, il candidato, ex commissario europeo, richiamato con forza alla vita pubblica dal Presidente con la decisione a sorpresa di nominarlo senatore a vita, aveva rapidamente superato la fase di rodaggio con il varo in tempi brevi delle prime due riforme, pensioni e liberalizzazioni, che dovevano dare l’impronta all’azione di risanamento e di salvataggio dell’Italia da un’emergenza grave quanto mai.
Un’azione così risoluta, e dai risultati così immediatamente concreti, che proprio in quel periodo si moltiplicavano le voci a favore, sia di un consolidamento e di una prosecuzione, anche dopo le elezioni politiche del 2013, dell’esperienza del governo tecnico sostenuto dalla larga maggioranza dei tre maggiori partiti, sia di un rinnovo del mandato al Quirinale per Napolitano, che di Monti fin dal primo momento è stato il garante.
Se invece proprio in quegli stessi giorni il Presidente ha ritenuto, in un programma in cui, data la delicatezza della congiuntura, poteva tranquillamente cavarsela con risposte formali, di cogliere l’opportunità per fugare ogni dubbio sulla possibilità di una sua ricandidatura, le ragioni intuibili sono almeno tre. La prima sta nelle sue stesse parole e nella gravosità del compito che è stato chiamato a svolgere negli anni della sua presidenza: non dev’essere stato affatto facile assistere, giorno dopo giorno, all’avvitarsi del proprio Paese in una crisi che sembrava senza ritorno e al cospetto di una classe politica incosciente, che solo dopo aver messo un piede nel baratro ha deciso di fare un passo indietro.
La seconda, più implicita, è la consapevolezza di aver dato un senso alto e percepibile al proprio mandato. Intendiamoci, specie negli ultimi anni, tutte le presidenze che si sono succedute hanno segnato la storia contemporanea e le speranze, spesso tradite, del Paese. Pertini, con il suo carattere, scosse l’albero di una Repubblica cristallizzata. Cossiga, con il piccone, la demolì. Scalfaro timonò la nave nella tempesta della prima transizione. Ciampi si assunse il compito di ridare dignità allo Stato e alla nazione. E Napolitano - anche perché la sua storia personale è quella del primo Presidente comunista, politicamente nato e cresciuto nel Pci e all’opposizione, e solo successivamente, negli ultimi venti anni, approdato al servizio delle istituzioni -, si è assegnato l’obiettivo più difficile. Quello di un ritorno alle regole, e se possibile di un loro rinnovamento, nello spirito della Costituzione, per un Paese che s’era illuso di poter vivere in una specie di rivoluzione permanente, in cui il risultato storico di una completa legittimazione politica di tutte le forze politiche e di una piena alternanza basata sulle scelte dirette degli elettori veniva costantemente tradito da una pratica di colpi bassi, tradimenti minacciati e perpetrati, voti comperati e venduti e disprezzo delle istituzioni, e in cui le coalizioni e gli esecutivi di diversi orientamenti, che pure si succedevano democraticamente, condividevano l’incapacità pratica di governare e affrontare i problemi italiani con le necessarie riforme. Dalla transizione all’emergenza, e non solo a quella economica con cui stiamo facendo i conti. Ma anche, inevitabilmente, a quella istituzionale: questa è stata la croce portata sulle spalle da Napolitano.
Volendo abbozzare un bilancio, si può dire che l’obiettivo che il Presidente si era dato è stato raggiunto soltanto a metà. Napolitano è riuscito a por fine all’epoca berlusconiana un momento prima che questa precipitasse nel disastro. Lo ha fatto con fermezza e serenità, adoperando i normali e limitati poteri che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Ma trovandosi ad agire in un quadro-limite, non ha potuto che sostituire a un assetto eccezionale, un altro, diverso, ma non proprio ordinario. Il risultato politico di aver convinto uno come Berlusconi a mettersi da parte c’è tutto e sarà scritto nella storia. Ma il problema del ritorno alla normalità, anche attraverso un percorso riformatore della Costituzione che lo consenta e lo agevoli, non è affatto risolto.
La terza ragione per cui Napolitano ha escluso il bis sta in questo. Forse il Presidente s’è reso conto che per arrivare al traguardo che ha accompagnato ogni giorno del suo settennato, ed è tornato in ciascuno dei suoi messaggi di Capodanno, il tempo e le risorse che gli rimangono non bastano, ed è indispensabile che qualcuno al posto suo raccolga il testimone e continui l’opera. Oppure, al contrario e malgrado la mediocrità che proprio in questi giorni i partiti continuano a mostrare di fronte alla gravità degli impegni che il Paese ha di fronte -, ha inteso dire che di qui alla fine del suo mandato, nel maggio del 2013, nessuno dei suoi atti potrà e dovrà essere collegato all’eventualità di una riconferma, che non a caso ha voluto escludere con largo anticipo. Napolitano insomma farà ancora tutto quel che ritiene giusto e utile. E lo farà fino all’ultimo giorno del suo mandato.
il Fatto 25.3.12
Emanuele Macaluso direttore del “Riformista”
“Il futuro? Lui con il Pd non c’entra niente”
Napolitano non si ricandida? Certo, al Colle non ci si candida, si viene incaricati dal Parlamento. Ma lui non accetterà il reincarico. Mi creda, lo pensa da tempo. Su questo non c’è dubbio. Tant’è vero che tutti i tentativi fatti in questo senso sono stati respinti al mittente”. Parola di Emanuele Macaluso, direttore del Riformista, nonché amico e compagno politico di una vita del presidente della Repubblica (insieme facevano parte dei miglioristi del Pci). Lo stesso Macaluso che il 3 novembre, negli ultimi giorni del berlusconismo, scriveva un editoriale nel quale tra le varie ipotesi in campo prospettava la soluzione di un governo tecnico presieduto da Mario Monti, con una notevole precisione rispetto a ciò che si è poi realizzato (parlava di “una notevole valenza politica”) e concludeva con un “Confidiamo nell’opera del Presidente della Repubblica”).
Macaluso, lei che era un grande sponsor di un secondo incarico di Napolitano al
Quirinale cosa pensa delle dichiarazioni appena fatte?
Io grande sponsor? Non c’è una mia parola in questo senso. Altri l’hanno detto, Rino Formica, Giuliano Ferrara.
Quindi nessun rammarico? È d’accordo con il no a un dopo 2013?
Secondo me fa bene: 7 anni sono un tempo giusto e tra l’altro sono stati 7 anni difficili, con Berlusconi.
Napolitano ha detto che dopo di lui ci potrebbe essere una donna. Quale?
Non ne abbiamo parlato.
Sì, ma lei ha qualcuno in mente?
Io ho una proposta, che scandalizzerà. Penso che la persona giusta sarebbe Emma Bonino. Ha una lunga esperienza politica, è per l’Europa, rispetta la Costituzione, si è sempre battuta per i diritti. Io vorrei lei.
Quindi Napolitano dopo il 2013 farà il privato cittadino, come ha dichiarato?
Farà il senatore ha vita.
Mario Sechi ha scritto l’altro giorno sul “Tempo” che solo lui potrà salvare il Pd da se stesso. Insomma, potrebbe partecipare alle primarie?
No, no, Napolitano non è iscritto al Pd. Quando è diventato presidente della Repubblica non stava nel Pd. Guardi, mi creda: con il Partito democratico lui non c’entra niente.
wa.ma.
il Fatto 25.3.12
Bonino
Emma for President e la scomunica infinita
PERCHÉ SÌ Nel 1999 lancia la campagna Emma for President e raccoglie il 31 per cento dei consensi (sondaggio Swg). L’elezione vera la vince Carlo Azeglio Ciampi (che nei sondaggi si fermava al 20) ma lei non ha mai abbandonato il sogno di diventare la prima donna al Quirinale. Ha un buon trampolino di lancio con la vicepresidenza del Senato. Ottime relazioni internazionali.
PERCHÉ NO Missione praticamente impossibile far digerire al Vaticano la radicale che ha fatto del diritto all’aborto una battaglia di vita. Qualche giornale ritirerebbe immediatamente fuori la foto in cui, negli Settanta, aiutava una donna a interrompere la gravidanza. Discrete difficoltà anche a farsi sostenere dal Pd, che non perdona ai Radicali (eletti in Parlamento nelle liste democratiche) i ripetuti “tradimenti” su alcuni voti chiave e che non ha ancora mandato giù la sconfitta nel Lazio: dicono che sia stato il suo scarso impegno nella campagna elettorale a far vincere la sua sfidante, Renata Polverini.
Corriere della Sera 25.3.12
«Qui i politici più maschilisti ma spesso rinunciamo a lottare»
Bonino: bene il capo dello Stato, ora le donne rovescino i modelli
di Paola Di Caro
ROMA — Senatrice Emma Bonino, Giorgio Napolitano si augura di vedere al più presto una donna al Quirinale. Secondo lei i tempi sono maturi?
«Lo sono sì, e non da oggi! Anzi, meglio: dovrebbero esserlo, perché a guardarsi attorno non lo sono per niente».
Perché?
«Perché abbiamo la classe politica più maschilista che si possa immaginare, perché si sceglie per cooptazione, perché chi ha il potere — ambrosia inebriante — non lo molla. E perché le donne fanno poco per conquistarselo, troppo spesso accettando le scelte dei maschi senza pretendere, senza lottare».
Un invito a uscire dall'ombra e un auspicio come quello di Napolitano è un gesto utile?
«Certo che sì. Mi piacerebbe che fossero le donne a dirlo, ma in ogni caso è positivo che dal capo dello Stato arrivino parole come queste. Proprio quando sfilano i partiti al Quirinale è il momento in cui più viene da piangere: delegazioni tutte al maschile, con la solita eccezione della Finocchiaro, candidati maschi... Sembra di stare a Riyad».
Però ministre anche di dicasteri importanti si stanno facendo largo sulla scena politica.
«E ben vengano, certo, tra poco avremo ministre anche in Arabia Saudita, ci mancherebbe che non ci fossero da noi. Anche perché sono convinta che l'opinione pubblica sarebbe favorevole a una svolta di questo genere viste le prove fallimentari di una politica interpretata soprattutto dai maschi. Ma favorevole la gente lo è da tempo».
Quando nel 1999, con l'endorsement di Giuliano Amato, prese il via la campagna «Emma for president», lei era il candidato più gradito agli italiani in tutti i sondaggi. Perché non ce la fece?
«Perché i partiti siglarono un patto da larghe intese sul nome di Ciampi, che fu eletto al primo scrutinio. In quel caso, più che una partita di genere fu una partita politica».
Oggi però i partiti sono più deboli, certe contestate scelte al femminile sembrano preistoria.
«È vero, stiamo assistendo a cambiamenti importanti. Gli eccessi di volgarità, quel clima di "scollacciamento" al quale abbiamo assistito sembrano superati, stanno emergendo donne competenti, preparate, anche dure, e non è un fatto da poco. Anche se, me lo faccia dire, io non ho mai avuto niente contro i tacchi alti e la bellezza anche in politica, perché il binomio bella-stupida è irritante e falso. Però è un bene che la politica si apra alla complessità delle donne, alle sfaccettature di una società sempre più complicata e, lo sto vedendo in questi mesi, più impegnata nella sua componente femminile nella politica di base, nelle lotte sociali, nella partecipazione: penso a luoghi come "Pari o dispari", "Se non ora quando". E però...».
Però?
«Però non basta: per ottenere devi lottare, metterci la faccia, accettare il rischio. Io non vedo una sola donna che si candida a segretario in un congresso, che aspira ai massimi ruoli. Nessuno ti dà niente gratis, siamo noi a dover rovesciare modelli e convenzioni».
Da un sondaggio online di Corriere.it di ieri lei risulta la candidata preferita, con oltre il 38% delle preferenze. Dietro, distanziate, ci sono la Finocchiaro, la Bindi, la Fornero, la Severino... Che significato dà a questi dati?
«Per quanto riguarda me, credo mi si riconosca una vita di impegno nelle politiche e nelle battaglie radicali spesso lontane dal Palazzo ma molto vicine alla gente come quelle per la legalità, la trasparenza, il no al finanziamento pubblico, lo stato di diritto, la mala giustizia».
Buoni motivi per riprovare a correre per il Quirinale?
«Lasciamo perdere via, io ho già dato, quello che potevo fare l'ho fatto, la faccia ce l'ho messa sempre, da donna e da radicale. Poi, si sa, è il Parlamento che vota...».
E delle altre donne che emergono come possibili candidate, le neoministre come Fornero, Severino, Cancellieri, che pensa?
«Penso siano donne competenti, con le loro durezze, i loro caratteri, ma sicuramente capaci, vere. Esprimono un modello di professionalità importante che era stato cancellato negli ultimi anni dalla vulgata volgarizzata della bellezza a tutti i costi. Ce ne potrebbero essere altre, certo».
Le vengono in mente nomi?
«Guardi, se è per questo non me ne viene nemmeno uno di un uomo... Ma si sa, per le donne si chiede sempre l'eccezionalità, per gli uomini non è necessario: è questo il muro che ancora non riusciamo a superare».
il Fatto 25.3.12
Valentino Parlato fondatore del “manifesto”
“Moriremo democristiani il vero rischio è Casini”
di Giampiero Calapà
Saliamo al Colle con Valentino Parlato – 82 anni, fondatore e anima del manifesto – e scopriamo la sua paura di morire democristiano. Perché Giorgio Napolitano è stato chiaro, non accetterà la candidatura per un secondo mandato, e Parlato all’orizzonte vede “Pierferdinando Casini, per come si sono messe le cose sarà lui il prossimo capo dello Stato”.
Intanto Parlato, in questi giorni continuiamo ad assistere all’interventismo del Quirinale nelle vicende politiche, è un bene?
No, intanto nel merito: Giorgio Napolitano sostiene troppo questo governo...
Ma è il suo governo, di fatto.
Appunto, non so se possiamo parlare di strappo costituzionale. Di sicuro questo passaggio politico è problematico, perché crea un precedente. Io stimo e rispetto Napolitano, non condivido alcune sue posizioni, dall’Alta velocità fino al modo in cui si sta spendendo in questi giorni sulla riforma del lavoro, sull’abolizione dell’articolo 18. Ma questo suo modo di agire diretto crea un pericoloso precedente. Neppure Oscar Luigi Scalfaro fu tanto interventista .
Che cosa teme esattamente?
Temo che chi verrà dopo di lui possa essere peggio.
Ha già un nome in mente?
Per il prossimo settennato? Per come sono messe le cose, per le intese tra i partiti che vedo, il rischio più grosso è Pierferdinando Casini.
Mi aspettavo dicesse Gianni Letta!
Secondo me Letta non ne ha nessuna intenzione, a lui piace comandare, ma sempre da dove non si nota troppo.
Un pericolo Berlusconi al Colle, invece, non lo vede?
No, lo escludo, come escludo Massimo D’Alema. Comunque, qualcuno pensava che saremmo morti berlusconiani, invece non è cambiato nulla: moriremo democristiani.
Quindi il suo timore è Casini, invece il presidente della Repubblica dei suoi sogni?
Dal momento che ieri Napolitano ha detto che gli piacerebbe fosse una donna il prossimo capo dello Stato, il mio sogno è questo: Susanna Camusso, attuale segretario generale della Cgil, difensore dell’articolo 18 e dei diritti dei lavotori, presidente della Repubblica.
l’Unità 25.3.12
Le proposte in un documento dopo un anno e mezzo di discussione
«Nei centri i migranti restano anche per 18 mesi: questa è detenzione»
Immigrazione, forum Pd: «Cittadinanza e basta con i Cie»
Se non lo farà questo governo tecnico, sarà uno dei primi atti della prossima legislatura: la cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia. E poi la riforma dei Cie, divenuti centri dove i migranti sono detenuti anche per 18 mesi.
di Luciana Cimino
Bonificare il Paese dagli effetti nefasti della legge Bossi Fini e di dieci anni di politiche securitarie del centro destra. Con questo obiettivo il Forum immigrazione del partito democratico ha presentato un documento programmatico sul tema. Discusso per oltre un anno e mezzo dal Forum, ed esposto davanti alle delegazioni di trenta paesi (tutti immigrati militanti a vario livello nel partito o in associazioni ad esso collegate), la bozza sarà diffusa nei circoli territoriali e nelle feste dell’Unità in programma quest’estate. Per raccogliere modifiche ma soprattutto per condividerla con amministratori locali e militanti.
Quello che vi viene proposto è infatti un completo cambio di rotta rispetto alle politiche degli ultimi anni. «La Bossi Fini non è riformabile, va pensionata, la proposta del Pd è alternativa concettualmente», spiega Marco Pacciotti, coordinatore del Forum immigrazione. I democratici prevedono un percorso in tre fasi: per prima cosa un pacchetto di norme in grado di «bonificare le distorsioni più evidenti prodotte in questi anni», dice Livia Turco, presidente del Forum e specifica: «Abrogazione del reato di immigrazione clandestina, la revisione dei requisiti per i ricongiungimenti familiari che oggi impediscono il diritto all’unità della famiglia, la modifica dei tempi del permesso di soggiorno consentendo la possibilità della ricerca di un lavoro». Soprattutto il Pd parla di «superamento dei Cie» e cioè ricondurre il trattenimento solo al fine dell’identificazione dello straniero ma non più «carcere per innocenti». «La destra ha portato la detenzione a 18 mesi, quanto nel codice è la pena per reati gravi contro la persona. È inammissibile relegare persone che hanno la sola colpa di non avere i
documenti in regola a quella pena», argomenta Pacciotti. E la Turco sottolinea: «Non c’è rapporto tra gli attuali Cie e i centri che avevamo previsto noi con la legge 40, chi lo sostiene dice un aberrazione giuridica».
La seconda fase prevede una legge delega per promuovere l’ingresso regolare e favorire l’integrazione. Infine un codice dell’immigrazione che stabilisca dei diritti chiari e che non possa essere «soggetto alle intemperie politiche». «Dobbiamo tornare a un sistema di espulsioni coerente con la nostra Costituzione e con le leggi europee in materia», dicono i demo-
cratici che si augurano una «battaglia culturale perché si capisca che siamo discontinui con quelle politiche». E per questo le cose urgenti da affrontare sono due: la cittadinanza ai ragazzi nati in Italia e il diritto di voto. Al vaglio delle Commissioni ci sono al momento due proposte di legge di iniziativa popolare sul tema presentate anche con il contributo fondamentale del Pd. «È importante che se ne parli ma nel caso non si dovesse fare in tempo in questa legislatura, la cittadinanza sarà uno dei primi atti del governo che si formerà nel 2013».
Corriere della Sera 25.3.12
Destinati a migrare
Il cammino dell'uomo preistorico come quello dei nostri avi in America Nuovi orizzonti fra sogni e tragedie
di Erika Dellacasa
Gli uomini hanno le gambe. Gli uomini camminano. Da secoli. Per migliaia di chilometri. Nel tempo e nello spazio, in fuga o in avanscoperta, per allontanarsi o per avvicinarsi, per conoscere o per dimenticare. Gli uomini hanno le gambe sembra un'affermazione naif ma è da lì che parte il demografo Massimo Livi Bacci per affrontare da una base semplice un problema complesso e che, intimamente, ognuno di noi sente di poter esplorare. Perché il movimento, il ricordo e la nostalgia, la ricerca e il desiderio di nuovi orizzonti, il cambiamento e l'avventura, fanno parte dell'esperienza umana.
Le immagini delle donne africane che affrontano il pericolo di lunghi cammini, a volte in teatri di guerra, per portare l'acqua alla tribù raccontano cosa significa essere una popolazione in movimento. Quel passo delle donne nelle terre desolate si è allungato e raggiunge le nostre sponde, l'Occidente. È l'emigrazione dal Sud del mondo, è il presente saldato al passato. Il passo si è fatto solo un po' più lungo.
«Popoli in movimento» è il tema della terza rassegna «Storia in piazza», organizzata a Genova a Palazzo Ducale dal 29 marzo al primo aprile, il più importante meeting nazionale sulla storia, cui partecipano studiosi, filosofi, intellettuali e registi italiani e stranieri, dal francese Michel Balard (il Medioevo nel Mediterraneo) a Bernd Faulenbach (l'espulsione dei tedeschi dell'Est dopo la Seconda guerra mondiale) a Anna Foa che analizzerà la nascita dei «marrani», gli ebrei convertiti sotto la coercizione dell'Inquisizione spagnola. Marcello Flores si addentrerà nella tragedia della deportazione degli armeni e Robin Blackburn in quella della tratta degli schiavi. Esodi, esili, deportazioni, incubi, ma anche sogni di riscatto e di futuro. La rassegna è curata dallo storico inglese Donald Sassoon: «Quest'anno — spiega — abbiamo voluto ampliare lo sguardo, oltre l'Otto e il Novecento. Partiamo dalla preistoria, dall'uomo che 60 mila anni fa cominciò quelle migrazioni che lo portarono dall'Africa ad abitare quasi tutto il pianeta. Dalla necessità di viaggiare per il commercio a quella di fuggire per guerra, persecuzioni o fame, cercheremo di guardare alle migrazioni da molteplici punti di vista. Senza dimenticare che c'è stato anche il movimento dell'Occidente verso i paesi poveri in quello che va sotto il nome di colonialismo, o le migrazioni dell'Europa verso l'America, in particolare quella italiana. Vorremmo dissipare i luoghi comuni che accompagnano le migrazioni contemporanee, la paura dell'invasione, i dubbi sulla possibilità di convivere». Il sociologo Michel Wiewiorka discuterà la domanda cruciale «Dobbiamo convivere con la differenza?» e David Bidussa quella di come è stato possibile passare da «la nostra patria è il mondo» a «rispediamoli a casa».
La rassegna (conferenze e mostre gratuite) comprende laboratori didattici, film, documentari, concerti e pièce teatrali («Senza Confini» di Moni Ovadia giovedì 29, la chitarra di Beppe Gambetta e il mandolino e il violino di Peter Ostroushko in «Oltre i mari» venerdì 30, una maratona di documentari sabato sera).
«Parallelo al tema della migrazione — dice Luca Borzani presidente della Fondazione Palazzo Ducale — corre quello della cittadinanza. Con questo abbiamo voluto affrontare uno dei nodi del presente, i diritti civili. Salvatore Veca parlerà sulla cittadinanza e la rassegna si chiuderà con la lectio di Stefano Rodotà su cittadinanza e diritti».
Corriere della Sera 25.3.12
«Dai Greci ai Cinesi, tutti mossi dalla libertà»
«Siamo fatti per assorbire altre culture. Ma oggi gli spostamenti avvengono con troppa rapidità»
di Roberta Scorranese
Se è vero che i confini sono fatti da coloro che li attraversano, quella dei popoli in cammino è una storia di coraggio prometeico, di continua trasgressione dei limiti. Perché «siamo fatti per migrare», sottolinea Massimo Livi Bacci, tra i più famosi demografi europei nonché tra i relatori di Storia in piazza. Siamo fatti per spostarci e superare barriere, geografiche e linguistiche. Fatti per assorbire altre culture. «Impedire questo destino – dice il professore, che sull'argomento ha scritto il volume "In cammino", edito da Il Mulino — vuol dire privare l'uomo della sua libertà».
Si pensi infatti ai regimi totalitari, dove la possibilità di oltrepassare i confini si restringe. O, al contrario, alle deportazioni forzate, che sortiscono lo stesso effetto liberticida. Perché la migrazione è una predestinazione, una compiutezza genetica dell'umanità. «I popoli si sono spostati sempre per migliorare le proprie condizioni — afferma Livi Bacci — ma con ondate molto diverse tra loro». E così, se si potesse fissare su una tela, la storia degli spostamenti somiglierebbe alla celebre Composizione VIII di Kandinsky: intersezioni di colori, incroci di suoni e parole, strade che si sfiorano. Su tutto, un sole nero: quello della precarietà insita nell'andare.
«Pensiamo agli spostamenti dei popoli indoeuropei migliaia di anni avanti Cristo — dice Livi Bacci — dal Mediterraneo Sudorientale verso l'Europa, un'onda di avanzamento che, popolando nuovi territori, contribuì alla graduale diffusione delle pratiche agricole». I migranti giunsero in Anatolia e forse anche in Egitto, nella valle dell'Indo si diffuse la religione dei Veda. Poi i Greci arrivarono sulle sponde dell'odierna Italia e i Celti fino in Irlanda. «C'era bisogno — osserva Livi Bacci — di una coesione familiare e sociale tra i migranti molto forte. Così come sarà per le successive migrazioni, nelle società pre-industriali. Avvenne lo stesso per i pionieri che obbedivano all'invito "Go west, young man" nell'America dell'Ottocento e che formarono robuste famiglie, le quali popolarono il continente fino al Pacifico. Nella migrazione dall'Europa all'America furono invece prevalentementei singoli che andarono a caccia del proprio destino».
E ancora diversa sarà la migrazione interna agli Stati Uniti dopo la Grande Crisi del '29, straordinariamente documentata da John Steinbeck nel suo romanzo Furore: famiglie sfinite dalla povertà improvvisa, costrette a uno sradicamento doloroso e abbastanza repentino, per cercare fortuna altrove. «Non tutti hanno lo stesso destino — afferma Livi Bacci —: prendiamo i Francesi. Da sempre restii a spostarsi, quando lo hanno fatto pur essendo poche migliaia, hanno fondato una società dinamica che oggi conta milioni di persone». Che cosa determina la scarsa propensione alle migrazioni? La Francia, per esempio, aveva una struttura economico sociale strettamente legata al territorio e alla piccola proprietà terriera. E non sempre ci si fonde con la terra dove si arriva. «Pensiamo ai Tedeschi del Volga — continua il professore —. Negli anni Sessanta del XVIII secolo, Caterina La Grande lanciò una campagna per invitare i Tedeschi a trasferirsi in Russia. Ma questi "emigranti", solidi e abili contadini mantennero sempre la propria cultura e prosperarono». Come avviene anche oggi in alcune comunità particolarmente chiuse, come quelle cinesi. Livi Bacci ha una teoria interessante in proposito: «Oggi — spiega — le migrazioni sono molto più rapide e spesso non fatte per durare per sempre. Un esempio su tutti: prima del Duemila in Italia c'erano pochissimi rumeni, oggi ce n'è più di un milione. Prima ci si trasferiva con l'idea di trovare un nuovo mondo, oggi ci si trasferisce alla ricerca di un lavoro. La rapidità della migrazione non dà tempo ai migranti e ai loro ospiti di trovare i giusti modi per interagire». Il razzismo nasce anche qui. Alessandro Cheung, giovane imprenditore cinese cresciuto a Milano, racconta che quando suo nonno arrivò da Shangai trovò collaboratori tra i calabresi. C'era insomma una spinta più forte all'integrazione.
«L'Europa — conclude Livi Bacci — che dopo essere stata per secoli esportatrice di risorse umane torna a diventare importatrice. Ma la storia delle migrazioni è anche questo». Tornando alla tela di Kandinsky (tra l'altro il pittore russo non sfuggì a una personalissima emigrazione), le linee che si intersecano sembrano le tante strade dei migranti odierni. Ci sono gli stagionali nordafricani in Calabria e il flusso invisibile delle badanti dall'Europa dell'Est. I giovani laureati italiani che vanno a cercare fortuna negli Stati Uniti e i «nuovi inglesi» raccontati così bene nei film di Ken Loach. Ci vuole movimento per creare armonia. Come in Kandinsky.
Corriere della Sera 25.3.12
Un destino con mille radici La mia vita è un'addizione
Alla fine aver perso l'identità pura mi ha dato ricchezza
di Carmine Abate
I primi a partire furono i padri dei nostri padri. La loro terra al di là del mare era stata invasa dai turchi, perciò scapparono in massa e, dopo un lungo viaggio, approdarono qui da noi e fondarono tantissimi paesi, tra cui il nostro, Carfizzi, in Calabria.
L'esodo del nostro popolo in fuga veniva tramandato attraverso le rapsodie che da bambino sentivo cantare durante le feste. Il resto della storia — che gli antenati arbëreshë provenissero dall'attuale Albania e zone limitrofe o che fossero arrivati nel Sud Italia in diverse ondate migratorie a partire dal Quattrocento — l'avrei scoperto molti anni dopo. Intanto, però, grazie alle rapsodie cominciavo a capire come mai al mio paese si parlasse arbërisht, una lingua così diversa da quella italiana, per me straniera, che imparavo a scuola. E soprattutto familiarizzavo con l'emigrazione, come se fosse il tratto distintivo della mia gente, quasi un destino.
Nel corso del Novecento tutte le famiglie di Carfizzi, compresa la mia, furono smembrate dalle partenze. Già il nonno paterno, di cui porto il nome, era emigrato due volte nella Merica Bona, cioè negli Stati Uniti, l'ultima da clandestino. Alla fine degli anni Cinquanta emigrò anche mio padre, prima in Francia per due anni, con un contratto da minatore, e poi in Germania, dove venne assunto nei cantieri stradali. Ho ancora nelle orecchie la promessa che ripeteva a ogni partenza: «Il prossimo anno ritorno per sempre». Sarebbe invece rientrato da pensionato, dopo quasi trent'anni passati ad asfaltare le strade tedesche, per morire in paese.
Nel frattempo fui io a raggiungerlo ad Amburgo, la prima volta a sedici anni. Per tutta la durata delle vacanze estive lavorai in fabbrica e continuai a farlo negli anni successivi, fino alla laurea, dato che pure la mamma e mia sorella si erano stabilite ad Amburgo. Mio padre voleva che «imparassi come si mangia il pane», che assaggiassi cioè la durezza del lavoro e della vita; e soprattutto desiderava fortemente vedermi laureato: come quasi tutti i padri emigranti, cercava di riscattarsi dalle umiliazioni subìte all'estero, puntando sull'istruzione dei figli per non farli emigrare.
Per ironia della sorte, io che fino a sei anni sapevo parlare esclusivamente arbërisht, divenni insegnante d'italiano, realizzando il sogno di mio padre solo in parte: infatti, dopo aver cercato invano un lavoro in Calabria, come tanti laureati meridionali intrapresi la strada delle supplenze al Nord Italia, per approdare poi nelle scuole italiane ad Amburgo, Bielefeld, Brema, Lubecca e, per sei anni consecutivi, a Colonia.
Fu in Germania che cominciai a scrivere con rabbia e a pubblicare le mie prime storie sui «germanesi», i nostri emigrati, né tedeschi né italiani, ma figure ibride, come la lingua che parlano. Volevo denunciare l'ingiustizia della costrizione ad emigrare, raccontando il dolore di chi parte e di chi resta, oltre ai problemi che vivevo sulla mia pelle, dalla difficoltà di integrazione e di apprendimento di una lingua straniera ai soprusi in fabbrica e al razzismo.
Per anni vissi come molti germanesi, con i piedi al nord e la testa al sud, sognando un ritorno improbabile. Finché presi coscienza di una verità che mi fece cambiare l'approccio con «la malattia infettiva dell'emigrazione», come la chiamava mio padre: se per i tedeschi ero solo uno straniero; per gli altri stranieri, un italiano; per gli italiani, un «terrone»; per i meridionali, un calabrese; per i calabresi, un arbëresh; per gli arbëreshë del mio paese, un germanese o, da quando vivo in provincia di Trento, un trentino, se non addirittura uno sradicato, io per me ero semplicemente la sintesi di tutte queste definizioni, una persona con più lingue e più radici, anche se le nuove sono radici volanti nell'aria, come quelle rigogliose di certe magnolie giganti.
Da allora cominciai a percepire e a raccontare l'emigrazione non solo come strappo, ferita, percorso doloroso, ma soprattutto come ricchezza. Perché vivere tra due o tre mondi, crescere in più culture, parlare diverse lingue, acquisire nuovi sguardi, conoscere persone di altri luoghi, non può essere che una ricchezza. Più difficile ma irrinunciabile è il passo successivo: vivere per addizione, con un piede al Nord, uno al Sud e la testa in mezzo, prendendo il meglio di qui e di là e di ogni luogo, senza soffocare nessuna delle nostre anime, andando alla ricerca non dell'identità pura, bensì delle trasformazioni e dell'affascinante intreccio dell'identità plurale. Con la consapevolezza che l'incontro, il confronto, la mescolanza, alla fine arricchiscono tutti.
Corriere della Sera 25.3.12
La minoranza
Eredi degli esuli del XV secolo
Davanti alla conquista progressiva dell'Albania e di tutto l'Impero Bizantino da parte dei turchi ottomani, che avevano sconfitto e ucciso l'eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, gli Arbëreshë emigrarono in Italia dall'Albania e da comunità albanofone della Grecia tra il XV e il XVIII secolo. Le due principali comunità (una in Calabria, l'altra in Sicilia) sono oggi complessivamente formate da circa 250 mila persone e conservano gelosamente la lingua (l'arbëreshë), la religione (greco-ortodossa e, per una minoranza, cattolica), le tradizioni, i costumi, l'arte e la gastronomia di un gruppo etnico quali continuano orgogliosamente a considerarsi.
La terza edizione di “La Storia in piazza” si svolge a Palazzo Ducale di Genova sul tema “Popoli in movimento”.
l’Unità 25.3.12
Afghanistan
Dopo undici anni una guerra sempre più confusa
di Ugo Papi
In Afghanistan un altro soldato italiano è stato ucciso e cinque sono rimasti feriti. In un intervento così difficile bisogna sempre mettere in conto la perdita di vite umane, ma l’aumento esponenziale dei morti, si lega ad una situazione sul campo sempre più confusa, per non dire drammatica. L’Afghanistan a undici anni dall’inizio dell’intervento internazionale, rimane un luogo insicuro e dai precari equilibri. Fin dall’inizio la presenza della coalizione si è caratterizzata per una divisione patente tra gli obbiettivi dell’Isaf, tesa a garantire sicurezza alla popolazione e creare nuove istituzioni democratiche e gli americani concentrati alla lotta al terrorismo.
Questi obbiettivi diversi hanno creato negli anni contraddizioni, sprechi e inefficienze. Ad oggi l’economia afghana è ancora dipendente dagli aiuti internazionali, il sistema politico è arcaico, l’apparato amministrativo è inefficiente e corrotto e il mercato dell’oppio copre oramai il 90 % della produzione mondiale. Ogni anno se ne volano indisturbati a Dubai più di 4 miliardi e mezzo di dollari, più o meno pari al Pil annuale dell’intero Paese. Nessuno, neanche gli americani, sono riusciti a trovare un’alternativa a Karzai, uomo sicuramente abile, ma poco affidabile. Negli anni i suoi parenti hanno tutti assunto posizioni di potere e lo stesso processo di riconciliazione con i talebani è stato sfruttato dal Presidente per rafforzare la sua forza elettorale e le alleanze con il suo clan.
Negli ultimi anni sono aumentati drasticamente gli attacchi kamikaze e le lo scoppio di ordigni improvvisati, con un conseguente aumento dei morti tra i militari e i civili. Sempre più spesso sono gli stessi militari afghani a sparare
sugli alleati internazionali. Nel 2009 finalmente il generale Patreus si è impegnato assieme alla Nato, in una nuova strategia di contro insurrezione, focalizzata sulla protezione della popolazione civile nelle aree del sud ancora in mano ai talebani, per conquistarne «il cuore e le menti». Questo cambiamento non sembra aver portato a chiari risultati positivi. I gruppi talebani, per quanto divisi, sono ancora attivi e trovano protezione in Pakistan, dove gli americani hanno intensificato la loro attività di bombardamento con i droni, creando un ondata di anti americanismo tra la popolazione pakistana.
A complicare la situazione sono intervenuti gli incredibili casi delle copie del corano bruciate in una caserma americana e la strage del soldato americano a Kandahar, con l’uccisione di 17 tra donne e bambini. Nonostante le rassicurazioni ufficiali, il grado di popolarità delle truppe straniere tra la popolazione è sempre più bassa. In questa quadro la coalizione ha già da tempo annunciato i tempi di un ritiro a partire dal 2014.
Obama sembra accontentarsi dell’uccisione di Bin Laden. Ma le condizioni per un passaggio di poteri alle istituzioni locali, anche se progressivo, sembra problematico. C’è chi suggerisce una linea diversa della coalizione, un comprehensive approach che non indichi date di ritiro, e si concentri sul miglioramento dello Stato di diritto, di quello giudiziario e di quello istituzionale e politico, insistendo su una maggiore coordinazione delle forze internazionali e un atteggiamento più rigoroso nei confronti di Karzai.
Ma i governi occidentali e le loro opinioni pubbliche hanno fretta di andarsene e sono stanche di una guerra che non sembra mai finire.
il Fatto 25.3.12
A Cuba i soldi del Tea Party, la destra Usa
Sull’isola gli ultrà repubblicani finanziano la Chiesa del cardinal Ortega, amico fraterno di Raul
di Maurizio Chierici
l’Avana Per capire l’ aria strana di Cuba ecco il paradosso di due letture diverse delle parole del Papa sul marxismo che “non corrisponde ormai alla società” e l’invito a trovare “nuovi modelli con pazienza e in modo costruttivo”. Entusiasmo dei dissidenti radicali; entusiasmo nelle analisi dei cattolici in dialogo col governo.
“Lo ripetiamo da sempre e Benedetto XVI rinnova la nostra speranza: è urgente cambiare uno Stato ormai fuori dal tempo”: l’ingegnere Osvaldo Payà, pupillo epurato dalla Chiesa cubana sembra felice. “Ascoltiamo con rispetto l’analisi del Papa il quale invita alla pazienza e a decisioni condivise per evitare traumi”, commento del cancelliere Bruno Rodriguez. Risponde ai giornalisti in un salone del vecchio Hotel Nacional trasformato nel centro stampa internazionale. È l’albergo dove 70 anni fa Lucky Lucia-no propone a Cosa nostra di inventare una bisca nel deserto: nasce Las Vegas, Frank Sinatra ne è il padrino. Ma gli intellettuali impegnati ad accompagnare non solo la collaborazione governo-Chiesa, soprattutto l’avvicinamento alla diaspora cubano americana, non nascondono l’orgoglio: “Benedetto XVI annuncia ipotesi che stiamo già consolidando. Conferma l’urgenza del dialogo e della pacificazione alla quale ci dedichiamo con l’appoggio di Raul Castro”.
La Chiesa non sta solo mediando: si è trasformata nell’ammortizzatore sociale che contiene l’esasperazione di chi tira avanti sull’orlo della fame. Assistenza rimpicciolita, educazione tagliata, ospedali lontani dall’esempio da imitare. Sta morendo la libreta, tessera che distribuiva gratuitamente le cose da mangiare. Ridotta così: 4 chili di riso al mese, un chilo di zucchero, fagioli e caffé per appena due giorni. Non proprio caffè: polvere allungata con farina di piselli. Una razione di pollo ogni quattro settimane. Per fortuna i pacchi della Caritas raddoppiano le provviste.
Caritas e parrocchie aprono le porte ai pensionati che da mezzo secolo tornano a mezzogiorno alla mensa dell’antico posto di lavoro. Appuntamento per non invecchiare in solitudine, appuntamento dimezzato: solo tre volte la settimana, negli altri giorni allungano i piatti nella rete ecclesiale. Ristrettezze che fanno cadere il tabù dell’insegnamento nelle strutture religiose. Professori di scuole pubbliche danno ripetizioni nelle parrocchie. Arrotondano lo stipendio fermo agli anni dello Stato capo famiglia quando la libreta distribuiva carne 4 volte la settimana, ridotte a due per finire ai pulcini da ingrassare sui balconi, primi anni ’90 appena i russi vanno via. Insomma, la diocesi dà una mano dove lo stato non ce la fa. E gli insegnanti arrotondano: pochi soldi indispensabili a tirare “quasi la fine del mese”.
LA PENSIONE di un prof dell’università arriva a 270 pesos, 14 cuc, moneta convertibile in 15 dollari. La Chiesa dove prende i soldi? La Caritas internazionale è stata autorizzata alla vigilia dell’arrivo di Giovanni Paolo II. E poi fondazioni d’Europa (soprattutto spagnole) e degli Stati Uniti. Saint Patrick irlandesi dal New Jersey a New York. Fra i più generosi i Cavalieri di Colombo, associazione di stampo rotariano, costola del Tea Party. Proprio così: gli integralisti repubblicani collaborano con la Chiesa cubana, e Raul partecipa assieme cardinale Ortega all’inaugurazione del nuovo seminario San Carlo e Sant’Ambrosio. Taglia il nastro al fianco del presidente dei Cavalieri arrivato dal Texas. Non seminario qualsiasi: una stanza per ogni ragazzo, computer e telefono, meraviglie dell’altra America.
L’Avana resta terra di conquista: cambiano le strategie dello sbarco ma democratici e repubblicani Usa allungano le ipoteche per “quando i tempi saranno maturi”. Le rimesse di chi vive in Florida o in Canada fanno respirare i parenti. Rimesse esenti da tasse, banche che non fanno domande. Se un flusso ragguardevole di offerte raggiunge la Chiesa cattolica, gli aiuti delle sette protestanti sono più del doppio. Invasione in ogni altro angolo del Paese.
L’invito di una sera mi accomuna alla piccola folla riunita in una casa privata: cantano e si abbracciano trascinati da un pastore colombiano. Tutto è permesso se non “disturbano i vicini”. Il missionario non è arrivato a mani vuote. Sette talmente generose da far crescere le leggende nei corridoi dei ministeri. Si parla di due alti funzionari sul punto di aggregarsi ad una delle mille chiese disposta a finanziarli. Le liberalizzazioni di Raul disegnano due società disuguali. Al tram tram di chi lavora per lo Stato si contrappone il “benessere degli imprenditori privati”, nuovi ricchi dalla vita dolce, lontana da chi tribola per non perdere la dignità. Che è complicato mantenere per il milione di lavoratori licenziati dalle ristrutturazioni. Visitare un supermercato fa capire chi può e chi tira la cinghia.
CARRELLI quasi vuoti nella vecchia Avana, carrelli con ogni ben di dio davanti agli scaffali del Palco che accende le luci attorno al golf club. Discoteche a tre piani, paradares non più ristorantini, fra i tavoli delle famiglie: terrazze dai prezzi impossibili si affacciano sulla cupola del Campidoglio o si accendono a due passi dal Nacional. Vite sempre più diverse. Negozi, caffé, barbieri, idraulici, insomma padroncini finanziati da parenti-soci che abitano dall’altra parte del mare. E i trasporti che ogni mattina portano carne e verdura dalle campagne ingrassano le polizie: lasciano perdere i controlli, pesos neri dell’economia sommersa meno complicata dei traffici che per mezzo secolo hanno imbrogliato lo Stato. L’invito del Papa ad un a transizione ordinata e senza traumi è rivolto ad un Paese che si aggroviglia come qualsiasi America Latina.
Corriere della Sera 25.3.12
No al prelievo di organi dai condannati, il volto benevolo (e ambiguo) della Cina
di Marco Del Corona
In principio fu un segreto ben tenuto. Poi un'ammissione, salutata con il favore che si deve agli atti di coraggio. Adesso — per bocca del viceministro cinese della Sanità, Huang Jiefu — è la promessa che non accadrà più. Il prelievo di organi destinati ai trapianti dai corpi dei condannati a morte è destinato a finire. Il viceministro Huang ha annunciato che nel giro di pochi anni, forse già 3, i cadaveri dei cinesi giustiziati non verranno più trattati alla stregua di un atroce magazzino di pezzi di ricambio umani.
La Cina esegue sulle 4 mila condanne capitali ogni anno, un numero in calo dopo la centralizzazione delle autorizzazioni, affidate alla sola Suprema Corte del Popolo. L'anno scorso, poi, è stato ridotto il numero dei reati punibili con la morte da 68 a 55. Il prelievo degli organi era al centro dell'attenzione di molti gruppi per i diritti umani e il movimento religioso del Falun Gong, fuorilegge in Cina, aveva fatto della denuncia del fenomeno uno dei pilastri della sua attività di sensibilizzazione. L'abbandono della pratica mostrerebbe al mondo un volto maturo e benigno della Cina.
Dopo la soddisfazione, i dubbi. Human Rights Watch ha notato come il viceministro Huang sia ormai prossimo ai limiti di età e nel nuovo assetto di potere che verrà disegnato dal congresso del Partito in autunno non dovrebbe trovare posto. Dunque: chi gli succede manterrà una promessa fatta da un altro? E ancora: se ogni anno sono 300 mila le persone in attesa di ricevere un organo e se sugli stessi media cinesi si leggono spesso storie di reni venduti e comprati, basteranno le donazioni volontarie e autorizzate a soddisfare la domanda? Infine, le motivazioni addotte da Huang si limitano alla qualità (scarsa) degli organi dei condannati, affetti da malattie: niente nobili preoccupazioni morali, dunque.
Occorre attendere. La Cina si sottopone deliberatamente al controllo e al giudizio dei suoi stessi cittadini e della comunità internazionale, che potranno verificare cosa accadrà della promessa del ministero. E questa è una buona notizia.
Marco Del Corona
l’Unità 25.3.12
Marx non è marxista
di Bruno Bongiovanni
Marx ha dichiarato di non essere marxista? Sicuramente. Vediamo un po’. «Marxista» e «marxismo», del resto, come «comunista» (1569) e «socialista» (1753), furono all’inizio ingiurie. Le utilizzarono prima, a partire dal 1872, un poliziotto francese, e i seguaci di Bakunin, poi, a partire dal 1882, i socialisti «possibilisti» francesi contro quanti si rifacevano alle analisi di Marx. Proprio per difendersi dalla voglia di certezze dei compagni etichettati come «marxisti», ma anche per combattere gli avversari politici, Marx, poco prima di morire, secondo le testimonianze del russo Lopatin, e di Engels, aveva dichiarato con energia di non essere «marxista». Il «marxismo», con un rovesciamento semantico, venne tuttavia fatto proprio dagli epigoni. Non subito. Le cose marciarono però alla svelta. E nel 1895 l’Enciclopedia Brockhaus già riportava la voce «Marxismus». Nell’Enciclopedia Britannica (1902), tuttavia, la voce «Marx», per quanto firmata da Bernstein, non ospitava ancora il sostantivo «marxismo».
Al di là della questione del nome, il «marxismo», come sistema organicamente chiuso, laddove Marx (morto nel 1883) l’aveva lasciato drammaticamente aperto, ebbe comunque come data di nascita il 1878, anno di composizione, da parte di Engels, dell’Antidühring. Il «marxismo ortodosso», travolto dalla prima guerra mondiale, visse così, in tutto, 36 anni. Diversissima è invece la vicenda del marxismo-leninismo, espressione elaborata negli anni dello stalinismo maturo. E nel 1934 Adoratskij definì la «dialettica materialistica» il «fondamento del marxismo-leninismo». Oggi il termine «marxismo» è di rado pronunciato. Ed è certo che il solo Marx non basta per comprendere il mondo. Ma è anche certo che senza Marx non troviamo talvolta neppure le parole per parlare del mondo.
l’Unità 25.3.12
La partigiana più cliccata su Youtube
Giovanna Marturano martedì compirà cent’anni. Ha organizzato le donne durante la Resistenza e ora nelle scuole porta ai ragazzi di oggi il suo contributo di memoria: «Dalla lotta non si può andare in pensione»
di Gabriella Gallozzi
L’attualità della Resistenza? Per dimostrarla non servono dibattiti o convegni. Basta incontrare Giovanna Marturano: ne è la prova vivente. A cento anni, sì cento anni il compleanno è martedì 27 marzo Giovanna è la partigiana più «cliccata» su youtube, più in contatto con le nuove generazioni, più circondata da ragazze e ragazzi che, ormai da trent’anni, incontra nelle scuole dove porta il suo contributo di memoria. Minuta, anzi piccola piccola, Giovanna ha davvero la gioia di vivere della Bambina col pugno chiuso che tornerà a raccontare il collettivo di filmaker romani, Todomodo (Claudio Di Mambro, Luca Mandrile, Umberto Migliaccio) nel loro nuovo documentario, dopo un precedente ritratto (Di lotta si vive) «regalatole» lo scorso anno.
«I ragazzi», racconta lei stessa mentre ti mostra cartelle intere di lavori e persino un fumetto realizzato dagli studenti «mi vogliono così tanto bene, mi vengono a chiedere consigli, si commuovono ai miei racconti, al punto che certe volte è pure imbarazzante. E io dico loro sempre la stessa cosa: che bisogna continuare a lottare, come abbiamo fatto noi. Dal lavoro si può andare in pensione. Dalla lotta no, perché antifascista lo sei sempre è più la situazione è brutta più non devi perdere la speranza».
DALLA SARDEGNA A ROMA
Nata in una famiglia comunista di origini sarde (l’ha raccontata nel libro Giovanna. Memorie di una famiglia nell’Italia del Novecento), trasferitasi a Roma nei primi anni del Ventennio, Giovanna ha subito conosciuto il carcere (arrestata nel ’38) e condiviso con i familiari le persecuzioni e le violenze del regime. Un fratello condannato a 14 anni di galera, l’altro scappato in Urss e la madre cinque anni di confino a Ventotene. Sull’isola incontra e sposa Pietro Grifone anche lui confinato per dieci anni. Aderire alla Resistenza, quindi, è stato un passaggio naturale: «dentro casa si lottava contro il padre autoritario sintetizza si è trattato di portare fuori e allargare quella battaglia. Per le donne la liberazione è stata una lotta nella lotta». Ma a guerra finita poco o niente è stato riconosciuto di tutto questo: «Noi partigiane prosegue Giovanna abbiamo rischiato la vita come e più degli uomini. Eppure di riconoscimenti ne abbiamo visti ben pochi». Lei che, insieme a tante altre donne romane, ha organizzato scioperi, assalti ai forni e soccorsi per i feriti si è sentita dire: «Tu non sei stata in montagna, non hai sparato... c’è voluto l’intervento di Giorgio Amendola perché riconoscessero la mia partecipazione alla lotta di liberazione».
Per questo Giovanna lo ripete in continuazione: «Non si può smettere di lottare. Guardate oggi. Ancora non abbiamo la libertà di espressione: hanno tolto l’Unità dalle fabbriche... ma come è possibile? Io la diffondevo clandestina quando c’erano i nazisti...». E ancora: «Come possiamo dirci liberi se alle donne vengono fatte firmare le dimissioni in bianco e non possono fare figli? Quale libertà può esserci per i giovani senza lavoro? Come si può buttar via l’articolo 18?».
Le mani piccole e veloci, gli occhi vispi che ti guardano dritto Giovanna con i suoi racconti è un’iniezione di energia per chiunque. «Scrivilo dice che io a l’Unità ci ho anche lavorato dopo la guerra. Ero in archivio e una volta è venuta da me una signorina che cercava trafelata Renato Guttuso. “Io non lo conosco” le ho risposto. Conoscevo però un Renato che aveva fatto con me la Resistenza. Sai, per ragioni di sicurezza non sapevamo i cognomi dei compagni. Così sono andata da “quel” Renato dicendogli se poteva ricevere lui la ragazza. Lui mi ha guardato e mi si è presentato: sono Renato Guttuso».
Giovanna è una miniera di aneddoti, di racconti. E basta starle vicino pochi istanti per capire perché i ragazzi le siano così legati. «Cento anni prosegue non riesco a crederci di avere cento anni». E a dire il vero neanche noi. «Ho avuto una gran fortuna continua quella di essere nata quando le cose stavano cambiando. A quei tempi ci dicevamo: appena saremo liberi cambieremo la scuola, cambieremo la famiglia». Ma poi sono arrivati gli anni di Scelba e le «bastonate» sono continuate. «Io anche alle manifestazioni ricorda andavo sempre vestita bene, col cappellino in testa, tanto che una volta un celerino stava per darmi una manganellata, poi mi ha visto tutta così mite e si è scusato pensando che fossi capitata lì per caso». Quegli anni Giovanna Marturano li sta raccontando in un nuovo libro che scrive a mano consumando tutte le penne di casa, come racconta con tenerezza la figlia Anna. «I ragazzi conclude mi danno fiducia perché sentono che dico la verità. Non sono una politica, ma una donna che ha avuto degli ideali ed ha lottato per quelli. Questo dà fiducia ai giovani anche se sono scoraggiati. Io sono la stessa Giovanna che ha fatto la Resistenza, certo cammino molto meno di allora, mannaggia. I problemi dei ragazzi non li vivi personalmente ma senti che ti riguardano e sai che devi continuare a lottare per loro. Io ho sempre amato la gente e non ho mai potuto vederla soffrire». Buon compleanno Giovanna.
l’Unità 25.3.12
Marisa: lettera aperta di una staffetta a un’adolescente
La Liberazione aveva liberato molte cose. Aveva rotto delle gabbie, sentimenti prima incapaci di esprimersi avevano imparato ad uscire dal chiuso. Ci si parlava. Si imparava a vivere in libertà».
La Resistenza spiegata alle ragazzine. O meglio quello che ha significato la resistenza per le donne, come primo passo verso il femminismo. È Marisa Ombra, staffetta partigiana, a lungo dirigente dell’Udi e vicepresidente dell’Anpi, a raccontarla in Libere sempre, un piccolo libro da leggere tutto di un fiato e da regalare a tutte le adolescenti che conosciamo. È a loro, infatti, che si rivolge Marisa, oggi 87enne. In particolare ad una quattordicenne di oggi, una ragazza che, nella finzione del racconto, incontra passeggiando in un parco romano. A lei è rivolta questa sorta di lunga lettera riflessione in cui trova posto il passato (la sua esperienza nella Resistenza, appunto, medicina inattesa alla sua anoressia di diciassettenne), ma soprattutto il presente. Quello delle ragazze che si sentono «libere» a fare le veline, le escort, merce di scambio per un posto in una fiction o in un reality. Un presente che sgomenta chi come Marisa o tante altre donne, hanno invece combattuto per un’altra idea di libertà.
QUALE LIBERTÀ?
«L’inganno sta nella frase scrive Marisa “il corpo è mio e lo gestisco io”, alla quale da un certo momento in poi è stato attribuito un significato che è l’esatto contrario di ciò che aveva in mente la generazione che lo aveva dichiarato per la prima volta. L’esatto contrario perché il corpo, se esiste solo per essere desiderato e comprato, finisce per esistere in funzione dell’altro. Non è più mio ma di chi neg ode. Se il tuo unico desiderio è quello di essere guardata e desiderata, la tua persona finirà per sparire». Senza salire mai in cattedra e senza pregiudizi, la partigiana e femminista di allora accompagna per mano la quattordicenne di oggi. Per scoprirne a sua volta, però, un altro modo di stare insieme e di condividere intelligenze. Già di per sé «un auspicio che basta a restituirti un futuro». GA.G.
La Stampa 25.3.12
Primo Levi
Se questo è un uomo una tristezza che è quasi gioia
A 25 anni dalla morte del chimico-scrittore torna il suo libro-testimonianza su Auschwitz: malgrado le apparenze, un testo ottimistico
di Alberto Cavaglion
Domani a Torino Nel 25° anniversario della scomparsa di Primo Levi, la Einaudi manda in libreria una nuova edizione di Se questo è un uomo commentata a cura di Alberto Cavaglion, che ha scritto per La Stampa l’articolo pubblicato in questa pagina. Il libro sarà al centro della serata organizzata dalla Einaudi e dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi, in collaborazione con lo Stabile, domani alle 21 al Teatro Gobetti di Torino. Dopo il saluto del sindaco Piero Fassino interverranno Mauro Bersani e Amos Luzzatto. A seguire letture di Valter Malosti presentate da Alberto Cavaglion. Primo Levi in un quadro dell’artista americano Larry Rivers (1923-2002). Nato il 31 luglio 1919 a Torino, dove è morto l’11 aprile 1987, lo scrittore fu deportato ad Auschwitz nel 1943. Raccontò la sua esperienza nel romanzo autobiografico Se questo è un uomo, scritto tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947
Se questo è un uomo è un libro diverso dagli altri che Levi scriverà più tardi, perché appartiene a una stagione lontana, dalla quale prenderà inconsciamente le distanze. La sua anomalia, ma anche il suo fascino, consistono innanzitutto nella struttura, che intreccia parti diaristiche a considerazioni etiche. Se questo è un uomo è l’opera prima di un chimico, eppure la chimica non occupa lo spazio che – sbagliando – potremmo immaginare. Fin dal suo incipit, il libro non si presenta come il weekly report aziendale di un chimico o di un etologo, ma piuttosto come una «operetta morale». La cronaca si alterna sempre alla riflessione sulla condizione umana attraverso quattro blocchi narrativi incastrati l’uno dentro l’altro, che per così dire costituiscono, con effetti di zoom, le parti di un solo saggio, lungo e quadripartito, generato dalla prima riflessione sul rapporto tra felicità e infelicità.
La parola «felicità» ritorna di continuo nel libro. Tutto ruota intorno al rifiuto di queste due iniziali posizioni-limite: la felicità perfetta e il suo contrario, la infelicità imperfetta. La natura umana essendo nemica di ogni infinito respinge, ma al tempo stesso è attratta dalle posizioni-limite, che nel libro sono numerose fino a culminare nella coppia dei sommersi e dei salvati, ma è l’analisi sulla «felicità perfetta», o «positiva», a tagliare trasversalmente i capitoli. Se questo è un uomo racconta un viaggio fra coppie di estremi (i forti e i miti, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) ; ma poiché è originato dal tema della felicità, il resoconto del viaggio ha il valore di un programma ed è destinato a imprimere fiducia nel lettore (anche le parti diaristiche ne risentono). Di qui, malgrado le apparenze, il carattere ottimistico di Se questo è un uomo, che molti lettori, a partire da Vittorio Foa, avevano già segnalato.
Il libro si apre con una poesia dove la voce giudicante esprime seri dubbi sulla natura umana, ma l’ultima pagina – che è una pagina di diario – si chiude con una certezza: «Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione». Tra una distruzione non pienamente compiuta e una seconda Genesi altrettanto ardua da incominciare va a collocarsi lo «studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» enunciato nella premessa. Affascinato, ma al tempo stesso sospettoso sia di fronte all’estremo dei dèmoni e dei degeneri, sia di fronte all’altro estremo dei martiri e dei santi, Levi ci guida dentro la varietà infinita delle situazioni intermedie. Le posizioni-limite servono, anche se sono impraticabili. Accade la stessa cosa con i periodi ipotetici della irrealtà, che sono il «derivato grammaticale» delle posizioni-limite («Se fossi Dio»; «Se gli uomini fossero ragionevoli»).
«Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo». Questo piccolo avverbio, «quasi», è una spia linguistica che mostra come, in Se questo è un uomo, la medietà tenda con forza di disperazione a distaccarsi dalla negatività: «Ci percuotono quando siamo sotto il carico, quasi amorevolmente». Più che alla terza via della saggezza classica – in medio stat virtus – Levi gioca sulla logica degli estremi, senza desiderare mai di raggiungerli: il suo sguardo si volge asintoticamente, per usare un termine della geometria analitica, verso l’estremo di segno positivo, pur sapendo che nel migliore dei casi riuscirà soltanto a sfiorarlo: «Una tristezza serena che è quasi gioia».
La tristezza che è «quasi» gioia è un esempio di questo sbilanciamento verso il bene. Più del celebrato «quivi» dantesco è da evidenziare il «quasi» – o il «prossimo a» – che caratterizza gli ossimori formati da una coppia di termini «quasi» sinonimi. Da dove abbia origine questo sbilanciamento asimmetrico verso la serena gioia è arduo dire, anche perché il favoloso viaggio dentro la felicità umana si è a un certo punto interrotto e dalla matrice originaria germinerà la categoria di «zona grigia» dell’ultimo periodo.
Il fascino di Se questo è un uomo consiste invece proprio in questa sua natura speranzosa, suffragata dalla ricca intertestualità, dai prestiti letterari cui Levi fa ricorso, dalla Bibbia ai poeti contemporanei come Baudelaire e T. S. Eliot, in termini molto diversi rispetto agli altri suoi libri. La scia che questo libro ha lasciato nelle opere successive, in un lungo, pluridecennale commento che sembrerebbe assomigliare a una specie di «storia e cronistoria» di Se questo è un uomo non è così rilevante quanto l’esplorazione, per molti versi ancora tutta da compiere, nel mondo che ha alimentato l’inatteso ragionamento originario, quello sulla felicità imperfetta.
Felicità e infelicità non sono mai perfette
Primo Levi da Se questo è un uomo
Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità.
La Stampa 25.3.12
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne – così si dice – avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi – che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono – sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
Repubblica 25.3.12
Gli dei senza dio di Fosco Maraini
La "scoperta" dei Kafiri nell’Hindu-Kush, lo spirito dello Shinto giapponese, il bosco sacro di Diana sui colli Albani
Le avventure nei mondi distanti ma uniti da quella "religione naturale" che il grande etnologo italiano, celebrato a cent’anni dalla nascita, studiò per tutta la vita
di Franco Marcoaldi
dopo aver partecipato nel 1958 alla conquista del Gasherbrum IV, l´anno successivo Fosco Maraini compie la seconda impresa alpinistica himalayana della sua vita. Adesso è capo spedizione nell´ascesa al picco Saraghrar (7.349 metri), una cima ancora inviolata dell´Hindu-Kush, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Anche stavolta l´impresa andrà a buon fine, offrendo il destro alla scrittura di un libro dal titolo singolare, Paropàmiso, riferito al nome che gli uomini di Alessandro Magno diedero ventitré secoli addietro a quelle montagne: «Il nome mi piacque: augusto, sibillino, marmoreo. Ma il pubblico lo trovò ostico, impronunciabile, stopposo. E il libro andò al macero…I titoli vanno soppesati con gran cura. Guai a sbagliarsi».
Paropàmiso è un testo centrale nella vastissima bibliografia di questo grande italiano del ´900, di cui ricorrono quest´anno i cento anni dalla nascita. Etnologo, fotografo, orientalista, poeta, alpinista, scrittore, documentarista, professore universitario, viaggiatore, Maraini - paradossale a dirsi - ha finito per pagare un prezzo salato a causa di questa straordinaria varietà di interessi: il nostro paese non ha mai prediletto i "grandi dilettanti" e difatti la sua fama non è paragonabile a quella degli altri due fiorentini che gli sono stati coevi, Tiziano Terzani e Oriana Fallaci. Eppure proprio Paropàmiso (ripubblicato da Mondadori nel 2003 in una edizione ampliata), ci indica tutta l´originalità del pensiero di Fosco. Al racconto della scalata, nel libro si accompagna una meditazione sul tema del viaggio come chiave di volta per superare «i muri di idee» che separano le diverse civiltà, e infine un´accurata indagine antropologica sulla vicenda dei Kafiri, l´unica popolazione non islamizzata della regione. Dopo gli Ainu e le Ama (comunità marginali giapponesi), l´incontro con i Kafiri completa il trittico dei piccoli gruppi di «ultimi pagani» (titolo di un altro libro, accompagnato da un´intervista di Francesco Paolo Campione) con cui Maraini viene a contatto e verso i quali prova un´immediata attrazione, perché riflettono un genere di vita condotto «in stupenda pace ecologica con gli ambienti circostanti, e, simbolicamente, col mondo».
Sul finire degli anni Cinquanta, i Kafiri del Chitral erano poco meno di tremila. "Gli infedeli che non sono del Libro" (questo vuol dire kafir) si erano ritirati in luoghi pressoché inaccessibili, vivendo in vallate segrete e selvagge. Al gruppo degli alpinisti occidentali, si presentarono uomini e donne dall´aria faunesca, con grandi secchi pieni d´uva. La produzione di vino (per quanto pessimo), offriva il primo, sorprendente segnale di costumi «sopravvissuti alla frana del tempo». Le prescrizioni islamiche qui non si erano imposte e la presenza «del tralcio sacro a Dioniso» dava da pensare. Chi aveva insegnato ai Kafiri a fare il vino? «Che fosse davvero un ricordo lasciato dal dio ellenico nella sua spedizione alle terre dell´India?». E davanti a tutti quei noci, platani, gelsi, lecci, ginepri, albicocchi, chissà che entusiasmo dovevano aver provato le truppe di Alessandro, arrivate fino alle soglie di un ignoto favoloso che tanto assomigliava agli scenari domestici. Ecco perché, anche adesso, l´atmosfera, «più che d´esotico, sapeva d´antico».
La fantasia di Maraini subito si accende, rafforzata dalle continue spie di un mondo in cui imperano leggende, magie, superstizioni, fate, santi, sacrifici animali. Ma è soprattutto la presenza di vecchie immagini divine intagliate nel legno a mostrargli l´assoluta anomalia di questa comunità in terra musulmana. Senza contare che qui le donne non solo non hanno il viso coperto, ma danzano sensualmente e suonano il flauto, mentre gli uomini, davanti a imponenti statue mortuarie, fanno da corolla al rebun, l´ultimo degli sciamani: un uomo sulla cinquantina, dagli occhi spiritati e l´aria nervosa, che racconta storie incredibili, governate da potenze occulte.
Il sacrificio cruento dell´ennesima capra per ingraziarsi la benevolenza delle divinità, con relativo collasso e perdita dei sensi dello sciamano, lascia Maraini di stucco. Gli pare di rivivere in diretta le pagine del Ramo d´oro di James Frazer. Sa bene che la comunità kafira è agli sgoccioli, sa che la complessità della loro religione si sta progressivamente trasformando in un fenomeno penoso, miserevole. Però è altrettanto consapevole dell´eccezionalità dell´evento: questi potrebbero davvero essere gli "ultimi pagani" del mondo. Gli eredi inconsapevoli dei culti «professati dai nostri lontanissimi cugini dei tempi vedici in India». Forse i pronipoti dei nostri stessi antenati italici.
Fosco però non si accontenta di assaporare questo inatteso regalo del destino. Ama pensare e per pensare bisogna connettere fenomeni in apparenza distanti tra loro. Da sempre la religione, per lui, è un autentico cruccio: rappresenta un intimo bisogno dell´uomo, eppure è come se all´individuo contemporaneo fossero stati tagliati i ponti con «il Grande Mistero che tutti ci avvolge». A causa del conflitto insanabile tra la pretesa di una verità rivelata e la razionalità critico-scientifica propria della modernità. È inevitabile. Le tre grandi religioni monoteistiche (artefici della "Rivelazione Puntuale") si dichiarano ciascuna in possesso dell´unica verità, che si è manifestata in un preciso momento storico, in un preciso spazio geografico e che dunque concerne soltanto alcuni precisi individui, lasciando tutti gli altri "al buio della fede". Da qui inspiegabili privilegi, attriti, diffidenze reciproche, montanti fondamentalismi. Se al contrario cominciassimo a pensare che le vere, Sacre scritture «sono il cielo, la terra, il cuore dell´uomo», scopriremmo l´universalità del sentimento religioso. Un sentimento che coinvolge tutti in eguale maniera: «dal più umile nativo dell´isola più remota, ai massimi luminari del sapere, nei centri più prestigiosi delle civiltà più avanzate». Ecco cosa ci insegna la Rivelazione Perenne, di cui si può trovare traccia tanto nel paganesimo residuale degli ultimi Kafiri, quanto nell´avanzatissimo Shinto giapponese. L´intero universo è pervaso dalla divinità, la rivelazione non è patrimonio esclusivo di nessun Libro. Ce l´hai sempre lì, a portata di mano. Tutto è sacro: la poesia, la natura, la scienza. Su questo riflette Maraini di fronte alle moribonde divinità kafire, a quei «sottodei, dei da strapazzo, dei fatti a mano», incrostati del sangue delle capre sacrificate e dell´odore di ginepro. D´ora in avanti, ogni qualvolta si troverà sui colli Albani, sa che non potrà non provare una stretta al cuore attraversando il bosco sacro di Diana Nemorensis. Lo sa perché il filo sotterraneo dell´antico paganesimo, malgrado tutto, non si è mai definitivamente interrotto. E difatti si ripresenta, sotto forma di «un politeismo polverizzato, nebulizzato in miriadi di segrete presenze», nello stesso Shinto giapponese, da lui tanto amato: «l´immersione totale dell´uomo nella natura, così caratteristica dello Shinto, non porta con sé un abbassamento dello spirito al materialismo, quanto il suo contrario. Non è lo spirito che cala nelle cose e vi perisce, sono piuttosto le cose che si animano e si illuminano di spirito». Questa è la "religione naturale" vagheggiata dal laico Maraini, in cui può riconoscersi qualunque individuo che non intenda rinunciare a interrogarsi sul mistero insondabile dell´esistenza: al di là di dogmi, chiese e verità rivelate.
Corriere della Sera 25.3.12
Fu il leader di «Potere Operaio»
Franco Piperno attore: prete in una commedia
di Carlo Macrì
COSENZA — Franco Piperno indossa la tonaca. Per esigenze di copione. E, soprattutto, «in omaggio ai giovani». L'ex fondatore di Potere operaio, il teorico di Autonomia, l'anima della rivista Metropoli, ha accettato la proposta del suo amico regista Max Mazzotta e si è improvvisato prete nel film Fiabeschi torna a casa. In questa pellicola, che è una sorta di remake del film Paz, Piperno, oggi professore di Fisica all'Università della Calabria, interpreta la figura di un sacerdote, con garbo e con «l'attenzione e il rispetto che si deve a chi testimonia la cristianità».
«Quando mi è stato proposto questo ruolo ho resistito all'idea. Mi sembrava un folclore eccessivo. Poi ho pensato che il ruolo del prete mi è mancato nella mia vita e ho accettato credendo che questo fosse veramente il mio destino mancato da giovane. D'altronde in giovinezza ho frequentato Bertolucci e uomini di teatro, ma nessuno mi ha proposto di fare un film». Piperno in Fiabeschi torna a casa è don Mario. Celebra messa e sposa il figlio del sindaco. Senza imbarazzo, l'ex amico di Renato Curcio si cala nei panni del reverendo con la saggezza e l'austerità d'un tempo. Ma con un unico rammarico: «Non aver potuto ascoltare i peccati della sposa in confessionale...».
Ma perché proprio a Piperno il ruolo di prete? Lui arrestato, coinvolto in varie indagini negli Anni di piombo, accusato anche di aver preso parte al delitto Moro, latitante in Francia, poi scagionato. «Ho cercato un opposto, ho voluto fare il gioco dei contrari in una commedia che sa di satira e di grottesco», ha spiegato Mazzotta, che dieci anni fa in Paz interpretò il ruolo di Enrico Fiabeschi nel film ispirato dai fumetti di Andrea Pazienza (morto nel 1988) e ambientato nella Bologna degli anni 70.
In Fiabeschi torna a casa Mazzotta è passato dall'altra parte della macchina da presa e ha sceneggiato un film su un giovane che va in Calabria, dopo essere stato lasciato dalla ragazza. E qui si sposa. Dopo le nozze, il ballo. Anche qui ecco un inedito Franco Piperno: l'ex provocatore culturale che si diverte a saltellare con i giovani, dando vita a un vero girotondo. «Vero, e non ingenuo come quelli dei morettiani...».
Tra gli attori anche Lunetta Savino e Ninetto Davoli. Per girare gli interni, Mazzotta ha scelto la villa di Eva Catizone, l'ex sindaco di Cosenza. Il film ha ricevuto il finanziamento dal ministero per i Beni culturali per la sceneggiatura come opera prima.
Corriere della Sera 25.3.12
Girolamo Cardano, un «Dr. House» del 1500
di Armando Torno
Medico, matematico, filosofo. Ma anche astrologo e alchimista, comunque poligrafo di notevole valore. Non è facile tentare un profilo di Gerolamo Cardano (1501-1576), figlio illegittimo del giureconsulto Fazio e di Chiara Macheria, laureatosi in medicina a Padova nel 1526. Se ne parla sempre più sovente perché sono in corso nuove edizioni delle sue opere: fatica non facile dal momento che dopo quella di Lione del 1663, in dieci poderosi volumi in-folio, nessuno è riuscito a ripetere l'impresa. Ma chi era Gerolamo Cardano? Soltanto professore di medicina a Pavia e a Bologna? Sappiamo, per esempio, che nel 1529 tentò un rientro a Milano, ma il collegio dei medici non lo accolse a causa dei suoi natali (c'era una norma nello statuto che discriminava gli illegittimi) e che poco dopo riuscì a curare la propria impotenza sessuale, tanto da prendere moglie. Respinto dai colleghi meneghini anche nel 1532 (riuscirà soltanto nel 1539), si sistemò a Gallarate per esercitare la sua professione. Ma se un paio d'anni più tardi non fosse intervenuto il senatore Filippo Archinto per ottenergli un insegnamento di matematica nelle scuole Palatine del capoluogo lombardo, la situazione economica in cui versava forse sarebbe anche peggiorata. E il ritorno a Milano gli permise di farsi conoscere come medico. Innanzitutto nel capitolo di Sant'Ambrogio, dove la retribuzione non era alta; poi presso la potente famiglia Borromeo. E qui non mancavano né quattrini né protezione. Certo, protezione.
Cardano era di natura un attaccabrighe e non si accontentava di pubblicare le sue tesi ma sovente attaccava i libri dei colleghi, mettendo in evidenza gli errori di pratica medica. Nel 1536 giunse l'offerta di una cattedra di medicina a Pavia (rifiutata perché non era previsto un compenso) e l'incarico lo ricoprirà soltanto nel 1543; inoltre non accettò di passare al servizio del papa, allora Paolo III. Declinò anche l'offerta giunta dal luogotenente del re di Francia, Charles de Cossé. Ormai la sua fama si era diffusa in ogni angolo d'Europa. Il carattere rimaneva sempre il medesimo: si registra un rifiuto anche al re di Danimarca, comunque nel 1552 si reca in Scozia per curare l'arcivescovo di Edimburgo, John Hamilton, colpito dall'asma. Il suo consenso si capisce se si ricorda che l'alto prelato mette a disposizione una borsa di 1.700 scudi francesi. Se si volesse giocare con l'elenco dei suoi rifiuti, può vantarne ben altri, tra i quali figurano quello fatto al re di Francia e il successivo alla regina di Scozia.
Giorgio Cosmacini nella Storia della medicina e della sanità in Italia (Laterza 1987) ricorda che Cardano, al pari di Della Porta, avrebbe «ibridato l'arte medica con i pitagorismi della ragion matematica». E di lui resta un buffo ritratto lasciatoci da Anton Francesco Grazzini detto il Lasca: «... attendeva all'astrologia, alla fisionomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto alle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto vedere né fare cosa che trapassasse l'ordine della natura». Che dire? Anche Salvatore De Renzi nella sua Storia della medicina in Italia (stiamo citando dal terzo volume, uscito a Napoli nel 1845) si scaglia contro le passioni irrazionali del celebre personaggio, ma gli rende onore per alcuni sui libri, come l'opera De sanitate tuenda et vita producenda, «nella quale parla de' cibi, de' legumi, delle frutta: e tratta per scopo igienico de' condimenti, degli aromi e delle bevande». E ancora ricorda i Libri tres de venenis, un'altra sua pubblicazione «nella quale pretese di esporre l'essenza de' veleni, le loro classi, i segni per riconoscerli e la cura». Anche se «in ciò è piuttosto compilatore che originale». Comunque il De Renzi gli rende onore. Ecco un altro passo della sua monumentale storia in cui mette in luce i meriti del medico e filosofo: «Gerolamo Cardano in mezzo alla inconseguenza del suo carattere sparge tuttavia nelle sue opere non solo i semi di una buona dottrina, ma anche quelli di una corretta osservazione pratica. Egli attacca alcuni principi Galenici, che la vastità della sua mente riconosceva fallaci... Egli vedeva per esempio l'orina sedimentosa all'apparire del morbo, e condannava coloro che ciecamente e sempre credevano alla teorica della concozione».
Taluni sostengono che fu tra i primi a descrivere la febbre tifoide, altri non sono d'accordo. Di certo venne accusato di eresia per aver pubblicato un Oroscopo di Cristo; poi, perdonato, finì i suoi giorni con una pensione di papa Gregorio XIII. Goethe trarrà ispirazione dalla sua Autobiografia e Shakespeare dovette vedere in lui un personaggio ideale per il teatro. Ingaggiò polemiche notevoli per la soluzione delle equazioni di terzo grado. Di sicuro fu tra i primi a vedere in Nerone un buon principe e un raffinato esteta.
Corriere della Sera Salute 25.3.12
Nuove ricerche per stabilire le applicazioni
La meditazione «spegne» i pensieri nocivi
Lo dimostra la risonanza magnetica
di Danilo di Diodoro
Alcune pratiche di meditazione riescono a spegnere l'attività di un'area cerebrale responsabile dell'insorgere nella mente di ansietà e preoccupazioni sul futuro e dell'incapacità di concentrarsi semplicemente sul presente. Lo indica una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences da parte di un gruppo di studiosi americani guidati dal professor Judson Brewer, del Department of Psychiatry della Yale University School of Medicine di New Haven.
L'area cerebrale in questione è indicata da una sigla, Dmn, che sta per Default Mode Network. In pratica si tratta di una sorta di motore interno automatico di pensieri che genera quel continuo emergere nella mente di idee, ricordi, immagini, timori: insomma, tutto quello che spontaneamente affiora alla coscienza e che può andare a interferire con ciò che si starebbe facendo in quel momento.
Questa attività è presente in circa la metà del tempo della veglia e può far affiorare spesso pensieri sgradevoli, sia provenienti dal passato sia proiettati nel futuro, e può contribuire a creare stati d'ansia e di depressione. La ricerca ha dimostrato, tramite l'utilizzo della risonanza magnetica funzionale del cervello, che persone esperte in alcune tecniche di meditazione riescono a smorzare l'attività delle aree cerebrali che fanno parte del Dmn, come la corteccia cingolata e la corteccia prefrontale mediale. Non solo: rispetto a persone non esperte in queste tecniche, gli esperti hanno un'attività del Dmn decisamente ridotta anche al di fuori dei periodi di meditazione, come se l'allenamento trasferisse i suoi effetti al di là dei soli momenti di esercizio.
Lo studio ha preso in esame tre diverse tecniche di meditazione, rispettivamente chiamate «Concentrazione», «Amare-gentilezza», «Consapevolezza senza scelta». La prima è una tecnica nella quale il soggetto si concentra sul respiro e, quando arrivano pensieri, si distoglie da essi gentilmente ma in maniera ferma; la seconda è una tecnica in cui il soggetto pensa attivamente a un momento in cui ha desiderato il bene di qualcuno e lo utilizza come modello per desiderare il bene degli altri; la terza è una tecnica in cui il soggetto presta attenzione a tutto quello che arriva momento per momento alla coscienza, senza tentare di modificarlo o di allontanarsene, finché non giunge spontaneamente un altro pensiero. I soggetti studiati sono stati dodici esperti in tali tecniche, confrontati per mezzo della risonanza magnetica funzionale con tredici volontari che non avevano alcuna esperienza di meditazione. Secondo il professor Brewer, oltre a gettare un'interessante luce sui meccanismi neurobiologici di alcune tecniche di meditazione, i risultati di questo studio aprirebbero possibili scenari nell'utilizzo della meditazione come trattamento per alcuni disturbi psichici nei quali sembra essere coinvolto il Dmn. Ad esempio, il cosiddetto disturbo da deficit di attenzione, per il quale già esistono alcune sperimentazioni che indicano come tecniche di meditazione potrebbero ridurre lo stato di disattenzione.
l’Unità Lettere 25.3.12
La libertà e l’obiezione di coscienza
di Paolo Izzo
Una mozione tetra-partisan (Pdl, Pd, Udc e Lega) si aggira in Parlamento. Dice che si deve «tutelare l’obiezione di coscienza non solo di coloro che sono impegnati a vario titolo nelle strutture ospedaliere, ma anche quella dei farmacisti. Il diritto all’obiezione di coscienza non può essere in nessun modo ‘bilanciato’ con altri inesistenti diritti e rappresenta il simbolo, oltre che il diritto umano, della libertà nei confronti degli Stati e delle decisioni ingiuste». Ecco che arrivano dunque i paladini di quei poveri obiettori indifesi che, impegnati nelle strutture ospedaliere, sono quotidianamente vessati da donne aggressive e senza scrupoli. Quelle megere, titolari di "inesistenti diritti", non sembrano aver altro da fare che attaccare quel simbolo, anzi quel diritto umano che si chiama “obiezione di coscienza”! E che presto sarà un diritto universale e sovrano: a disposizione degli avvocati che non vogliono difendere le donne vittime di violenza o di stupro, dei tassisti che non vogliono portarle in tribunale o in ospedale, degli uscieri che vogliono impedire la loro accettazione nei servizi pubblici, degli infermieri che non le vogliono assistere. Continuate a piacimento la lista degli obiettori possibili, perché il diritto alla obiezione sarà totale e ramificato. E nessuno pensi che possa mai, in alcun modo, essere bilanciato con gli "inesistenti diritti" delle donne.