sabato 24 marzo 2012

l’Unità 24.3.12
Fiat di Melfi: «Licenziati perché sindacalisti»
Rese pubbliche le motivazioni della sentenza che condanna l’azienda. Intanto nelle fabbriche crescono le mobilitazioni contro le modifiche all’art. 18. In molti casi hanno carattere unitario
nelle edicole

l’Unità 24.3.12
Il segretario Pd agli operai di Fincantieri: «Quando si arriva al dunque, stiamo coi lavoratori»
Il premier lo cerca al telefono prima del Consiglio dei ministri, ma lui preferisce non rispondere
Bersani: «Sul lavoro si cambia in Parlamento o tanto vale chiuderlo»
Il presidente del Consiglio lo cerca al telefono ma Bersani non risponde. Gli ha già spiegato che per il Pd la soluzione trovata sull’articolo 18 è inaccettabile. E anche i primi sondaggi sembrano dargli ragione.
di Simone Collini

Il telefonino squilla ma Pier Luigi Bersani non risponde. Continua invece a seguire gli interventi di sindaci e presidenti di Provincia del Pd riuniti a Genova in vista delle prossime amministrative, anche se sa che a Roma sta per cominciare il Consiglio dei ministri che deve varare la riforma sul lavoro. Passa ancora qualche minuto e il leader del Pd viene avvicinato da un membro del suo staff: «Ti sta cercando Monti». Uguale, niente.
Al presidente del Consiglio Bersani ha già spiegato in diversi colloqui che per il Pd è inaccettabile la sola «monetizzazione» per i licenziamenti per motivi economici, che se il testo uscirà da Palazzo Chigi come annunciato alle parti sociali, in Parlamento il suo partito presenterà un emendamento che garantisca il reintegro per chi è stato licenziato senza giusta causa, che ben più importante dell’intenzione di lanciare un messaggio ai mercati è l’esigenza di tener conto del disagio tra i ceti popolari, che bisogna fare attenzione a non introdurre elementi di «destabilizzazione» e che proprio perché siamo in una fase di recessione bisogna salvaguardare la coesione sociale. Tutto questo Bersani a Monti lo ha già detto.
CON I LAVORATORI
Fuori dal padiglione fieristico di piazzale Kennedy si forma un gruppetto di operai della Fincantieri e delle riparazioni navali. Vedono il simbolo del Pd all’entrata, chiedono di incontrare Bersani. Che questa volta si alza dalla sedia, abbandona i lavori ed esce all’aperto. Il copione è quello già visto, con le richieste di «staccare la spina» al governo e le minacce di non votare più Pd se venisse avallata l’operazione sui licenziamenti. «State tranquilli che quando si arriva al dunque, noi stiamo con i lavoratori, e ci siamo capiti».
E l’articolo 18?, urla uno. «Sono sicuro che si vorrà ragionare su questo, sennò chiudiamolo il Parlamento... non so se poi i mercati si tranquillizzano... comunque il Parlamento c’è e noi discuteremo».
E Napolitano che dice non ci sarà «una valanga di licenziamenti facili»? «Voglio ben credere che non ci sia, e credo che il Presidente Napolitano abbia detto una cosa saggia. Tuttavia, bisogna che noi le norme le sorvegliamo. Se si va verso il modello tedesco va bene, se entriamo in un film all’americana no. Stiamo in Europa e non intendo spostarmi da qui». Prima di salutarli e rientrare, li rassicura: «Noi teniamo botta».
«CON GLI ITALIANI»
Intanto a Roma è cominciato il Consiglio dei ministri. Dopo oltre cinque ore di riunione a Palazzo Chigi il testo sulla riforma del lavoro esce sotto forma di disegno di legge e non di decreto, e questo viene giudicato da Bersani un dato positivo («ora si può discutere»), quanto a suo giudizio, checché ne dica il Pdl, scontato («la materia è delicata e ci sono norme che scattano dal 2017, sono difficili da trovare i requisiti di emergenza»). Ma esce anche con la norma sui licenziamenti per motivi economici, che prevede per il datore di lavoro la sola condanna al pagamento di un’indennità, senza possibilità di reintegro. È quello che Bersani non voleva, è quello che sapeva Monti avrebbe fatto. Però va sul palco, ripete che sarebbe «una curiosa soluzione chiudere il Parlamento per rassicurare i mercati» («il governo rifletterà, nessun decreto è uscito dalle Camere uguale a come era entrato») e chiude l’assemblea degli amministratori locali del Pd dicendosi tranquillo: «Leggo sui giornali di un Bersani isolato, desolato, tribolato. No, sono tranquillissimo perché sono con gli italiani, noi siamo con gli italiani». Una frase di quelle che strappano l’applauso (e infatti) ma anche una frase dettata dall’osservazione dei sondaggi che circolano in questi giorni, dalla consapevolezza che anche tra l’elettorato degli altri partiti le modifiche all’articolo 18 vengono guardate con preoccupazione. «Non vogliamo farne una questione di bandierine del Pd, dico a tutte le forze politiche che riguarda anche loro, riguarda anche le persone che rappresentano loro. Non può esistere a nessun titolo, neanche per i licenziamenti economici, una soluzione unicamente di monetizzazione».
Agli altri dice però anche che il Pd è «un partito di governo» («non siamo agit prop né facciamo le cose in nome di un sindacato») e che se qualche «finto amico o avversario un po’ nascosto» punta ad «azzoppare chi tiene unito il Paese» deve fare attenzione a «giocare col fuoco», a «inventarsi un’altra eccezionalità italiana», perché in questa situazione «può venire fuori qualcosa che assomiglia più al populismo che alla tecnocrazia». Più esplicito e diretto il messaggio a Pdl e Lega: «Se l’Italia è finita sul ciglio del baratro è per colpa di chi diceva che i conti erano a posto e i ristoranti pieni. E ora non consentiremo di accorciare la memoria. Se c’è qualcosa da criticare a Monti noi possiamo farlo. Pdl e Lega no».

Corriere della Sera 24.3.12
Il Pd tra liberali e socialdemocratici
Ora le due anime rischiano il divorzio
di Paolo Franchi

Una volta, a sinistra, dare a qualcuno del socialdemocratico significava incollargli addosso i panni, se non più del socialtraditore, quanto meno dell'opportunista di destra che si contenta di navigare a vista nel mare della società così com'è, proponendosi solo di migliorarla un po'. Adesso è cambiato tutto. Socialdemocratico (ma il discorso vale anche per laburista) resta sì una parolaccia, ma in senso esattamente opposto. Sembra essere diventato cioè sinonimo di massimalista e, insieme, di difensore arcigno (Enrico Berlinguer avrebbe detto: «inciprignito») delle ideologie e dei simboli di un movimento operaio. Roba di quel Novecento che, a Dio piacendo, ci siamo lasciati alle spalle. Che non esiste più da un pezzo.
La cosa può apparire anche curiosa, visto che in molti casi quelli che ieri se la prendevano con la socialdemocrazia «da sinistra» sono gli stessi che oggi fieramente la avversano per così dire «da destra», anche se sempre contestandone una (presunta) insostenibile vecchiezza. Ma bisogna prenderne atto. C'è da segnare, si dice, uno spartiacque. Di qua i riformisti, democratici o meglio ancora liberali, di là i socialdemocratici e i laburisti. La storia, una storia lasciata largamente irrisolta anche dalla nascita del Pd, è relativamente lunga. Volendo rintracciarne le origini, toccherebbe andare addirittura ai tempi della travagliata svolta grazie alla quale, più di vent'anni fa, il Pci si transustanziò in Pds (aspiranti democratici più o meno «all'americana» contro aspiranti socialisti «di stampo europeo», o più prosaicamente Walter Veltroni versus Massimo D'Alema); e forse a prima ancora, ai tempi della guerra tanto feroce quanto contraddittoria nei suoi contenuti che dilaniò la sinistra italiana negli anni Ottanta.
Ma è in questi giorni, nel fuoco delle polemiche sull'articolo 18 e sulla riforma del mercato del lavoro approntata dal governo Monti, che questa divisione tanto antica quanto improduttiva ha ritrovato un'attualità così bruciante da mettere in forse le sorti stesse del Pd, con tutto quello che ne consegue. Ed è sempre in questi giorni che si sono moltiplicati a dismisura gli appelli (non troppo dissimili, in certi casi, da intimidazioni) al povero, sballottato Partito democratico, perché si risolva una volta per tutte a decidere in quale delle due direzioni intende procedere. Mettendo in conto, se occorre, anche una separazione più o meno consensuale.
Basterebbe allontanarsi di qualche metro appena dalla cronaca delle polemiche, delle (quasi) rotture e dei (quasi) compromessi di cui la cronaca politica ci tiene quotidianamente informati per avvicinarci alla sostanza del problema. Di mezzo non ci sono solo i temi, ovviamente cruciali, del rapporto con il governo Monti e, per converso, del rapporto con la Cgil, con tutto quello che ne consegue non solo, in termini di consenso, per il Pd, ma anche e soprattutto per il Paese. Di mezzo c'è la questione del rapporto con il lavoro (ma sarebbe meglio dire: con i lavori) e con i lavoratori, e del ruolo che si vuole assegnare loro. Un nodo decisivo sempre, e sotto ogni cielo, per un partito di sinistra o di centrosinistra; ma qui, in Italia, e ora, nel pieno di una crisi dagli esiti oscuri, quando lavoro ce n'è sempre meno, e il lavoro sempre meno rischia di contare, un problema pesante come una montagna, e comunque quasi per definizione non delegabile nemmeno al più europeo, autorevole, illuminato ed efficiente governo di tecnici e di esperti. A questo in ultima analisi si riferiva, credo, Pier Luigi Bersani, un socialdemocratico alla guida di un partito che socialdemocratico non è, quando ha reso noto a Mario Monti che il Pd non può accettare, tanto meno in una simile materia, la logica del prendere o lasciare. A questo in ultima analisi si riferivano, immagino, anche i suoi critici democrat, liberal o riformisti, fate voi, che con questo governo e la sua filosofia si identificano con sofferenze infinitamente minori di quelle del loro segretario. E su questo, anche per dare un senso all'eterna querelle da cui abbiamo preso le mosse, sarebbe bene, finalmente, discutere; e magari litigare apertamente e appassionatamente, anche per stabilire se le ragioni dello stare insieme ci sono o no, cominciando con il chiarire, senza girarci intorno, se in Europa il Pd deve riporre le proprie speranze in Hollande e in Gabriel, come fa Bersani, su loro avversari ipotetici, tipo Bayrou, come fanno i suoi critici, o sui loro avversari in carne e ossa, come non ha il coraggio di dire nessuno. Certo, proprio come per la riforma del mercato del lavoro, per un simile confronto il momento è il meno indicato. Ma in politica, come nella vita, quale sia il momento delle grandi decisioni non lo decidiamo noi.

l’Unità 24.3.12
La sfida del prof. Monti al Pd
Rifiutando un accordo praticamente già fatto sul mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha lanciato una sfida politica che riguarda la risposta che vogliamo dare alla crisi italiana
di Alfredo Reichlin
nelle edicole

l’Unità 24.3.12
Il Papa vola in Messico e poi all’Avana: in primo piano i diritti umani e la pace
Ancora non è chiaro se Ratzinger incontrerà le vittime degli abusi sessuali di Maciel Muriel
Benedetto XVI verso Cuba «Il marxismo è finito trovare nuovi modelli»
di Roberto Monteforte
nelle edicole

Corriere della Sera 24.3.12
Benedetto XVI «Marxismo fuori dalla realtà»
Il Papa in viaggio verso Cuba: «Pronti al dialogo»
«La Chiesa è un potere morale, educhi le coscienze»
di Gian Guido Vecchi
qui
http://www.corriere.it/esteri/12_marzo_24/vecchi-intervista-benedetto-xvi-messico-cuba_c4d9d79a-7578-11e1-88c1-0f83f37f268b.shtml

il Fatto 24.3.12
La Chiesa, Martini e le coppie gay
di Marco Politi

Nell’arco di neanche un mese tre colpi di maglio sono calati sulla pretesa della Chiesa di bloccare in Italia una legge sulle coppie di fatto. Prima c’è stato il clamoroso funerale di Lucio Dalla a Bologna: celebrato in cattedrale con tutti i crismi, permettendo al compagno omosessuale del defunto omosessuale di commemorarlo a pochi passi dall’altare.
Poi, il 15 marzo, è venuta la sentenza della Corte di Cassazione, che pur respingendo la trascrizione in Italia di un matrimonio omosessuale celebrato all’estero, ha sancito per la coppia gay, in presenza di specifiche situazioni, il diritto a un “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.
ORA SI FA sentire direttamente dall’interno della Chiesa il cardinale Martini, affermando che non ha senso demonizzare le coppie omosex e impedire loro di stringere un patto. Con la pacatezza che lo contraddistingue l’ex arcivescovo di Milano sfida, dunque, quella “dottrina Ratzinger” che consisterebbe nell’obbligo dei politici cattolici di uniformarsi ai “principi non negoziabili” proclamati dalla cattedra vaticana, impedendo il varo di una legislazione sulle unioni civili e meno che mai sulle unioni gay. Da molti anni Carlo Maria Martini esercita la sua notevole libertà di giudizio, esortando con mitezza la Chiesa a non scambiare il nocciolo della fede con la fossilizzazione di posizioni non sostenibili per il sentire contemporaneo. Vale anche per la posizione da adottare nei confronti dei rapporti omosessuali, dove l’istituzione ecclesiastica è ferma da anni in mezzo al guado. Perché quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger aveva emanato documenti per esortare al rispetto delle persone omosessuali e ripudiare ogni tipo di discriminazione, irrisione e persecuzione. Ma al tempo stesso aveva ribadito che la pratica omosessuale rappresenta una grave offesa all’ordine morale: di qui la condanna senza appello delle relazioni uomo-uomo oppure donna-donna. Con la conseguenza di sabotare in Italia i tentativi dell’ultimo governo Prodi di approvare una legge sulle coppie di fatto.
Nel libro Credere e conoscere (ed. Einaudi), dove dialoga con il chirurgo cattolico Ignazio Marino esponente del Pd, il cardinale Martini afferma invece che vi sono casi in cui “la buona fede, le esperienze vissute, le abitudini contratte, l’inconscio e probabilmente anche una certa inclinazione nativa possono spingere a scegliere per sé un tipo di vita con un partner dello stesso sesso”.
Nel mondo attuale, sostiene il porporato, questo comportamento non può venire “né demonizzato né ostracizzato”. E perciò Martini si dichiara “pronto ad ammettere il valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso”.
L’EX ARCIVESCOVO di Milano, peraltro, sottolinea il significato profondo del fatto che Dio ha creato l’uomo e la donna e quindi il valore primario del matrimonio eterosessuale e aggiunge anche di non ritenere un “modello” l’unione di coppia dello stesso sesso. E tuttavia, attento ai bisogni delle persone nella loro umanità, il cardinale afferma che se due partner dello stesso sesso “ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia?”. Le motivazioni del matrimonio tradizionale, spiega, sono talmente forti che non hanno bisogno di essere puntellate con mezzi straordinari.
D’altronde molti nella Chiesa, vescovi e parroci, la pensano come lui. Anche se non parlano. Nel 2008 la rivista dei gesuiti milanesi Aggiornamenti sociali pubblicò uno studio per dire che – ferma restando la dottrina – dal punto di vista del bene sociale era positivo dare la possibilità alle coppie gay di avere una relazione stabile regolamentata dal diritto. E quindi era giusto legiferare in materia.
I VERTICI ecclesiastici, sulla questione, chiudono occhi e orecchie. Eppure è un segnale che alla televisione, intervenendo a Otto e mezzo, il leader cattolico Pier Ferdinando Casini si sia detto pubblicamente d’accordo con la sentenza della Cassazione, rimarcando che le “coppie omosessuali hanno diritto alla loro affettività e a essere tutelati nei loro diritti”. Casini ha fatto un esempio concreto: “Se convivo da trent’anni con una persona, in tema di asse ereditario bisogna essere sensibile a quella persona che ha convissuto con me”. È uno dei motivi per cui una legge è necessaria. Ed è bene che in parlamento si torni a parlare di alcune proposte di legge sin qui congelate.

Corriere della Sera 24.3.12
Se il vendolismo si limita agli applausi degli artisti
di Alessandro Leogrande

La primavera pugliese sta vivendo un processo involutivo che rischia di comprometterne frutti e radici. Non si tratta degli scandali degli ultimi mesi, ma dello scollamento tra la politica di Nichi Vendola, divenuta più astratta in un'ottica nazionale, e la società civile, il territorio, il ceto intellettuale che tanta fiducia ha riposto in lui e ora può sentirsi spiazzato, come ha colto Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera di ieri.
Qual era il maggior pregio della primavera pugliese? Aver sperimentato una rottura in una regione che era uno dei principali laboratori del berlusconismo meridionale. Come? Con un mix di buona amministrazione, effervescenza culturale, partecipazione allargata, efficace lavoro di alcuni tecnici. Una sorta di radical-riformismo amministrativo che ha dato il suo meglio, ad esempio, nell'affrontare i problemi di salute, povertà e immigrazione. Questo è stato oscurato dal «ciclone Tarantini», e dagli scandali recenti. Ma va difeso, non bruciato in una fuga in avanti nella politica nazionale.
Durante le primarie, nel 2010, il documento di sostegno a Vendola firmato a sinistra da tanti intellettuali e rappresentanti della società civile pugliese, da Franco Cassano a Mario Desiati, e nazionale, raggiunse in pochi giorni 10 mila firme. Ma ora Vendola intende lasciare la Puglia prima della scadenza del secondo mandato per correre alle politiche. Più che una svolta lideristica, già criticata da Cassano, c'è un errore «veltroniano», non nuovo a sinistra. Buttarsi nell'agone nazionale forte di un'esperienza locale che, però, rischia di venire lasciata a metà e senza eredità. Sarebbe un doppio fallimento: nazionale e locale.
Che fare? Se la legge elettorale pugliese fosse come quella lombarda, chiederei a Vendola di candidarsi per un terzo mandato e mettere da parte i giochi nazionali. Ma la legge pugliese non lo permette. E allora deve concludere il suo mandato. A maggior ragione, ora che lo scandalo «cozze pelose» ha azzoppato la candidatura di Emiliano alla Regione e aperto oggettivamente un enorme caos che il Pd non può ricomporre.
La domanda per Vendola, allora, oggi è questa: non abbiamo bisogno di rinnovare quell'intreccio locale tra buona amministrazione, intellettuali e tecnici, per riqualificare la politica? Non è meglio continuare su questa strada anziché criticare solo sul piano verbale il governo dei tecnici?
Pur non facendo parte della squadra di Vendola, e non avendo incarichi, ho potuto osservare da vicino la macchina regionale, soprattutto negli assessorati Welfare, Salute, Mediterraneo, e nell'impegno verso i non-garantiti. Da compagno di strada, ma con uno sguardo da fuori. C'è tanto lavoro anonimo che oggettivamente ha prodotto una rottura e oggi va «protetto». Uso convintamente questa parola. Se il vendolismo si slega da tutto ciò, rischia di rimanere solo narrazione che fluttua nell'aria. E può piacere ad artisti, registi e intellettuali mediaticamente più in vista, da Serena Dandini ad Antonio Scurati, che ne hanno sostenuto le ragioni, ma di certo non basta alla Puglia. E al centrosinistra.
*Scrittore, è autore di «Uomini e caporali» (Mondadori)

l’Unità 24.3.12
Intervista a Nichi Vendola
«Se la legge non cambia il Pd la deve bocciare»
Parla il leader di Sel «La sinistra non può non rigettare un’idea di modernità che presuppone la riduzione delle persone al rango di merci»
nelle edicole

l’Unità 24.3.12
Usa Manifestazioni in varie città per il caso del giovane freddato in Florida
Il presidente chiede un’inchiesta approfondita e punta il dito sui pregiudizi
Obama e il ragazzo nero ucciso «Trayvon? Come fosse mio figlio»
di Martino Mazzonis
nelle edicole

il Fatto 24.3.12
La segregazione nella mente
Il caso Martin è l’ennesimo episodio del razzismo latente contro gli afroamericani
di Gary Younge

La Seconda guerra mondiale contribuì a civilizzare Buford Posey, un bianco cresciuto nel profondo sud durante la Depressione. “Da giovane nel Mississippi non ho mai saputo che fosse contro la legge uccidere un nero”, dice. “L’ho saputo quando mi sono arruolato. Avevo 17 anni. Quando me lo dissero pensai che stessero scherzando”. A 70 anni di distanza è chiaro che il messaggio negli Usa non è ancora arrivato a tutti e che il fiume carsico del razzismo continua a scorrere inesorabilmente. Il mese scorso a Sanford, Florida, un vigilante ha sparato a un adolescente nero disarmato che stava tornando a casa a piedi. Il vigilante, George Zimmerman, 28enne ispanico, aveva chiamato la centrale di polizia perché Trayvon Martin, 17 anni, gli era sembrato “sospetto”, poi, evitando di seguire i consigli, lo aveva seguito.
TRA I DUE era scoppiata una lite. Martin era morto. Zimmerman, che sanguinava dal naso e dalla testa, aveva dichiarato di aver sparato per legittima difesa e non è stato né incriminato né arrestato. Una legge speciale della Florida consente l’uso di armi letali per autodifesa personale sempre che si sia “ragionevolmente convinti” che sia in pericolo la propria vita o quella di altri o che sia il solo modo per impedire che venga commesso un reato. Zimmerman pesa quasi 120 chili e aveva una pistola da 9mm. Martin pesava meno di 70 chili e aveva in mano un pacchetto di stuzzichini e una lattina di the freddo. Per un giovane nero, apparentemente, è più che sufficiente per essere ammazzati. Sulle intenzioni di Zimmerman possiamo solo avanzare delle ipotesi. Bisogna evitare il rischio di santificare Martin e demonizzare Zimmerman allo scopo di dare un senso morale a questa vicenda. Possiamo anche criticare l’atteggiamento di Zimmerman, ma non si può negare che nelle sue circostanze potesse sembrare logico pensare che Martin rappresentasse un potenziale pericolo.
In America i neri sono il gruppo etnico che più di ogni altro viene fermato, perquisito, arrestato, condannato e giustiziato. Le cifre parlano da sole: un nero su 10 è dietro le sbarre e i neri in prigione o in libertà condizionale assommano a un totale superiore al numero degli schiavi nel 1850. Presumere che dietro ogni nero si nasconda quasi sempre un criminale è la conseguenza di un sistematico processo di criminalizzazione ai danni dei neri. Questa non è una giustificazione, ma spiega molte cose.
Se a ciò aggiungiamo una legge molto permissiva in materia di possesso delle armi da fuoco, la segregazione strisciante, le profonde disuguaglianze economiche e una legge speciale che in Florida incoraggia la proliferazione degli “sceriffi”, un omicidio del genere diventa inevitabile. In realtà il caso di Martin si segnala non tanto per ciò che è avvenuto, quanto per il fatto di aver suscitato una diffusa indignazione non solo nella città in cui il ragazzo è morto. È tutt’altro che insolito che un giovane nero lasci questa terra sotto una pioggia di proiettili seguita da un silenzio assordante.
In America ogni giorno muoiono per colpi d’arma da fuoco 8 ragazzi al di sotto dei 19 anni di età. Mentre stavo effettuando una ricerca sui ragazzi morti in un certo giorno di novembre del 2006, mi imbattei nella storia di Brandon Moore. Brandon aveva 16 anni quando fu colpito da un proiettile alla schiena da un poliziotto fuori servizio che, a tempo perso, faceva il vigilante a Detroit. Lo “sceriffo” aveva già fatto secco un uomo nel corso di un tafferuglio, sparato alla moglie (che per fortuna non era morta) nel corso di una lite domestica e aveva provocato un incidente automobilistico mortale guidando in stato di ubriachezza. Sui due principali quotidiani della città la morte di Brandon era stata liquidata con meno di 200 parole. Il caso fu archiviato come legittima difesa. Un anno dopo il vigilante faceva ancora parte della polizia.
“Noi neri contiamo meno di zero”, dice Clementina Chery che dirige il Louise D. Brown Peace Institute con sede a Boston che si occupa di prestare assistenza ai familiari subito dopo la morte di un congiunto e di lavorare nelle scuole per educare i giovani. “I ragazzi neri sono usa e getta. Tra i neri la violenza è considerata normale”.
GRAZIE ALLA RABBIA scoppiata dopo l’assassinio di Martin, il ministero della Giustizia ha deciso di avviare una inchiesta e il Procuratore della Florida si rivolgerà a un Grand Jury. Ci sono volute settimane, la collera popolare e la mobilitazione di migliaia di persone per indurre le autorità a fare qualcosa. I soli fatti non erano sufficienti.
Nel 2009 quando un notissimo professore di Harvard afro-americano, Henry Louis Gates Jr., fu arrestato mentre tentava di entrare in casa sua, il presidente Obama prima intervenne per solidarizzare con il professore poi chiuse la vicenda con uno strano “rito di pacificazione”: una bella birra in compagnia di Gates e dell’agente che lo aveva ingiustamente arrestato.
© The Guardian Traduzione di Carlo

il Fatto 24.3.12
Sparare è un diritto
Libera arma in libera America

New York I suoi sostenitori, la National Rifle association, la potentissima associazione dei possessori di armi (e considerata la più antica associazione dei diritti civili Usa, ndr), in testa, la chiamano “stand your ground law” e, nel 2005, festeggiarono la sua introduzione in Florida, uno di quelli dove il Secondo Emendamento e, dunque, il diritto a possedere un’arma, è uno dei “comandamenti” più importanti, quasi quanto in Texas. I suoi detrattori la chiamano invece la legge dello “spara per primo”, che tanto, per appurare le responsabilità, c’è sempre tempo. Secondo quando affermato dal legislatore in base al suddetto provvedimento, chiunque può decidere di mettere in atto una violenza, anche mortale, se “crede ragionevolmente che questo sia necessario per prevenire la morte o un grave pericolo per sé stessi o per altri o per un grave crimine”.
Ed è in base a questa legge, che va ben oltre il diritto di cui si parla nel Secondo emendamento che è rivolto al semplice possesso dell’arma (e non al suo “libero” utilizzo), che Geoge Zimmerman, dopo aver ucciso Trayvon Martin, non è in carcere. Sebbene, in seguito alle forti proteste suscitate dal caso negli ultimi giorni, sia stata organizzata una task force con l’obiettivo specifico di investigare sull’accaduto, in tutte queste settimane Zimmermann è sfuggito ad ogni possibile incriminazione proprio perché ha detto di aver ucciso per legittima difesa.
LA CONTESTATA legge, che ora torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, anche dietro l’invito alla riflessione lanciato dal presidente Obama, è attiva, sebbene con piccole variazioni, in ben 21 stati e in altri è al centro di grandi contrasti. In Minnesota, a esempio, il provvedimento è stato bloccato dal veto posto dal governatore democratico Mark Dayton; veto che anche John Lynch ha fatto valere in New Hampshire senza riuscire tuttavia a bloccarne definitivamente l’approvazione. Sebbene dei 21 Stati, la maggioranza sia a guida repubblicana, non mancano quelli in cui il “grilletto facile” è stato tutelato proprio da governatori democratici, come avvenne nel 2006 in Oklahoma o in Arizona dove il provvedimento porta la firma dell’allora governatore, oggi Segretario della Sicurezza Interna, Janet Napolitano.
Fra gli altri Stati in cui esiste la legge, l’immancabile Texas, l’Alaska, il Nord e Sud Dakota, l’Idaho, l’Utah, il Kansas, il Mississippi, il Tennessee, l’Alabama, il Missouri, la Georgia, il Sud Carolina, il West Virginia, l’Indiana, il Michigan, la Laousiana e il Kentucky. La “stand your ground law” è un provvedimento che trae ispirazione dalla cosiddetta “dottrina del castello” che, nel diritto americano, tutela il diritto dell’individuo a difendere, anche con atti di violenza mortale, la proprietà.
(Ang. Vit.)

il Riformista 24.3.12
La confessione di un carnefice cambiò la storia dell’Argentina
Conversazione con Horacio Verbitsky. Il giornalista ricorda il giorno in cui un ufficiale lo avvicinò per raccontargli la sua esperienza della “guerra sporca”. E i voli della morte con i quali il regime faceva sparire gli oppositori. Adolfo Scilingo spezzò così quel patto del silenzio che impediva al Paese di fare i conti con la verità
di Luigi Spinola
qui
http://www.scribd.com/doc/86546609

l’Unità 24.3.12
Botte, stupro, femminicidio
Se questo è amore
Dopo troppo rinvii approdano su Rai1 quattro film d’autore sulla tragedia della violenza alle donne. Il primo in onda martedì prossimo è firmato
da Cavani. Gli altri registi sono Mario Pontecorvo e Margarethe Von Trotta
di Natalia Lombardo
nelle edicole

Corriere della Sera 24.3.12
Il lato oscuro della maternità
Madri invidiose depresse possessive
Quell’ombra nascosta dietro la maternità
di Giuseppina Manin e Federica Mormando

«Chi asciugava i pianti miei? Mamma buona era lei... Chi in cucina cucinava? Mamma cuoca canticchiava... Io la sera nel lettino, Mamma a nanna lì vicino...». Amorosa, premurosa, affettuosa. «Mamma Tutto», come elencava una canzoncina da Zecchino d'oro di qualche decennio fa. Ma di quel «tutto» la retorica di una maternità sacra e intangibile, rimuoveva il lato perturbante, là dove covano disagi, angosce, violenza. Se una donna poteva permettersi di essere fredda, apatica, persino malvagia, il passaggio nella categoria delle madri le garantiva automaticamente la remissione di ogni peccato e una patente di santità e virtù eterne. E se poi, per caso orrendo, qualcuna avesse osato incrinare quell'immagine di perfezione, l'appellativo giusto era bell'e pronto: madre snaturata.
Eppure sarebbe bastato prestar ascolto alle filastrocche e alle favole, quelle che ogni mamma recita ai suoi bambini, per rendersi conto che le cose non stavano proprio così. Mammine che cullavano i loro bebè con «Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do, lo darò all'uomo nero, che lo tenga un mese intero...» potevano dare a pensare. Quanto alle fiabe, da Pollicino a Hansel e Gretel, da Biancaneve a Cenerentola, sembrano inventate per evocare situazioni da brivido: bambini abbandonati, seviziati e minacciati di morte proprio da chi più gli sta vicino...
«La grande astuzia della fiaba è di scindere la figura materna in due: la mamma buona, quasi sempre opportunamente morta, e quella cattiva, incarnata da una matrigna o da una strega», spiega Lella Ravasi-Bellocchio, psicanalista junghiana, autrice di numerosi testi sul rapporto madri-figli. L'ultimo titolo, «L'amore è un'ombra» (Mondadori, pp. 160, 17 euro) si spinge a indagare proprio in quei luoghi oscuri del materno che, assicura l'autrice, «sono tanto duri da attraversare». Luoghi estremi, popolati di mamme psicotiche, pronte a scannare i loro figli. Magari cancellando subito dopo ogni memoria, fingendo un incidente domestico, dandone la colpa a misteriose voci interiori...
Casi finora relegati nella cronaca nera e negli archivi psichiatrico-giudiziari. Cominciare a parlarne al di là di inutili demonizzazioni è un tentativo coraggioso di sollevare scomodi veli. Non a caso sullo stesso tema sono in uscita due film italiani, «Maternity Blues» di Fabrizio Cattani, nei cinema a fine aprile, e «Baby Blues» di Alina Marazzi, appena terminato. Per inoltrarsi in questi insidiosi territori, il libro di Ravasi-Bellocchio si dimostra una guida preziosa. Attingendo alle testimonianze di colleghi che hanno avuto in cura alcune «sventurate», l'autrice le mette a confronto con l'agghiacciante archetipo di Medea. Con il sostegno della psicanalisi e il conforto di poesie di Sylvia Plath, Attilio Bertolucci, Christa Wolf, Montale e Lamarque, si ripercorrono così le favole nere di Gemma e di Rosa, di Teresa e Caterina, di Wanda, Liliana, Dolores... Nomi fittizi per storie fin troppo vere. Ma l'indagine si spinge oltre, alle radici di un male segreto, molto più diffuso di quanto si pensi. «Tutte le mamme possono essere terribili», recita il sottotitolo del libro. Se i casi di violenza omicida sono per fortuna pochi, moltissimi risultano quelli di insidiosa violenza quotidiana. Madri invidiose, possessive, depresse, narcisiste. Capaci di creare simbiosi asfissianti e ricatti affettivi, di innescare catene di colpe e risentimenti. Che uccidono senza uccidere. Predatrici di pudore, rispetto e innocenza. L'Ombra con cui fare i conti.
«Le madri sono tramite di vita e di morte. Il conflitto è lì. Riconoscere la violenza del materno è un percorso aspro ma necessario per ogni figlio». Bisogna calarsi, come dice Goethe nel «Faust», nell'abisso del Regno delle Madri. «Le Madri non sono le mamme — precisa Ravasi-Bellocchio — ma la profondità inconscia del materno. La parte matrigna che trasforma il "son tutte belle le mamme del mondo" in qualcosa di misterioso e terribile. Ma anche liberatorio. La discesa nel pozzo della malinconia diventa così l'approdo alla consapevolezza e alla creatività».

Repubblica 24.3.12
Cosa succede alla società quando resta solo il potere
Le lezioni di Pierre Bourdieu, scomparso 10 anni fa, ci aiutano a capire l´oggi. Visto che le forme di dominio sono sempre più immateriali e simboliche
Il comando non ha bisogno di esprimersi come tale, ma agisce interiormente e produce sottomissione
Il concetto pascaliano di "imbarco", che ci fa sentire parte di un´impresa anche se non l´abbiamo scelta
di Giancarlo Bosetti

Il pensiero di Pierre Bourdieu, a dieci anni dalla scomparsa, è ancora "in movimento", eccome, lo ammette con magnanimità, anche Le Monde, che non fu per niente risparmiato dalle critiche terribili del sociologo francese, aggressivo come nessun altro nei confronti del giornalismo dei "cani da guardia" del potere, categoria dalla quale lui escludeva ben pochi. Infatti la vastissima produzione di questo grande sociologo ha molto da dire, anche in Italia, non solo per la sua straordinaria forza teorica, ma per una ragione più precisa: la ritirata della politica, che concede all´economia, alla ricchezza, alle ineguaglianze molto più terreno che nel secolo scorso, mette a nudo le differenze sociali, le mostra in una luce cruda, ne fa lo spettacolo centrale e urticante della vita pubblica. È in crisi quel vitale scorrere di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, quella vasta coreografia di récits, che avvolgeva le differenze, le poneva in una luce congiunturale, ne attenuava il peso, anche perché ne prometteva la riduzione. La desertificazione della politica fa sentire di più il male delle distanze sociali, che sono anche obiettivamente cresciute, e cancella le pur vaghe promesse di qualche rimedio prossimo venturo.
L´obiettivo di Bourdieu è stato quello della decifrazione, misurazione e proclamazione delle relazioni di potere (di dominio) tra gli esseri umani in società: l´oppressione simbolica che rinforza quella materiale, il comando che non ha bisogno di esprimersi come tale dall´esterno perché agisce interiormente e produce sottomissione e adattamento. La mappa sociale di Bourdieu è un sistema di coordinate che serve a decodificare le differenze, a esplicitare distanze nei redditi, nella cultura, nei consumi, nel linguaggio, nel gusto, nella postura, nel modo di mangiare e bere, nel capitale economico e in quello intellettuale, nel patrimonio di relazioni sociali e nel saper fare incorporato nell´habitus.
L´autore della Misère du monde e della Distinction coglie le differenze nel momento in cui l´ideologia le traveste da scelte o le attenua per non ferire, svela il rimosso della sofferenza simbolica, calcola gli imbarazzi mortali del mercato immobiliare, della casa impresentabile, dell´abito inadeguato, delle parole sbagliate, o della vertigine che separa il gruppetto sofisticato di intellettuali lacaniani dal grossista di provincia che racconta con entusiasmo le sue imprese sessuali.
Oggi una rappresentazione sociologica così pungente delle distanze simboliche, troverà un terreno più fertile di dieci e venti anni fa perché il processo di impoverimento della politica ha messo allo scoperto, senza il colorato make-up dell´ideologia dei grandi movimenti storici, politici o confessionali, le asimmetrie che fanno insopportabili tante differenze di stipendi, di status e di bonus, di opportunità. E non si trattava solo di efficace cosmesi: l´oppressione simbolica e materiale era più sopportabile quando qualcuno sulla scena pubblica ne faceva intravedere la fine, era un po´ più morbida quando la mobilità e le speranze di ascesa individuale o di gruppo erano più realistiche.
Bourdieu partecipò in prima persona alle battaglie politiche per costruire una società più solidale, al riparo dalla violenza simbolica, dalle «esperienze di destituzione» che umiliano e consumano umanità e invitò sempre ad accendere Controfuochi per tenere viva la resistenza contro un potere finanziario, percepito come il «naturale svolgimento delle cose». Ma non fu certo solo un testimone di impegno. Le sue idee e il suo lavoro, sociologico e filosofico hanno scavato in profondità in diversi ambiti, illustrando con fulminanti illuminazioni e con lavori meticolosi sul campo (la scuola, il potere e le sue istituzioni, la formazione, o meglio «consacrazione», delle élites) come il senso della vita e della morte si produca per ciascuno di noi all´interno della società, come la società stessa sia il più forte competitore di Dio nell´erogare le sfide, gli obiettivi, le poste in gioco, i riconoscimenti che ci tengono al riparo dall´indifferenza e dal vuoto, che alimentano la nostra azione in una corsa permanente, che ci fa sentire dotati di qualche compito e di qualche senso.
Anche la lezione inedita al Collège de France del dicembre del 91 è ispirata dalla filosofia pascaliana dell´"imbarco", di quella "Illusio" che ci tiene in gioco, che ci fa sentire parte di una impresa che ci è data, senza che ci sia stato il momento di deciderla. L´area dell´impresa è inscritta dentro un "campo" che ci assegna fin dall´inizio concorrenti, alleati, mete e premi, e che ci costringe a strategie di lotta per vincere o semplicemente per sopravvivere. È vero per la carriera di un agricoltore come per quella di un filologo romanzo. Il contesto da cui nascono le idee non è per Bourdieu, come invece era per Marx, quello delle relazioni economiche e delle lotte tra le classi. Qui l´economia mantiene la sua importanza nel modellare i contesti, ma sono le lotte interne ai singoli "campi" a decidere chi vincerà, nell´arte come nella filosofia. La storia delle idee è la storia di questi campi. E anche le classi non hanno più un profilo oggettivo e deterministico, ma hanno piuttosto il carattere di indicatori di un destino "probabile", sono "classi probabili", che condizionano vischiosamente gli individui, ma non ne definiscono compiutamente l´esistenza. A risolvere l´enigma sociale del rapporto tra individuo e società, tra oggettività di una posizione sociale, dove è dato in sorte di nascere, e la soggettività di ogni singolo attore è l´invenzione trascendentale dell´"habitus", chiave di volta della costruzione bourdieusana, vale a dire quell´«insieme durevole di disposizioni» attraverso le quali gli individui percepiscono e incorporano i ruoli sociali. È l´"habitus" a spiegare come e perché le gerarchie sociali godano di una certa stabilità e perché le relazioni di dominio simbolico non siano sempre sul punto di essere spazzate via da una ribellione, individuale o collettiva. Inerzie e strategie che spingono gli esseri umani a interiorizzare le condizioni oggettive, a lavorare di lima e di mediazione tra le aspettative che fioriscono entro di loro e le possibilità effettive alla loro portata. È un´area di adattamenti possibili ma anche di sofferenze estreme e distruttive, quando la frustrazione e la pressione del dominio simbolico superano i limiti di guardia. La sociologia di Bourdieu continuerà ad alimentare ricerche. Ci sarà utile anche per far luce sulla paralisi della politica. Una migliore visione della sofferenza sociale può aiutarne il risveglio.

Repubblica 24.3.12
L´inedito uscito da Seuil
Perché le idee non passeggiano nel cielo
Le teorie nascono da un processo di competizione fra loro condizionato dal momento storico
di Pierre Bordieu

Per comprendere il processo d´invenzione di cui lo Stato è il risultato, processo cui partecipa l´invenzione della teoria dello Stato, occorrerebbe descrivere e analizzare attentamente le diverse proprietà dei produttori mettendolo in relazione con le proprietà dei prodotti. Inoltre, tali teorie dello Stato – spesso insegnate nella logica della storia delle idee, tanto che alcuni storici iniziano a studiarle in sé e per sé, senza ricondurle alle condizioni sociali di produzione – sono doppiamente legate alla realtà sociale: non ha alcun senso studiare le idee come se queste passeggiassero in una sorta di cielo intelligibile, senza alcun riferimento agli agenti che le producono né soprattutto alle condizioni nelle quali tali agenti le producono, e in particolare alle relazioni di concorrenza in cui essi si trovano gli uni contro gli altri. Le idee sono dunque legate al sociale, e d´altra parte esse sono del tutto determinanti dato che contribuiscono a costruire le realtà sociali così come noi le conosciamo. Oggi assistiamo a un ritorno delle forme più "primitive" della storia delle idee, vale a dire una sorta di storia idealista delle idee, come ad esempio la storia religiosa della religione. Questa regressione metodologica tiene conto sì della relazione tra le idee e le istituzioni, ma dimentica che queste stesse idee sono nate da lotte interne alle istituzioni. Dimentica dunque che, per comprenderle del tutto, non bisogna perdere di vista il fatto che esse sono al contempo prodotto di condizioni sociali e produttrici della realtà sociale.
Ciò che sto dicendo è programmatico, ma è un programma relativamente importante, perché si tratta di fare storia della filosofia, storia del diritto, storia delle scienze, studiando le idee come delle costruzioni sociali, che possono essere autonome rispetto alle condizioni sociali di cui sono il prodotto – non lo nego – ma che nondimeno vanno sempre messe in relazione con le condizioni storiche. Ma non semplicemente – come dicono gli storici – in termini d´influenza: esse infatti intervengono in maniera molto più marcata. Perciò le concessioni che ho fatto alla storia delle idee erano in realtà false concessioni, perché le idee intervengono sempre come strumenti della costruzione della realtà. Esse hanno una funzione materiale: tutto quello che ho detto poggia sull´idea che le idee fanno le cose, che le idee fanno il reale e che la visione del mondo, il punto di vista, il nomos, tutte queste cose che ho evocato cento volte sono costruttrici della realtà, al punto che perfino le lotte più teoriche e astratte, che si svolgono all´interno di campi relativamente autonomi, come quello religioso, giuridico, ecc., in ultima istanza hanno sempre un rapporto con la realtà, sia per la loro origine che per i loro effetti, che sono estremamente potenti.
(Traduzione di Fabio Gambaro(, Sur l‘État, © Editions Raison d´AgirEditions du Seuil, 2012

Repubblica 24.3.12
Un saggio dello psichiatra Pietropolli Charmet sul rapporto tra il domani e i giovani
“Il futuro restituito ai nostri ragazzi”
"Gli adulti dovrebbero ribaltare le prospettive e far capire ai figli che tocca proprio a loro prendere in mano le cose e che l´avvenire non è un tempo perduto"
di Luciana Sica

«Per gli adolescenti di oggi non si può più parlare di lutto dell´infanzia, ma di lutto del futuro. Da sempre amano e odiano il tempo che hanno davanti, perché non sanno cosa gli riserva, né cosa potranno fare o essere. Ma ora la perdita di contatto con la rappresentazione dell´avvenire è disperante. Alla faticosa ricerca di una loro verità rispetto alle identificazioni infantili, i ragazzi sentono di avere davanti un ostacolo insormontabile che sbarra la strada della crescita. Si dedicano allora al culto dell´eterno presente dichiarando in coro che l´adolescenza è la stagione più bella della vita e la cosa migliore da fare è rimanervi il più possibile».
Chi parla è Gustavo Pietropolli Charmet, 74 anni il prossimo giugno, psichiatra di formazione freudiana, grande terapeuta di giovanissimi pazienti, autore di un nuovo libro dal titolo cosa farò da grande? il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza, pagg. 148, euro 15). A leggere le sue pagine a tratti indignate, aumenta il sospetto che i futuri bamboccioni o anche sfigati, secondo l´espressione «tecnica» coniata più di recente, siano scoraggiati in partenza e sospinti al fallimento. Nell´età degli entusiasmi anche facili, in cui si teme e si morde il futuro, è proprio questa la parola che viene cancellata dal vocabolario: con effetti particolarmente nefasti sugli adolescenti. Perché, scrive Charmet, «colpisce al cuore il sistema motivazionale».
Cosa possono fare gli adulti «competenti» genitori e insegnanti, innanzitutto per restituire la speranza a questi ragazzi più rassegnati che nichilisti?
«Intanto dovrebbero smetterla di vestire i panni delle moderne Cassandre e lanciarsi nelle profezie più nere. Tutti gli scenari catastrofici trasmettono un messaggio intollerabile per la mente degli adolescenti, e cioè che ormai non c´è più «posto» per loro, che la pacchia è finita, proprio come il petrolio e l´acqua... Non è così che si reclutano i loro ideali, la loro capacità di sperare, il loro intrinseco bisogno di cambiamento, a favore di una svolta culturale, etica, relazionale, politica».
Che intende dire?
«Voglio dire questo: genitori e docenti dovrebbero costituirsi come garanti convincenti che tocca proprio a loro, ai più giovani, assumersi il compito eroico di salvare non solo l´economia disastrata ma addirittura l´intero pianeta, e scoprire quale sia il livello di sviluppo compatibile. Per i ragazzi non ci potrebbe essere un futuro più interessante e avventuroso. Perché in realtà non solo il futuro esiste, ma è proprio il loro tempo».
Nobile e incoraggiante... Ma la nostra scuola, pensa davvero che possa assolvere a un compito così alto?
«Penso che l´assenza d´interesse del nostro sistema formativo su cosa succederà, come andrà a finire, quali saranno le esigenze, i bisogni, i grandi progetti e le speranze da coltivare, ha un effetto micidiale sulla percezione da parte dei ragazzi di quale sia l´investimento che le generazioni dei padri e dei nonni fanno su di loro».
Com´è la scuola vista dagli adolescenti, secondo lei?
«Vecchia, vecchissima. Nei metodi, nei programmi, nello stile relazionale, nella definizione degli obiettivi. Nella stessa età dei docenti. In più, terribilmente conservatrice per la devozione smisurata del passato, lo sguardo distratto e disfattista sul futuro, e quell´idea del presente come anticamera di un inevitabile e inglorioso declino: in alcun modo riscattabile da chi sarebbe direttamente condannato a subirlo».
Sarà la sensazione di impotenza a produrre adolescenti un po´ depressi e un po´ maniacali?
«Gli appuntamenti con la depressione da scacco evolutivo sono disseminati lungo la strada della crescita. L´adolescente può attenuare il suo dolore mentale con droghe, alcol, ritiro sociale, comportamenti rischiosi, ossessione della realtà virtuale: tutto il preoccupante repertorio di scelte antidepressive praticate con risultati sintomatici anche soddisfacenti, ma con rischi troppo elevati per la gravità delle conseguenze sul lungo periodo».
L´esperienza con i ragazzi quanto ha modificato il suo modo di «curare»?
«L´arrivo recente degli adolescenti nel setting analitico ha contribuito ad accelerare il processo di cambiamento delle regole della cura. Per quanto mi riguarda, ho accolto con favore la loro istanza che suona pressappoco così: aiutami a capire quali siano i miei veri pensieri, cerchiamo le parole per raccontare la mia storia, ma soprattutto fai in modo che io possa capire cosa farò da grande... Oggi mi sembra molto più di dover restituire un futuro pensabile che ricostruire un passato rimosso».
La clinica con i giovanissimi suggerisce qualcosa alla psicoanalisi che può riguardare anche gli adulti?
«Anche per gli adulti si sta affermando il concetto di fasi della vita, e sempre più si condivide il valore del processo di soggettivazione. Nella stanza dell´analisi non basta tornare bambini e riparare i danni dell´infanzia. Spesso, per riorganizzare il presente, è necessario ricordare e magari ritrovare il sogno dell´adolescenza. O anche disfarsene».