l’Unità 23.3.12
Immigrati, sentenza di civiltà: niente Cie per chi nasce in Italia
Modena Il giudice libera due ragazzi. Si riapre la battaglia per la cittadinanza
Storica sentenza di un giudice di pace. Pd: «Un passo verso lo ius soli»
Modena: «Niente Cie per chi è nato in Italia»
Andrea e Senad liberi. Escono dal Centro di Modena i due fratelli, Andrea e Senad, con genitori bosniaci, ma nati nel nostro Paese:
erano finiti lì perché i genitori, avendo perso il lavoro, erano senza permesso di soggiorno.
di Giacomo Francesco Lombardi
Andrea e Senad, due ragazzi di 23 e 24 anni nati in Italia da genitori stranieri e dal 10 febbraio rinchiusi nel Cie di Modena in attesa di essere espulsi, sono stati rilasciati ieri. Lo ha deciso il giudice di pace Giamdomenico Cavazzuti, che ha di fatto annullato il decreto di espulsione emesso da Prefetto. «La sentenza è storica, per la prima volta si sancisce che chi nasce in Italia non può stare in un Cie» dice Cécile Kyenge, responsabile regionale del Pd per l’immigrazione e portavoce del Comitato 1 marzo, in prima linea nella mobilitazione a favore di Andrea e Senad. «E dimostra ancora una volta l’inutilità dei Cie».
La loro storia ha dell’inverosimile: i genitori, oggi cittadini bosniaci, hanno sempre vissuto in condizioni di disagio e a quanto pare non si sono mai curati di registrare i propri figli all’anagrafe dell’allora Jugoslavia. Ma la Jugoslavia nel frattempo è sparita e con lei la loro incerta cittadinanza. Di sicuro c’è che ad oggi risultano sconosciuti a qualsiasi anagrafe e si trovano di fatto senza identità. Le autorità italiane hanno tuttavia dato per scontata la nazionalità bosniaca dei due ragazzi i quali, senza permesso di soggiorno, si sono trovati automaticamente nella condizione di clandestini.
La routine è collaudata, gli ingranaggi della prassi iniziano a girare: due ragazzi stranieri ma, nati a Sassuolo, il permesso di soggiorno che manca perché i genitori hanno perso il lavoro, un controllo della polizia, il Cie, l’espulsione in arrivo, un giudice di pace che deve firmare. Ma tutto si blocca. Perché Andrea e Senad non solo non hanno un permesso di soggiorno, ma un documento del loro paese d’origine non lo possiedono proprio. E quale sia il paese di origine di Andrea e Senad è l’enigma che ha messo in crisi il giudice di pace sino al rilascio di ieri.
INTRIGO
Un intrigo confermato dall’assenza dei due ragazzi dall’anagrafe bosniaca, facendo così di Andrea e Senad due potenziali apolidi nei confronti dei quali la legge prevede particolari tutele in virtù della Convezione sugli apolidi del 1954. Dunque, Andrea e Senad poiché apolidi hanno il diritto di essere liberi e di vedersi concesso un documento valido da parte delle autorità italiane. Non la detenzione in un Cie.
La sentenza emessa ieri dal giudice di pace è in ogni caso controversa: se la detenzione non poteva essere confermata in virtù della Convenzione sugli apolidi, il loro rilascio non è tuttavia indolore, perché Andrea e Senad sono apolidi solo in teoria. Infatti ottenere questo status non è affatto semplice e richiede anni, burocrazia e la sopportazione di una giurisprudenza discordante. Attualmente non possono nemmeno chiedere un permesso di soggiorno perché occorre presentare un documento di identità, documento che Andrea e Senad non possiedono. Sono usciti dal Cie perché apolidi in teoria. In pratica, secondo le leggi vigenti, sono nuovamente clandestini e per assurdo potrebbero essere ricondotti nel Cie che hanno appena lasciato. Tant’è che ieri la questura di Modena ha fatto sapere che «valuterà l’opportunità di disporre ulteriori misure di prevenzione».
La storia di Andrea e Senad è quindi emblematica di un quadro normativo contraddittorio e basato sul regime di ius sanguinis, ovvero il diritto a ricevere la nazionalità solo per “eredità” di sangue, nei confronti del quale Giorgio Napolitano il 22 novembre scorso si era espresso criticamente, definendo una “follia” negare la cittadinanza italiana a chi è nato nel nostro Paese.
La sentenza, spiega l’Arci, «rappresenta un punto fermo che, speriamo, induca il Parlamento a calendarizzare al più presto la discussione sulla proposta di legge di iniziativa popolare depositata il 6 marzo scorso». Ma la strada sarà lunga. Quella di ieri è una sentenza «creativa», una decisione «non prevista dalla legge italiana» ha tuonato il Pdl, l’«ennesima invasione di campo di un magistrato» ha detto il senatore Carlo Giovanardi. Lo «ius soli» ha ancora molta strada prima che si affermi come principio.
l’Unità 23.3.12
L’immigrato non è un estraneo ma un cittadino
di Luigi Manconi e Valentina Brinis
La sentenza emessa ieri dal Tribunale di Modena segna un punto davvero importante nella storia giudiziaria italiana in materia di immigrazione e, in particolare, di immigrazione irregolare. Quella decisione ha finalmente chiarito che la condizione di extralegalità giuridica di una persona non coincide necessariamente con l’estraneità rispetto al sistema di relazioni sociali in cui quella stessa persona si trova inserita. Insomma, la sua integrazione sociale, quando c’è, deve risultare “più forte” della sua mancata regolarizzazione. La sentenza ha così stabilito che, chi nasce in Italia da genitori stranieri, pur se privo di documenti, non può essere considerato immigrato irregolare: dunque, la sua destinazione mai potrà essere il Centro di identificazione e di espulsione.
La storia dei due fratelli interessati dalla sentenza del Tribunale di Modena, simile a quella di molti altri trattenuti nei Cie, si rivela utile per capire come, nella “applicazione perfetta” della legislazione che regola l’immigrazione, vengano trascurate le reali condizioni della persona e la sua biografia e venga ignorata la sua identità sociale. Andrea e Senad rischiavano di essere rimpatriati in uno Stato mai conosciuto, la Bosnia, tra l’altro ignoto ai loro stessi genitori nella attuale configurazione geo-politica di Paese indipendente, dal momento che essi emigrarono da quella che all’epoca era ancora la Repubblica federale di Jugoslavia. L’aspetto grottesco è che la permanenza al Cie non si sarebbe potuta concludere con l’espulsione perché, appunto, i nomi dei due giovani non compaiono in alcun registro anagrafico bosniaco. E, probabilmente, la loro uscita dal centro sarebbe avvenuta alla scadenza del termine che oggi, ahinoi, è di un anno e mezzo.
Un provvedimento, quest’ultimo, che è andato ad inasprire l’attuale normativa (legge Bossi-Fini). Così che si è arrivati a prevedere come fattispecie penale, con relativa pena detentiva, ingresso e presenza irregolari sul territorio italiano. Ne deriva una smisurata e incontenibile facoltà di penalizzare e punire. Una tendenza che si esprime in maniera intensa quando si parla di immigrati e che sembra trovare soddisfazione quando si tratta di immigrati irregolari, assimilati né più né meno che a criminali.
Ma la questione più importante e drammatica che questa vicenda rivela è, ancora una volta, legata a quella legge sulla cittadinanza la cui mancata riforma il Capo dello Stato ebbe a definire «una follia». L’attuale normativa, infatti, non è in grado di rispondere in maniera idonea all’odierna composizione della società italiana, alla realtà dei flussi migratori degli ultimi trent’anni e ai processi di integrazione (certo faticosi, ma comunque spesso consolidati) cui hanno dato luogo. La legge in vigore non prevede la concessione della cittadinanza alle persone che, come Andrea e Senad, sono nate in Italia, se non a condizioni molto rigide. In particolare, al compimento dei diciotto anni, quanti sono stati sempre regolari e sempre residenti sul territorio, entro i dodici mesi successivi, possono presentare la domanda di cittadinanza. Ma sono in pochi a saperlo – e dunque a presentare tempestivamente la richiesta perché com’è noto i privilegi sono per i privilegiati.
l’Unità 23.3.12
Il modello «arbitrario»
di Luigi Mariucci
Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente».
Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le mani legate, potrebbe solo disporre la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento.
C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi?
La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.
l’Unità 23.3.12
Le troppe favole ideologiche sull’articolo 18
di Michele Raitano
Assumendo che l’abolizione della tutela in caso di licenziamento economico non discenda da influenze ideologiche o vincoli politici (anche se le dichiarazioni di Alfano lasciano supporre un’interpretazione diversa), è interessante valutare quanto siano giustificate le principali motivazioni che nel dibattito sono state poste a supporto dell’intervento governativo sull’art. 18. In primo luogo, si ritiene necessario aumentare sensibilmente la flessibilità in uscita ritenendo rigido e pieno di sacche di privilegio il nostro mercato del lavoro. Come ho argomentato in passato anche sulle colonne dell’Unità, la lettura dei dati sulle dinamiche di carriera dei lavoratori contrasta fortemente questa chiave di lettura. Da una parte, i dati sconfessano l’immagine di un mercato del lavoro rigido a tutela del «posto fisso» (si pensi che in media il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato perde tale status in un periodo di soli 5 anni e questo dato risulta in linea con quello dei Paesi ritenuti più deregolamentati); dall’altra, i dati mostrano che la probabilità di stabilizzazione per i lavoratori atipici non dipende affatto dalla dimensione di impresa, anzi risulta addirittura maggiore in quelle medio-grandi. Tutto ciò suggerisce che l’influenza dell’art. 18 su licenziabilità effettiva e mobilità dei lavoratori è molto contenuta e che le scelte delle imprese risentono soprattutto di altri fattori.
D’altro canto, non si può non ricordare come fra i Paesi della Ue15, sulla base della graduatoria di rigidità della protezione dell’impiego stilata dall’Ocse, l’Italia risulti fra i più flessibili e sia quello caratterizzato dalla maggior riduzione di tale indice di rigidità negli ultimi 15 anni. Un’altra motivazione a supporto dell’abolizione delle tutele dell’art. 18 consiste nella supposta necessità di liberare il mercato del lavoro in uscita per consentire ai più giovani la possibilità di entrata. Ma questa affermazione, tutta da verificare, è in netto contrasto con le motivazioni portate, tra gli altri, dallo stesso Ministro Fornero a difesa del fortissimo aumento dell’età pensionabile. Si ritiene infatti che il blocco delle uscite degli anziani non costituisca nessun vincolo particolare alle entrate dei più giovani.
Ma, evidentemente, delle due l’una: o crediamo che ciò che conti nel sistema economico siano le forze «profonde» di domanda e offerta e ciò deve valere sia nella riforma delle pensioni che in quella del mercato del lavoro, oppure pensiamo che contino soprattutto i vincoli regolamentativi. Ma in questo caso le motivazioni alla base delle due riforme appaiono in forte contraddizione, a meno di non pensare male e vedere nella modifica dell’art. 18 la via d’uscita per le aziende per liberarsi dell’aumentata forza lavoro anziana, solitamente più costosa e meno produttiva.
La stesso vincolo alla crescita dimensionale delle imprese rappresentato dall’art. 18 è smentito da molti studi, come segnalato recentemente anche da Fabiano Schivardi su «Lavoce.info». Pensare poi che le imprese estere non investano in Italia per la troppa rigidità del mercato del lavoro è privo di fondamento, come confermano le indagini internazionali sulle motivazioni dei limiti all’investimento diretto estero, che segnalano per l’Italia la rilevanza di ben altri problemi (in primis i livelli di corruzione e l’incertezza dell’applicazione del quadro normativo-istituzionale). Se poi, come strategia di crescita, si intendesse attrarre investimenti esteri deregolamentando il mercato del lavoro e riducendo ulteriormente i salari, si continuerebbe a spingere il nostro Paese su un sentiero di sviluppo a bassa innovazione e bassa produttività, con le ricadute negative sulla crescita già evidenti nel decennio pre-crisi, caratterizzato dalla forte flessibilizzazione del mercato del lavoro e dalla caduta dell’intensità di capitale delle nostre imprese.
Alla luce poi dell’importanza attribuita nelle scorse settimane dal governo al problema della lunghezza e dell’incertezza delle cause di lavoro, che paralizzerebbe le imprese, stupisce che non si siano previsti interventi migliorativi sul rito giudiziario. Al contrario, come evidenziato in questi giorni da molti giuslavoristi, la disciplina che sembra emergere potrebbe aumentare in misura sostanziale i tempi delle cause di lavoro. Sulla base di queste considerazioni, appare quindi evidente, come dichiarato più volte anche dal neo-presidente di Confindustria Squinzi, che aumentare la licenziabilità dei lavoratori italiani sia l’ultimo dei problemi della nostra economia. Ci sono quindi seri indizi che l’esito della discussione fra governo e parti sociali sia motivato più da elementi ideologici, magari contenuti nelle richieste delle istituzioni europee e di non meglio definiti mercati internazionali, che da un’attenta analisi della problematica in esame.
l’Unità 23.3.12
Letta: «Serve un compromesso, se collassano i Democratici collassa anche il governo»
Veltroni: «Monti non può dire “prendere o lasciare”, né al nostro partito né al Parlamento»
Il Pd contro il diktat Bersani: cambieremo la norma sull’art.18
Il segretario Pd fa pressing per arrivare alla modifica dell’articolo 18 secondo il modello tedesco. Intanto si lavora ad emendamenti «condivisi». Veltroni: «Monti non può dirci “prendere o lasciare”»
di Maria Zegarelli
Ha passato la giornata al telefono, ha sentito il presidente della Repubblica, il premier Mario Monti, Pierferdinando Casini e le parti sociali.
«Nella riforma ci sono alcune cose buone ma sull’articolo 18 non ci siamo, bisogna intervenire per modificarlo, puntando al modello tedesco». E cioè affidando a un giudice, o a una figura terza, l’ultima parola anche sui licenziamenti per motivi economici.
È questo che il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ha ripetuto ai suoi interlocutori mentre era in viaggio verso la Liguria. E se non sarà il governo a cambiare la formulazione del nuovo articolo 18, «allora lo farà il Parlamento», dove non sarà possibile «non tenere conto del grande schieramento di forze che si sta creando attorno alla richiesta di un cambiamento». E questo è il primo risultato che incassa il Pd: veder riaperta una partita che in molti anche al suo interno avevano dato per persa.
Il primo effetto interno è quello di uscire dal dibattito-tormentone sul rischio implosione del Pd (sempre dietro l’angolo) mentre Bersani, accusato da alcuni di essere rimasto schiacciato sulle posizioni della Cgil, trova la sponda più forte e forse inaspettata proprio nella Cei. Con il passare delle ore, infatti, il Pd e la Cgil si sono ritrovati in nutrita compagnia. «Provo dispiacere nel vedere la Cgil lasciata fuori da questa riforma», dice monsignor Bregantini, presidente della Commissione Lavoro della Conferenza Episcopale. Anche il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, prende le distanze dalla proposta di Palazzo Chigi, mentre si mobilitano le Acli, la rete e, come ha dimostrato il sondaggio di Renato Mannheimer l’altra sera a Porta a Porta, l’opinione pubblica sia di destra sia di sinistra boccia la ricetta Monti-Fornero.
IL PRESSING
Il pressing è talmente forte che il premier, dopo l’incontro al Quirinale, è costretto a tornare sui suoi passi su quella chiusura che sembrava definitiva proprio sulla parte più delicata della riforma. «È stata anche la nostra posizione unitaria ad aver determinato questo cambio di prospettiva», dicono al Nazareno.
«Certo si delineano soluzioni che in gran parte sono buone ma restano dei punti problematici che riguardano alcuni fondamentali del diritto e credo che il Parlamento abbia la possibilità di apportare miglioramenti e correzioni», commenta con cautela da Lerici Bersani. Credo che anche le altre forze politiche possano percepire il turbamento che c’è nell’opinione pubblica. Non possiamo ridurre tutto o quasi tutto il meccanismo dei licenziamenti al meccanismo di indennizzo».
In serata Walter Veltroni dal Tg3 ribadisce: «Monti non può dirci “prendere o lasciare”. Non può dirlo né al Pd né al Parlamento». Aggiunge poi un apprezzamento per il segnale di ascolto: «Il presidente Monti ha dato un primo segno di attenzione nei confronti di quello che si sta muovendo nel Paese e credo che il governo vorrà ascoltare la voce di una forza determinante per questa maggioranza come il Pd». Un partito che, assicura l’ex segretario, non rischia divorzi perché «nel Pd non c’è mai stato un voto diverso anche se al suo interno ci sono culture diverse. Il partito deve ora spingere per una correzione all’insegna dell’equità e della riforma sul mercato del lavoro ricordandosi come stavamo qualche mese fa, quando il Paese era sull’orlo del tracollo e sapendo che questo momento dovrà essere seguito da una stagione riformista. E il Pd è la forza decisiva senza la quale non c’è sfida riformista».
È evidente che la partita che si giocherà in Parlamento non sarà facile e il risultato non è scontato, ma chi puntava sull’articolo 18 «per far saltare il Pd resterà a bocca asciutta, non c’è mai stato questo pericolo», assicura Beppe Fioroni, che la riforma l’avrebbe votata comunque. Dunque le «due anime» del partito, i montiani senza se e senza ma e l’ala più critica dall’altra, lunedì durante la direzione dovranno trovare la quadra: un punto di sintesi da tradurre negli emendamenti «che dovranno essere condivisi».
«Occorre lavorare per trovare compromessi sull’articolo 18 in Aula dichiara il vicesegretario Enrico Letta superare lo stallo con il sindacato e preservare l’unità del partito». Perché, aggiunge, «se collassa il Pd collassa anche il governo Monti». E quello che il segretario non aveva detto mercoledì lo dice giovedì, cioè ieri: «Penso che non sia il caso di staccare la spina al governo, ci sono cose positive, serie, da non buttare via nella riforma».
Lo dice in risposta a Nichi Vendola che lo aveva invitato a non dare più la fiducia a Monti, avvertendo che sull’articolo 18 si giocano le alleanze future. A Vendola, certo, ma anche un segnale a Palazzo Chigi.
il Fatto 23.3.12
Chi vuole sfasciare il Pd
La Terza Repubblica è servita
Non cessa il pressing sul partito di Bersani che accettando la forzatura del governo rischia di implodere
Mentre prende forma il “partito di Monti” i Democratici si attestano sull’ultima trincea
di Paolo Flores d’Arcais
Il governo di Napolitano ha deciso di fare della mazzata contro lo “Statuto dei lavoratori” il forcipe per dare alla luce la Terza Repubblica. L’articolo 18 è un puro pretesto. Costituisce il baluardo residuo per la dignità del lavoratore, e per questo va difeso con adamantina intransigenza da ogni persona civile, ma i suoi effetti pratici sono da tempo irrisori. Perché allora il governo ne fa una questione ultimativa, di battaglia campale? Perché vuole vincerla apparendo sfacciatamente il “governo dei padroni”, quando tutti i governi dei padroni hanno sempre cercato di dissimulare la propria natura di classe? Perché lo scopo è esattamente questo: umiliare e distruggere quanto resta in Italia di sindacato non americanizzato, non subalterno, non “sindacato giallo”.
La prima e vituperanda Repubblica, dall’egemonia democristiana al Caf, lasciava sopravvivere due vestigia comunque positive: forze sindacali riconosciute come soggetti di concertazione, e la logica sacrosanta dell’arco costituzionale. Quest’ultima è stata abbattuta dal berlusconismo, talché i Gasparri, i La Russa e altri Santanchè sono stati legittimati come parte della vita pubblica e civile, benché il loro mood neo-ex-post fascista resti quello dell’odio per la democrazia nata dalla Resistenza.
La prima verrà archiviata ora, se lo sciopero generale proclamato dalla Camusso non vorrà trasformarsi in un nuovo Circo Massimo di rivolta morale nazionale, in cui la Cgil chiami a raccolta accanto ai lavoratori tutte le energie della società civile refrattaria al pensiero unico.
Altrimenti andrà in porto la Terza Repubblica: dal nuovo “arco costituzionale” (che della Costituzione calpesterà non pochi articoli, a partire dal “... fondata sul lavoro”) saranno banditi, come se avessero qualcosa di comune e paragonabile, tanto gli spurghi di razzismo e secessionismo della Lega quanto la volontà di realizzare la Costituzione delle forze che ancora invocano “giustizia e libertà”: Sel, Idv, la minoranza del Pd che non si piegherà alla cura Napolitano, e soprattutto settori sindacali e società civile. Legittimato resterà solo il corpaccione di una mega neo-Dc, più che mai monopolista dei media e più che mai golosa di leggi ad personam e di “basta col concorso esterno”, da Casini ad Alfano (col Putin di Arcore gongolante sullo sfondo). Di cui l’attacco all’articolo 18 è la perfetta conseguenza. Il regresso è servito.
Repubblica 23.3.12
Cofferati: errori anche su atipici e ammortizzatori
"Senza modifiche radicali il Pd dovrà votare contro"
Il governo vuole riorganizzare una cosa che non c´è, il lavoro Meglio concentrarsi sulla crescita economica
di Giovanna Casadio
ROMA - «Lotta dura e cambiamenti profondi da parte del governo sulla riforma del lavoro. Se non avverranno il Pd deve votare contro il testo annunciato. Così com´è non può essere votato dai Democratici». Sergio Cofferati, eurodeputato del Pd, è stato il segretario della Cgil che ha portato in piazza tre milioni di lavoratori contro il tentativo di Berlusconi di cancellare l´articolo 18.
Però si annunciano alcune modifiche, non le ritiene sufficienti, onorevole Cofferati?
«Aggiustamenti piccoli non potrebbero bastare. Il Pd deve fare una battaglia determinata in Parlamento, la piazza in questo caso è dei sindacati, della Cgil».
Lei boccia del tutto questa riforma?
«Io penso innanzitutto che la discussione sul mercato del lavoro è fuorviante. Un ragazzo, una ragazza che non hanno lavoro guardano a questo dibattito con sorpresa o contrarietà. Il tema principale è la crescita: siamo in piena recessione, aumenta la disoccupazione e la povertà e il governo Monti impegna le sue energie a discutere la riorganizzazione di una cosa che non c´è. Questa cosa che manca è il lavoro».
Non si sta parlando di questo, di come cioè crearlo?
«È priva di qualsiasi fondamento l´idea che la riorganizzazione del mercato del lavoro possa fare crescere l´economia. Tra il 2002 - quando fermammo la manovra di Berlusconi di cancellare l´articolo 18 - e il 2008 l´economia italiana è cresciuta. Poi è arrivata in Europa la crisi nata negli Usa».
Quindi "no" a questa riforma dell´articolo 18 anche a costo di fare cadere il governo?
«La vita del governo Monti è nelle mani del governo Monti, non della maggioranza che lo sostiene: cambi robustamente il testo e avrà lunga vita».
Cos´altro non le piace di questa riforma?
«Il quadro complessivo è negativo non solo su articolo 18 ma anche sui contratti atipici e sugli ammortizzatori. Nella proposta del governo l´articolo 18 è vanificato perché si dà la possibilità a qualsiasi impresa di licenziare adducendo i motivi economici».
il Fatto 23.3.12
Indecisi, delusi, stanchi: fuori dall’urna un tesoretto da 9 milioni
I sondaggi, la passione per Super Mario e l’emorragia di voti del Pd e del Pdl: che fine faranno?
di Paola Zanca
Sono nove milioni. Nel 2008 hanno votato un grande partito, Pd o Pdl. Oggi non lo rifarebbero più. Sia chiaro: siamo solo alle intenzioni, da qui alle prossime elezioni hanno tutto il tempo di cambiare idea. Ma sono un tesoretto per il 2013 che al momento è senza custodia. Sarà lì che pescherà voti il fantomatico partito di Monti? “Lì dentro c'è di tutto”, taglia corto il politologo Roberto D'Alimonte. Se li dovesse classificare, quei nove milioni li prenderebbe solo come l'indicatore più concreto di quella “voglia di nuovo” che aleggia nel Paese. “Gli italiani sono indecisi, disgustati, in qualche caso irrecuperabili: non è detto nemmeno che torneranno a votare – spiega – Oggi c'è un livello di domanda di novità simile a quello dei primi anni Novanta”. Allora arrivarono Bossi e Berlusconi. Adesso chi aspettiamo? “Oggi c'è la domanda ma non l'offerta. Mi pare che stiamo, anzi stanno, aspettando Godot – prosegue il politologo –E se non arrivasse? ”. D'Alimonte nel “partito di Monti” non ci crede, banalmente perché pensa che sia Monti stesso a non aver-ne voglia. Ma non vede nulla nemmeno intorno: “Sento parlare di Corrado Passera, ma non mi pare che si stia muovendo e non è che si può diventare leader da un giorno all'altro. Monti è stato preso da una cattedra alla Bocconi e messo a Palazzo Chigi, ma di norma non succede così: a un certo punto chi vuole candidarsi dovrà fare una mossa”. Montezemolo? Renzi? De Magistris? “Tutti già appannati”. Nemmeno loro, a quanto pare, possono provare a mettere le mani sul tesoretto da nove milioni.
Eppure anche per Ilvo Diamanti il “partito fantasma” di Mario Monti oggi sarebbe il primo in Italia: 24 per cento dei consensi, scriveva lunedì su Repubblica. Se scendesse in campo lui, il Pdl si fermerebbe al 19% (nello scenario “normale” è al 24%) mentre il Pd precipiterebbe al 18% (dal 27% attuale) perché, secondo l'analisi di Diamanti, un quarto dei suoi elettori si sposterebbe a favore della lista del professore. Che sia una questione di credibilità? “Monti sta facendo quello che loro non sono stati capaci di fare quando erano al governo e che gli altri non sono stati capaci di contrastare quando erano all'opposizione”, dice Gianfranco Pasquino, “per questo in Parlamento c'è un partito di Monti piuttosto ampio”. Ma fuori no, sostiene anche Pasquino. “Per vincere le elezioni serve un'organizzazione sul territorio e poi non credo che Monti abbia voglia di candidarsi, tutt'al più se gli consentono di fare il presidente della Repubblica... ”. In ogni caso quei nove milioni non sono a sua disposizione: “Sono italiani che, quando gli si chiede chi voteranno, giustamente rispondono che hanno di meglio da fare”. Anche perché, intorno, non è che se li stiano contendendo a suon di proposte. “In questi mesi mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche idea – conclude Pasquino – Invece vedo tutti spensierati. Che vuol dire senza pensiero”.
il Fatto 23.3.12
Una parte del Pd finirà in esubero?
di Pino Corrias
E SE LA RIFORMA dell’articolo 18 servisse a licenziare – oltre ai più deboli – anche i più intransigenti del Partito democratico, se non addirittura i meno fessi? E se questa stupefacente ostinazione servisse ottimamente anche a perfezionare quell’esodo dei molti Fioroni, dei molti Letta con tutte le vettovaglie al seguito, verso il Bengodi elettorale di Monti & Passera, come già fece per tempo l’atletico Rutelli, ma questa volta senza neanche lasciarsi alle spalle rancori, tesoretti o bonifici calcolati in petali di margherita? Non si intravede alcuna logica, altrimenti, in questa nevrastenica danza per propiziare la pioggia dei licenziamenti, ma sempre promettendo l’imminente sole di una nuova e più cospicua occupazione. Come se in tempi di crisi strutturale espellere lavoratori dal posto fisso, fosse così difficile da doverlo incentivare addirittura per decreto, foderandolo di grandi ricatti e morbidissimi moniti. Non bastando i molti milioni di trenta/cinquantenni già al vento della disoccupazione e i contratti con il timer incorporato e le prospettive sempre più remote di un risveglio dagli incubi di un mondo pensato solo da banchieri in astinenza da stock option.
il Fatto 23.3.12
Trattativa sotterranea
Il triangolo della Camusso: tra Bersani, Bonanni e Landini
di Giorgio Meletti
All’apparenza si tratterebbe di una piccola gaffe. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, durante il vertice governo-sindacati, fa uscire sulle agenzie di stampa la sua proposta al governo per modificare la riforma dell’articolo 18. La Cgil, via Twitter, fa subito notare che quelle cose Bonanni al tavolo non le ha dette. Ma sono battute. Il fatto vero è che Bonanni, insieme al leader Pd Pier Luigi Bersani, sta cercando il modo di disinnescare la bomba caricata dal governo tecnico.
COSÌ BERSANI fa sapere di aver preso contatti sia con il governo che con il Quirinale per chiedere che la riforma del lavoro non si faccia per decreto legge. E Bonanni si spende con una sua proposta: anche il licenziamento per ragioni economiche, se queste ragioni sono giudicate pretestuose dal giudice, deve dare luogo al reintegro. Trattative sotterranee e che richiedono a questo punto una dilatazione dei tempi: se il governo accettasse una sostanziale modifica, potrebbe farlo solo dopo un lasso di tempo sufficiente ad aver indebolito la memoria collettiva dello strappo di mercoledì sera, cioè quando non apparirebbe una precipitosa retromarcia.
C’è un caso Cgil che preoccupa non solo il Pd e gli altri sindacati, ma a questo punto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e forse lo stesso Mario Monti, visto che il premier ha dato una sponda a Bonanni rassicurando che in sede di scrittura del provvedimento si baderà di scongiurare gli abusi del licenziamento per ragioni economiche.
Il punto politico è che nei tre mesi di trattativa sul mercato del lavoro un comune obiettivo ha tenuto legati Bersani, Bonanni, il Quirinale e la Cgil: quello di tenere il maggior sindacato attaccato al tavolo e portarlo alla firma di un accordo con le altre forze sociali. Per Bersani il problema sta nella difficoltà di sostenere un governo mentre la Cgil lo cambatte in piazza. Per Bonanni il problema è che questo è un governo meno amico del precedente: il leader della Cisl parlava la stessa lingua dell’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, mentre con Mario Monti e Elsa Fornero proprio non si capisce, e vede l’unità dei sindacati come argine a un governo con alzate d’ingegno da lui giudicate persino “pericolose”. Per Napolitano è fondamentale che l’azione del “suo” governo sia sostenuta da un clima di “coesione sociale”.
Poi c’è lei, Susanna Camusso. Non ha mai fatto mistero di voler segnare, con la sua leadership, la fine della stagione degli accordi separati e dell’isolamento della Cgil. Un quadro difficile con un corollario pesante nella cultura del maggior sindacato italiano: assoggettarlo troppo all’influenza della Fiom di Maurizio Landini.
E IN QUESTA trattativa sul mercato del lavoro Camusso ha sempre tenuto dritta la barra del timone: stare attaccati a Cisl e Uil, cercare l’accordo su tutto, presentare al governo un fronte compatto, andare alla firma del miglior accordo possibile per riconquistare il centro delle relazioni sindacali e mettere ai margini l’ala conflittuale che guarda a Landini.
Questa strategia è saltata di fronte all’imprevista forzatura di Monti sull’articolo 18. Una mossa forse studiata a tavolino o forse frutto di un calcolo politico sbagliato. Come che sia ha evidenziato un dato imprescindibile: Bonanni pensa a un sindacato che fa accordi sempre, e non concepisce il conflitto fuori dal tavolo di confronto. Camusso ha dovuto fare i conti con i malumori interni alla Cgil, dove già da qualche giorno cominciavano a circolare critiche sulla sua conduzione della partita, troppo protesa verso l’accordo per scongiurare il rischio di imboscate. E adesso il leader della Cgil fa l’unica mossa possibile: mostrare i muscoli dei suoi 6 milioni di iscritti in attesa che i profeti della coesione sociale ci mettano una pezza.
Corriere della Sera 23.3.12
La linea: abbassare i toni puntando sul fattore tempo
Il leader democratico vede Napolitano «Non staccheremo la spina al governo Senza decreto, testo in Aula tra 2 mesi»
di Maria Teresa Meli
ROMA — Il Pd toglie il piede dall'acceleratore. Pier Luigi Bersani incontra Giorgio Napolitano e i toni del leader del Partito democratico si abbassano.
Il presidente della Repubblica spiega al segretario che non si può mettere a rischio il governo, Bersani annuisce e in serata rilascia dichiarazioni concilianti: «Non staccheremo la spina a Monti per la questione del lavoro». Poi, in privato, il segretario spiega: «Sarà lunga, finché non si arriva in Parlamento saranno tutte chiacchiere a vuoto».
A questo punto il Partito democratico punta tutte le sue carte sulla moral suasion del capo dello Stato che è contrario all'idea di inserire la riforma in un decreto. «Questo — è il ragionamento che viene fatto a Largo del Nazareno — ci permetterà di prendere tempo. Non trattandosi di un decreto, il provvedimento arriverà in aula al Senato tra un mese e mezzo-due mesi, quindi ci sarà tutto il tempo per trattare e per svelenire il clima».
Per questa ragione Bersani e i suoi hanno attenuato la polemica. La linea ora è sostanzialmente questa: «Il governo ha fatto un passo avanti, ora vediamo come migliorare il resto». Sono le parole che ripetono sia Cesare Damiano che Andrea Orlando. Beppe Fioroni, poi, sprizza ottimismo da tutti i pori. Più cauto Walter Veltroni, che però ha fiducia in Monti: «Non ci chiederà di prendere o lasciare». Anche per l'ex segretario il provvedimento va migliorato in Parlamento. Secondo Veltroni «sarebbe stata molto meglio e più di sinistra la proposta Ichino che prevedeva la riforma dell'articolo 18 per i nuovi contratti», «ma nel mio partito ci sono state molte resistenze...» commenta amaro l'ex leader, conversando con alcuni colleghi di partito.
Chi invece sembra inflessibile è Stefano Fassina: «Il governo non si è dimostrato all'altezza. Le precisazioni che vuole mettere nel testo riguardo ai licenziamenti per motivi economici non risolvono il problema. Sostanzialmente non cambierebbe niente: si tratta solo di un "window dressing" da parte del governo». Il «franceschiniano» Antonello Giacomelli ironizza così sulla linea dura di Fassina: «È più facile convincere la Camusso che lui». Ma anche Matteo Orfini è tra i pasdaran del Pd: «È stato il governo a far saltare il tavolo, il nostro sì non è scontato», accusa il dirigente bersaniano.
Però quasi metà del partito — da Enrico Letta a Veltroni, passando per Paolo Gentiloni e Fioroni — la pensa diversamente da Fassina e Orfini e spera che grazie al passar del tempo il Pd riesca a staccarsi dalla Cgil e ad aprire un confronto con la Cisl. Del resto, proprio l'altro ieri Bonanni ha parlato con Bersani. Il segretario della Cisl ha chiesto al suo interlocutore di darsi da fare: «Diteci qual è il vostro punto di caduta, diteci su quale accordo volete mettere la faccia e ce la metteremo anche noi, solo così riusciremo a ottenere qualcosa, non andando appresso ai no della Cgil».
il Riformista 23.3.12
E nel Pd Bersani minaccia la conta
«Mettiamo la nostra opposizione sull’art. 18 in un documento», gli suggeriscono i suoi. «Oppure lunedì votiamo la mia relazione», dice lui. Pier Luigi Bersani, stavolta, usa l’arma della conta
di Tommaso Labate
Sull’articolo 18 Bersani minaccia la conta interna nella direzione di lunedì. «E vediamo quanti siamo». Veltroni si presenta ai microfoni del Tg3 per firmare la tregua. «Monti non può dirci prendere o lasciare».
Nella sua cerchia ristretta lo raccontano come un uomo amareggiato. Per «i patti non rispettati» dal governo, che «s’era impegnato» a inserire nella riforma del welfare l’ipotesi del reintegro anche per i licenziamenti per motivi economici. Ma soprattutto per la baraonda che s’è aperta dentro il partito, accompagnando «la ditta» sulla lunga strada verso una possibile scissione. D’altronde, come tenere insieme chi considera il testo del governo «confuso e pericoloso» (Massimo D’Alema intervistato da Bianca Berlinguer per il Tg3) e chi lo giudica «al 90 per cento molto positivo e condivisibile (Enrico Letta intervistato da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera)?
Stavolta, invece che cercare la sintesi, Bersani ha giocato all’attacco. Facendo partire ieri mattina, all’indirizzo dell’ala iper-montiana del Pd, un messaggio chiaro e semplice: «Su questo ci contiamo. E vediamo dove sta la maggioranza». E i «conti li facciamo» non dopo le amministrative, magari sfruttando la scia dell’iter parlamentare della riforma Fornero, che s’annuncia lunghissimo. No. «Lunedì prossimo». Alla direzione del partito.
Lo strumento era ancora da individuare. Un documento per chiedere al governo di cambiare radicalmente la formulazione dell’articolo 18, soluzione suggerita da alcuni componenti della segreteria. «Oppure si vota sulla mia relazione», spiega il leader ai fedelissimi.
Bersani attacca perché convinto che la maggioranza dei parlamentari democratici sia pronta a sostenerlo. Un conteggio non ufficiale l’ha fatto Paola Concia, che sta nell’area di Ignazio Marino. «Mi dispiace, caro Monti, ma stavolta rischi di non avere il mio voto», spiega la deputata. Che, in una pausa dei lavori della Camera, si spinge anche oltre: «Se i Professori non fanno un passo indietro sull’articolo 18, andranno incontro a guai grossi. Perché i due terzi dei parlamentari del Pd, me compresa, voteranno contro». Di conseguenza, conclude Concia, «Monti e Fornero hanno due strade: o cambiano, o tanti saluti».
E così comincia l’ennesimo pomeriggio di passione nel Pd. «L’articolo 18 va cambiato», insiste Bersani. «Monti non è stato all’altezza», aggiunge il responsabile economico Stefano Fassina. Mentre Matteo Orfini, in un colloquio col sito internet dell’Espresso, torna all’attacco di Enrico Letta. «Un vicesegretario di un partito che si definisce democratico, e che ha una direzione fissata lunedì, non si può permettere di decidere la posizione del partito con un tweet».
Sul fronte opposto cercano le contromosse. Beppe Fioroni prova a convincere Raffaele Bonanni a rimescolare le carte, sapendo che il leader della Cisl sta facendo i conti con la base in rivolta. Il numero uno del secondo sindacato, però, prima prova a riaprire la partita dell’articolo 18. Poi, come dicono su Twitter i vertici della Cgil nazionale, rientra nei ranghi. Anche l’ala progressista della Cei, rappresentata dal presidente della commissione Lavoro monsignor Giancarlo Bregantini, interviene su Famiglia cristiana per giudicare sbagliata «la scelta del governo» di tenere fuori la Cgil.
Ma è ancora poco, troppo poco. Anche perché da Palazzo Chigi arriva la conferma che Monti, sull’articolo 18, non fa retromarcia. «Senza un fatto nuovo», dicono i bersaniani. Sennò «lunedì ci contiamo». E il «fatto nuovo» si materializza sulla terza rete Rai alle 19. Quando, in un’intervista al Tg3, Veltroni si spinge fino a far sua la posizione del segretario. Monti, è il senso del suo ragionamento, non ci può dire “prendere o lasciare”. E «non può dirlo né al Partito democratico né al Parlamento». E ancora, sempre dalla viva voce dell’ex segretario: «Su articolo 18 il governo pensi al modello tedesco o alla proposta Ichino». E poi no, il Pd non si spaccherà. «Culture diverse ma voto unitario», insiste Veltroni. La conta s’allontana. Lasciando spazio alla pace. Armata, ovviamente.
Corriere della Sera 23.3.12
La dimostrazione che in questa maggioranza nessuno può prevalere
di Massimo Franco
L' obiettivo ormai non è quello di mettere d'accordo tutti sulla riforma del lavoro: è chiaro che sarà impossibile. Ma se è vero che il perno diventa il Parlamento, si tratta di svelenire a livello istituzionale una situazione di tensione crescente; e di non trasferire anche alle Camere quel di più di ideologico che ha segnato la trattativa con e fra le parti sociali. Si va verso un disegno di legge, come sembra suggerisse il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, preoccupato da una spirale che stava consumando i rapporti nella maggioranza eterogenea di Mario Monti; e con qualche delega sull'articolo 18, destinata a garantire che i rapporti parlamentari siano incanalati su binari meno rissosi.
Un decreto come quello che ancora ieri voleva il Pdl apparirebbe un atto di autorità del governo, e una sfida a un Pd già in difficoltà con la Cgil. Non solo. Promette di alimentare un malcontento che trapela dagli scioperi più o meno spontanei scattati in alcune città; dalle prese di posizione dei vescovi, che chiedono soluzioni condivise; e dal ripensamento sui licenziamenti del segretario della Cisl, Bonanni, allarmato per il possibile impatto sul pubblico impiego. Insomma, ieri si è avuta la sensazione netta che, così come è stato formulato dal presidente del Consiglio e dal ministro del Welfare, Elsa Fornero, il nuovo articolo 18 avrebbe avuto effetti destabilizzanti.
Non che Monti ne abbia rivisto l'impostazione. Si è limitato a dire che riformulerà la parte sui licenziamenti per evitare abusi degli imprenditori. Si tratta comunque di un segnale di attenzione, dettato dal realismo. E sarà ufficializzato se oggi, come sembra, Palazzo Chigi non seguirà la strada del decreto, sulla quale insistono esponenti berlusconiani decisi a dimostrare l'«autoisolamento» della Cgil di Susanna Camusso. Per quanto condizionata pesantemente dai metalmeccanici della Fiom, la Cgil in realtà è riuscita a cogliere e amplificare timori diffusi anche altrove. E, con la sua rigidità, ha finito per sottolineare di rimbalzo quella, simmetrica e opposta, di chi cerca lo scontro, paragonando le difficoltà dell'attuale premier a quelle del suo predecessore, Silvio Berlusconi. Ma l'accostamento non tiene conto di uno sfondo politico completamente cambiato.
Si è profilato un muro contro muro rischioso non tanto perché divide il Pd; ma perché un'eventuale spaccatura nel partito di Pier Luigi Bersani metterebbe a repentaglio la stabilità del governo dei tecnici: quello che ieri è riuscito a fare approvare anche le liberalizzazioni. Il disegno di legge caldeggiato dal Quirinale, invece, permette al segretario del Pd di ridimensionare e riassorbire spinte centrifughe potenti: almeno per ora. Non a caso, ieri si è registrata una singolare sintonia nelle parole di Massimo D'Alema e di Walter Veltroni. «Il governo non può dire "prendere o lasciare" né al Pd né al Parlamento», avverte un Veltroni solitamente «montiano». E scansa il decreto.
Occorre uno strumento «che consenta al Parlamento non di mettere il timbro sulla riforma», secondo Veltroni, «ma di fare le modifiche». Di scritto non esiste nulla. La Fornero ha spiegato a imprenditori e sindacati che riceveranno il testo solo oggi, dopo il Consiglio dei ministri. Ma quando Bersani dice che sarà «migliorabile» alle Camere, si intuisce che almeno un ostacolo di metodo è in via di superamento. Non significa che l'articolo 18 potrà essere stravolto: né Palazzo Chigi, né lo stesso Quirinale lo permetterebbero, oltre al Pdl. Non si può ritenere neppure che lo scontro sia finito: anzi, in qualche misura comincerà proprio adesso, nelle piazze e nelle aule parlamentari. Forse, però, si comincia a capire che in una fase come questa nessuno può stravincere: la vera vittoria è una sorta di pareggio che eviti una squalifica collettiva.
La Stampa 23.3.12
Ma il consenso è un valore anche in Europa
di Gian Enrico Rusconi
Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi.
Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha - giustamente - acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.
Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento - come se questa fosse la chiave della crescita.
Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.
Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto - piaccia o no - un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.
Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti - per quanto sappiamo sino a questo momento - ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.
E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.
Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art. 18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.
Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa - continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.
Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso - così come è scritto - ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.
il Fatto 23.3.12
Lo spot della Chiesa spagnola: “Vuoi il posto fisso? Fatti prete”
Un po’ di luce, verrebbe da dire, calata dall’alto. Con la disoccupazione degli under 25 al 50% la Spagna arranca. Ed è così che il lavoro garantito diventa un miracolo. E la Chiesa spagnola pare essersi attrezzata con una campagna di marketing virale “Te prometo una vida apasionante”. Il messaggio: vuoi un posto fisso? Un contratto a tempo indeterminato? E una vita appassionante? Fatti prete. Il videoclip della Conferenza episcopale spagnola (Cee) per stimolare nuove vocazioni è cliccatissima, è costata 7 mila euro è stata diffusa attraverso YouTube, Facebook e Twitter.
Corriere della Sera 23.3.12
Pedofilia, ricercatore accusa sacerdote
Teodoro Pulvireti, 37 anni, ricercatore negli Usa, ha denunciato ieri a Roma in una conferenza stampa gli abusi subiti a 14-15 anni. L'uomo ha accusato don Carlo Chiarenza, allora parroco di San Paolo ad Acireale. Pulvireti ha anche prodotto una registrazione in cui il parroco gli dice: «Io inseguivo il tuo desiderio di essere voluto bene. E lo facevo non ponendomi limiti».
Corriere della Sera 23.3.12
Dialogo sull'attualità tra il porporato e il senatore chirurgo
di Armando Torno
Sta per uscire Credere e conoscere, un libro curato da Alessandra Cattoi che contiene un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Ignazio Marino (Einaudi, pp. 84, 10). Il porporato e il chirurgo specializzatosi in trapianti d'organo, che ha lavorato per un quarto di secolo in Gran Bretagna e negli Usa, senatore del Pd, hanno cominciato questo scambio di considerazioni anni fa. Si sono incontrati in diversi luoghi, tra i quali Gerusalemme. Le ultime battute risalgono ai nostri giorni e sono avvenute nelle due stanze che «padre Martini» — così si legge sul cartiglio del campanello — abita all'Aloisianum di Gallarate.
Pagine nate lentamente e, negli ultimi tempi, costate un sacrificio particolare a sua eminenza. La voce è stata sovente sostituita dalla scrittura. Marino si recava dal cardinale e quel loro dialogo proseguiva a volte con gli strumenti tecnologici, che Martini conosce benissimo. Non vanno esclusi sguardi, silenzi, pause di riflessione. Il libro è denso; entra negli argomenti delicati, o meglio affronta problemi roventi. Undici piccoli capitoli, oltre premessa (scritta da Marino), introduzione e conclusione. Emerge con la sua forza il magistero e il giudizio di una delle massime autorità spirituali del nostro tempo che si confronta con un uomo di scienza.
Non è il frutto di un compromesso, giacché — si legge nell'introduzione — «l'ascolto attento e rispettoso delle riflessioni reciproche non significa un'adesione completa alle tesi dell'uno o dell'altro», anche se «abbiamo cercato di far leva su punti comuni». Martini, sull'inizio della vita, parla della fecondazione artificiale e ricorda che essa «viene praticata da non pochi ospedali e cliniche, anche cattoliche». È insomma disatteso il documento della Dottrina della Congregazione della Fede del 1987 che la dichiarava non lecita per un cattolico. Il cardinale commenta: «Forse sarebbe stato meglio non decidere subito la questione, ma elencare tutti gli svantaggi di una tale pratica, così che la gente fosse avviata a un giudizio moralmente responsabile».
Vengono dibattute inoltre questioni sulla vita che nasce in provetta, sugli embrioni congelati, sulle decisioni ultime, sul testamento biologico ecc. Martini è esemplare quando si affrontano argomenti delicati e le novità della ricerca: «La storia insegna come la chiusura aprioristica della Chiesa, e delle religioni in genere, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al progresso della scienza e della tecnica non sia mai stata di grande utilità. Galileo Galilei docet». Discutendo di sessualità, il cardinale nota: «L'uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore». Si parla anche del celibato dei preti e dell'ordinazione femminile.
In questa pagina dal libro Credere e conoscere è stato anticipato l'intero capitolo sull'omosessualità. Tocca temi cruciali e al centro delle cronache. Le posizioni dell'uomo di scienza e di un'alta autorità spirituale non necessitano, in tali righe, di alcun commento.
Corriere della Sera 23.3.12
Martini: il valore di un legame tra persone dello stesso sesso
«Un'amicizia duratura e fedele è sempre stata un grande onore»
dialogo di Carlo Maria Martini con Ignazio Marino
Marino — A proposito dei cambiamenti sociali e culturali con cui ci confrontiamo in questa nostra epoca, si pone naturalmente a questo punto anche la questione dell'omosessualità. Mi sembra che l'ipotesi della possibilità di un distacco completo fra sessualità e procreazione porti a interrogarci anche su questo punto.
Martini — Tenendo conto di tutto questo vorrei esprimere anche una mia valutazione sul tema dell'omosessualità. È difficile parlarne con poche parole, perché oggi ha assunto soprattutto in alcuni Paesi occidentali anche un rilievo pubblico e ha fatto sue quelle suscettibilità che sono proprie dei gruppi minoritari, o che si credono tali, e che aspirano a un riconoscimento sociale. Di qui si possono capire (non necessariamente approvare) certe insistenze che in un primo momento potrebbero parere esagerate, penso per esempio a manifestazioni come il Gay Pride, che riesco a giustificare solo per il fatto che in questo particolare momento storico esiste per questo gruppo di persone il bisogno di autoaffermazione, di mostrare a tutti la propria esistenza, anche a costo di apparire eccessivamente provocatori. Personalmente ritengo che Dio ci ha creato uomo e donna e che perciò la dottrina morale tradizionale conserva delle buone ragioni su questo punto. Naturalmente sono pronto ad ammettere che in alcuni casi la buona fede, le esperienze vissute, le abitudini contratte, l'inconscio e probabilmente anche una certa inclinazione nativa possono spingere a scegliere per sé un tipo di vita con un partner dello stesso sesso.
Nel mondo attuale tale comportamento non può venire perciò né demonizzato né ostracizzato. Sono pronto anche ad ammettere il valore di una amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso. L'amicizia è sempre stata tenuta in grande onore nel mondo antico, forse più di oggi, anche se essa era per lo più intesa nell'ambito di quel superamento della sfera puramente fisica di cui ho parlato sopra, per essere un'unione di menti e di cuori. Se viene intesa anche come donazione sessuale, non può allora, mi sembra, venire eretta a modello di vita come può esserlo una famiglia riuscita. Quest'ultima ha una grande e incontestata utilità sociale. Altri modelli di vita non lo possono essere alla stessa maniera e soprattutto non vanno esibiti in modo da offendere le convinzioni di molti.
Marino — Non si può ignorare, tuttavia, che le unioni di fatto, comprese quelle tra persone dello stesso sesso, sono una realtà del nostro tempo sebbene in molti Paesi non siano riconosciute. Di conseguenza, a coppie legate da un sentimento di amore vengono negati alcuni diritti fondamentali, per esempio la possibilità di assistenza al proprio compagno o compagna ricoverato in ospedale, la condivisione di contratti assicurativi, fino all'esclusione dall'eredità dei beni acquistati insieme o condivisi durante la vita e via di seguito. Non capisco perché lo Stato incontri delle difficoltà nel riconoscere tali unioni, pur nel rispetto del ruolo fondamentale della famiglia tradizionale per l'organizzazione della società, e d'altro canto fatico a comprendere perché le maggiori resistenze arrivino dalla Chiesa cattolica che, per lo meno in Italia, si mostra molto poco tollerante nei confronti dell'idea di ampliare i diritti a tutte le unioni. Perché tanta contrarietà, a giudicare dal pensiero che viene comunemente diffuso e reso pubblico?
Martini — Io ritengo che la famiglia vada difesa perché è veramente quella che sostiene la società in maniera stabile e permanente e per il ruolo fondamentale che esercita nell'educazione dei figli. Però non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili. Io sostengo il matrimonio tradizionale con tutti i suoi valori e sono convinto che non vada messo in discussione. Se poi alcune persone, di sesso diverso oppure anche dello stesso sesso, ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia? Io penso che la coppia omosessuale, in quanto tale, non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio e d'altra parte non credo che la coppia eterosessuale e il matrimonio debbano essere difesi o puntellati con mezzi straordinari perché si basano su valori talmente forti che non mi pare si renda necessario un intervento a tutela.
Anche per questo, se lo Stato concede qualche beneficio agli omosessuali, non me la prenderei troppo. La Chiesa cattolica, dal canto suo, promuove le unioni che sono favorevoli al proseguimento della specie umana e alla sua stabilità, e tuttavia non è giusto esprimere alcuna discriminazione per altri tipi di unioni.
Marino — Con una certa frequenza si ascoltano dichiarazioni pubbliche, anche di uomini e donne che ricoprono cariche istituzionali, che sostengono come l'omosessualità sia in qualche modo correlata alla pedofilia. Il 13 aprile 2010 in un'intervista a una radio cilena il cardinal Bertone, segretario di Stato del Vaticano, ha affermato che: «Numerosi psichiatri e psicologi hanno dimostrato che non esiste relazione tra celibato e pedofilia, ma molti altri — e mi è stato confermato anche recentemente — hanno dimostrato che esiste un legame tra omosessualità e pedofilia». Va ricordato che il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi ha poi spiegato che il segretario di Stato del Vaticano si riferiva «alla problematica degli abusi all'interno della Chiesa e non nella popolazione mondiale».
Sono affermazioni che disorientano. Già nel 1973 l'American Psychiatric Association ha indicato che l'omosessualità non è una patologia psichiatrica ma un orientamento normale della sessualità umana, alternativa alla prevalente eterosessualità. È anche ben noto che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riaffermato con chiarezza lo stesso principio il 17 maggio 1990. Quindi la scienza ha chiarito che l'omosessualità non è una malattia, non è un comportamento anomalo e gli omosessuali devono essere rispettati, avere gli stessi diritti degli eterosessuali e non essere discriminati. Invece, la pedofilia è una patologia psichiatrica e i pedofili rappresentano un gravissimo pericolo sociale. Purtroppo, negli ultimi anni sono emersi molti dati che illustrano come un crimine così orribile e ripugnante quale la pedofilia abbia trovato spazio all'interno della Chiesa.
Martini — Mi limiterò a ricordare che in questo caso c'è un inganno e una violenza che vengono usati verso chi è incapace di difendersi, anche se appare consenziente. Inoltre, gli si fa un danno incalcolabile, le cui conseguenze potranno durare per tutta la vita. Per questo l'opinione pubblica, di solito così permissiva, ha seguito con orrore queste vicende. In alcune c'era poi l'aggravante di un patto almeno implicito in cui si esprimeva la fiducia dei genitori e che veniva violato da coloro che avrebbero dovuto educare i ragazzi. È con molto dolore che abbiamo veduto che erano implicati in tali vicende anche alcuni sacerdoti e religiosi. Ma abbiamo appreso dall'esperienza che occorre essere inflessibili nell'individuare tempestivamente coloro che hanno l'inclinazione per tale pericolosa patologia e rigorosi nell'escluderli subito dalla vita sacerdotale e dalla consacrazione religiosa. Tali persone dovrebbero essere sottoposte a cure psicologiche.
Corriere della Sera 23.3.12
Vendola e l'Inverno pugliese nel Silenzio dei suoi Sostenitori
di Luca Mastrantonio
In Puglia, nel 2010, c'era un'Italia migliore. O, almeno, così credevano in tanti, a sinistra, dentro e fuori la Puglia. Intellettuali, artisti, uomini di cultura.
Ora, in Puglia, dopo gli ultimi scandali, il sogno si è interrotto, assomiglia ad un miraggio fuori luogo. Come lo slogan che sul blog www.nichivendola.it ancora campeggia: «C'è un'Italia migliore. Nichi Vendola presidente». Appello firmato, nel 2010, tra gli altri dagli scrittori Antonio Scurati e Claudio Piersanti, i registi Ugo Gregoretti, Wilma Labate, Daniele Vicari e Ferzan Ozpetek, gli attori Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Moni Ovadia, Pippo Delbono e Fabrizio Gifuni, e il produttore Domenico Procacci di Fandango (casa di produzione che ha nella Apulia film commision un partner importante).
Oltre al trio di giovani autori pugliesi, affermatisi a Roma, Mario Desiati, direttore editoriale di Fandango Libri (che ha pubblicato il libro-manifesto di Vendola), Nicola Lagioia e Alessandro Leogrande. Sostenitori della prima ora, assieme allo storico intellettuale Franco Cassano che ne fu l'anima, della «primavera pugliese». Iniziata culturalmente a fine Anni 90 ed entrata nel vivo, politicamente, con le vittorie di Michele Emiliano e Vendola nel 2004/2005.
La piena estate arrivò nel 2010, con la riconferma di Vendola a furor di popolo pugliese, benedetta dai salotti romani, alla Ettore Scola. Poi, a inizio 2012, uno strano inverno dello scontento, un imbarazzato silenzio. Rotto, tra i pochi, da Franco Cassano che a febbraio, sul «Corriere del Mezzogiorno», ha denunciato le derive leaderistiche di Vendola ed Emiliano: hanno liberato la Puglia dalle oligarchie, ma poi hanno perseguito sterili personalismi, trascurando territorio e cittadini.
Ma gli altri intellettuali? Rischiano di passare per mosche nocchiere in silenzio. Non si sentono traditi dall'epilogo triste della favola vendoliana? O sono ancora convinti che con lui l'Italia sarebbe un Paese migliore? Chi ci ha messo la faccia dovrebbe ora dire ciò che pensa.
l’Unità 23.3.12
Borse in calo, risale lo spread In Cina la radice dei nuovi guai
Pechino Industria manifatturiera da cinque mesi in contrazione p 2012 Prevista crescita al 7,5%. Per dieci anni si era sfiorato il 10%
Borse europee ancora in calo. A Milano lo spread fra titoli di Stato e Bund tedeschi risale a 317. Causa dei nuovi problemi il rallentamento dell’economia cinese, mentre Pechino vive ore di grande incertezza politica.
di Gabriel Bertinetto
Stavolta la piccola Grecia non ha colpe. A spingere in basso le Borse europee sono le cattive notizie che arrivano dalla grande Cina, con il quinto mese consecutivo di contrazione produttiva nell’industria manifatturiera.
I problemi cinesi, assieme alla diffusione di dati economici deludenti dalla Francia e dalla Germania, sembrano essere la ragione principale del forte calo registrato ieri, per il terzo giorno di seguito, a Piazza Affari. L’indice Ftse-Mib mostrava in chiusura un allarmante meno 1,70%, mentre lo spread fra i titoli di Stato italiani e i Bund tedeschi risaliva oltre la soglia dei trecento punti, fermandosi a fine giornata a 317.
SALVAGENTE SGONFIO
Immerso nella più grave crisi finanziaria dopo il crollo di Wall Street del 1929, il capitalismo internazionale si era aggrappato al colosso comunista per non affondare. Ora si accorge che il salvagente si sta sgonfiando. I naufraghi rischiano di colare a picco assieme ai soccorritori.
Lasciamo da parte immagini e metafore. Veniamo ai dati nudi e crudi. A marzo l’indice sugli approvvigionamenti delle aziende cinesi è sceso a 47,9 punti, con un balzo all’indietro di quasi due punti rispetto al 49,6 registrato in febbraio. La linea di demarcazione fra crescita e recessione nell’attività imprenditoriale si colloca a quota cinquanta. «L’indebolimento della domanda interna ha continuato a zavorrare la crescita», spiega Qu Hongbin, ricercatore della Hsbc (HongKong and Shanghai Banking Corporation). «Nel frattempo -continua Qula domanda estera è rimasta in territorio recessivo, anche se il calo si è attenuato». A complicare le cose, secondo l’economista, l’andamento dell’occupazione, che ha toccato i valori minimi degli ultimi tre anni. Segno che «la debolezza produttiva sta seriamente minando la propensione delle imprese cinesi ad assumere».
I guai dell’Occidente capitalista, che attinge ai serbatoi valutari di Pecino per turare le falle del suo pesante indebolimento complessivo, sono strettamente interrelati alle difficoltà della Repubblica popolare, che affida il suo sviluppo principalmente all’export. Il gatto si morde la coda. Se l’economia europea e americana gira al rallentatore, gli acquisti dalla Cina frenano. Venendo meno la principale molla del formidabile ritmo di crescita degli ultimi anni, l’economia cinese si indebolisce a sua volta. In prospettiva potrebbe ridimensionarsi il peso di Pechino nella sottoscrizione dei buoni del tesoro di molti Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti.
Parlando alla sessione plenaria annuale dell’Assemblea del popolo, il premier Wen Jiabao qualche settimana fa ha avvertito che le previsioni per il 2012 indicano un aumento produttivo pari al 7,5%. Qualunque governo del Vecchio e del Nuovo Continente sarebbe felice di vantare un exploit simile. Ma Pechino è abituata da un decennio a tassi di incremento vicini al 10%.
POLITICI E MILITARI
A rendere più inquietante il quadro, contribuisce l’estrema incertezza politica. Il siluramento di Bo Xilai, etichettato come il capofila della tendenza maoista, è frutto di una formidabile lotta di potere che contrappone diverse fazioni nel partito comunista, e ha ramificazioni ai vertici delle forze armate. Ieri il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post scriveva di una «intensificata campagna ideologica» per riportare «l’Armata di liberazione popolare sotto un più stretto controllo». Un sito online americano, Minjing News, specializzato in notizie, non sempre attendibili per altro, su quanto avviene nei palazzi del potere a Pechino, sostiene che Bo Xilai sarebbe stato destituito dalla carica di segretario comunista a Chongqing, perché coinvolto in un tentativo di golpe assieme a Zhou Yongkang, capo degli apparati di sicurezza, e membnro del Politburo.
Corriere della Sera 23.3.12
Voci di golpe in Cina Il maoista Bo in arresto
Monito del Partito: «L'esercito obbedisca»
di Marco Del Corona
PECHINO — Il golpe che non c'è stato ha fatto una vittima. Sotto i colpi di indiscrezioni e sospetti, è stramazzata l'opaca monotonia che accompagna la routine politica della Cina. Non era stata una cosa normale, in febbraio, la fuga dell'ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, in un consolato Usa. Inusuale pure la rimozione del suo ex mentore Bo Xilai, potente e ambizioso segretario del Partito di Chongqing, meno di 24 ore dopo che il premier Wen Jiabao ne aveva demolito, senza citarlo, gli ammiccamenti alla Rivoluzione Culturale. La somma di due eventi eccentrici ha innescato curiosità e dubbi che hanno intaccato la distante sacralità dei leader.
I blocchi on line alla ricerca di nomi e termini sensibili sono solo il contorno di un nervosismo che si alimenta nell'attesa del congresso del Partito comunista (in autunno dovrà rinnovare 7 su 9 membri del comitato permanente del Politburo, cuore del potere). I microblog scavalcano la censura ribattezzando Wen «Teletubby» e Bo «pomodoro». Le notizie, inverificabili, saldano le tensioni al vertice con gli sviluppi del caso Chongqing. Si è parlato di liti nel Politburo, con un Hu Jintao – il segretario del Partito – in difficoltà nel tenere il controllo della situazione. Il Financial Times ha rivelato di come Wen non solo abbia scaricato Bo Xilai, inviso a lui e a Hu, ma avesse intenzione di avviare un ripensamento della repressione della Tienanmen (1989), spartiacque della storia recente. Wen attraversò la crisi accanto a Zhao Ziyang, segretario del Pcc poi purgato perché morbido con gli studenti, ma sopravvisse politicamente, come la sua carriera dimostra. Il tentativo di rilettura storica, se vero, sarebbe legato ai richiami a riforme politiche viste come necessarie all'evoluzione economica della Cina e alla sua stabilità.
E se a Pechino riformisti e no si confrontano, Chongqing viene normalizzata. Il personaggio che lega la metropoli occidentale con la capitale sarebbe Zhou Yongkang, colui che tra i 9 ha il controllo della pubblica sicurezza. Zhou e Bo sarebbero (stati) alleati e un portale di informazione con sede negli Usa, Mingjing News, attribuisce loro un'ipotesi di golpe per ostacolare l'ascesa di Xi Jinping, segretario «in pectore» del Partito. Bo avrebbe acquisito l'anno scorso 5 mila fucili «per farsi un esercito privato». Wang Lijun sarebbe stato il suo uomo anche in questo, oltre che nelle campagne anticrimine, salvo venir messo da parte — secondo una registrazione appena resa nota — quando avvertì Bo di un'indagine a carico di un membro della sua famiglia.
Bo e la moglie sarebbero indagati, probabilmente in stato di fermo (senza conferme). Restano tanti misteri, come i 150 brevetti di cui sembra titolare Wang, dagli impermeabili rossi per le poliziotte di Chongqing a un sistema di monitoraggio degli Internet café. Ancora più oscuro, ciò che accade nelle segrete stanze. Tra gli aspetti visibili del nervosismo dei leader, la rinnovata campagna rivolta all'esercito perché ubbidisca al Partito, al quale anche gli avvocati devono giurare fedeltà, obbligo appena varato. Quanto al resto, che l'opinione pubblica intraveda divergenze in una leadership presentatasi sempre unanime è già da solo, se non un colpo di Stato, almeno un colpo di scena.
il Fatto 23.3.12
False cause
“Non nel nome dei palestinesi”
È stata immediata e inequivocabile la risposta delle istituzioni palestinesi alle farneticanti dichiarazioni del killer dei bambini ebrei di Tolosa. Il presidente Abu Mazen e il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, l’economista Salam Fayyad, hanno condannato la strage. “Le parole usate da Fayyad sono state in grado di raccontare la duplice ferita che quel razzista pazzo ha inferto anche ai nostri bambini e a tutti noi palestinesi che dobbiamo sopportare che queste mostruosità vengano fatte nel nostro nome”, dice Rose Shomali, una delle più note intellettuali palestinesi. Fayyad aveva detto: “Questo atto è condannato nel modo più severo dal nostro popolo e dai nostri bambini. Nessun bimbo palestinese può accettare un simile crimine che colpisce delle vite innocenti. È giunto il tempo che questi criminali la smettano di sponsorizzare i loro gesti terroristici in nome della Palestina o per rivendicare i diritti dei nostri bambini, che non chiedono altro che una vita dignitosa per sè e per tutti gli altri bambini del mondo”.
SECONDO Rose Shomali, l’omicida “era spinto da una mentalità razzista e noi palestinesi condanniamo tutte le forme di razzismo, nei confronti di tutti, ovviamente anche nei confronti degli ebrei”. Shomali ricorda a questo proposito il discorso che Yasser Arafat tenne all’Onu sul futuro Stato palestinese sottolineando che sarebbe stato un Paese per tutti: musulmani, cristiani ed ebrei. “ Mentre si stava combattendo con Israele, l’Olp sostenne la scuola ebraica a Damasco (The Alliance). Il problema degli ebrei era in Europa e non in Palestina, e gli ebrei europei sono stati utilizzati dal movimento sionista per la costituzione dello Stato d'Israele sulla terra palestinese. Ciò che mi intristisce dell’attacco ai bambini di Tolosa è che potrebbe essere strumentalizzato dai razzisti di tutte le categorieqaedisti, neonazi e fascisti- per indurre gli ebrei a lasciare l’Europa. Mi auguro che lo capiscano e non si facciano influenzare”. Shomali, storica, poetessa e docente universitaria, ha insegnato anche in atenei europei e conosce bene i problemi dei razzismi di ritorno. “Come palestinesi crediamo nel diritto dei bambini alla vita e allo sviluppo, indipendentemente da religione e razza”. (Rob. Zun.)
La Stampa 23.3.12
Netanyahu: tutta ipocrisia
L’Onu apre un’inchiesta sulle colonie israeliane “Violano i diritti umani”
di P. Dm.
GINEVRA Il Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu ieri ha dato il via libera alla prima inchiesta internazionale indipendente per valutare l’impatto degli insediamenti israeliani nei «territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est». I 47 Stati membri del Consiglio hanno adottato con 36 voti a favore, uno contrario e dieci astenuti (tra cui l’Italia) - la risoluzione presentata dai palestinesi per «indagare sulle conseguenze degli insediamenti israeliani dal punto di vista politico, economico, sociale e culturale del popolo palestinese». Presentando la risoluzione, il rappresentante pakistano ha criticato Israele per aver insistito nel costruire nuovi insediamenti nei territori occupati, sottolineando che si tratta di «violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani».
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in una nota ha accusato il Consiglio di ipocrisia: «Deve vergognarsi di se stesso. Con una maggioranza ostile a Israele, ha preso 91 decisioni, di cui 39 relative a Israele». Soddisfatti invece i palestinesi. «Questa posizione internazionale manda a Israele il messaggio che gli insediamenti sono illegali e vanno fermati», ha dichiarato il portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas.
Corriere della Sera 23.3.12
Neri in piazza per il ragazzo ucciso
Mobilitazione in America dopo la morte del 17enne Trayvon
di Massimo Gaggi
NEW YORK — Da New York a Miami l'America dei diritti civili si risveglia e manifesta per ottenere l'incriminazione di George Zimmerman, l'uccisore di Trayvon Martin, un diciassettenne nero disarmato, «freddato» il 26 febbraio scorso. Una vicenda inquietante nella quale Zimmerman, che aveva chiamato la polizia denunciando di aver notato un ragazzo «losco» col cappuccio sulla testa, sostiene di aver agito per legittima difesa, mentre la famiglia di Trayvon sospetta un omicidio a sfondo razziale. In gioco non c'è solo la responsabilità dell'uomo che ha sparato e la carriera di Bill Lee, il capo della polizia di Sanford, in Florida, dov'è stato commesso l'omicidio — da ieri «autosospeso» — accusato di non aver indagato seriamente sul caso e «sfiduciato», ma in modo non vincolante, dal consiglio comunale: per i movimenti progressisti è un'occasione per rimettere in discussione le leggi di autodifesa votate a partire dal 2005 da ben 37 Stati, che consentono a chi si sente minacciato di sparare (anche per uccidere) non solo in casa propria, ma anche all'aperto.
Fino a qualche anno fa, questo diritto a difendersi anche con conseguenze estreme era riconosciuto solo in caso di aggressioni nella propria abitazione. Poi le nuove norme — chiamate «stand your ground», letteralmente tieni la posizione, un invito a non indietreggiare davanti a una minaccia — hanno riconosciuto ai cittadini di molti Stati il diritto a reagire ovunque anche sparando, se si sentono in pericolo per un'aggressione. Una norma con grossi problemi interpretativi che ha lasciato spazio ad abusi e che è invocata da Zimmerman che sostiene di aver sparato perché assalito. Ma le registrazioni delle chiamate al 911 (il 113 americano) fatte dallo stesso sparatore — un ispanico di 28 anni — e da chi, dalle case circostanti, è stato testimone della colluttazione, raccontano una storia diversa. Zimmerman, uno di quegli attivisti che pattugliano i quartieri a caccia di criminali, aveva messo gli occhi sul ragazzino nero, uno studente liceale che era uscito dalla casa della fidanzata per andare in un negozio a comprare bibite e dolciumi. «Che fai qui?» gli ha chiesto. Trayvon avrebbe reagito aggredendolo.
La polizia ha creduto alla sua versione: non solo non lo ha incriminato, ma non ha nemmeno indagato. E' stato il padre del ragazzo, giorni dopo, a scoprire dal suo cellulare che Trayvon, sentendosi braccato, aveva chiamato la fidanzata in preda al panico. Lei gli aveva suggerito di correre via, ma lui, temendo di attirare l'attenzione con la fuga in un quartiere segnato da furti e dove la minoranza nera è malvista, preferì affrontare l'uomo che lo seguiva.
Un tragico equivoco che finisce in tragedia? Un delitto a sfondo razziale commesso da un «giustiziere» forse alterato dall'alcol o dalla droga? Tutti i sospetti sono leciti: i testimoni parlano di un aggressore che urla e non pare si tratti del ragazzo nero, mentre nei messaggi alla centrale di polizia (che lo invita a non intervenire) Zimmerman biascica parole a volte incomprensibili, forse anche un insulto razzista. Ma i poliziotti che arrivano non lo interrogano, non verificano se sia ubriaco. Prendono per buona la sua dichiarazione di legittima difesa. Le testimonianze di chi ha assistito, sia pure a distanza, non vengono considerate.
Sono anche le modalità dell'indagine a far sospettare un caso di discriminazione che coinvolge le autorità locali. Con la comunità nera della Florida in subbuglio — ieri sera grande manifestazione a Sanford e a Miami, il primo giorno proteste a New York promosse anche da personaggi come Spike Lee e John Legend — il governo di Washington ha deciso di avviare un'indagine federale che si aggiunge a quella dei procuratori della Florida, che hanno fissato un «grand jury» per il 10 aprile. Ma la famiglia di Zimmerman, il quale ha anche amici e parenti di colore, nega il movente razziale. Aspetto cruciale perché l'uccisione di un uomo in una colluttazione per strada negli Usa non è un crimine federale. L'intervento dell'Fbi è ammesso solo se emerge un caso di discriminazione.
Repubblica 23.3.12
Cinque domande prima di fare la guerra a Iran e Siria
di Bill Keller
Quando si è sbagliato, come è accaduto a me, su una cosa importante come la guerra, si deve riflettere bene per cercare di non ricadere nell´errore. E se questo vale per un giornalista che dispensa consigli non richiesti, infinitamente di più vale per chi si trova in posizione di poter realmente dare avvio a un conflitto. Eccoci qui ancora impelagati nel ritiro dall´Afghanistan e già pungolati a intraprendere nuove imprese militari contro i regimi di Siria e Iran. Dato che fare domande è il mio mestiere, ne ho formulate cinque che il presidente Obama dovrebbe porsi, e noi a nostra volta, come suoi datori di lavoro, per decidere se entrare in guerra sia giustificato e se ne valga la pena. Seguono due mie osservazioni applicabili ai conflitti che si profilano.
1. Fino a che punto è la guerra degli Usa?
Che rientrasse nell´interesse nazionale americano dare la caccia ai fanatici omicidi dietro agli attacchi dell´11 settembre e attaccare il regime afgano che li ospitava, non si discute. Indipendentemente dall´opinione che ciascuno può avere su modalità e tempistica della guerra, l´intervento in quel caso si configurava come legittima difesa, per usare il linguaggio della legge. Spesso l´interesse americano non è così ben definito. A volte ci sentiamo in dovere di difendere un alleato (e certi alleati più degli altri). In passato abbiamo notoriamente combattuto per i nostri interessi economici. Interveniamo poi in nome dei valori americani, un concetto molto elastico che può significare tutto, dall´impedire un genocidio fino a promuovere la libertà secondo la dottrina espansionistica di George W. Bush.
Nel momento in cui il senatore John McCain chiede l´intervento delle forze aeree americane per aiutare i ribelli a rovesciare il governo di Bashar Assad in Siria, applica la logica dell´"agenda della libertà" di Bush: mettendo fine alle sofferenze di un popolo e aiutandolo a liberarsi della tirannia guadagniamo punti nei confronti dei vincitori aumentando le possibilità che la Siria sia in futuro meno ostile ai nostri interessi.
2. A che prezzo?
Se si usa come unico criterio di giudizio l´interesse nazionale, c´è poca differenza tra la Libia, in cui abbiamo aiutato un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime brutale e oppressivo, e la Siria, in cui finora abbiamo deciso di non aiutare un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime ancor più brutale ed oppressivo. La differenza fondamentale è che la Siria è un osso più duro. La Libia poteva contare su una debole difesa aerea, concentrata lungo le coste, facile bersaglio dei bombardieri occidentali. Le difese siriane sono più pericolose, più corpose e estese ai centri urbani interni. «Dovremmo crearci un corridoio bombardando a tappeto e rischiare che i piloti americani vengano abbattuti, catturati dal regime e usati come scudi umani», spiega John Nagl, esperto militare di controinsurrezione, docente all´Accademia navale Usa. «Provocheremmo molte più vittime», aggiunge.
L´analisi costi-benefici può sembrare un esercizio cinico ma è inscindibile dalla questione dell´interesse nazionale. Dopo più di dieci anni di guerra che ha comportato un´emorragia di almeno tremila miliardi dalle casse dello Stato, ucciso o reso disabili migliaia di soldati e creato la spirale che porta ad atrocità e profanazioni, qualsiasi ulteriore impegno deve essere valutato alla luce dei costi che comporta per la nostra sicurezza economica e la nostra capacità di affrontare una eventuale prossima, reale minaccia. Karl Eikenberry, che ha servito in Afghanistan come comandante militare e come ambasciatore, la pone in questi termini: «Se in futuro non equilibreremo meglio fini, modi e mezzi, gli storici un giorno potrebbero dire che dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti furono costretti a ridimensionarsi a livello globale come i britannici alla fine degli anni ‘60 quando annunciarono la loro strategia "ad est di Suez"».
3. Quale alternativa?
Chi prende le decisioni al vertice dovrebbe - come ha fatto per lo più Obama - valutare con la massima attenzione le alternative alla guerra. Il presidente ha scongiurato un attacco aereo israeliano agli impianti nucleari iraniani mobilitandosi perché fossero applicate dure sanzioni ai danni delle industrie petrolifere e delle banche iraniane, e arrivando a un passo dal dichiarare che se l´Iran proseguirà nella corsa al nucleare gli Usa lo bombarderanno. Pare che le sanzioni sortiscano un qualche effetto. E se falliranno potremmo convivere con un Iran dotato di armi nucleari? Potremmo contare sul principio di deterrenza nel caso dell´Iran? Vale la pena di discuterne seriamente, ma se è vero che il concetto di deterrenza guadagna consensi tra gli esperti, Obama non può neppure accostarvisi, a meno di minare tutte le iniziative per bloccare il programma iraniano oltre che, non a caso, porre a rischio il suo secondo mandato.
4. Con chi?
In queste guerre opzionali è utile essere in buona compagnia - per accrescere la nostra autorità morale, estendere l´intelligence, dividere le spese, spalmare il rischio e per correggere la rotta. In Libia c´erano altre 17 nazioni a imporre il blocco e la no-fly zone, tra cui arabi e turchi. "Condurre da dietro" sarà anche risibile come espressione, ma è stata una strategia funzionale. Nessuno per ora si offre volontario per seguirci in Siria.
5. E poi?
È l´interrogativo che Robert Gates ha reso un mantra al Dipartimento della Difesa: che succede dopo? Quali saranno gli effetti di secondo e terzo grado? Come conseguenza involontaria (ma prevedibile) l´invasione dell´Iraq ci ha portato a distrarre attenzione ed energie dall´impresa assai più importante in Afghanistan. Ora una possibile conseguenza della fretta nel lasciare l´Afghanistan – per quanto forte possa essere la tentazione, dato il crollo della fiducia tra i due Paesi – è la crescente possibilità che la crisi afgana si trasmetta al Pakistan. In Pakistan ci sono sia armi nucleari che fanatici in abbondanza pronti ad usarle. Anche per la Siria bisogna riflettere bene sul caos che potrebbe scatenarsi. Dice Nagl: «Il problema non è rovesciare Assad, è il dopo. Alzi la mano chi è favorevole all´occupazione di un altro Paese islamico».
La prima osservazione che avanzo riguarda l´opinione pubblica. Una democrazia non può ignorarla. Le guerre non si dichiarano alle urne. L´opinione pubblica può aver torto. Era con Bush, entusiasta, ai tempi dell´invasione dell´Iraq. Ma l´opinione pubblica pesa quando si tratta di decidere. Gli Usa hanno usato la forza per fermare il genocidio in Bosnia, ma non in Rwanda e nel Darfur. La differenza è stata che gli americani (e i media Usa) erano concentrati sulla carneficina in Europa, non sulle atrocità africane.
La mia seconda osservazione è che porre le domande giuste ha senso solo se si è pronti ad accettare risposte scomode. A volte i nostri leader partono dalle risposte e procedono a ritroso, adattando la realtà alla politica, come ha detto il capo dell´intelligence militare britannica riferendosi all´invasione dell´Iraq e alle false fonti sulle armi di distruzione di massa. Un esempio è l´insistenza di Rick Santorum, il falco dei candidati repubblicani alle primarie, sul fatto che il programma nucleare iraniano non è soggetto a ispezioni internazionali. È possibile che l´Iran abbia nascosto qualche impianto, ma tutto ciò che conosciamo, ossia quello che bombarderemo in caso di attacco, è sotto la sorveglianza degli ispettori internazionali.
Se mai l´Iraq ci ha insegnato qualcosa è che bisogna accertare i fatti prima di inviare le truppe.
(c) 2012 New York Times News Service (Traduzione di Emilia Benghi)
l’Unità 23.3.12
«Liberiamoci dal dominio del Pil»
Martha C. Nussbaum riflette in un saggio sul rapporto tra uomo ed economia. E si chiede: cosa deve cambiare affinché la crescita del prodotto interno lordo sia davvero un vantaggio per i singoli individui?
di Fabio Luppino
Lo sanno anche i bambini ormai: se non cresce il Pil sono guai. Le serate passate addosso allo schermo ad apprendere le oscillazioni dello spread hanno in qualche modo avvicinato alle terminologie economiche un po’tutti. Ma il su e giù di uno zero virgola può essere tutto e può essere niente. La Cina ha accresciuto il suo prodotto interno lordo (il Pil appunto) con percentuali gigantesche in rapporto all’Europa. Ma cosa è cambiato per i cinesi?
Cosa cambia per ognuno di noi e, soprattutto, cosa deve cambiare affinché la crescita del Pil sia effettivamente un vantaggio anche individuale e non solo quantitativo generale? Martha C. Nussbaum (docente di Laws and Ethics a Chicago) nel suo Creare capacità, liberarsi dalla dittatura del Pil (pp. 222, euro 15,00, il Mulino), ultimo volume di una riflessione partita da lontano sul rapporto tra uomo ed economia, riporta continuamente la domanda alla sua analisi. In realtà trae spunto da un movimento culturale promotore di una nuova concezione del mondo. Dall’ecologia a Jeremy Rifkin, non dimenticando le riflessioni passate di Hannah Arendt e presenti di Edgar Morin. Nussbaum cita invece moltissimo Amartya Sen, la soggettività e lo sviluppo umano complessivo. Il discorso è vecchio e nuovo allo stesso tempo: ruota intorno all’emancipazione dell’uomo. Che la politica finisce spesso per dimenticare. L’uomo come fine, al contrario, spesso ridotto a mezzo, subordinato al Pil. E più si ragiona in termini di costi di produzione, produttività, competitività, costi finali più ci si allontana dallo sviluppo umano in senso stretto, se ne perde il reale significato.
ESSERE IN RELAZIONE
Nussbaum indica il fine in dieci precondizioni: la possibilità di vivere fino alla fine una vita di normale durata; poter godere di buona salute, compresa una sana riproduzione; essere in grado di muoversi liberamente da un luogo all’altro, essere protetti contro aggressioni, comprese la violenza sessuale e la violenza domestica; poter usare i propri sensi, poter immaginare, pensare e ragionare, avendo la possibilità di farlo in modo «veramente umano»; poter provare attaccamento per persone e cose oltre che per noi stessi, poter amare coloro che ci amano; essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica; poter vivere con gli altri e per gli altri, riconoscere e preoccuparsi per gli altri esseri umani; essere in grado di vivere in relazione con gli animali; poter ridere, giocare e godere di attività ricreative; poter partecipare in modo efficace alle scelte politiche, essere in grado di avere proprietà, avere il diritto di cercare lavoro alla pari degli altri, essere in grado di lavorare in modo degno.
Sembra ovvio, ma ovvio non è. Se cresce il Pil, ma una donna lavora, si prende cura dei suoi figli, delle persone anziane, della casa in che modo la crescita del Pil la libera da tutti questi gravami? Il principio della libertà negativa, liberi da, è regressivo: l’accrescimento della capacità individuale si misura con il liberi di, attivo. «Viviamo in un’epoca dominata dalla spinta al profitto e dall’ansia dei traguardi economici nazionali», scrive Nussbaum. Ma «il vero scopo dello sviluppo è lo sviluppo umano». L’uso del Pil, che comunque è una media, e nel mezzo c’è di tutto, non ci dice nulla della qualità individuale della vita. Il centro deve essere la capacità umana, il suo accrescimento e la possibilità di relazionarla con gli altri, capacità interna e esterna. L’esempio cinese torna utile: cresce il Pil, ma non le libertà individuali e le possibilità di tutti di avere il controllo sulla propria esistenza. Il contrasto però non aiuta, può anche essere fuorviante. Nelle società occidentali avviene e in modo più subdolo anche. Parlare delle donne, di cui molto si occupa e si è occupata Nussbaum, è calzante. «Quando la società pone alcune cose al di là della portata di certe persone, queste in genere imparano a non volere quelle cose scrive la professoressa dell’università di Chicago-. Le donne cresciute con l’immagine che la donna perbene sia colei che non lavora fuori casa, o che non riceve troppa istruzione, spesso non manifestano desiderio per altre cose, e quindi possono dichiararsi soddisfatte della loro condizione, sebbene siano state negate le opportunità di cui invece avrebbero potuto godere».
È chiaro che con il Pil bisogna fare i conti, ovviamente. Ma come mezzo di una politica pubblica orientata a valorizzare i singoli individui, le loro capacità. La chiave principale (come per l’opera precedente Non per profitto, il Mulino) di una concezione non neutra del Pil è l’istruzione per Nussbaum. Il Pil crea capacità con l’istruzione, se consente ai molti di essere padroni della propria vita. È chiaro che i vecchi adagi comunisti di un tempo «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità...» possono essere accostamenti suggestivi, ma estremamente ipotetici. Lo Stato deve investire e molto per la capacità individuale, non è un dato immobile o regolato dall’alto.
Per rimanere prosaicamente a noi non c’è crescita economica e, sin qui, solo disinvestimento in cultura ed istruzione. La filosofia Nussbaum, un po’ utopia di per sé, per l’Italia così messa è oggi un’altra galassia.
l’Unità 23.3.12
Troppe merci, poco lavoro: ci vuole un altro codice etico
Superare la crisi si può. I presupposti economici e tecnologici ci sono, quelle che mancano sono le premesse politiche
di Giorgio Lunghini
In una conferenza sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti, tenuta a Madrid nel 1930, Keynes affermava che entrambi i contrapposti pessimismi si sarebbero dimostrati erronei nel corso di quella stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento, e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti. La malattia della disoccupazione tecnologica, sosteneva Keynes, sarebbe stata soltanto una fase di squilibrio transitorio e nell’arco di cento anni l’umanità avrebbe risolto il suo problema economico. Lord Keynes non era un pazzo che ode le voci. Il paradiso che prefigurava è realizzabile in terra, ma non così presto e così facilmente. Negli ottant’anni passati da allora l’umanità non si è mossa nella direzione della libertà dal bisogno. L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni è oggi ancora più grave di allora. La teoria economica e l’arte del governo non sanno spiegare né vogliono risolvere il problema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro.
LE PREMESSE
Eppure le premesse tecnologiche ed economiche per una soluzione del problema ci sono, e da tempo; quelle che mancano sono le premesse politiche. Ne è prova il fatto stesso che il lavoro socialmente necessario per produrre una data quantità di merci è diminuito e continua a diminuire, ne è prova la crescita stessa della disoccupazione. Si apre dunque la prospettiva di sfruttare la tecnologia disponibile al fine di risparmiare lavoro anziché lavoratori, di rovesciare il rapporto tra macchine e lavoro vivo. È la prospettiva delineata da P. Lafargue, il genero odiosamato di Marx, poi dal Keynes di Bloomsbury. Non è detto che sia questo il destino dell’umanità, così come è prefigurato da Lafargue e da Keynes. È un esito tecnicamente possibile, tuttavia è una strada lunga e difficile per molte ragioni, soprattutto politiche, alcune delle quali indicate dallo stesso Keynes. Dovrà esserci un elevato tasso di accumulazione del capitale. Non dovranno esserci conflitti civili, guerre e incrementi demografici eccezionali. Non devono crescere oltre misura i bisogni relativi, quei bisogni che esistono soltanto in quanto la loro soddisfazione ci fa sentire superiori ai nostri simili. Bisogna saper cantare e volere partecipare al canto, desiderare di fare cose diverse da quelle che fanno di solito i ricchi di oggi, essere disposti a dividere il «pane», considerare spregevole l’amore per il denaro. Occorrono profondi mutamenti nel codice morale, dunque una determinata, paziente, lunga azione culturale e politica. Niente di automatico e tanto meno di imminente, tuttavia ci sono ragioni per pensare che questa sia la direzione.
L’aveva già detto A. Smith: «In ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo».
© 2012 Bollati Boringhieri editore Gruppo editoriale Mauri Spagnol
La Stampa 23.3.12
Wégimont, la fabbrica belga del perfetto bambino ariano
Le tragiche vite dei figli del progetto nazista di eugenetica negli Anni 40
Le madri.Selezionate perché giovani belle e forti. Dopo il parto potevano abbandonare il figlio"
I padri. Erano soldati tedeschi di «buona razza: alti biondi e con gli occhi azzurri»
di Marco Zatterin
Il grottesco esperimento è riuscito: l’uomo che racconta la storia ha gli occhi di un azzurro profondo e i capelli un tempo erano biondissimi. «Walter Beausert non è il mio vero nome», confessa. Ha vissuto mezzo secolo prima di capire che non era un orfano come gli altri. Sino agli Anni 90 sapeva d’essere nato tra metà 1943 e il primo gennaio 1944. Dopo una lunga ricerca, ha scoperto che proprio la seconda data era quella in cui era venuto al mondo, in un luogo di atrocità e innocenza, la casa Lebensborn di Wégimont, a dodici chilometri da Liegi. Lui, come molti altri, era un frutto del progetto «sorgente di vita». L’arma delirante con cui il nazismo cercava il segreto della razza ariana perfetta.
In Belgio non lo sapevano, o forse facevano finta di niente. Dopo la guerra, hanno fatto lo stesso in Germania, dove invece le fabbriche dei «bambini perfetti», attrezzate per applicare le teorie eugenetiche professate da Heinrich Himmler, si erano diffuse rapidamente. Con la guerra, irragionevoli succursali spuntarono ovunque nei territori occupati, in Francia, Norvegia, Danimarca, Polonia. Il Terzo Reich, fondato da Adolf Hitler «per durare millenni», sognava un mondo di uomini senza difetti. Voleva plasmare l’universo e riscriverne le regole.
Lo hanno fatto anche a Wégimont, un castello dall’aspetto severo, come piaceva agli architetti del Seicento. Ha un fossato e due torri. Fra la primavera 1943 e l’estate 1944, ha visto venire alla luce una cinquantina di bambini, figli di giovani donne belghe e di soldati tedeschi coi giusti requisiti. C’era anche chi sceglieva la maternità nazista per fede, ma il livello di pressione psicologica è sempre stato pesante. Per alcune era un modo per sfuggire alla durezza dell’occupazione. Altre pensavano solo di salvarsi la vita.
I nazisti celebravano i neonati con un rito battesimale sfarzoso, generalmente all’aperto. A Wégimont avveniva sugli scaloni esterni, una festa di infermiere, dottori e soldati dalle uniformi nere. Gli stessi scaloni dove oggi la domenica saltano allegre famiglie, visto che la tenuta è diventata un parco giochi. Durante la guerra era diverso, c’erano disperazione e violenza, sebbene le madri sapessero di avere una via di uscita: dopo dodici settimane potevano lasciare la creatura e contare sulla massima riservatezza del Reich. Ai bimbi veniva costruita una «vita». Pare siano stati 9 mila in Germania e 12 mila in Norvegia. Il Belgio, dove il dibattito sul collaborazionismo trova sempre ferite mal rimarginate, i numeri sono più bassi. Come il profilo che si è tenuto su questa trama.
Un faro lo ha riacceso un giornalista de L’Express, Boris Thiolay, che in un libro ha svelato le trame del Lebensborn vallone. Sono venuti fuori i nomi, l’orrore e la tristezza. Dopo la guerra quasi tutti i bambini di Wégimont non hanno ritrovato i loro genitori. Così sono stati affidati a famiglie e servizi sociali o rinchiusi negli orfanotrofi del loro Paese, in Germania, Canada, Australia. Qualcuno è stato adottato, molti si sono sentiti dire almeno una volta nella vita che erano i «figli della vergogna».
È capitato anche a Walter Beausert, che oggi afferma di essersi ritrovato. Mostra la foto dei genitori. Lei è Rita, belga, 17 anni quando è rimasta incinta. Lavorava nelle cucine di Wégimont, era ovviamente bionda. Lui è Hans, un caporale della Wehrmacht, che concepisce due figli con la cuoca prima di essere spostato sul fronte russo, essere preso prigioniero, tornare in Germania Est e risposarsi. Walter li ha cercati per tutta la vita. Nel 1994 ha scovato la madre poco lontano, a Spa, e ha chiuso il cerchio. «Non mi ha mai detto quello che speravo - confessa oggi - non ha detto “Sei mio figlio”. Ma non ha smesso un attimo di stringermi il braccio».
Repubblica 23.3.12
Archivio o motore di ricerca, come funziona la macchina dei ricordi
Un fotografo e un neuroscienziato, Scianna e Cappa, dialogano su un tema fondamentale per la nostra vita ma anche per l'apprendimento
di Paolo Magliocco
Cappa. Lo studio scientifico della memoria non gode di un privilegio particolare rispetto a un approccio letterario o artistico su un oggetto che poi non è neanche necessariamente lo stesso. La definizione più generale che si può dare dal punto di vista scientifico è che si tratta di qualunque cosa che lascia una traccia a livello della nostra mente, del nostro cervello. Si può scendere a un livello estremamente semplice, addirittura cellulare: se espongo ripetutamente una cellula a uno stimolo la sua risposta allo stimolo diminuisce e questo indica che c´è stato un apprendimento, conseguenza di qualcosa che è arrivato dall´esterno. Da qui si sale fino al livello della memoria autobiografica, che invece è un fenomeno estremamente complesso e che possiamo pensare di studiare solo negli esseri umani, perché presuppone il linguaggio. L´una e l´altra memoria condividono il principio di base, generalissimo, che ci sono eventi che lasciano una traccia. Ma abbracciano una varietà enorme di concetti, tanto è vero che adesso si parla di "memorie" più che di memoria.
Scianna. Questo discorso della traccia riguarda molto il mio lavoro. Io penso che la fotografia abbia costituito nella vicenda culturale umana una rottura quasi di carattere copernicano. Per la prima volta ci troviamo di fronte a immagini che non sono fatte dall´uomo, ma che sono prelevate dal reale, che sono appunto traccia di qualcosa. E sono qualcosa di estremamente obiettivo e allo stesso tempo ambiguo. È come se la fotografia avesse potuto realizzare il sogno faustiano di fermare il tempo anche solo per un attimo. La fotografia non è solo una fetta di spazio, ma anche una fetta di tempo. E penso che questo abbia cambiato enormemente il nostro modo di riferirci alla memoria. Lei dice "traccia". Io nel mio archivio, nel mio "magazzino", ho più di un milione e duecentomila immagini, ma se le mettiamo tutte insieme arrivano a rappresentare un paio d´ore della vita delle persone che vi sono ritratte. Eppure io ci ho messo cinquant´anni a farle. Ma sono poi un vero magazzino, indipendente da noi, che ci si ripresenta tale e quale in ogni momento, come quando lo abbiamo lasciato? A me pare che con le fotografie non funzioni così.
Cappa. In effetti una cosa che io dico sempre agli studenti è che la memoria non è una fotografia. Perché la metafora della fotografia è molto facile, c´è l´idea che il ricordo sia in qualche modo un oggetto immagazzinato, mentre non è affatto così. La memoria è un processo ricostruttivo dove c´è l´informazione arrivata dal mondo esterno che ha lasciato una traccia, ma c´è soprattutto l´attività del nostro cervello, basata sulle nostre conoscenze preesistenti, sulle nostre aspettative e così via che porta alla costruzione del ricordo. Quindi il ricordo può essere più o meno fedele, ma non è mai una fotografia nel senso banale del termine, cioè una riproduzione di uno stato di cose del mondo esterno. Ci sono tantissimi dati sperimentali che ci dicono come sia facile, facilissimo, indurre falsi ricordi in persone assolutamente normali. Quindi la memoria non è una fotografia. Anche se lei adesso mi sta dicendo che neanche la fotografia è in realtà una fotografia…
Scianna. Questo volevo dirle! Nella fotografia c´è una dimensione di traccia; certo, l´obiettività e l´inoppugnabilità della foto esistono, ma vengono continuamente rimesse in discussione. Io penso che noi guardiamo alle fotografie esattamente come recuperiamo i nostri ricordi: le guardiamo nel presente, le ricordiamo nel presente, aggiungendo tutto ciò che ha a che fare con il momento in cui le guardiamo, a partire dal motivo stesso per cui le prendiamo in mano. Insomma, non torniamo al momento in cui la foto è stata scattata.
Cappa. Sì, anche il ricordo si riforma ogni volta che lo evochiamo. una delle cose che hanno indicato queste ricerche è che non esiste una sede del ricordo, i ricordi emergono recuperando una serie di informazioni che sono distribuite. È una specie di motore di ricerca, se si vuole usare una metafora. Questo motore ricerca l´informazione e la ricostruisce, sulla base di tanti fattori legati alle situazioni.
Scianna. Mi tolga un´altra curiosità. Perché io sono qui soprattutto per soddisfare le mie tante curiosità. Quello che fate voi con le neuroscienze è come aprire delle finestre sul funzionamento della nostra mente. Una cosa da far girare la testa, è il caso di dire. Però ho l´impressione che scrittori che hanno fatto della memoria la materia stessa del loro scrivere o del loro immaginare, penso a Proust o a Borges, ci abbiano lasciato descrizioni dei meccanismi elaborativi della nostra mente e della memoria per cui spesso leggendo con stupore delle nuove scoperte sembra quasi che loro, senza avere questi strumenti, avessero già capito. Come se le neuroscienze fossero un modo di confermare cose che gli uomini sapevano già. È così?
Cappa. Sono completamente d´accordo. Come scienziato e appassionato di letteratura. Noi spieghiamo aspetti molto semplici, i mattoni costitutivi dei processi, non quelli più complessi e interessanti. Per capire come funziona la memoria nel suo insieme le risposte le trova di più nelle opere di letteratura. Portando questioni complesse in meccanismi sperimentali molto semplici, noi possiamo capire cose che magari ci aiutano dal punto di vista pratico. Per esempio dal punto di vista medico. Una delle malattie più importanti di oggi, l´Alzheimer, è un disturbo della memoria. Capirne qualcosa di più potrebbe aiutarci a trovare terapie efficaci. C´è anche un settore chiamato "educational neuroscience", neuroscienze per l´educazione, che è interessante. Ma per ora, se dovessi dire che ci sono risultati delle neuroscienze che hanno un qualche impatto sull´educazione ne saprei citare pochissimi, forse il fatto che gli studi hanno confermato che i disturbi dell´apprendimento abbiano un´origine neurologica e non psicologica. Questo secondo me è un contributo essenziale.
Scianna. Non da poco!
Cappa. Sì, non è un contributo da poco. Ma se dovessi dire che le neuroscienze hanno qualcosa da dirci su come insegnare le lingue, credo di no…
Scianna. A proposito di Alzheimer, io ho l´impressione che il concetto di memoria sia profondamente legato a quello di oblio. Se io penso alla fotografia, posso dire come si fanno o no certe foto, come si sceglie l´inquadratura, e questa forse può essere una metafora di come viene tagliata la realtà per immagazzinarne solo un pezzo, perché tutto non sarebbe possibile. La fotografia ha questa caratteristica tecnica, che registra in qualche modo quello che c´è. Ricordi che sono consegnati a una tecnica. Noi per esempio possiamo non ricordarci di come eravamo bambini, ma abbiamo la possibilità di saperlo attraverso una foto. Si è creato una sorta di deposito di ricordi che sono fuori di noi, ma che finiscono per entrare in rapporto con la nostra coscienza.
Repubblica 23.3.12
Una riflessione sul dibattito. Dal punto di vista dei genitori
La psicoanalisi e l’autismo
di Massimo Ammaniti
Se fossi il padre di un bambino autistico mi sentirei un po´ estraneo rispetto al dibattito sui giornali di queste ultime settimane avviato dall´articolo di Corbellini sul Sole 24 Ore e che è stato successivamente ripreso dai Presidenti delle Società Psicoanalitiche Italiane proprio su questo giornale. Mi sentirei un po´ estraneo perché dopo il riferimento alle Linee Guida dell´Istituto Superiore di Sanità sul trattamento dei bambini autistici, si è polemizzato in modo troppo liquidatorio con la psicoanalisi. E gli psicoanalisti chiamati a rispondere, seriamente, anche da Repubblica, su questo tema generale - la psicoanalisi deve accettare i criteri di verifica della scienza oppure si tratta di una disciplina " a statuto speciale", sottratta a qualsiasi verifica empirica - non hanno poi potuto affrontare la questione particolare. Che è questa: la psicoanalisi può dare una risposta efficace al trattamento dei bambini autistici?
Ma vorrei ritornare alle Linee Guida, queste privilegiano l´intervento comportamentale con i bambini autistici in modo da aiutarli ad acquisire determinate competenze, ad esempio raggiungere il controllo urinario oppure tenere sotto controllo movimenti stereotipati ed incontrollati oppure poter svolgere compiti collaborativi. Va sottolineato a questo proposito che se questo può valere per le forme più gravi in cui è presente anche un ritardo intellettivo, vale molto meno per le forme di autismo caratterizzate da un miglior funzionamento. In ogni caso queste acquisizioni quantunque parziali possono aiutare il bambino ad adattarsi meglio alla vita familiare e scolastica, riducendo reazioni di rifiuto e di insofferenza nei suoi confronti.
Ma come genitore mi sentirei preoccupato che il trattamento comportamentale possa focalizzare il rapporto con mio figlio sulle acquisizioni comportamentali perdendo di vista aspetti fondamentali come le capacità di relazione cogli altri, la sua capacità di provare emozioni e poter condividere con gli altri quello che sta provando.
E´ qui che la psicoanalisi può dare un suo contributo fondamentale, per intenderci non le teorie di Bettelheim che considerava l´autismo come una fortezza vuota e neppure quelle di Frances Tustin, che riteneva l´autismo la conseguenza del narcisismo delle madri incapaci di accettare il distacco del figlio al momento della nascita, che privilegiavano piuttosto un intervento basato sull´interpretazione verbale. Mi riferisco al contrario ad una psicoanalisi relazionale che sappia valorizzare la dimensione dello sviluppo del bambino, in modo da aiutarlo a costruire un legame di attaccamento e a riconoscere se stesso come individualità. Allo stesso tempo un intervento psicoanalitico con i genitori per aiutarli a sopportare l´ansia e il peso di un bambino che si ritira dalle relazioni e a volte mostra più interesse per gli oggetti che per le figure umane. I genitori vanno aiutati a sopportare questo scacco relazionale e a ricercare i segnali del bambino su cui costruire un rapporto con lui. Pertanto l´intervento psicoanalitico quantunque non previsto dalle Linee Guida sarebbe fondamentale per sviluppare nel bambino le capacità empatiche e di mentalizzazione che sono particolarmente carenti nell´autismo. Ma non è sufficiente sottolineare la bontà della psicoanalisi per dimostrarne l´efficacia, servono prove empiriche che dimostrino quale intervento funziona meglio e con quale tipologia di bambini. Di nuovo come genitore vorrei sapere in modo documentato come devo aiutare mio figlio ed ottenere i migliori risultati.
Nel campo della ricerca è stato ampiamente dimostrato che l´autismo ha una base genetica consistente che si ripercuote sullo sviluppo cerebrale, tuttavia come l´epigenetica ha messo in luce la genetica non è un destino immutabile e può essere modificata e modulata con gli interventi ambientali e con la presenza attenta e sensibile dei genitori che sono i primi protagonisti di un intervento nei confronti del figlio, se opportunamente sostenuti e indirizzati.
Corriere della Sera 23.3.12
Un sorso di sincerità, da Platone a Erasmo
Tra etica ed estetica, Kierkegaard fece la fortuna del motto «In vino veritas»
di Armando Torno
Pochi motti sono stati fortunati come il medievale In vino veritas, ovvero «Nel vino la verità». Nonostante gli sforzi dei filologi, non si trova in questi termini né in Orazio e in Plinio; casomai codesti autori utilizzarono un accostamento tra vino e verità che i Romani conoscevano grazie a un proverbio greco. Il quale, riportato da Alceo, passò anche dalle pagine del Simposio di Platone e nella Vita di Artaserse di Plutarco: «Vino, fanciullo mio, e verità».
L'unione delle due immagini si ritrova anche nei lessici bizantini (quello di Suda, per esempio), ma non è il caso di tormentarsi ulteriormente sulla sua fortuna, perché il vino è sempre stato amato e l'ebbrezza che genera gradita. Anzi a ben guardare talune opere classiche, magari proprio cominciando dal citato Simposio platonico, ci si accorge che il mondo pagano vedeva dietro queste parole una sorta di sacralità dei patti o delle verità pronunciate con l'aiuto del vino. Non a caso, il corrispettivo del motto medievale si ritrova nelle lingue moderne, a cominciare dal francese: «Avant Noé les hommes, n'ayant que l'eau à boire, ne pouvaient trouver la vérité». Si tratta di una battuta ironica e si riferisce a un passo della Genesi biblica (9, 20-21), riguardante i momenti che seguono il Diluvio: «Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all'interno della sua tenda».
Comunque il frutto della vite è sempre piaciuto anche a letterati e filosofi moderni, non soltanto agli antichi così rispettosi di Bacco o del corrispettivo greco Dioniso, dio che ispirava le cerimonie sacre al nettare con perdite di ragione (non a caso il Senato romano ne proibì i riti nel 186 a.C.). Se Nietzsche ricorda il suo maestro Friedrich Wilhelm Ritschl che «aveva sempre un bicchiere di vino sul tavolo dove lavorava», non dimentichiamoci che il letterato toscano Francesco Redi nel Seicento poteva scrivere nel suo Bacco in Toscana: «... e quando in bel paraggio/ d'ogni altro vin lo assaggio,/ sveglia nel petto mio/ un certo non so che,/ che non so dir s'egli è/ o gioia, o pur desìo:/ egli è un desio novello,/ novel desio di bere,/ che tanto più s'accresce/ quanto più vin si mesce:/ mescete, o miei compagni,/ e nella grande inondazion vinosa/ si tuffi...». Insomma, un vero e proprio inno alla crapula, fonte di verità.
Ma la vera fortuna contemporanea del motto medievale e dello spirito che lo permea, soprattutto nell'ambito del pensiero, si deve a Kierkegaard che intitolò In vino veritas la prima parte della sua opera Studi sul cammino della vita.
Pagine scritte nel 1845, rappresentano nel sistema del filosofo danese i diversi gradi del momento estetico. Sono fascinose, seducenti. Kierkegaard ci fa assistere a un dialogo tra personaggi in un banchetto, evocando scene descritte da Petronio nel Satyricon. Le figure si succedono in una specie di monologo sul tema dell'amore, contaminando etica ed estetica. Il vino aiuta le loro parole. Gli argomenti ruotano attorno alla donna. La quale viene via via definita contraddizione, scherzo, assurdo, creatura ridicola, gioco, ma anche — usando la traduzione di Icilio Vecchiotti pubblicata da Laterza — «una infinità di finitezze», o meglio una sorta di inganno che merita di essere ingannato. Ma se da essa si dovessero prendere le distanze, si giungerebbe a negare l'uomo. Un gioco ironico, perfetto, con comparse che riflettono le opinioni di Kierkegaard. E il suo sublime metodo.
Ci sarebbe da perdersi nel far vivere altre intuizioni. Ci basti chiudere con un'opera che sta a base della modernità: gli Adagia di Erasmo da Rotterdam. Ora che Les Belles Lettres hanno finalmente pubblicato la prima traduzione integrale in una lingua moderna (cinque volumi, con testo latino a fronte; a cura di Jean-Christophe Saladin) si potrà proseguire con le varianti del motto registrate dal meraviglioso umanista. Era convinto che non sempre la verità si contrappone alla menzogna, ma sovente agisce come antidoto alla simulazione. E il vino? Aiuta. Aiuta anche in tale caso.
Repubblica 23.3.12
Frank Close, fisico di Oxford, racconta in un libro i segreti della particella elementare
Lunga vita al neutrino, la cosa più vicina al niente
“L’annuncio del superamento della velocità della luce è stato un po’ affrettato ma in quegli studi resta molto da scoprire. E ci potrà tornare utile più avanti"
di Elena Dusi
Di tutte le cose che costituiscono l´universo, le più comuni e insieme le più bizzarre sono i neutrini». Inizia come una favola il libro che Frank Close, fisico teorico dell´università di Oxford, ha scritto per raccontare una delle particelle elementari. Neutrino (Raffaello Cortina) racconta i segreti della «cosa più vicina al niente che esista», che a settembre tanto ci ha entusiasmato dopo l´annuncio (poi rientrato) della sua capacità velocità superiore a quella della luce.
I neutrini sono le particelle più diffuse nell´universo?
«Mentre parliamo il nostro corpo è attraversato da miliardi di neutrini. Per sapere quanti ne produce il Sole ogni secondo dovremmo scrivere un 2 seguito da 38 zeri: più dei granelli di sabbia delle spiagge del mondo. Ma sono particelle innocue. Attraversano la materia senza interagire».
Quanto vive un neutrino?
«Praticamente per sempre. I neutrini prodotti nel Big Bang sono in viaggio ancora oggi. Anche i minerali debolmente radioattivi di ossa e denti producono neutrini. E noi possiamo guadagnarci la nostra dose di eternità grazie ai neutrini che abbiamo rilasciato nell´universo».
Dovendo attribuirgli una personalità, che aggettivo sceglierebbe?
«Timido. Tutte le altre particelle sono sensibili alla forza forte o a quella elettromagnetica. Il neutrino invece sente solo quella debole. Ecco perché non interagisce quasi con nulla».
In che senso il neutrino ha cambiato la storia di Enrico Fermi?
«Fermi - caso raro per un fisico - si è cimentato sia con la teoria che con gli esperimenti. Da teorico offrì una spiegazione del decadimento beta che coinvolgeva anche i neutrini e che sottopose a Nature, ma la rivista la rifiutò considerandola troppo speculativa. Molti anni dopo Nature ricordò quell´episodio come il più grande errore della sua storia. Intanto Fermi, deluso, lasciò la fisica teorica per dedicarsi agli esperimenti. Con i successi che sappiamo».
All´inizio sembrava impossibile osservare i neutrini.
«Le chances erano considerate quasi nulle. Ma Pontecorvo sottolineò che "quasi nullo" non vuol dire "nullo" e chiese il permesso di costruire un rivelatore a Dubna, vicino Mosca. Come fonte di neutrini pensava di usare il reattore nucleare in funzione proprio a Dubna, la cui esistenza però era considerata segreta. Pontecorvo quell´autorizzazione non la ottenne mai e altri scienziati usando il suo metodo riuscirono a osservare i neutrini per primi. Vinsero il Nobel nel 2002. Di sicuro se Pontecorvo fosse stato ancora vivo lo avrebbe condiviso».
I rivelatori di neutrini sono spesso costruiti in luoghi inospitali: in Antartide, nelle miniere, sul fondo marino. Come mai?
«Ma c´è anche un magnifico laboratorio al Gran Sasso. La risposta è che per osservare i neutrini bisogna trovare riparo dai raggi cosmici che confondono i rivelatori».
A proposito di Gran Sasso, è rimasto deluso per la smentita dei neutrini più veloci della luce?
«Né eccitazione né delusione. La natura ha le risposte e noi dobbiamo solo sforzarci di scoprirle. Forse dare tanta pubblicità a un risultato così dirompente è stato come mettere il carro davanti ai buoi. Ma non critico i membri dell´esperimento Opera: loro hanno ammesso fin dall´inizio la possibilità che qualcosa nel loro strumento non fosse stato compreso fino in fondo».
Sono stati commessi errori?
«No assolutamente. Parliamo di esperimenti che fanno misurazioni dell´ordine dei nanosecondi, capaci di calcolare la distanza di 730 chilometri tra il Cern e il Gran Sasso con la precisione di un paio di centimetri. A questi livelli anche il tempo che un segnale impiega a percorrere un cavo diventa importante. E l´esperimento Opera era stato concepito per fini del tutto diversi: osservare se i neutrini sparati dal Cern cambiavano natura durante il loro percorso».
Resterà qualcosa dell´annuncio di settembre?
«Il lavoro di questi mesi è servito a conoscere meglio l´apparato. Anche negli studi teorici che hanno cercato di spiegare il fenomeno dei neutrini superluminali potrebbero esserci nuovi semi per le strade da seguire domani».
Quali altri sorprese i neutrini potrebbero riservarci?
«Se esistessero neutrini con massa molto grande, come previsto da Majorana, potremmo forse spiegarci la natura della materia oscura. Abbiamo poi il problema di capire come mai il Big Bang non abbia prodotto uguale quantità di materia e antimateria. Considerato che le due si annichiliscono quando si incontrano, il nostro universo non sarebbe sopravvissuto. Il perché oggi esistiamo, noi che siamo fatti di materia, è un grande mistero. Ma ci sono indizi che i neutrini abbiano a che fare con la risposta che cerchiamo».
il Riformista 23.3.12
La Rivoluzione nacque dai libertini. E Sade lo sapeva
Il Marchese sosteneva che lo spirito del 14 luglio doveva realizzarsi in uno Stato garante di tutti gli istinti naturali: come la sopraffazione del più forte, l’omicidio, la calunnia
di Errico Buonanno
Il marchese de Sade non finirà mai di scandalizzarci. Le sue provocazioni tutte coscienti, tutte volute non impallidiscono col tempo, semplicemente perché, da buon libertino, da ottimo illuminista, egli era innanzitutto un indagatore della natura umana. Conosceva a perfezione i meccanismi, diremmo oggi psicologici e neurologici, del gusto e del disgusto, dell’attrazione e della repulsione. Fu amato per questo dai surrealisti: non in quanto grottesco, ma in quanto anticipatore di Freud. Sade non sarà mai pacificato. Per questo ogni pagina, ogni riga, continuerà a porci dei problemi. A deliziarci, a tormentarci. Coscientemente, a disgustarci.
Stampa Alternativa ha da poco riproposto alcuni suoi scritti poco noti. Sotto il titolo conciso di Ancora uno sforzo si raccolgono pagine politiche, e soprattutto il quinto dialogo della Philosophie dans le boudoir, appello accorato e fulminante alla Francia rivoluzionaria che portava il titolo più esteso e geniale di Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani. Una modesta proposta alle forze giacobine per realizzare finalmente, totalmente, lo spirito del 14 luglio. Semplicemente: distruzione completa della religione, e ritorno assoluto ai principi naturali dell’uomo. Principi che, naturalmente, Sade sa benissimo non corrispondere affatto con la fratellanza e la concordia di cui cianciavano gli idealisti. L’uomo è animale, prodotto della natura come insegnava il vate Rousseau. E questo significa che uno Stato più giusto dovrebbe garantire la legalità di tutti gli istinti naturali: sopraffazione del più forte, omicidio, calunnia. E prostituzione, ovviamente, sesso libero e dominatore. Solo così la Francia potrà veramente essere un faro di liberazione per tutto il resto dell’umanità.
Lo sforzo logico e retorico con cui il Marchese cerca di dimostrare la necessità di questa completa rivoluzione etica ci spiazza, ci intriga, ma soprattutto ci lascia aperte due ipotesi almeno sulla reale natura di queste pagine infuocate. Cosa voleva, veramente, Sade? Come dovremmo prendere e intendere il suo appello? In un suo saggio del ’96, Libri proibiti, Robert Darnton aveva meravigliosamente dimostrato come il libertinismo avesse costituito il vero apripista per la libertà politica e ideologica dell’illuminismo. La Rivoluzione Francese era letteralmente nata dai romanzi lascivi e pornografici, che erano riusciti prima delle rivolte di popolo e della ghigliottina ad abbattere il vecchio regime a colpi di scandali morali. Perciò De Sade, il maestro del libertinismo, sarebbe assolutamente coerente, assolutamente giacobino con queste proposte scandalose: il Divin Marchese era il più rivoluzionario dei rivoluzionari, un profeta che, al solito, gli stessi esponenti della nuova Francia furono costretti a sacrificare e a mettere a tacere, per permettere alle sue idee di normalizzarsi e di tramutarsi in politica, in realtà.
Eppure qualcosa continua a stridere, qualcosa continua a insospettirci. Ed è il sospetto che Stefano Lanuzza espone nell’introduzione. Sade non poteva non rendersi conto dell’inattuabilità di questo ideale. Da marchese, da nobile, da figlio – volente o nolente – dell’ancien régime, non poteva non osservare sprezzante l’imbarbarimento della parola libertà messa in piazza col Terrore. Ecco così che emerge, allora, una “seconda versione di Sade”. Non oltranzista, ma sfacciato e sarcastico fustigatore delle ristrettezze mentali delle stesse forze rivoluzionarie. Quella di Sade sarebbe una “modesta proposta” alla Swift, una caricatura della brutalità giacobina tesa soltanto a mostrarne gli eccessi. Di là dal mito, di là dalla figura pubblica, il sadismo era letteratura e filosofia, e come ogni autore di filosofia e letteratura, questo scrittore forsennato conosceva l’iperbole e l’ironia, e sapeva dove colpire per mettere a nudo il proprio avversario. Ancora uno sforzo è insomma un ricatto tra pulsioni e società. Se veramente i rivoluzionari affermavano di voler restituire l’uomo alla bontà della proprio natura, Sade gridava loro sarcastico l’unica verità che essi facevano finta d’ignorare: la natura non è buona, è brutale. Perciò decidessero da che parte stare, ché i mezzi termini non erano concessi.
Quale sia la verità, quale versione sia corretta, sinceramente poco importa. La grandezza di Sade rimane la stessa: quella, cioè, di continuare a camminare coscientemente sul filo, sapendo bene che la scelta, altrimenti, a destra o a sinistra, è sempre e comunque solo il baratro.
Roma Capitale, Comune di Roma
A Castel Sant'Angelo la favola di Amore e Psiche, il mito nell’arte dall'antichità a Canova
qui
Repubblica Lettere 22.3.12
Una grande legge che rischia di sparire
di Carlo Patrignani
UNA grande legge, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, rischia di finire nel tritacarne della sciagurata ideologia neoliberista che tutto considera in termini di denaro, guadagno facile, individualismo assoluto. Una grande legge di civiltà voluta a suo tempo da uomini come Riccardo Lombardi e Giacomo Brodolini, Giuseppe Di Vittorio e Bruno Trentin, Gino Giugni e Federico Mancini.
Tutti autentici riformisti che, di certo, non difettavano per onestà intellettuale e morale. E aggiungerei i protagonisti di questa nobilissima legge: i milioni e milioni di lavoratori, di umili e onesti operai, ai quali non arrivò neanche una lira in tasca ma un bene più prezioso, la libertà politica e sindacale nel posto di lavoro e con essa la dignità di essere "esseri umani".