l’Unità 22.3.12
Il direttivo ha deciso all’unanimità la mobilitazione. «Il governo attacca i lavoratori»
Il segretario: «La modifica dell’articolo 18 cambia i rapporti di forza a vantaggio delle imprese»
La Cgil proclama lo sciopero
Camusso: la partita non è chiusa
Il giorno dopo il «via libera» alla riforma del mercato del lavoro, la Cgil convoca il suo Direttivo. Mobilitazione di 16 ore di sciopero e campagna d’informazione a tappeto. Camusso: la partita art.18 è aperta
di Massimo Franchi
Mai nella storia della Cgil erano state indette 16 ore di sciopero. Il via libera a larghissima maggioranza ( 95 favorevoli, 2 contrari, 13 astenuti) del Direttivo di Corso Italia conferma la straordinarietà della situazione. La riforma del lavoro firmata Monti e Fornero produce la reazione ferma della Cgil e di Susanna Camusso, una sorta di dichiarazione di battaglia a tutto campo contro l’esecutivo attuale.
Occhi stanchi, sintomo di una notte agitata, e voce più roca del solito, il segretario generale pesa le parole ma attacca a testa bassa: «Il governo scarica sui lavoratori, sui pensionati e sui pensionandi i costi delle operazioni che si vanno facendo», «non è minimamente interessato alla coesione sociale come dimostra la scelta di non concludere la trattativa».
La ricostruzione del «giorno dell’accordo separato», «della fine della concertazione», «dell’isolamento della Cgil» (come sostengono tanti commentatori) parte da una semplice constatazione di «incoerenza» delle parole di Monti: «Continua a dire che l’articolo 18 non era al centro della riforma, ma allora non si capisce perché aveva bisogno di un pronunciamento proprio su questo aspetto». La spiegazione è semplice: «Il messaggio che vuole portare in giro per l’Asia (per il tour governativo che parte sabato, ndr) è che nel nostro Paese si può licenziare liberamente».
LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO
Sull’articolo 18 dunque non siamo davanti ad una «semplice manutenzione», ma alla «scelta di cancellare lo strumento di deterrenza verso i licenziamenti: si cambiano i rapporti di potere nei luoghi di lavoro e si mette a rischio licenziamento i lavoratori più deboli». Il messaggio al governo è preciso: «La partita non è chiusa, il Parlamento intervenga e modifichi la norma». L’invito è rivolto a «tutta la politica», e dunque non solo alla sinistra, «è di domandarsi se si può approvare una norma che cambia così profondamente le condizioni dei lavoratori». Il tema è quindi quello della «riconquista del reintegro».
L’analisi del resto della riforma è approfondita e non manca di sottolineare gli aspetti positivi. «Sulla lotta alla precarietà, al netto dell’assalto che il sistema delle imprese sta portando avanti in queste ore, i passi avanti sono importanti anche se una sola forma contrattuale sarà, forse, cancellata (il contratto di associazione in compartecipazione che rimarrà per i soli familiari, ndr). Più negativo il commento sul capitolo ammortizzatori: «L’universalità promessa per la Cassa integrazione e per il cosiddetto Aspi non c’è» e in quest’ultimo caso la mancanza pesa di più perché «il governo che parla sempre di giovani si è totalmente dimenticato di tutti i lavoratori para-subordinati».
L’impegno preso per oggi è quello di partecipare al tavolo fissato per le 16 nella sede tecnica del ministero del Welfare di via Flavia. «Come promesso consegneremo al governo il documento messo a punto dal nostro Direttivo», annuncia Camusso. Anche se non si fanno illusioni sulla possibilità che il governo possa fare alcuna marcia indietro: «È stato Monti a dire che il testo sull’articolo 18 è blindato».
INVITO A CISL E UIL
Lo strappo di martedì ha comunque messo in discussione i rapporti con gli altri sindacati. Messe da parte le accuse con un unico accenno («è stato un gravissimo errore che Cisl e Uil abbiano interrotto un'iniziativa unitaria»), come le critiche avanzate da alcuni «ad essere fidati troppo di Bonanni», il segretario della Cgil rivolge un appello alla Cisl e alla Uil per «costruire una proposta unitaria di cambiamento che metta al riparo i lavoratori». Convinti che sia Bonanni che Angeletti sanno che anche i loro iscritti si uniranno alle proteste in difesa dell’articolo 18.
In mattinata era toccato a Fulvio Fammoni, segretario confederale il cui mandato scadrà ad aprile, proporre al Parlamentino Cgil «una forma di mobilitazione lunga ed articolata». «Non sarà ha spiegato Fammoni la fiammata che si esaurirà in un giorno che il governo ha messo in conto».
Oltre alle 16 ore di sciopero (8 per assemblee e altre otto, in un'unica giornata, con manifestazioni territoriali), anche una «petizione popolare per raccogliere milioni di firme ed iniziative specifiche con i giovani per contrastare le norme sbagliate sul precariato, l’avvio del lavoro con la Consulta giuridica per i percorsi legali (ricorsi) e una campagna nazionale «a tappeto» di informazione».
Nel lungo direttivo non sono mancate posizioni critiche. La minoranza della “Cgil che vogliamo” guidata da Gianni Rinaldini aveva presentato un testo alternativo ancora più duro contro il governo Monti. Poi si è arrivati ad un testo condiviso.
il Fatto 22.3.12
Fornero più a destra di B.
La riforma dell’art. 18 è più dura di quella Berusconi del 2002 Pdl, Udc e Quirinale hanno fretta di approvarla
di Stefano Feltri
Il Pdl quasi non ci crede, a volte le cose vanno meglio di ogni aspettativa: non bastava il Pd spappolato, ora c’è anche un comunista con cui prendersela, Oliviero Diliberto fotografato assieme a una militante con la maglietta “Fornero al cimitero” (“Anche con Marco Biagi cominciò cosi”, ci va già duro Roberto Maroni, Lega, da Facebook). Niente di meglio per blindare la riforma del lavoro, anzi, i pareri raccolti nel confronto con le parti sociali che oggi verrà ufficialmente chiuso. Ma il presidente del Consiglio Mario Monti lo ha già detto martedì: “Sull’articolo 18 la questione è chiusa”.
IL POPOLO DELLE libertà non chiede altro. Silvio Berlusconi tace, Angelino Alfano pure. Se in Parlamento va bene il Partito democratico si spacca a sinistra, se va male riesce a modificare un po’ la riforma del lavoro irritando il governo e mandando in crisi i supermontiani tipo Enrico Letta. “Nessuno ha più diritto di veto. Andiamo avanti con decisione”, freme Maurizio Lupi, del Pdl. Per non parlare di Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare eterno avversario della Cgil, che dice: “Siamo forse prossimi a realizzare l'ultimo miglio, il più faticoso, delle riforme del lavoro di questi anni”. In effetti la riforma Monti per certi aspetti è più drastica di quella tentata da Berlusconi nel 2002, con Maroni al ministero del Welfare: cambiava l’articolo 18, ma soltanto per un periodo sperimentale di quattro anni, risarcimento al posto del reintegro per i licenziamenti indebiti, tranne per quelli discriminatori, deroghe per le trasformazioni da precari a stabilizzati che restavano licenziabili.
MONTI E IL MINISTRO Elsa Fornero vanno molto oltre, questa volta la riforma è strutturale, non un esperimento. E pensare che a dicembre l’economista torinese al Corriere della Sera diceva: “Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste”. Poi correggeva: “Il mio era un invito al dialogo senza preclusioni e senza tabù, totem o sacralità intoccabili”. E invece è andata peggio di quello che i sindacati temevano a fine 2011.
“La vera motivazione di questo intervento è modificare i licenziamenti disciplinari, se un’azienda ha un dipendente che ritiene un piantagrane, oggi l’impresa non riesce a liberarsene. Ma l’evidenza dice che in Italia le imprese, quando ne hanno bisogno, licenziano eccome, nella crisi del 1993 per esempio il calo dell’occupazione fu molto netto”, spiega Fabiano Schivardi, economista dell’Università di Cagliari che su lavoce.info è stato molto critico sul luogo comune secondo cui l’articolo 18 condanna al nanismo le imprese italiane che restano sotto i 15 dipendenti.
C’è un piccolo problema, nota Schivardi, nella riforma. Un vizio logico che potrebbe essere utile gancio per il Partito democratico che ha un disperato bisogno di ottenere qualche modifica. In pillole la riforma stabilisce: se il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.) il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato. Se la causa è disciplinare e il licenziamento giudicato illlegittimo, spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra 15 e 27 mensilità). Il problema è il terzo caso, quello più sensibile, introdotto dalla riforma, il licenziamento economico individuale. L’azienda licenzia perché dice che non può più permettersi il lavoratore in questione o per “ragioni tecniche o organizzative”, l’interessato ricorre e vince. Il giudice, quindi, stabilisce che il licenziamento economico era illegittimo, ma secondo la riforma Fornero può solo assegnare un indennizzo. Ma questo non è logico: se la causa non era economica, allora deve trattarsi di una delle altre due ragioni, o motivi disciplinari o discriminazioni. E quindi il giudice dovrebbe poter sancire anche il reintegro. Invece non può, e questo espone la legge a rischi di costituzionalità. “La riforma non puo' essere identificatasolamenteconl'articolo18”, premette Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato, tra tutti, sembra quello più ansioso di arrivare in fretta all’approvazione in Parlamento. Ma le tante novità positive che riguardano i precari sembrano interessare poco, sia alla Cgil che ai partiti. Fine degli stage gratuiti dopo la laurea, limite all’uso dei contratti a progetto e a termine, limite di sei mesi per usare le finte partite Iva (formalmente professionisti, di fatto dipendenti), dopo i quali l’azienda è costretta all’assunzione. I precari, elettoralmente parlando, non interessano a nessuno, soltanto Monti dice che tutte le riforme sono rivolte ai giovani. La partita degli ammortizzatori sociali è sospesa: finché il governo non esplicita quanti soldi stanzia per il passaggio dalla cassa integrazione all’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego, resta il rebus. Si sta parlando di un aumento della protezione, di spalmare le tutele attuali o di un taglio? Mistero. Ma queste sono quisquilie, ormai. Siamo tornati a 10 anni fa, con l’articolo 18 al centro della scena politica, la Cgil pronta allo sciopero generale, la destra che predica la competizione con la Cina. Unica differenza: questa volta il Pd è nella maggioranza di governo che cancella l’articolo 18.
il Fatto 22.3.12.12
Sciopero generale
La Cgil all’angolo è costretta ad attaccare
di Salvatore Cannavò
La Cgil è costretta a salire di nuovo sulle barricate. La determinazione di Monti a modificare strutturalmente l'articolo 18 e ad affossare la concertazione hanno lasciato il sindacato di Susanna Camus-so senza sponde. E per il momento a prevalere è il sindacato di lotta. Dal Direttivo nazionale riunito ieri per tutta la giornata vengono fuori ben 16 ore di sciopero, 8 per le assemblee e altre otto in un'unica giornata di sciopero generale da decidere in relazione all'iter parlamentare; assemblee ovunque, una petizione per raccogliere milioni di firme, una campagna nazionale a tappeto. La Cgil si mette pancia a terra per raggiungere un solo obiettivo, illustrato da Susanna Camusso: “La riconquista del reintegro”. Perché la riforma “colpisce i lavoratori” e il governo è interessato a inviare un solo messaggio: “In Italia si può licenziare”. Dieci anni fa – la ricorrenza è domani, 23 marzo – lo stesso sindacato portò a Roma, al Circo Massimo, circa tre milioni di persone e il segretario di allora, Sergio Cofferati, bloccò il tentativo del governo Berlusconi – il ministro era Roberto Maroni – di modificare l'articolo 18. Quella riforma era più blanda di quella avanzata da Monti, ma oggi la Cgil non sembra avere la forza di allora anche se la rabbia per lo smacco subito è evidente. “Sull'articolo 18, continua Camusso, Monti non ha mai voluto mediare” ma questa riforma “non porterà nemmeno un posto di lavoro in più”. E dunque ci si prepara a una fase di scontro per cercare di rientrare in gioco.
MA, INSIEME al profilo di lotta, la Cgil ha anche un'anima trattativista e la prospettiva di finire all'angolo in compagnia della sola Fiom – che ieri ha definito “una follia” la cancellazione dell'articolo 18 dicendosi “pronta a tutto” – non piace a molti. Ed ecco che nello stesso direttivo delle 16 ore di sciopero si è sviluppata una accesa discussione sull'obiettivo di questo sciopero. Difendere l'attuale norma dello Statuto dei lavoratori al grido di “l'articolo 18 non si tocca” oppure cambiare le scelte del governo e cercare di attestarsi su una formulazione almeno migliorativa di quella proposta da Monti e Fornero? Nella sua relazione, il segretario confederale Fulvio Fammoni ha proposto la seconda soluzione facendo capire che sarebbe un risultato ottenere anche per il licenziamento economico l'opzione tra reintegro e indennizzo stabilita dal giudice. E il segretario dei Chimici, Alberto Morselli è stato più chiaro: Serve una proposta della Cgil da portare al tavolo già domani (oggi, ndr). Una proposta che risulterebbe comunque utile anche al confronto parlamentare”. La questione, alla fine, resta quella del delicatissimo rapporto con il Pd. In conferenza stampa Camusso non ha voluto dire nulla sul partito di Bersani: “E' già faticoso dire che cosa facciamo noi, non possiamo caricarci di cosa deve fare il Pd”. In realtà i due soggetti sono intrecciati perché Bersani ha bisogno ancora di un appiglio per cercare di difendere in Parlamento la possibilità di un “miglioramento” della riforma non tanto per convincere Monti ma per convincere il suo stesso partito. Ma su questo punto si è scatenato un fuoco di fila di interventi contrari: la sinistra di Cremaschi e Rinaldini, naturalmente Landini, la Funzione pubblica di Rossana Dettori, la Cgil di Torino, quella emiliana, i Trasporti e in particolare la Scuola con Mimmo Pantaleo. Alla fine Maurizio Landini e Nicola Nicolosi (della maggioranza) si vedono respingere con 30 voti a favore contro 73 un emendamento che chiede di difendere l'articolo 18 così com'è. Il documento finale viene approvato con 95 voti a favore 13 astenuti e 2 contrari (l'area di Cremaschi) un risultato comunque apprezzato dalla maggioranza che decide di investire su una mobilitazione che “ricostruisca la deterrenza” dell'articolo 18 e quindi provi a riconquistare la reintegra. Potrebbe essere il “modello tedesco” che lascia al giudice la possibilità di scegliere tra indennizzo e reintegro. A lasciare aperta la possibilità di una trattativa ancora da completare è anche la Uil che ha tenuto ieri la sua direzione nazionale lasciando “sospeso” il giudizio sulla riforma in attesa di alcune modifiche. In particolare la possibilità per le rappresentanze sindacali di intervenire sui motivi che stanno alla base dei licenziamenti economici.
NON È la possibilità del reintegro che chiede la Cgil ma lascia spazio per una dialettica con il Parlamento. Anche Bonanni dice che il Parlamento “può migliorare” le norme e che “se il Parlamento ci chiede una mano gliela diamo”. Insomma, Cgil e Pd cercheranno di aiutarsi l'un l'altra ma non è detto che riescano a farlo. Per ora non resta che la lotta.
il Fatto 22.3.12
Corsi e ricorsi. La manifestazione del 23 marzo 2002
C’era una volta la sinistra al Circo Massimo
Il conto arriva alle 12.50, dal palco: “Siamo tre milioni”.
di Paola Zanca
Alle 2.30 di notte la sveglia si mette a suonare, allungo la mano e torna il silenzio…penso, ed è già tardi. Mi alzo, mi lavo, prendo lo zaino, infilo il k-way, auricolare, cellulare, biscotto. È buio, ho sonno, tira vento, parto. La piazza è piena di pullman ma non bastano. Salgo, è strapieno, saluto, ho sonno, si parte”. Era stanotte, dieci anni fa. Marco è uno dei tre milioni che si è messo in viaggio. È l'esodo del 23 marzo 2002. Destinazione Roma, tutti al Circo Massimo per la manifestazione della Cgil contro l'abolizione dell'articolo 18. Alle nove di mattina dal casello di Fiano Romano sono già passati 2500 pullman. E altre 50 mila persone, dall'alba, sono assiepate alla stazione Tiburtina: è arrivato un treno ogni dieci minuti. Un fiume di gente. Confusi e felici. “Non sappiamo dove sia il Circo Massimo, ma non ci importa, dobbiamo spostarci, buttarci nella mischia, proviamo ad andare lassù, voglio vedere se si vede quanti sono, quanti siamo... Dammi la mano, Nadia, mettiamoci in mezzo al corteo, mamma quanta gente, quante facce, quante voci, quanta rabbia che si legge negli occhi! Quante bandiere, tanto rosso. Che bello essere in mezzo a tutto questo. Siamo in due, io e Nadia, in mezzo a tutta questa gente, siamo piccoli, siamo, 2 fra 2.000.000, ma SIAMO, siamo qui per il nostro futuro, che sia bello, che sia giusto, che sia pulito, che sia onesto, che sia democratico, che sia senza paura di licenziamento o di attentati.
Lì in mezzo, insieme a Marco, a Luca, a tutti quelli che hanno lasciato in Rete il loro ricordo di quel giorno, ci sono anche i Democratici di sinistra.
“LA DELEGAZIONE guidata da Piero Fassino e Massimo D'Alema – ricorda l'Ansa – si è inserita nel corteo partito da Piazza Esedra, all'altezza del teatro Brancaccio. La delegazione formata anche dai capigruppo di Camera e Senato, Luciano Violante e Gavino Angius, dagli esponenti del segreteria, da Giovanni Berlinguer per il Correntone e da Enrico Morando. Sono presenti anche Vincenzo Visco, Vincenzo Vita, Giovanna Melandri, Bruno Trentin. Particolarmente calorosa l'accoglienza sia per Fassino che per D'Alema”. Walter Veltroni in quei giorni è il sindaco della Capitale: “Benvenuti a Roma – accoglie i manifestanti - Se l'Italia è in Europa è anche grazie a voi. E grazie a un modello, quello della concertazione, che rappresenta un patrimonio che sarebbe un grave sbaglio disperdere”. Francesco Rutelli ha fatto una visita lampo, poi è corso a Parma per il congresso della Margherita. Ma lì ha attrezzato tre maxischermi per seguire il corteo perché “rendere più facili i licenziamenti non piace, non convince”.
Stanno tutti all'opposizione. Al governo c'è Silvio Berlusconi, a capo del sindacato Sergio Cofferati. Vuole lo stralcio dell'articolo 18 dalla riforma del mercato del lavoro: “Non c'è nessun rapporto, non c'è mai stato, tra la possibilità per un'impresa di licenziare senza una ragione e la possibilità per la stessa impresa di assumere delle persone”, prova a convincere. Il ministro Antonio Marzano non ci pensa neanche: “Tornare indietro sarebbe un grave errore perchè ci troveremmo, ogni volta che si vuole fare una riforma, davanti a mobilitazioni e veti”. Veltroni oggi non parla, Rutelli è impegnato con il caso Lusi. Dice Fassino, il 23 marzo 2002: “Bisogna capire cosa sono le riforme e modificare l'art. 18 non è una riforma. Noi consideriamo che l'art. 18 va bene come è e cambiarlo è ridurre un diritto dei lavoratori. Lo diciamo in modo pacifico ma lo diciamo”. Oggi non lo dice neanche lui. Solo Giorgio Napolitano sembra non aver cambiato idea. Allora come oggi ha le sue forti “riserve verso comportamenti politici e sindacali non sufficientemente pro-positivi”.
l’Unità 22.3.12
La battaglia per cambiare
di Claudio Sardo
Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.
l’Unità 22.3.12
La deregulation e la sua falsa ideologia
di Massimo D’Antoni
Una cosa è certa: la soluzione indicata dal governo sull’articolo 18 va ben oltre qualsiasi nozione di «manutenzione». Il mantenimento della tutela reale (il «reintegro») per il solo caso dei licenziamenti discriminatori equivale nei fatti a una monetizzazione di tale diritto in tutti i casi di una qualche rilevanza pratica.
Al di là delle diverse fattispecie si può ben capire che, se la riforma passasse in questi termini, la modalità normale del licenziamento sarebbe quella per motivi economici, con indennizzo monetario. Se ad oggi è l’impresa a dover giustificare, se richiesto di fronte a un giudice del lavoro, il sussistere di ragioni valide per procedere al licenziamento individuale, con la riforma toccherebbe al lavoratore l’onere di dimostrare che quel licenziamento non è realmente «economico» ma dettato da ragioni discriminatorie. Con quali difficoltà ed esiti è facile prevederlo.
Siamo insomma ben oltre il «modello tedesco» indicato dal Partito democratico come limite accettabile alla riduzione delle tutele; ma siamo anche oltre la proposta del senatore Pietro Ichino, che comunque limitava la nuova regolazione contrattuale ai soli nuovi assunti. Non sbagliano pertanto di molto i commentatori stranieri nel descrivere l’azione del governo Monti, senza mezzi termini, come una deregolamentazione del mercato del lavoro e una riduzione dei costi di licenziamento.
Era necessaria? Il nostro mercato del lavoro è così rigido? Gli indicatori più diffusi dicono altro: l’Ocse già colloca l’Italia al decimo posto su 46 Paesi nella scala della facilità di licenziamento individuale di un lavoratore a tempo indeterminato, agli stessi livelli di Danimarca e Irlanda.
Si toccano gli ultragarantiti? I dati ci dicono che il 30 per cento di chi è a tempo indeterminato registra, in un arco di cinque anni, un peggioramento dello status lavorativo, passando alla disoccupazione o a forme di lavoro meno stabile. Cose dette e ripetute da chi cercava di portare il dibattito dal piano dell’ideologia a quello dei fatti e dei dati, e tuttavia ignorate.
Non è un mistero che la richiesta di deregolamentazione risponda a una precisa visione di come l’economia italiana dovrebbe superare la crisi: non già attraverso la strada difficile ma sostenibile degli investimenti, della riqualificazione della pubblica amministrazione, di una rinnovata politica industriale, bensì quella rapida ma socialmente rischiosa di una deflazione salariale, di una sostituzione di lavoratori anziani con (meno costosi) lavoratori giovani, di aumenti della diseguaglianza delle retribuzioni. Una linea che non è certo quella del Partito democratico.
A rendere più difficile un confronto corretto e nel merito dei problemi contribuisce però anche una certa retorica che insiste sulla contrapposizione tra interesse generale (del governo) e interessi particolari (di chi ha una diversa visione, sindacati o partiti), o tra giovani e anziani.
Magari a quei ventenni e trentenni che si afferma di voler difendere sarebbe il caso di spiegare che se un loro maggiore accesso all’occupazione deve venire dalla cosiddetta flessibilità in uscita, è probabile che ciò avvenga, in questo caso sì, a spese dei loro genitori cinquantenni e sessantenni, estromessi dal sistema produttivo perché più costosi e difficilmente reimpiegabili.
In assenza di alternative, un lavoro precario, sottopagato e con minori contributi (la pensione è lontana) è comunque meglio di nessun lavoro, e un lavoro a tempo indeterminato con garanzie ridotte è meglio di un lavoro precario. Chi è debole tende a considerare chi è marginalmente meno debole un privilegiato; se questa è una reazione naturale, è insopportabile costruirvi il consenso per un'azione politica. Tanto più che abbiamo troppa stima per questi giovani per pensare che siano così poco lungimiranti da non capire come una svalutazione complessiva del lavoro non sia per loro un grande vantaggio.
il Fatto 22.3.12
“Crisi? Alibi per sfasciare la Costituzione”
Carlassare: l’emergenza economica ha scatenato il liberismo sfrenato
di Stefano Caselli
Torino. Siamo diventati una Repubblica presidenziale? Non esageriamo. Il ruolo che il presidente della Repubblica ricopre in questi mesi fa parte della crisi che stiamo vivendo e non è un fenomeno inedito. Io mi preoccuperei di altro: della crisi usata come alibi per distruggere la Costituzione dalle fondamenta”. Lorenza Carlassare, costituzionalista ed esponente di Libertà e Giustizia, non trova eccezionale l’attivismo di Giorgio Napolitano.
Professoressa Carlassare, il governo dei professori, il presidente della Repubblica sempre più sulla scena politica. La crisi economica sta alterando gli equilibri istituzionali tra i poteri dello Stato?
Inizialmente la pressione dei mercati, l’incalzare della crisi, lo spread, hanno indubbiamente influito sul funzionamento del nostro sistema, ma è stato un bene. Si è sbloccata da fuori una situazione assurda e senza uscita nella quale eravamo impantanati. I normali meccanismi istituzionali non erano efficaci, perché la maggioranza precedente si reggeva sì su pochi voti, ma quando mancavano in un modo o nel-l’altro (più nell’altro a quanto pare) i voti si trovavano sempre. Una mozione di sfiducia era di fatto impossibile. E si badi, non c’è stata alcuna sospensione della democrazia: la maggioranza berlusconiana ha per anni contrabbandato una verità fasulla, che il sistema bipolare impedisse un cambio di governo in corso di legislatura, una cosa incredibile. Il sistema parlamentare è fondato proprio sulla possibilità di cambiare esecutivo in qualunque momento. Il governo in carica ha ricevuto la fiducia del Parlamento e tanto basta. Ma forse è quello il problema vero...
In che senso?
Che i rapporti di forza sono sempre gli stessi. Abbiamo salutato con sollievo la crisi che ha sbloccato la nostra situazione politica, ma il sollievo ha forse contribuito a ottundere la nostra sensibilità politica. Certo, ora abbiamo davanti a noi una destra seria, colta e competente. Ma non dimentichiamo che in Parlamento i rapporti di forza non sono cambiati .
Cosa la preoccupa di più di questa situazione?
La crisi ci ha liberato di Berlusconi – o almeno ce ne ha dato l’illusione – ma quella stessa crisi sta ora minando le basi della nostra Costituzione, o meglio, sta sgretolando la sua realizzazione concreta, perché la realtà si sta allontanando sempre di più da quel modello di Stato sociale con lavoro, rispetto della persona e dignità umana al centro di tutto. I problemi sociali sono un fardello, la tutela del lavoro non ne parliamo. Temo che la crisi sia oggi un bellissimo alibi per far valere non il liberalismo, che è una cosa diversa, ma il liberismo sfrenato.
Torniamo al presidente Napolitano. Non starà esagerando con la sua moral suasion?
Anche dopo Tangentopoli fu lo stesso, anche ai tempi del governo Dini. Anche allora si parlò di governo del presidente e simili. È naturale che, quando la politica e le istituzioni parlamentari vanno in crisi, il presidente della Repubblica tenda a occupare un ruolo che nessun’altro potrebbe ricoprire. Il problema semmai è che questa politica non è soltanto in crisi, è completamente squalificata.
Al punto da rendere il nostro sistema sempre più presidenziale e meno parlamentare?
Questo mi sentirei di escluderlo. Il Parlamento è ancora vivo e vegeto. Se non si votano i provvedimenti, Monti non passa. Questa è una buona destra, ma se anche volesse fare politiche migliori non andrebbe da nessuna parte. Questa legge elettorale ha causato danni gravissimi. Non solo per via del Parlamento dei nominati su cui giustamente ci si concentra, ma anche per l’abnorme premio di maggioranza che ci costringe tuttora a essere nelle mani di una maggioranza politica che tale non è più nel Paese ormai da tempo.
Già, la riforma elettorale. La riforma del porcellum, dopo la bocciatura dei referendum, sembra uscita dall’agenda politica.
Si vede che fa più comodo di quanto si tema. Non è stato forse Berlusconi a dire che il governo Monti sta facendo quello che lui avrebbe potuto fare? Non è cambiato nulla. E nulla cambierà fino a che non si cambia la legge elettorale.
l’Unità 22.3.12
Il leader democratico fortemente critico con l’operato del governo: «Aspettiamo e valuteremo»
Il modello tedesco resta l’obiettivo. No a una scelta per decreto: «Su materie così non esiste in natura»
Bersani a Monti: pretendo lealtà «Prendere o lasciare? Non ci sto»
Bersani vuole modifiche sui licenziamenti per motivi economici. Colloquio con Monti, restano le tensioni. «Il Pd è il partito più leale col governo, pretendo lealtà. Inaccettabile il prendere o lasciare»
di Simone Collini
«Ecco un titolo onesto». Pier Luigi Bersani ha davanti la prima pagina del “Sole 24 Ore”. Indica il titolo d’apertura: «Articolo 18, addio per tutti. No Cgil». E sotto: «La regola generale diventa l’indennizzo». Il leader del Pd scuote la testa. «Noi siamo il partito più leale e più coraggioso con il governo Monti, e per questo pretendo lealtà». La notte appena trascorsa è stata tutt’altro che tranquilla. I dubbi su perché l’esecutivo abbia scelto di chiudere sulla riforma del lavoro senza aver trovato un accordo con tutte le parti sociali non sono dissipati dopo una discussione telefonica con il presidente del Consiglio. Anzi.
La scorsa settimana, al vertice a Palazzo Chigi con anche Alfano e Casini, Bersani aveva avuto da Monti l’assicurazione che il governo avrebbe ricercato non «una rottura da offrire ai mercati» ma in tutti i modi e fino all’ultimo l’intesa. «Così non è stato». E sul tavolo ora c’è un testo fortemente discusso, soprattutto nella parte sull’articolo 18 e i licenziamenti per motivi economici. «È inaccettabile mettermi di fronte a un prendere o lasciare», si sfoga Bersani nei colloqui che ha nel corso della giornata. «Se così fosse si aprirebbe un problema molto serio». Sarà un caso ma per la prima volta da quando Monti è in carica, il leader del Pd non mette in chiaro di fronte ai suoi interlocutori che il suo partito garantirà in ogni caso il sostegno all’esecutivo. «Aspettiamo di sentire il governo, poi valuteremo e diremo la nostra». Una formulazione che in serata, nel corso di “Porta a porta”, si modifica di poco: «Monti non può dire al Pd prendere o lasciare. Voteremo quando saremo convinti».
Il forum Lavoro del Pd ieri si è riunito e già si stanno studiando gli emendamenti da presentare in Parlamento. A cominciare da una norma che preveda il ricorso al giudice per decidere tra reintegro o indennizzo non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli giustificati con motivi economici (per i quali il governo propone il solo indennizzo). «Noi non siamo per creare problemi, siamo per creare soluzioni», dice Bersani. Che in serata in tv annuncia che« il Pd si prende l’impegno di correggere» la parte sui licenziamenti economici e non accetterà il ricorso al decreto legge («non esiste in natura su una materia come questa»).
MODELLO TEDESCO, NON AMERICANO
Bersani vede aspetti positivi nella riforma «ma anche cose che vanno cambiate», e punta tutto sul fatto che in Parlamento le norme che di fatto decreterebbero l’addio all’articolo 18 saranno modificate. «La scelta di fondo è tra il modello americano e quello tedesco», fa notare il leader del Pd. Nel testo presentato da Monti e Fornero alle parti sociali si guarda più al di là dell’Atlantico (o del Pacifico, ironizzano amaramente al Nazareno facendo notare che si rischia il modello di lavoro cinese). «L’addio per tutti al reintegro è una regola non adatta al nostro paese. In Europa il modello migliore è il tedesco». In Germania la decisione è affidata al giudice. Una soluzione che era stata proposta anche dalla Cisl. E quando in Parlamento il Pd presenterà emendamenti che puntano al modello tedesco, è il ragionamento che si fa in queste ore al Nazareno, ai voti democratici si aggiungeranno sicuramente quelli dell’Idv e della Lega, in stabile opposizione a Monti, ma anche del Terzo polo, visto che anche Raffaele Bonanni ha detto che «se il Parlamento ci dà una mano a migliorare il compromesso sull’articolo 18 ben venga».
La cautela però è d’obbligo, in queste ore. Parlando a piazza Montecitorio di fronte al presidente della Regione, ai sindaci e ai presidenti di Provincia delle zone terremotate delle Marche, Bersani insiste sul fatto che «nell’emergenza così come nella crisi, solo con la solidarietà e la coesione si può andare avanti». Parole tutt’altro che casuali. E risponde così ai giornalisti che gli chiedono un commento sulla riforma del lavoro: «Parlo stasera dell’accordo dice facendo riferimento alla puntata di “Porta a porta” se di accordo si può parlare». Un sorriso amaro, che scompare quando poco dopo in Trasatlantico si sfoga con Cesare Damiano: «Chiediamo un passo avanti, deve sparire la distinzione procedurale tra licenziamenti disciplinari ed economici. Lasciamo che sia il giudice a decidere, in entrambi i casi. Se devo concludere la vita dando via libera alla monetizzazione del lavoro, non lo faccio. Per me è una roba inconcepibile». Dice a sera in tv: «Quando non so come decidere mi ispiro a una frase di Berlinguer, essere fedeli agli ideali della propria gioventù. I diritti del lavoro vanno modernizzati, ma devono restare in piedi».
il Fatto 22.3.12
La beffa del governo dopo l’“accordo” di Palazzo Chigi
Schiaffo a Bersani
Il Pd si spacca. Il segretario prova a uscire dall’angolo: “Il premier non ci può dire prendere o lasciare. Non lo farà”
di Luca Telese
Alla tedesca, non all’americana. Il sorriso di Bruno Vespa è quello delle grandi occasioni: “Segretario Bersani, ha ragione Monti oppure la Camusso? ”. E il leader del Pd: “Posso fare un ragionamento? ”. Comincia così la serata più lunga di Pier Luigi Bersani, negli studi di viale Mazzini. E non è una puntata facile: “Aggiustiamo il mercato del lavoro? Deve essere più alla tedesca che all’americana”. E l’Articolo 18? “Su 160 mila cause in un anno solo 500 riguardano il mercato del lavoro: è venuta fuori una cosa che non condivido perché va all’americana”. E subito dopo: “I lavoratori si sentiranno dire: te ne vai a casa, e ti darò 15 mensilità. Non va bene. Lavoreremo per correggere”. Così il conduttore fa la domanda delle cento pistole: “Questo vuol dire che o si cambia o va giù il governo? ”. E qui l’incanto del Bersani barricadero si infrange: “Non mi pongo nemmeno la domanda. Non posso credere che su questo tema Monti ci chieda prendere o lasciare”. Sono le colonne d’Ercole oltre cui il leader del Pd non può andare. Il senso di una grande debolezza.
BERSANI È STATO fregato nel vertice dei segretari? Domanda di Vespa: “Ma che vi siete detti in quella cena? ”. Risposta: “C’è stato un difetto di comunicazione. A me sembrava che ci fosse stato un accordo che a giudizio di tutti il mandato fosse: il governo deve lavorare per un accordo”. Ecco perché occorre riavvolgere il film di questi due giorni. Lo sconcerto, tra i dirigenti del Pd inizia a diffondersi fin dalle prime ore della sera della riforma. Ma prende definitivamente corpo nella mattinata di ieri. Il primo problema è la presa di coscienza che la proposta di Monti e della Fornero ha un effetto immediato: il partito viene diviso in due come una mela, tra favorevoli e contrari. Contenti Lettiani e Veltroniani, dubbiosi i dirigenti dell’area Franceschini, contrari la Bindi, i bersaniani, i dalemiani e la sinistra interna.
Così si comincia con dubbi, consultazioni frenetiche, persino il (fondato) sospetto che non si sia trattato di un errore “tecnico”, ma di una mossa studiata a tavolino per disarticolare il partito, ipotecando una futura alleanza di governo (diversa dal centrosinistra). Un gesto compiuto per “mascariare” l’immagine del Pd davanti ai suoi stupiti elettori (ieri inferociti sul web). Mossa che divide, come dimostrava la prima dichiarazione di Enrico Letta, uno dei leader dell’ala “montiana” che, euforico, a caldo spiegava: “Il voto favorevole del Pd non è in discussione”. Nei corridoi di Montecitorio, ieri, si vociferava di una tirata d’orecchi di Bersani, per quella frase. Ma, ospite di Lilli Gruber, Letta non si tirava indietro, anzi: “Mi pare una frase addirittura ovvia”. Il gruppo dirigente bersaniano, invece, era il più colpito. Fin dalla mattina la voce determinata di Matteo Orfini, il più affermato dei dirigenti del nuovo corso, non lasciava spazio a dubbi sul modo in cui la forzatura prendere-o-lasciare del premier Mario Monti è stata percepita: “Siamo messi male, malissimo. Questa riforma, così come è proposta, non ci piace, non crediamo che garantisca i lavoratori in una fase delicatissima della crisi economica. È chiaro – aggiungeva Orfini – che la nostra direzione di lunedì è la sede in cui verificheremo che la maggioranza del Pd è per correggerla in Parlamento”. E poi, in serata: “Sono stato investito da richieste di spiegazioni, mail, inviti a convocare un referendum. È evidente che il testo in Parlamento deve essere cambiato”.
Bel paradosso. Una proposta che è molto più dura di quella contro cui tutto il partito diede battaglia assieme alla Cgil di Sergio Cofferati nell’ormai lontanissimo 2002. “Il messaggio che in queste ore sta arrivando ai nostri militanti è devastante. Non capisco sulla base di quali rassicurazioni – dice oggi Cofferati – si sono diffusi messaggi diversi e persino contraddittori. Adesso il danno è grave: l’articolo 18 è stato scardinato, questo testo introduce la possibilità di licenziare”. Altrettanto netto era il pronunciamento di Rosy Bindi, quasi interdetta: “Questo governo va avanti finché rispetta tutti i partiti che ne fanno parte. Così non è stato. Siamo convinti che in Parlamento il testo si possa modificare”.
Però è in serata che – (mentre continua il silenzio di Walter Veltroni) – arriva l’altolà di Massimo D’Alema, che affida al Tg3 la sua critica: “Il testo sull'articolo 18 è pericoloso e confuso e va migliorato”. E subito dopo: “Non si stabilisce chi è che valuta se il licenziamento è discriminatorio, disciplinare o economico, occorre un vaglio, ad esempio in Germania è una valutazione affidata al giudice. Non si può lasciare solo all’impresa la decisione”. Ancora: ''Ritengo che il provvedimento – aggiunge D’Alema – sia così complesso che si debba far ricorso solo a una legge delega per rispetto della democrazia parlamentare”. Cosa significa? “Lavoreremo per correggerlo – annunciava D’Alema – Noi siamo in una democrazia parlamentare: il governo ha fatto la sua parte (nel testo ci sono alcuni aspetti positivi e altri aspetti sono da migliorare) e ora tocca al Parlamento che è sovrano”.
E BERSANI? Per tutto il giorno, fino a quella dichiarazione a Porta a Porta si erano moltiplicati i segnali di disagio. Dapprima uno sfogo parlando (proprio con Damiano), in Transatlantico. Poi una frase seria: “'Se devo concludere la vita dando il via libera alla monetizzazione del lavoro io non la concludo così. Non so come faremo ma dobbiamo chiedere dei passi avanti”. Poi da Vespa, con il suo portavoce, Stefano Di Traglia che informa su Twitter (!): “In macchina fischietta Baglioni”. Prima che entri in studio arrivano le parole, durissime di Nichi Vendola: “È imbarazzante l'atteggiamento di Monti, a fronte di un'Italia che sta vivendo una sofferenza, un disagio straordinario”. Fino a ieri tra Bersani e Vendola ha retto un patto di non-belligeranza per cui il leader di Sel ha evitato qualsiasi attacco diretto al leader. Un patto che ora viene messo a dura prova. Perché se il Pd non corregge il testo salterà davvero l’alleanza di Vasto. Bersani a Porta a Porta, prova a rassicurare la base: “Devono stare tranquilli. Siamo gente solida”. A vederlo si pensava esattamente il contrario.
Corriere della Sera 22.3.12
Lo scontro si sposta e il Pd promette battaglia in Parlamento
Forse ingiustamente, si guarda all'incontro di oggi come a una formalità: quella che sancirà l'impossibilità di trovarsi tutti d'accordo sulla riforma del mercato del lavoro. D'altronde, nelle ultime ore i toni non si sono né distesi né attenuati. Le distanze fra il governo di Mario Monti e la Cgil appaiono di colpo quasi siderali. E di rimbalzo crescono i malumori del Pd di Pier Luigi Bersani, e un qualche imbarazzo per Cisl e Uil. Mentalmente, tutti sono ormai concentrati su come si muoverà il Parlamento. Il conflitto sull'opportunità di affidare la riforma a un decreto o a un disegno di legge, non è formale: implica la possibilità di cambiare o meno la legge.
La caduta del tabù dell'articolo 18, per ora sembra avere un impatto superiore alle previsioni. Giorgio Napolitano cerca di ricordare che la riforma non si limita a quel punto. Eppure, anche l'invito del capo dello Stato alla ragionevolezza viene inghiottito da un terreno avvelenato dall'esasperazione. Rosy Bindi, presidente del Pd, lancia avvertimenti a Monti. E Massimo D'Alema definisce «confuso e pericoloso» il testo del nuovo articolo 18. Idv e Sel equiparano il governo dei tecnici a quello di Silvio Berlusconi. E la Lega prosegue nel muro contro muro. «Qualsiasi cosa faccia Monti», dice Bossi, «la consideriamo sbagliata».
Gli incoraggiamenti a palazzo Chigi vengono da un Pdl intenzionato però soprattutto a sottolineare le difficoltà del Pd; e da un'Udc disposta a cambiare la riforma ma non a stravolgerla. Alle Camere, il centrodestra invoca un decreto in grado di fare approvare la riforma senza ritardi né ripensamenti. La sinistra invece lo vuole modificare con una legge da offrire all'esame del Parlamento. Insomma, si sapeva che sarebbe stato un passaggio delicato, e lo è. Ma è come se gli interlocutori si sentissero finalmente liberi di dare sfogo alle pulsioni di parte.
Dopo essersi sforzati per settimane di concedere, mediare, accettare un compromesso in nome dell'interesse generale, rivendicano la difesa dei propri interessi. Ma questo può far vacillare il governo. Può darsi sia un riflesso temporaneo. Il rischio che si accentuino le tensioni sociali e si logori la maggioranza trasversale a sostegno di Monti è ben visibile, però. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, lo critica negando che il risultato dell'altra sera possa definirsi un accordo. E aggiunge: «Non concludo la vita dando l'ok alla monetizzazione del lavoro». Bersani deve contenere i malumori del Pd, che vede in quanto è accaduto una vittoria del centrodestra.
In più deve fare i conti con la Cgil di Susanna Camusso, che si appella alle Camere perché non votino la riforma, e che a sua volta sembra condizionata dalla pressione della Fiom. Il Quirinale segue questa spirale cercando di fermarla al più presto. Sa che la minaccia di Antonio Di Pietro, che evoca la miscela letale del «Vietnam parlamentare e della protesta di piazza», potrebbe diventare incombente. Napolitano vuole scongiurarla, e anche per questo si dice che preferirebbe evitare il ricorso a un decreto legge. Forse per la prima volta, lui e Monti potrebbero non avere idee del tutto coincidenti.
Corriere della Sera 22.3.12
L'ultima offerta Cgil: «salvare» il reintegro
Sponda al Pd: valga per i licenziamenti economici. Il no a Landini
di Enrico Marro
ROMA — È una questione di sfumature, ma le sfumature sono importanti in questa partita sull'articolo 18, che il presidente del Consiglio considera «chiusa» e che invece la leader della Cgil, Susanna Camusso, dichiara ancora «aperta», come ha detto ieri ai suoi riuniti nel direttivo della Cgil. E la sfumatura sta nel fatto che ieri il parlamentino del sindacato rosso ha approvato sì 16 ore di sciopero e una mobilitazione vasta con la raccolta di «milioni di firme» contro il provvedimento del governo, ma ha anche respinto a larga maggioranza la proposta della sinistra interna, capeggiata da Landini e Rinaldini, di porre quale obiettivo della lotta il ripristino integrale dell'articolo 18.
Camusso, a porte chiuse, ha detto chiaramente che la Cgil non può aspettarsi di riconquistare l'articolo 18 tale e quale come scritto nello Statuto dei lavoratori del 1970. Il tabù è stato infranto e non si torna indietro. Pensare il contrario significherebbe prendere il giro i lavoratori, ha aggiunto. I quali invece, secondo il segretario della Cgil, possono e devono essere chiamati alla lotta, ma su un obiettivo realistico. Che, a questo punto, è quello di ottenere che anche sui licenziamenti per motivi economici sia il giudice a decidere tra reintegro e indennizzo del lavoratore licenziato illegittimamente. Un obiettivo che Camusso non ha esplicitato solo per ragioni tattiche, ma che tutti sanno essere il nuovo traguardo della Cgil.
E così, nel documento presentato dalla segreteria e approvato con 95 voti favorevoli, due soli contrari (Cremaschi e Bellavita) e 13 astenuti, tra i quali lo stesso Landini, c'è scritto che sul punto dei licenziamenti la Cgil si mobilita per ottenere di nuovo che l'articolo 18 abbia una funzione di «deterrenza» rispetto ai licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo. E la deterrenza esiste se c'è il diritto al «reintegro».
Questo significa, appunto, anche se nel documento non c'è scritto, che la possibilità del reintegro deve tornare dove non c'è nella proposta del governo, cioè sui licenziamenti per motivi economici, che, secondo Monti, devono invece essere possibili in cambio di un indennizzo. Sono questi i licenziamenti «facili» che per la Cgil vanno tolti di mezzo. Come? Con l'estensione, appunto, del modello tedesco ai licenziamenti economici.
Del resto questa era l'ultima mediazione tra Cgil, Cisl, Uil e Ugl, che i sindacati avevano raggiunto lunedì e che i quattro segretari generali avevano rappresentato a Monti martedì mattina a Palazzo Chigi, ma che lo stesso premier aveva seccamente respinto. Ed è questa la proposta che ieri un Pd in evidente difficoltà ha rilanciato, chiedendo al governo di correggere il testo che invece Monti considera chiuso.
A questo punto Camusso e Bersani, che si sono sentiti più volte negli ultimi giorni, tentano di stringere in una morsa il premier. Bersani, infatti, dopo il direttivo di ieri, può contrastare l'affermazione di Monti che la Cgil sia indisponibile a modificare l'articolo 18 e sostenere che invece, se si mette il giudice anche sui licenziamenti economici, si può ottenere il sì, sia pure sofferto, di Camusso.
Tanto più che ieri il leader della Uil Luigi Angeletti, dopo la riunione della direzione, dove due categorie importanti come chimici e agroalimentari hanno preso posizioni molto critiche verso la riforma Monti, ha sostenuto anche lui che ci vuole il giudice sui licenziamenti economici. Una posizione che contrasta con quanto aveva detto il premier l'altro ieri a chiusura della trattativa, cioè che le proposte del governo erano state accettate da tutte le parti sociali, tranne la Cgil. Un teatrino, quello andato in scena ieri sul palcoscenico politico-sindacale, che ha irritato il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, il quale si è intestato il merito della riforma e preferirebbe che la partita fosse chiusa. Ecco perché ieri ha sfidato lo stesso Bersani a presentare entro oggi stesso («visto che i testi della riforma non sono ancora scritti») le sue proposte di modifica a Monti e Fornero «e se li convincono, meglio». Ma più l'asse Bersani-Camusso preme su Monti più è probabile che Confindustria e Pdl si facciano sentire per bloccare ogni annacquamento del nuovo articolo 18.
La partita ora si gioca in Parlamento e nelle piazze. In Parlamento la Cgil guarda al Pd, ma non solo. Nei corridoi del piano interrato di corso d'Italia, dove si è riunito il direttivo, ieri alcuni dirigenti del sindacato rosso si consultavano sugli scenari e speravano nel partito di Pier Luigi Bersani che, per buona parte della Cgil, è ancora il punto di riferimento politico. Qualcuno azzardava che se il Pd si mettesse di traverso, alla Camera il governo potrebbe non avere i voti per far passare il provvedimento sull'articolo 18, presupponendo ovviamente che la Lega e l'Idv siano contrari e che il Pd sia compatto, ipotesi tutta da verificare. Ecco perché Camusso non crede a uno scenario del genere. Sa che il governo non può cadere e che il Pd deve continuare a sostenerlo se non vuole rischiare di spaccarsi. L'unica possibilità, dunque, è mobilitare la piazza e creare problemi nelle fabbriche. Per spingere Monti e la Confindustria, sotto la pressione del Pd, a cedere sui licenziamenti economici, sapendo che a quel punto la Cgil si riterrebbe soddisfatta.
Corriere della Sera 22.3.12
Il Pd chiede modifiche a Monti D'Alema: testo pericoloso e confuso
Bersani: non si può dire prendere o lasciare. Elettori in rivolta sul web
di Monica Guerzoni
ROMA — «Attenzione, Monti non può dire al Pd di prendere o lasciare. Non si può fare... Non lo ha mai fatto e io credo che non lo farà».
Alle nove e trenta della sera, in diretta da Porta a Porta, un Pier Luigi Bersani bellicoso come mai prima scandisce il suo ultimatum sull'articolo 18. Il leader del Pd chiede al governo di «correggere» il testo guardando al modello tedesco e quando Bruno Vespa gli domanda se i democratici voteranno contro, qualora il premier dovesse tirare dritto, il segretario gioca il tutto per tutto: «Mi sono spiegato? Prendere o lasciare no, noi non ci stiamo. Voteremo quando saremo convinti».
È il finale di una giornata tesissima, scandita dal rullar dei tamburi degli elettori che sul web riversano paura e rabbia e vogliono che Bersani stacchi «la spina» al governo. E lui, dagli schermi di Rai1, prova a placare la base: «La pancia deve essere tranquilla. Siamo gente solida noi, non accetteremo che venga ribaltato il rapporto di forza tra lavoro e impresa». Al tramonto, rompendo il riserbo degli ultimi tempi, al Tg3 Massimo D'Alema aveva spostato il suo peso dalla parte della Cgil. Il presidente del Copasir definisce il testo della riforma «pericoloso e confuso» e chiede che sia «migliorato in Parlamento». E quando Bianca Berlinguer ricorda all'ex premier che il vicesegretario Enrico Letta e Beppe Fioroni hanno già dato il via libera, D'Alema li ammonisce: «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati e importanti come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni». È altissimo il livello di tensione nel Pd, la forza di maggioranza che più subisce, sulla sua pelle, la forza d'urto della rivoluzione in arrivo.
A Montecitorio si votano le liberalizzazioni, ma si parla di licenziamenti. E più d'uno, tra i deputati del Pd, confessa che non riuscirà a «ingoiare il rospo». Bersani sa che il partito può spaccarsi in Aula con conseguenze imprevedibili, ha lasciato trapelare irritazione per il metodo di Monti e sfoga (quasi) pubblicamente la sua delusione. Parla in Transatlantico con l'ex ministro Cesare Damiano e non si cura dei cronisti che lo ascoltano: «Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro! Per me è una roba inconcepibile». Il conflitto tra l'ala sinistra che guarda alla Cgil e quella moderata e riformista, più sensibile alle sirene del governo dei tecnici, appare difficilmente sanabile. I deputati-operai Lucia Codurelli e Antonio Boccuzzi annunciano il loro no e il senatore Vincenzo Vita sprona a schierarsi con la Cgil, «costi quel che costi».
Che accadrebbe se il Pd finisse per dividersi al momento del voto? C'è chi dice che quel giorno segnerebbe il fallimento del partito ed è per questo che Bersani e D'Alema alzano i toni. D'altronde senza il sostegno del Pd l'esecutivo andrebbe a casa e Rosy Bindi lo dice senza concessioni alla diplomazia: «Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono». E quando la Cgil scenderà in piazza, è pronta alle barricate la Bindi, il Pd sarà «al fianco dei lavoratori».
Il pressing della base è fortissimo, la pagina Facebook di Bersani è zeppa di appelli alla rottura: «Non votate questa vergogna!», «Via da questo governo»... E il segretario, pur convinto che la riforma contenga «delle cose buone che vanno preservate», è costretto a forzare nella speranza di ottenere qualche modifica in extremis: «L'accordo? Se di accordo si può parlare...». E poiché per il segretario un decreto legge «non esiste in natura», Dario Franceschini chiede che si proceda «con un disegno di legge perché il Parlamento possa discutere». Da Vespa, poi, Bersani ha parlato anche di Viale Mazzini: «Se non si fa la riforma della Rai e vanno avanti io non ci sto comunque».
Nella partita sul lavoro, dentro il Pd anche le tecnicalità sono importanti, ma è il merito a disegnare le squadre in campo. Pietro Ichino, il senatore che teorizza la flexicurity, sostiene che Monti abbia attinto al materiale programmatico del partito e sferza i compagni: «Vivere questo progetto di riforma come una medicina amara e indigesta, da ingerire col naso tappato, a me sembra molto fuori luogo». Sul fronte opposto Stefano Fassina chiede che non sia posta la fiducia, per non «esasperare ulteriormente il rapporto con un partito importante che lo sostiene».
Corriere della Sera 22.3.12
I timori dei leader: «Così non reggiamo» E qualcuno pensa alla piazza con la Cgil
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Così non reggiamo»: è preoccupato, il segretario del Pd. E sospettoso. Non ha capito a che gioco stia giocando il governo: «Vogliono lo scalpo dell'articolo 18 per mettere all'angolo la Cgil? O siamo noi l'obiettivo?».
Già, i vertici del Partito democratico temono di essere loro stessi il bersaglio di questa operazione. Sono convinti che si stia puntando a neutralizzare il Pd e a consegnarlo alla logica della grande coalizione chiudendogli ogni spazio di agibilità politica. Per questa ragione Massimo D'Alema usa parole dure, per questo motivo Rosy Bindi non esclude che il partito possa scendere in piazza con la Cgil: «Noi siamo sempre al fianco dei lavoratori».
La verità è che il Pd rischia di spaccarsi: ieri, alla Camera, metà gruppo era contrario alla riforma. E tra questi anche parlamentari moderati, come i «franceschiniani» Antonello Giacomelli e Saverio Garofani. Del resto lo stesso capogruppo Dario Franceschini è più che perplesso nei confronti di questa riforma. Non è sicuramente il caso di Veltroni. Il suo plenipotenziario Walter Verini, in Transatlantico, ieri pomeriggio ha accolto con queste parole il ministro Fornero: «Noi siamo con te». E nemmeno la minoranza dei Modem, o il responsabile del Welfare Beppe Fioroni e il vicesegretario Enrico Letta hanno dei problemi su questa riforma. Ma il resto del partito è in subbuglio.
Al telefono con Mario Monti, Bersani ha insistito su una modifica dell'articolo 18: se i motivi economici dei licenziamenti sono fraudolenti il lavoratore può rivolgersi al giudice che deciderà per il reintegro o l'indennizzo. In cambio il Pd offriva al presidente del Consiglio la possibilità di blindare il testo, anche con un decreto. Ma il governo ancora ieri sera non si spostava di un millimetro. Anzi. Il ministro Fornero ha cercato di convincere i deputati del Pd. Prima impietosendoli: «Lo vedete che ha fatto Diliberto? Ha abbracciato una donna con una maglietta su cui campeggiava la scritta: Fornero al cimitero». Poi cercando di farli ragionare su un altro aspetto: «Non dovete focalizzarvi sull'articolo 18, dovete pubblicizzare tutte le cose che vanno bene anche a voi e su cui invece il centrodestra è contrario».
Se l'ipotesi del ritocco della norma che modifica l'articolo 18 è impossibile, come pare, al Pd resta solo un'altra linea Maginot su cui assestarsi. Ossia quella di rinviare i nodi di questa riforma del mercato del lavoro a una legge delega, in modo da mandare per le lunghe tutta la vicenda ed evitare di andare alle elezioni con un provvedimento impopolare. Anche perché i sondaggi, dopo che si è aperto il caso dell'articolo 18, non sono poi così favorevoli. Infatti il 60 per cento degli elettori del Partito democratico è contrario a questa modifica. Bersani, quindi, è sulle spine: «Non posso concludere la mia vita dando la monetizzazione del lavoro, per me è una cosa inconcepibile». E di nuovo, in serata, prima di andare a Porta a Porta, nella mente del segretario si affollavano i sospetti: «A che gioco sta giocando il governo? Ci vogliono dividere? Vogliono che rompiamo con la Cgil e con le forze alla nostra sinistra? Io stimo Monti, e lo giudico una persona perbene, ma il presidente del Consiglio ci deve dare una dimostrazione del fatto che da parte dell'esecutivo non ci sono retropensieri».
Non è una situazione facile, quella del segretario del Partito democratico. Anche perché all'interno del Pd cominciano a levarsi le critiche per come il leader ha gestito questa trattativa: «Prima aveva dato il via libera nel corso del vertice con gli altri segretari, poi ha fatto retromarcia». E qualche veltroniano mette in discussione un altro aspetto di questa vicenda: «Il segretario l'ha fatta troppo facile e ci ha fatto pensare che Susanna Camusso avrebbe detto di sì». Ed effettivamente Bersani una decina di giorni fa era riuscito a convincere la segretaria della Cgil ad addivenire a più miti consigli. Poi una consultazione interna con le Camere del Lavoro, i sindacati più forti (pensionati, scuola, ecc.) aveva fatto registrare la svolta di Camusso. I «no» alla riforma dell'articolo 18 erano la maggioranza, troppi per non prenderli in considerazione. Bersani a quel punto ha sperato in Monti. Non c'è stato niente da fare. E ora al leader del Pd non resta che dire ai fedelissimi: «Non posso essere io il segretario che cancella la concertazione ed emargina la Cgil».
il Fatto 22.3.12
“È indecente questo Vaticano off-shore”
L’economista Vitale: “Lo Ior? Quella banca non può sfuggire alle leggi”
di Vittorio Malagutti
Milano. Lo Ior? “E che vuole che dica? Certo, è indecente. È indecente il Vaticano off shore. È indecente il comportamento della Chiesa quando pretende che la sua banca sfugga alle leggi che valgono per tutti gli altri”.
Marco Vitale, economista e consulente di grandi aziende, non ha mai sfoggiato gran doti di diplomatico. E come cattolico (ci tiene a precisarlo) nonché studioso delle encicliche sociali della Chiesa, non può proprio fare a meno di prendere di petto anche la questione dello Ior.
Il Fatto ieri ha rivelato che l’indagine della Procura di Roma sulla banca vaticana per violazione delle norme anti-riciclaggio, è approdata in Germania, alla sede di Francoforte dell’istituto americano Jp Morgan, crocevia di molte operazioni targate Ior.
Dopo tante promesse di trasparenza sembra che il Vaticano sia tornato all’antico, collaudato metodo del muro di gomma. È d’accordo?
Non posso e non voglio entrare nel merito di un’indagine così complessa. Da osservatore provo un grande dolore nel vedere la mia Chiesa che si comporta in modo così diverso da quanto va predicando. La trasparenza assoluta nella gestione bancaria è un obbligo pe tutti gli operatori. A maggior ragione per un istituto di credito che di fatto fa capo al Papa.
Le disavventure del passato non hanno insegnato niente, quindi?
Guardi, da Sindona a Calvi lo Ior ha commesso il tragico errore di aprire le sue banche ai peggiori malfattori. Per venire a tempi più recenti anche Calisto Tanzi della Parmalat era portato in palmo di mano dal Vaticano. Questa gente porta denaro, fa grandi favori. Come dimenticare Tanzi che metteva a disposizione il suo aereo ad alcuni alti prelati? In passato, purtroppo lo stile era questo .
Forse gli uomini di Chiesa, non proprio ferrati in materia finanziaria, cadono più facilmente nelle trappole di questi truffatori.
Non credo. I cardinali capiscono benissimo come vanno queste cose. Solo che alcuni non riescono a opporsi e si rassegnano, soffrono in silenzio. Altri invece approfittano della situazione, con tutti i vantaggi personali che ne conseguono.
Abbiamo capito: lei vede nero. Ma concretamente lo Stato italiano che cosa potrebbe fare, come dovrebbe intervenire, a parte ovviamente perseguire i presunti reati legati al riciclaggio?
Lo Stato dovrebbe prendere una posizione molto più incisiva.
In concreto?
Prima di tutto si potrebbe cominciare rivedendo le norme del concordato che riguardano in generale la materia finanziaria, norme che per molti aspetti io trovo semplicemente scandalose.
Si riferisce all’8 per mille?
Certo. La legge prevede il trasferimento alla Chiesa di fondi ingentissimi che provengono dalle tasche di milioni di italiani. Il problema è che non ci sono controlli sufficienti su come questi soldi vengono effettivamente spesi.
Mi scusi, chi dovrebbe controllare che cosa?
Un nuovo accordo con il Vaticano dovrebbe mettere a disposizione dello Stato italiano maggiori strumenti per verificare l’impiego dei fondi provenienti dalle tasse. Vanno alle parrocchie e ai preti sempre più in difficoltà? Oppure vanno altrove? Su un tema come questo non bastano più le dichiarazioni di principio di parte vaticana. Lo Stato dovrebbe controllare di più e meglio. Lo dico da cattolico.
il Fatto 22.3.12
Ai peccati cardinali
di Gianni Boncompagni
COMPLIMENTI vivissimi al Vaticano che ha “rinnovato il senso di dolore e vergogna per casi di pedofilia in Irlanda ammettendo gli abusi”. Il Vaticano negli ultimi tempi sta facendo passi da gigante. Ieri alcuni illuminati cardinali presieduti dal Santo Padre , dopo una lunga, anzi lunghissima discussione animata anche da violente scazzottate, hanno dichiarato con una percentuale che si avvicina al 98% che Dio praticamente non esiste. Anche i santi, secondo la maggioranza dei cardinali, sono una pura invenzione tranne Santa Lucia ma non hanno spiegato il perché di questa eccezione. Inoltre i cardinali sostengono che i peccati sono frutto di pura fantasia dei loro predecessori e sostengono invece che i peccati di gola esistono eccome. La coda alla vaccinara e la burrata, per esempio, sono al bando e non c’è assoluzione che tenga.
il Fatto 22.3.12
Il Papa e il pasticcio messicano
Nel suo viaggio non incontrerà le vittime dell’”abusatore di seminaristi” Marcial Maciel
La stampa locale attacca, ma il Vaticano si rifugia in dichiarazioni poco credibili
di Marco Politi
Come l’ombra di Banquo nel “Macbeth” lo spettro delle vittime degli abusi sessuali, commessi dal fondatore dei Legionari di Cristo, si erge dinanzi a Benedetto XVI che domani parte per il Messico. Chiedono conto degli insabbiamenti decennali del Vaticano. Chiedono conto delle decisioni prese nella Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Joseph Ratzinger era prefetto quando gli abusati chiedevano giustizia e nessuno muoveva foglia.
Prima ancora di prendere l’aereo Benedetto XVI vede avvicinarsi una tempesta dell’opinione pubblica e nuovamente, come tante altre volte, ci si domanda chi consiglia il pontefice e quanto i suoi più stretti collaboratori abbiano il polso della situazione.
PERCHÉ pochi giorni fa era stato proclamato con sicurezza in Vaticano che il pontefice non avrebbe incontrato durante la sua permanenza in Messico nessuna vittima di pedofilia. “Escluso”, era stata la dichiarazione categorica. Un paradosso. Benedetto XVI, che si è incontrato con le vittime di abusi negli Stati Uniti, in Inghilterra, a Malta, in Australia e pochi mesi fa in Germania, avrebbe voltato la testa dall’altra parte in Messico. Proprio dove è sorta la stella del demoniaco fondatore di un potente movimento religioso, Marcial Maciel, abusatore di seminaristi, “bigamo e oltre”, i cui comportamenti un comunicato ufficiale della Santa Sede del 1 maggio 2010 descrisse così: “Gravissime e obiettivamente immorali… si configurano talora in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso”.
Spiegazione ufficiosa dell’incredibile rimozione dal programma il fatto che l’episcopato locale non aveva proposto un colloquio tra il pontefice e le vittime. Toppa peggio del buco. Ma se qualcuno sperava di poter nascondere il problema, si sbagliava. Le principali riviste messicane sollevano la questione nei loro servizi. “Proceso” pubblica in copertina la foto di Maciel con un titolo a caratteri cubici: “Il Vaticano sapeva tutto”.
E ORA, a poche ore dall’arrivo dell’aereo papale, irrompe sulla scena un manifesto pubblico firmato da Juan Josè Barba, una delle vittime più celebri che per anni bussarono invano alle porte di papa Wojtyla e della Congregazione per la Dottrina della fede, retta dal cardinale Ratzinger.
“Santità – scrive Barba – Lei ha detto al giornalista (e biografo) Peter Seewald che solo approssimativamente dal 2000” si ebbero elementi concreti sulle accuse contro il fondatore dei Legionari di Cristo. “Ma noi sin dal 1997, firmando una lettera aperta a Giovanni Paolo II, confidavamo in una risposta che rispettasse la verità, la carità e il diritto a noi dovuto”. Santità, ricorda ancora la vittima Barba, “il 17 ottobre 1998 presentammo domanda canonica (di apertura del processo) a Roma, che fu accettata dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, di cui Voi allora eravate a capo”.
È agli atti che all’epoca tutto fu insabbiato. (Ratzinger, così ha fatto intendere una volta il cardinale Schoenborn di Vienne riferendosi ad un’altra vicenda, si scontrò contro il muro di gomma dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II e non ebbe il coraggio di sollevare il caso). Niente si mosse fino al momento in cui, morente Wojtyla nel 2005, Ratzinger mandò in fretta e furia il suo inviato mons. Scicluna a New York e Città del Messico, dove in poco più di una settimana si registrarono testimonianze disponibili da oltre dieci anni.
Ora la vittima Barba, anche a nome di altro abusati già defunti, chiede conto: “Eravamo costernati pensando come una saggezza così antica come quella della Chiesa potesse essere ingannata così facilmente (dalle false dichiarazioni di Maciel, ndr) e a livelli gerarchici così alti e per tanto tempo e in tanti luoghi nonostante le tante vittime e i tanto insistenti reclami… Però non venimmo ascoltati e non venimmo creduti”.
LO SCANDALO dell’insabbiamento sta lì. Sebbene da pontefice Ratzinger abbia poi condannato definitivamente Maciel. Ma alle vittime venne negato il diritto ad un equo processo canonico e almeno questa ferita avrebbe potuto essere – se non sanata – alleviato da un incontro autocritico di Benedetto XVI con gli abusati di allora.
Barba ricorda che Ratzinger nel suo libro-intervista con Peter Seewald, apparso nel 2010 con il titolo “Luce del mondo”, abbia definito un “enigma” il criminale fondatore dei Legionari di Cristo. Per noi, ribatte Barba, era invece un problema che la Chiesa non si decidesse a risolvere questo enigma e la “metastasi istituzionale”, che ne risultava. “Per le Vostre mani – conclude la vittima rivolta al Papa – passò l’opportunità di accettare la verità e di accettare noi”.
Nella lettera-manifesto, al fondo più amara che violenta, vi sono parole estremamente dure nei confronti della conferenza episcopale del Messico. “In questa vicenda l’episcopato messicano… si è mostrato non impegnato, irresponsabile e persino servile”. Sono gli stessi, sembra di capire, che hanno ritenuto non necessario un incontro del Papa con le vittime.
Corriere della Sera 22.3.12
I rimborsi gonfiati sul 118 Bari, voci di nuovi arresti
Vendola al telefono si congratula con l'imprenditore per l'appalto
BARI — È una storia di false fatturazioni al 118, ma non solo, quella che ieri ha tenuto la Bari politica di nuovo con il fiato sospeso. Atterrita da voci di imminenti provvedimenti giudiziari in arrivo. Stavolta però il sindaco, Michele Emiliano, non è adiacente al bersaglio. I boatos puntano dritto a Lungomare Nazario Sauro: gli uffici della Regione Puglia. E vanno a colpire i vertici della Sanità pugliese, spina nel cuore del potere di Nichi Vendola, già finita al centro di un'indagine che portò alla richiesta di arresto dell'ex assessore alla Sanità regionale, poi senatore pd, Alberto Tedesco (sempre respinta dalla Giunta con i voti pdl) e al coinvolgimento di Sandro Frisullo, ex vicepresidente della giunta Vendola, incappato nello scandalo escort, poi arrestato per un'altra inchiesta sulle forniture alle Asl di Lecce.
Si riparte da lì, da Tedesco e da Frisullo. E da storie vecchie che si intrecciano a nuove, venute da altre procure, come quella di Foggia che valuta se davvero l'emergenza fosse diventata un business e si gonfiassero i costi per spartirne il guadagno con i politici. O che nella Sanità fossero stati investiti soldi di crac da imprenditori amici dei politici che in tal modo ottenevano l'accreditamento per agire in regime di convenzione. Si torna a parlare della clinica Kentron dell'imprenditore Ritella, amico dei potenti. I sussurri tornano ad appuntarsi anche sul vendoliano Tommaso Fiore, successore di Tedesco fino a pochi mesi fa e proprio in questi giorni citato fra i papabili nella corsa alla poltrona di presidente della Puglia, che secondo Lea Cosentino, ex direttore generale della Asl di Bari lo tirò in ballo per la vicenda accreditamenti facili dicendo: «Sicuramente l'assessore Fiore non poteva non sapere essendo sempre presente in assessorato».
Ma in una Bari ormai teatro di una sanguinosa lotta politica fratricida interna alla sinistra, i sussurri vanno oltre. E accerchiano il presidente della Regione, Vendola, mai coinvolto nelle indagini, che secondo indiscrezioni, avrebbe fatto gli «auguri e complimenti» a uno dei proprietari della clinica, per l'accreditamento appena ricevuto, in una telefonata iniziata da Sandro Frisullo e per questo intercettata dalla Guardia di Finanza.
Ce ne sarebbe abbastanza, ma in una Bari sull'orlo di una crisi di nervi le voci si intrecciano con quelle in arrivo da Foggia dove un'inchiesta sulle forniture agli ospedali ha già portato a una serie di arresti per corruzione e perquisizioni, da cui sarebbero spuntate foto di un politico locale ritenute interessanti. E il filone delle false fatture emesse da cooperative del 118 e pagate dalla Asl. Qui i sussurri si fanno spifferi per la Regione. Si parla di approfondimenti investigativi su almeno 4 consiglieri regionali. Il presidente della Commissione Sanità, Dino Marino, ha definito la notizia di un'indagine a suo carico «destituita da ogni fondamento».
Lo scenario è quello che riemerge dalle carte dell'inchiesta Degennaro: «Di diffusa collusione di politici e pubblici amministratori». Forse si tentava di dissimularlo mentre, durante l'acquisizione delle mail in entrata e in uscita dei Degennaro, qualcuno dal server svuotava la posta.
Corriere della Sera 22.3.12
Cacciari
I san Francesco di Dante e Giotto
di Pierluigi Panza
Assisi è il cantiere di nascita dell'Europa moderna. E San Francesco colui che ha avviato il faticoso viaggio che porta al divino partendo dall'umano. Un viaggio tormentato e di sentieri interrotti, che ha accompagnato la storia dell'individuo dall'Umanesimo al nichilismo contemporaneo. Per queste ragioni il filosofo Massimo Cacciari — che non ha mai abbandonato l'interrogazione sui fondamenti — individua in San Francesco, e nelle prime interpretazioni su di lui, l'origine del dipanarsi di narrazioni sulla coscienza e il destino europeo.
Nel suo nuovo libro, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto (Adelphi, pp. 86, 7) Cacciari muove alla definizione del «suo» San Francesco alla luce di una conoscenza bibliografica rigorosa, che passa dagli studi di Paul Sabatier a quelli di Henry Thode. E muove per mostrare un Francesco più complesso di alcune interpretazioni postmoderne, che hanno fatto di lui ora un profeta socialista ora un rivoluzionario New Age. Per raggiungere il suo obiettivo, Cacciari interseca le strade tracciate dai due «maggior fabbri del volgare europeo», cioè Giotto e Dante, sulla figura del poverello. E racconta il conflitto d'interpretazione della rivoluzione francescana innescato dai due.
Giotto e Dante sono entrambi cattolici, nati una quarantina d'anni dopo la morte del Santo (1226). E il loro occuparsi di Francesco è già una testimonianza di come la figura del santo fosse percepita come coesa alla Chiesa. Ma i due fabbri non riescono a dare del tutto ragione del «crocefisso di Assisi», perché la sua forza è troppo vasta: entrambi lo traducono e lo tradiscono. Giotto rappresenta Francesco negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, rifacendosi alla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, e a Firenze nella Cappella Bardi in Santa Croce. Dante lo colloca nel Cielo degli spiriti sapienti (Paradiso, XI canto) e ne affida l'elogio a San Tommaso d'Aquino.
«Quella giottesca sembra una visione più ingenua e fresca; in realtà è una precisa operazione politica», sottolinea Cacciari. Nel ciclo di affreschi della Basilica superiore di Assisi, infatti, manca l'incontro di Francesco con i lebbrosi, il dono delle stigmate e la scena del mantello donato al povero è edulcorata, sembra uno scambio tra cavalieri. Anche l'episodio della morte non mostra Francesco nudo sulla nuda terra della Porziuncola. «In sintesi, una rappresentazione omogenea con le esigenze del primo Papa francescano (Niccolò IV): Francesco è in perfetta armonia con la Chiesa e si inchina ad essa».
In Dante la prospettiva è diversa. Francesco è l'alter Christus, che riceve le stigmate sulla Verna. Non si prostra, ma sottopone regalmente al Papa la sua Regola. Non fa miracoli, ma è il serafino di una religione quasi solare («non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole»). In Dante, Francesco è in guerra con le forze che hanno trasformato il soglio di Pietro in una Babilonia e muore povero e nudo come «profeta» di un nuovo ordine. Nella Commedia viene trattato al fianco di San Domenico, perché Dante cerca nel cristianesimo una concordia di opposti e apprezza sia la forza rigeneratrice della povertà sia quella della sapienza domenicana. Ma la preferenza del poeta va a Francesco e alla sua follia profetica, anche se Dante, e neppure Giotto, paiono comprendere sino alle estreme conseguenze la forza della rivoluzione della povertà: «Povertà è la violenza di chi vuole il Regno. Soltanto il povero è veramente potente», scrive Cacciari; quello di Francesco è uno «svuotamento del sé» simile a quello voluto da Dio per creare l'universo.
Un libro erudito e intenso questo Doppio ritratto, nel quale Cacciari fa anche incontrare le interpretazioni di Francesco con i filosofi a lui cari, come Nietzsche. E scopre Francesco sotto le spoglie del mendicante «da cui occhi parlava la bontà in persona» incontrato da Zarathustra. Con il quale condivide la nausea verso avidità, cupidigia e orgoglio. E riscoprire anche nell'«Anticristo» Zarathustra il volto di Francesco significa che il messaggio del poverello di Assisi agisce ancora oggi sul doppio piano delineato da Giotto e Dante.