l’Unità 17.3.12
Oggi la manifestazione con Hollande, Bersani e Gabriel. Atteso anche Miliband
D’Alema: «Una spinta per ricreare un rapporto di fiducia con i cittadini»
Progressisti, da Parigi parte la sfida: cambiare il volto dell’Unione
Inizia oggi a Parigi la convention della Fondazione europea per gli studi progressisti. Democratici italiani, socialisti francesi per Hollande e socialdemocratici tedeschi, un fronte comune contro «Merkozy»
di Simone Collini
Oggi a Parigi, ma la prossima primavera l’appuntamento sarà a Roma e poi in autunno a Berlino. Perché dopo le presidenziali francesi si voterà anche in Italia e in Germania. E, come dice Massimo D’Alema, qui in veste di presidente della Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps), i prossimi 18 mesi possono «cambiare il volto dell’Europa».
Questa sorta di cooperazione rafforzata tra le forze progressiste europee è alla base di un’operazione che prende il via con la firma del documento intitolato «Un nuovo Rinascimento per l’Europa» ma che non si chiude oggi, quando il candidato all’Eliseo François Hollande, il leader del Pd Pier Luigi Bersani e quello della Spd Sigmar Gabriel sigleranno sotto la volta del Cirque d’Hiver una piattaforma programmatica comune sulle politiche comunitarie.
RICREARE FIDUCIA TRA CITTADINI E UE
Socialisti francesi, democratici italiani e socialdemocratici tedeschi (ma l’iniziativa è aperta ad altri e non a caso è arrivato a Parigi anche il britannico David Miliband e il primo ministro belga Elio Di Rupo) hanno deciso di fare fronte comune contro quell’asse «Merkozy» che in questi anni, attraverso politiche puntate essenzialmente sul rigore dei bilanci, le sanzioni, l’austerità, hanno finito per fare dell’Europa più un ente distante e da temere che un’opportunità per affrontare e superare la crisi economica.
«Bisogna ricreare un rapporto di fiducia tra i cittadini che soffrono la crisi e l’Europa», dice D’Alema durante una pausa dei lavori del seminario organizzato alla vigilia dell’iniziativa pubblica di oggi, «servono una strategia per la crescita, il completamento del mercato interno, gli Eurobond». Per questo le fondazioni vicine ai partiti progressisti europei (la nostra Italianieuropei, la francese Jean Jaurès e la tedesca Friedrich Ebert Stiftung, con la Feps a coordinare l’operazione) hanno avviato un percorso che per ora ha portato al documento che verrà sottoscritto oggi, ma che si svilupperà giocando un ruolo tutt’altro che secondario nelle campagne elettorali dei tre paesi, che insieme contano 200 milioni di cittadini europei su un totale di 330 milioni dell’Eurozona.
Inutile dire che se il primo passo dovesse andare in fallo tutto il resto del percorso sarebbe in salita. Insomma una vittoria di Hollande è importante per la Francia come per gli atri singoli paesi comunitari e per la stessa Europa. «Se a Parigi ci sarà Hollande lo scenario europeo cambierà e l’Europa sarà spinta a politiche più favorevoli alla crescita»,
è il ragionamento di D’Alema. «Anche rispetto ai nostri interessi nazionali, sarebbe un cambiamento positivo se si ponesse fine al blocco franco-tedesco verso tutte le proposte in favore della crescita». Soprattutto per un paese come il nostro colpito profondamente dalla crisi economica. «L’Italia è interessata in modo vitale ad un’Europa più attiva in direzione della crescita. Il presidente Monti non ha fatto mistero in diverse occasioni della necessità di una svolta in questo senso».
SOSTEGNO A HOLLANDE
A Parigi arrivano come un’eco lontana le voci critiche di esponenti Pd che giudicano un errore il sostegno ad Hollande e che non vedono di buon occhio la firma di Bersani del documento insieme ai socialisti francesi e ai socialdemocratici tedeschi. Beppe Fioroni, Marco Follini e una dozzina di ex-popolari hanno firmato una sorta di memorandum alternativo che è stato pubblicato dal Foglio. Ma se loro sono favorevoli ad appoggiare il candidato centrista François Bayrou piuttosto che Hollande, D’Alema ha gioco facile nell’ironizzare sul fatto che i candidati all’Eliseo li scelgono i francesi, non il Pd: «Il candidato in corsa per sostituire Sarkozy è Hollande, consiglierei a questi amici una attenta lettura dei giornali stranieri».
Ma al di là delle presidenziali francesi, che pure sono importanti, l’operazione avviata costituisce una novità di non poco conto perché ha come obiettivo, dice D’Alema, «fare della sinistra la forza più europea e più europeista»: «Tradizionalmente non era così sottolinea il presidente della Feps anzi, per certi aspetti la sinistra guardava alla costruzione europea come ad una grande avventura liberale, magari pensando che lo stato nazionale fosse la garanzia per certe conquiste sociali».
Oggi, tra scenografia e interventi, si vedrà il nuovo corso. Al Cirque d’Hiver parleranno i protagonisti dell’operazione e anche il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.
Pier Luigi Bersani insisterà sulla necessità di dare all’Europa politiche per la crescita e non solo rigore, dicendo che «da Parigi deve ripartire il sogno di un’Europa libera, pacifica e più giusta». Il leader del Pd è arrivato ieri sera nella capitale francese, dove ha incontrato la portavoce del consiglio nazionale siriano Basma Qadmani. Le ha espresso la solidarietà dei democratici italiani per la dura repressione nel suo Paese e l’ha invitata a Roma per il 19 e 20 aprile, quando si terrà la conferenza internazionale dei leader progressisti e una parte dei lavori sarà dedicata proprio alla primavera araba.
Repubblica 17.3.12
Bersani firma con Hollande. Fioroni: sbaglia
ROMA - La scelta "socialista" di Pier Luigi Bersani fa discutere il Pd. Oggi il segretario democratico sarà a Parigi per firmare il manifesto "Per un nuovo rinascimento europeo" insieme a Sigmar Gabriel, presidente dell´Spd, e a Francois Hollande, candidato socialista all´Eliseo. Quindici parlamentari del Pd criticano però quest´iniziativa. Un documento - firmato tra gli altri da Giuseppe Fioroni, Marco Follini e Maria Pia Garavaglia - afferma che è un errore sostenere la corsa di Hollande invece di quella del centrista Francois Bayrou. «Il Pd - aggiunge il testo - perde la sua anima se irrigidisce ideologicamente il messaggio d´innovazione che gli compete».
l’Unità 17.3.12
Il documento alla base dell’incontro di Parigi: «L’Europa è il nostro patrimonio»
Lavoro, solidarietà giustizia fiscale: così l’Europa può rinascere
Il testo alla base dell’incontro dei Progressisti a Parigi: la sfida per rilanciare l’Unione su basi di maggiore democrazia ed equità. Il ruolo delle tecnologie, delle infrastrutture e della ricerca. La scommessa di una nuova governance
Pubblichiamo il testo «Rinascita europea. Crescita, solidarietà, democrazia: un nuovo percorso è possibile» che è alla base dell’incontro di Parigi. Alla stesura hanno partecipato la Fondazione europea di studi progressisti, vicina al Partito Socialista Europeo, la Fondazione Jean Jaurès, vicina al Partito Socialista francese, la Fondazione Italianieuropei, vicina al Pd italiano e la Fondazione Friedrich Ebert, vicina alla Spd tedesca.
Asettembre 2011, i socialdemocratici danesi sono tornati al governo. Nel novembre 2011 il governo conservatore italiano ha rassegnato le dimissioni. A dicembre 2011 un primo ministro socialista è stato designato in Belgio. Nel 2012 e 2013 le elezioni in Francia, in Italia e in Germania possono rivelarsi decisive per intraprendere un nuovo percorso per l’Europa, sostenuto da una vasta alleanza dell’insieme delle forze socialiste, progressiste e democratiche.
L’Europa è il nostro patrimonio
comune. Il nostro compito è di perseguire la costruzione di un’Europa più unita e democratica. Prendiamo atto che l’assenza di una governance economica europea democratica ed efficace minaccia di trascinare l’Europa in recessione. Privilegiando la deflazione salariale, omettendo di condurre politiche per la crescita e l’occupazione, trascurando la solidarietà e la lotta contro le disparità, riducendo l’Europa a uno spazio di vigilanza e di sanzioni, trascurando il dialogo sociale e la democrazia, si voltano le spalle sia alla necessità di lottare contro la crisi che allo stesso progetto europeo.
Adesso spetta all’Unione europea fornire risposte appropriate. La responsabilità di bilancio e la disciplina fiscale sono degli imperativi per la stabilità nella zona euro e per rilanciare il modello sociale europeo. In ogni Stato dovrebbe essere istituito un percorso che garantisca la riduzione del deficit e dell’indebitamento. È indispensabile ridurre l’indebitamento sovrano in Europa. Ciò andrebbe fatto in modo responsabile, nel rispetto delle regole democratiche di una nuova sovranità europea condivisa e in accordo con i principi di uguaglianza e giustizia sociale. Dovrebbero essere adottate quanto prima iniziative, a livello di Unione europea, per stimolare una crescita sostenuta e sostenibile. Andrebbero rafforzati in questa direzione gli interventi della Banca Europea per gli Investimenti (Bei). Nella fattispecie, le priorità dovrebbero essere la creazione di posti di lavoro e la lotta contro la segmentazione del mercato del lavoro, in particolare nei confronti dei giovani e delle donne.
La politica industriale deve essere reinventata. Essa deve essere messa al servizio dello sviluppo dei grandi progetti industriali, tecnologici, infrastrutturali, di ricerca di innovazione, che favoriscano la conversione ecologica dell’Europa. La politica industriale dovrà favorire un’industria sostenibile («sobria in carbone») basata sulle tecnologie verdi, che assicuri impieghi duraturi e qualificati . Ci sembra inoltre fondamentale appoggiare la diffusione generale e l’armonizzazione dei «certificati verdi» già esistenti in alcuni Paesi dell’Unione europea, per contribuire alla lotta contro il riscaldamento climatico.
Devono essere create nuove risorse. Dovrebbe essere subito adottata dal Consiglio la proposta difesa da tempo dai progressisti europei e presentata recentemente dal gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici al Parlamento europeo che punta a istituire una tassa sulle transazioni finanziarie.
Questa consentirà un rincaro del costo delle operazioni speculative, il riequilibrio della tassazione del capitale e del lavoro e faciliterà la lotta contro l’ingiustizia fiscale. Questa tassa assicurerà inoltre che al rilancio dell’economia contribuiscano gli stessi soggetti che hanno provocato la crisi finanziaria. L’Unione Europea dovrebbe assumere iniziative sulle relazioni con i «paradisi fiscali», con l’obiettivo di lottare contro l’evasione fiscale e contribuire a sanare le finanze pubbliche.
Al tempo stesso, sarebbe opportuno affrontare seriamente i profondi squilibri macroeconomici e sociali all’origine della crisi nella zona euro.
Il miglioramento della competitività dei Paesi in situazione di deficit commerciale dovrebbe essere accompagnato da sforzi reciproci da parte dei Paesi che invece hanno eccedenze, stimolando la loro domanda interna. Ciò contribuirebbe ad invertire la tendenza alla distribuzione impari della ricchezza di questi ultimi decenni. Sarebbe necessario inoltre distinguere le spese per gli investimenti dalle spese di funzionamento.
La solidarietà deve essere posta al centro delle politiche europee. In questo modo sarà garantita la stabilità della nostra moneta. Proponiamo di prendere in considerazione il rafforzamento di una responsabilità comune europea per una parte del debito sovrano. Le euro-obbligazioni contribuirebbero a un nuovo fondo per il riassorbimento del debito e permetterebbero un riequilibrio delle finanze pubbliche. Il fallimento dei tentativi di rispondere alla crisi nella zona euro da parte dei governi conservatori in Europa, ha portato la Banca centrale europea a svolgere un ruolo attivo nei mercati finanziari. Se questo deficit di leadership politica persistesse, la Bce sarebbe, alla fine, obbligata a svolgere un ruolo ancora più forte per combattere la crisi finanziaria. Questo riorientamento delle politiche economiche in Europa non può comunque essere concepito senza un vero regolamento finanziario, che rimetta i mercati finanziari al servizio dell’economia reale e ristabilisca gli opportuni legami tra finanza ed economia.
Tutto ciò richiede il rafforzamento di una vera democrazia su scala europea. Per questo motivo, l’Unione europea dovrebbe rafforzare le proprie competenze e dotarsi di una vera governance. I cittadini europei dovrebbe essere messi nelle condizioni di poter decidere chiaramente gli orientamenti politici dell’Unione. Il metodo intergovernativo perseguito dai governi conservatori non aiuta. Converrebbe invece estendere la codecisione alle scelte fondamentali di politica economica e sociale. Ciò implica una democrazia europea basata sul metodo comunitario e su un ruolo più decisivo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali fondata sulla sussidiarietà e la partecipazione dei cittadini e accompagnata dal rafforzamento dell’influenza di veri partiti politici europei. A questo proposito, i partiti progressisti europei dovrebbero proporre un candidato comune alla presidenza della Commissione europea.
In questo modo, nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali, un’altro cammino per l’Europa diventa possibile.
l’Unità 17.3.12
Gli ingredienti di un programma alternativo
di Massimo D’Antoni
Guardando all’iniziativa di Parigi non può sfuggire innanzitutto il quadro di insieme, per così dire la foto di gruppo: il tentativo di realizzare quell’azione coordinata dei partiti progressisti europei che è la sola possibilità di segnare un cambio di direzione rispetto alla strada senza uscita imboccata negli ultimi anni. Per le sue conseguenze sul piano sociale e democratico, la ricetta dei conservatori europei sta creando tutte le condizioni per un ripiegamento nazionalistico e, se perseguita ulteriormente, porterebbe allo sfaldamento dell’euro prima e di ogni progetto di integrazione poi.
Rispetto alle difficoltà del nostro paese sarebbe certo ingenuo pensare all’Europa come al classico deus ex machina, ma lo sarebbe altrettanto scambiare l’attuale fase per la fine della fase acuta della crisi. L’abbiamo detto più volte: il recupero della credibilità nella conduzione della politica nazionale, e quindi il ripristino di condizioni di reciproca fiducia tra paesi, è un passo necessario, ma in nessun modo sufficiente. Né il nostro paese né gli altri paesi colpiti più duramente dalla crisi reggerebbe sul piano sociale la prospettiva di cinque o dieci anni di stagnazione cui ci sta condannando la linea dell’austerità. La finestra temporale concessaci dalla politica monetaria espansiva della Bce sotto la guida del presidente Draghi non durerà a lungo, e non ci si può illudere che la crescita riparta per effetto delle sole liberalizzazioni o magari di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, come qualcuno si ostina a suggerire.
Per superare le difficoltà del nostro paese, che vengono da lontano, servono interventi strutturali, ma questi richiedono risorse. Penso agli ammortizzatori sociali, a
investimenti infrastrutturali, alla crescita del capitale umano, alla ricerca, al ripristino della funzionalità della macchina pubblica, per garantire legalità e servizi pubblici; penso infine ad un piano per l’occupazione giovanile e femminile. È per questo che è vitale l’avvio urgente di una fase espansiva, mediante politiche di riattivazione della domanda che in questo momento le condizioni debitorie non consentono ai singoli stati ma che sono ancora possibili a livello europeo.
Nel documento di Parigi gli ingredienti per un programma alternativo rispetto all’attuale linea dell’Europa conservatrice ci sono tutti. Innanzitutto la denuncia dei rischi della ricetta deflazionistica che punta a colmare i divari di competitività tra le economie puntando su una riduzione dei salari nei paesi in difficoltà, e quindi scarica ancora una volta sul lavoro le tensioni macroeconomiche. A questo proposito, è di estrema importanza il riconoscimento che “il miglioramento della competitività dei paesi in deficit commerciale dovrebbe essere accompagnato da sforzi complementari nei paesi in surplus attraverso un ruolo di stimolo alla domanda interna”, nonché attraverso politiche di riduzione della diseguaglianza.
L’attenzione alle compatibilità di bilancio e alla disciplina di bilancio non è elusa, la necessità di puntare ad una riduzione dell’entità del debito sovrano è anzi affermata con chiarezza. Tale attenzione è tuttavia coniugata con l’esigenza di rilanciare il modello sociale europeo con i suoi ideali di solidarietà uguaglianza e sostegno all’occupazione; ciò in chiara antitesi con la tesi del pensiero conservatore, che considera tale modello esaurito e lo addita come responsabile dell’attuale difficoltà del continente. Il risanamento dei conti pubblici deve essere ottenuto con responsabilità, secondo principi di giustizia sociale e nel rispetto delle regole democratiche. Non è difficile cogliere qui un chiaro riferimento critico alla gestione della crisi greca, anche nella richiesta di mettere al centro dell’azione europea la solidarietà e il “rafforzamento della responsabilità comune” nella gestione dei debiti, mediante il ricorso agli eurobond.
E ancora: l’importanza di una politica industriale, che tra le altre cose sviluppi tecnologie per la sostenibilità ambientale; di reperire risorse (tramite la tassazione delle transazioni finanziarie, il coordinamento nella lotta all’evasione e l’emissione di project bond) per finanziare progetti europei di investimento; di progetti di sostegno dell’occupazione.
Infine: l’affermazione del metodo comunitario e del rafforzamento delle istituzioni rappresentative, al fine di costruire una democrazia su scala europea che segni la fine della prevalenza del metodo intergovernativo praticato dai governi di destra.
In poche pagine, una direzione indicata in modo tutt’altro che generico o inadeguato alla sfida del momento. Un progetto che, senza chiedere ai partiti che lo sostengono di rinunciare alla propria specificità culturale, alle proprie storie, ai tratti caratterizzanti la propria esperienza nazionale, individuando chiaramente quale propri riferimenti l’Europa, la giustizia sociale, il lavoro, la democrazia, si presta a definire l’identità di una forza progressista europea.
l’Unità 17.3.12
La giustizia dopo Berlusconi
di Michele Ciliberto
Verboten! Quando in Italia si parla di giustizia scattano subito i veti, a cominciare ovviamente dal partito di Berlusconi. Anzi, ad essere precisi, si può parlare di tutto ma con due eccezioni: la giustizia e la tv. Non è difficile capire perché: si tratta dei due pilastri del sistema di potere personale costruito in quasi vent’anni da Silvio Berlusconi.
E sono strettamente connessi: la televisione è stato uno strumento essenziale per costruire una forma di moderno dispotismo su base democratica; il controllo della giustizia, fin dall’inizio, è stata la leva utilizzata per cercare di mettere in sicurezza cioè al riparo della legge Berlusconi.
Dai suoi «valvassini» il Cavaliere ha fatto varare in Parlamento (almeno) 37 leggi ad personam: dalle rogatorie alla riforma dei reati societari, dalla legge Gasparri sulle televisioni al Lodo Alfano, fino al decreto Salva-Milan. In breve: non c’è stato aspetto del suo sistema di potere personale ed economico che non sia stato toccato, e salvato, dalla «grazia» (laica) del Parlamento attraverso una sistematica sostituzione dell’arbitrio alla legge, con una sfrontata mortificazione del principio di ogni democrazia moderna quello secondo cui «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».
In diciassette anni Berlusconi ha subordinato, senza mai distrarsi, l’attività legislativa ai suoi interessi personali in un crescendo inarrestabile, con un uso «privatistico» dello Stato tipico del dispotismo classico. Ne è scaturita una situazione premoderna, di tipo feudale: come direbbe il vecchio Marx, siamo ritornati alla «democrazia dell’illibertà», alla «compiuta alienazione» tipica del Medioevo, in cui «ogni sfera privata ha carattere politico» e si proietta in una legge che è pura e immediata espressione degli interessi privati.Tutto questo lo vediamo bene proprio mentre il berlusconismo tramonta ha acuito al massimo il problema di una pronta, efficace e severa riforma della giustizia in Italia. Come per la televisione, il tema della giustizia oggi riguarda direttamente la struttura e la costituzione interiore della nostra democrazia. Di qui non si esce, e non si può uscire, se si vuole porre su basi salde il nostro «vivere civile», cominciando a lasciarsi alle spalle la lunga stagione del dispotismo democratico e ristabilendo finalmente, e per tutti, il primato della legge, fondamento originario della eguaglianza dei cittadini.
I punti su cui lavorare sono chiari, nascono dalle cose: la lotta alla corruzione, anzitutto, che è un cancro della nostra economia; la giustizia civile che riguarda direttamente la vita dei cittadini e delle aziende; la responsabilità civile dei magistrati che va affrontata senza spirito di vendetta; la questione delicatissima, ma non più rinviabile delle intercettazioni telefoniche per tutelare al meglio diritto all’informazione e tutela della privacy quando si tratta di colloqui non penalmente rilevanti. Non si tratta, come si vede, di richieste di tipo giacobino; né di problemi che coinvolgono solamente le forze di sinistra. Sono questioni e problemi che concernono il «vincolo» originario di una comunità di cittadini e, perciò, anche di coloro che auspicano la formazione in Italia di una destra post-feudale, moderna, democratica. Quindi sono problemi che dovrebbero riguardare anche molti di coloro che, pur militando nel partito di Berlusconi, non identificano le sorti, e il futuro, del movimento con i destini privati e personali del suo fondatore. Osservino bene quello che accade nel Paese: la campana suona anche per loro.
l’Unità 17.3.12
Il segretario Cgil teme forzature del governo. Al lavoro con Cisl e Uil sulla controproposta sindacale
Camusso frena: lontani sull’art. 18: «Discriminazioni, voglio garanzie»
«Accordi possibili quando c'è un merito che viene condiviso. Credo che ci sia ancora della strada da fare»
Da Firenze Susanna Camusso frena sulla riforma del lavoro: l’accordo lo firmiamo noi, non i partiti. «Sull’articolo 18 la posizione del governo non va bene». Con Cisl e Uil si mette a punto la contro-proposta.
di Massimo Franchi
L’ottimismo dei partiti, il realismo delle parti sociali. L’accordo sulla riforma del mercato del lavoro torna ad allontanarsi. Non solo per “colpa” della Cgil. Entrando nel merito dei tanti capitoli le posizioni sono ancora distanti. E non sarà facile avvicinarle. Nonostante il week-end riunisca tutti gli attori in gioco a Milano, per l’appuntamento biennale del Centro studi di Confindustria.
A far tornare tutti sulla Terra o a far scendere «dalle montagne russe» ci pensa di prima mattina Susanna Camusso. A poche ore dai titoli trionfanti sul vertice governo-maggioranza a palazzo Chigi, il segretario generale della Cgil parla ad un iniziativa a Firenze: «Se il governo ha fatto un accordo con i partiti la cosa ci lascia preoccupati. Io continuo a pensare che la trattativa vada fatta con le parti sociali: quindi vedremo cosa ci dirà il governo al tavolo di martedi». Sul merito e sulle indiscrezioni, Camusso è preoccupata: «Le cose che abbiamo sentito finora non ci convincono e non sono la soluzione del tema». A partire dalle modifiche sulla flessibilità in uscita: «Le proposte sentite fino ad ora sull’articolo 18 non ci convincono e non vanno bene». «Per noi aggiunge l’articolo 18 è una tutela generale. Ha una funzione di deterrenza rispetto all’arbitrio dei licenziamenti e questa deve rimanere. La discussione deve partire dal salvaguardare questo principio. Gli accordi sono possibili quando c’è un merito che viene condiviso. Credo che ci sia ancora della strada da fare», sottolinea.
Il segretario generale della Cgil ieri si è tenuta in stretto contatto con Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni e Giovanni Centrella per mettere a punto la contro-proposta unitaria dei sindacati sul tema della modifica alle interpretazioni sull’articolo 18. Il punto di caduta possibile rimane quello anticipato nei giorni scorsi: considerare, nel solo caso di licenziamento per motivi economici, la possibilità che il giudice abbia più motivazioni per optare per l’indennizzo monetario rispetto al reintegro. La Cgil comunque non accetterà in nessun modo che, come vorrebbe il governo, sempre nel caso di un licenziamento per motivi economici, l’unica tutela prevista per il lavoratore sia il solo indennizzo monetario.
Su questa posizione si trova buona parte della confederazione, senza però che nella riunione allargata di giovedì siano mancate voci dissonanti all’interno della stessa maggioranza che portò all’elezione di Susanna Camusso. Per questo è stato convocato il Direttivo per mercoledì 21 e lì si valuteranno le proposte del governo, confidando nel frattempo di migliorare e limare la contro-proposta. La settimana comunque partirà con il Comitato centrale della Fiom, convocato da Maurizio Landini (il più ciritico rispetto «all’apertura» sull’articolo 18) per lunedì. «Sarebbe veramente strano chiudere l’accordo sull’articolo 18 proprio a 10 anni dalla grande manifestazione della Cgil al Circo Massimo», chiosa Landini.
FORNERO: ACCORDO IMPRESCINDIBILE
Passando all’altra parte del tavolo, ieri la ministra Elsa Fornero era a Bologna a commemorare Marco Biagi. La riforma del lavoro è «importante e imprescindibile, sono fiduciosa che si farà con il consenso di tutti», ha detto. Il clima, secondo la titolare del Welfare, è cambiato: «Pur avendo firmato la riforma delle pensioni senza l’accordo con i sindacati e quasi senza il confronto ha detto Fornero nel suo intervento -, sulla riforma del mercato del lavoro credo che l’accordo sia importante e imprescindibile» perché «dà un valore aggiunto di notevole importanza», sarebbe un «segnale che il Paese può superare le divisioni fra le parti politiche, sindacali e i datori di lavoro. Sono fiduciosa che si farà con il
consenso di tutti».
PASSI AVANTI SUI CO.CO.PRO.
Ieri intanto i tecnici dei sindacati hanno consegnato ai loro segretari generali i documenti sui capitoli che riguardano ammortizzatori sociali e tipologie di contratto. Sul primo tema lo scoglio principale rimane quello della copertura economica, sia totale che rispetto all’inclusione di giovani e precari per quanto riguarda la nuova Assicurazione sociale per l’impiego, sia rispetto agli over 57 in fatto di durata e livello delle tutele. Passando alle tipologie contrattuali passi avanti sono stati fatti rispetto al grande tema delle finte partite Iva e collaborazioni a progetto. Le nuove norme dovrebbero prevedere che, se un giovane lavora per un solo committente, o con più committenti riconducibili ad uno solo, ricevendo da questi il 75 per cento delle sue entrate, scatti una clausola che implichi un contratto da dipendete, fino al tempo indeterminato. Previste inoltre soglie economiche e limiti contrattuali precisi per gli attuali co.co.pro.
l’Unità 17.3.12
Serve l’accordo ma niente trucchi nella trattativa
di Rinaldo Gianola
L’ultimo miglio che porta al possibile, auspicato accordo sul mercato del lavoro è il più faticoso, tormentato e denso di trappole. Non deve sorprendere: è così ogni volta che nelle trattative, nei confronti tra soggetti diversi vengono messi in gioco diritti, principi, interessi rilevanti che riguardano milioni di persone in carne e ossa.
Le parti sociali e il governo hanno già fatto importanti passi avanti, hanno mediato e articolato i loro interessi, hanno condiviso soprattutto la necessità di individuare un percorso che determini le condizioni di un patto sociale, di un’intesa forte, solidale, condivisa. Dunque da questo sforzo possiamo trarre la conclusione che un accordo è ineluttabile, che ci sarà in ogni caso, a qualsiasi costo? No, oggi non è per nulla scontato che la lunga trattativa possa alla fine portare a un’intesa unitaria, di tutte le imprese e di tutti i sindacati.
La filosofia che deve ispirare questo passaggio delicato, il confronto tra governo, sindacati e imprese, dovrebbe essere simile a quella che condusse in porto il difficile patto del 1993 e rimise il Paese sui giusti binari dopo una stagione drammatica, di emergenza finanziaria a e sociale. Certo sono passati vent’anni e il governo Monti non è il governo Ciampi, ma se gli obiettivi sono il risanamento dei conti pubblici, l’avvio di una nuova fase di sviluppo, la creazione di lavoro, allora lo spirito che deve animare questa stagione non è quello della prevaricazione e della rivincita, o della vendetta. Qui, in questo caso, non ci sono conti da regolare.
Questo va detto perché emergono, in particolare, alcune minacce, qualche trucco attorno alla trattativa. La grande stampa, i forti poteri editoriali che spesso sono anche quelli finanziari, hanno caricato strumentalmente la discussione sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per arrivare, alla fine, a un risultato che non c’entra niente col patto sociale. L’obiettivo di questi ambienti, accompagnati da reduci del governo Berlusconi e da vecchi attrezzi di oscure stagioni confindustriali, non è la condivisione di un percorso, non è la coesione sociale. L’obiettivo prioritario, per loro, è quello di colpire la Cgil, di cercare una rivincita, di indebolire con la Cgil la stessa autonomia sindacale. In nome dell’emergenza nazionale e della necessità per tutti di fare sacrifici da più parti si chiede lo svuotamento dell’articolo 18. Alcuni non vogliono una manutenzione o una migliore definizione giuridica di quel diritto: confronto che potrebbe portare facilmente a un accordo. No, si vuole qualche cosa di più. Si punta al licenziamento individuale e basta, senza troppi fronzoli. Ma non si può attaccare, destrutturare questa tutela senza mettere in conto l’opposizione della Cgil e di altre forze politiche. E chi, con scarsa memoria, sostiene che il più grande sindacato italiano è «una cattedrale del no» dovrebbe ricordarsi quando i leader della Cgil firmavano accordi drammatici, si dimettevano senza troppe storie e venivano presi a bullonate dai lavoratori.
L’articolo 18 non c’entra niente con la ripresa dell’occupazione, con la flessibilità, lo dicono anche imprenditori come Giorgio Squinzi e Carlo De Benedetti. L’articolo 18 ha un effetto deterrente contro i licenziamenti ingiusti, contro gli abusi e l'arbitrio. È un principio giusto, fa parte della carta costituzionale del mondo del lavoro, è una conquista che regge al confronto con la storia. Non è una battaglia del passato. Anzi, la questione dei diritti sindacali in fabbrica è più che mai attuale, viste le condizioni imposte da Marchionne nelle fabbriche Fiat.
Chi vuole dare una mano al Paese deve lavorare per un accordo, preservando dell’articolo 18 il principio e la sostanza. E senza sognare vendette improbabili contro la Cgil.
il Fatto 17.3.12
“Non va” obbligato della Camusso all’art. 18
Dopo l’intesa di maggioranza, la Cgil vuole limitare i danni ai licenziamenti economici
di Salvatore Cannavò
Come ogni buona intesa che si rispetti, alle battute conclusive le fibrillazioni aumentano. La trattativa sulla riforma del mercato del lavoro obbedisce a questa regola e se fino a due giorni fa l'accordo era praticamente fatto ieri sono ricominciati i distinguo. Ha cominciato Susanna Camusso che dopo aver letto sui giornali del “patto” raggiunto giovedì tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, ha tirato il freno a mano dicendo che al momento non c'è nulla di definitivo. Pur precisando che “l'accordo si farà solo sul merito”, che la proposta del governo “ancora non va bene” e che sull'articolo 18 la Cgil non cambia idea, Camusso non ha smentito quanto emerso il giorno prima dal vertice riservato tenuto in Corso Italia. E cioè che il suo sindacato è disposto, per la prima volta, a un'intesa anche sull'articolo 18, sia pure minima e limitata alla parte che riguarda i licenziamenti per motivi economici. Il governo – che ieri ha rilanciato “l’art. 18 è la priorità” – invece vorrebbe estendere le modifiche anche ai licenziamenti disciplinari facendo decidere al giudice, se procedere al reintegro o all'indennizzo. Chi conosce bene la trattativa dice che in fondo le posizioni sono le stesse di due giorni fa, di quando al vertice con il ministro Fornero tutti hanno dato il via libera al possibile accordo. Solo che in casi come questo i dettagli sono fondamentali. A chi spetterà l'onere della prova della discriminazione, ad esempio, all'impresa o al lavoratore? E nel caso dei licenziamenti economici individuali, che limite temporale e quantitativo viene individuato per l'azienda? Oltre a questo, ci sono nodi scoperti come quello che riguarda gli “esodati” rimasti senza pensione o le risorse a disposizione dei nuovi ammortizzatori sociali e i tempi di applicazione della riforma.
UN PASSAGGIO importante si verificherà oggi al convegno della Confindustria – ieri Marcegaglia ha evocato una “forte preoccupazione per il nuovo testo sulla flessibilità in entrata, con più costi, più burocrazia, rischio di ridurre l'occupazione invece di aumentarla” – in cui tutti i protagonisti della trattativa saranno presenti. Il segretario della Uil, Luigi Angeletti, non previsto inizialmente all'incontro ha modificato la propria agenda per esserci.
Ad avere i maggiori problemi è la Cgil. Nel corso della riunione riservata dell'altro ieri, Camus-so ha incontrato resistenze corpose anche all'interno della maggioranza a prescindere dal no, dato per scontato, della Fiom. Se dissensi come quelli di Carla Cantone (Spi), Mimmo Pantaleo (Flc) o Rossana Dettori (Funzione pubblica) sono stati espressi anche altre volte, il no del segretario della Cgil torinese, Donata Canta, o di quello emiliano, Vincenzo Colla, hanno avuto un peso più rilevante. Tanto da consigliare di far decidere tutto al direttivo nazionale del 21 marzo stessa data scelta anche dalla Uil. Sono in molti a non voler accettare la scelta “politica” che la Cgil si appresta a fare, adattarsi all'accordo innanzitutto per “non spaccare il Pd”. In ogni caso, Camus-so non ha finito di trattare e cercherà di delimitare al massimo le modifiche – non a caso è partita un'offensiva fortissima da parte del centrodestra per ancorare l'accordo alle ipotesi di Sacconi. Ci sono tre giorni e non sono pochi. Intanto lunedì si pronuncerà la Fiom con il suo Comitato centrale e, assicurano da corso Trieste, la decisione non sarà difficile perché ricalcherà l'ultima assunta dalla Cgil: “L'articolo 18 non si tocca”.
l’Unità 17.3.12
Bersani: bene l’intesa ma subito risposte alla questione sociale
Il segretario Pd sul vertice: è falsa la raffigurazione dei partiti nell’angolo e di Palazzo Chigi che mette diktat
«Dopo giustizia e lavoro, servono interventi su Rai e crisi»
di Maria Zegarelli
La realtà è un po’ diversa da come l’hanno raccontata i quotidiani». Pier Luigi Bersani commenta così, a caldo, la lettura dei giornali che danno il resoconto del vertice-fiume a Palazzo Chigi. Sono due le cose che proprio non gli sono andate giù: «l’enfasi» con cui si è parlato di «accordo» fatto sulla riforma del lavoro e l’immagine dei tre leader di partito messi «nell’angolo» dal premier Mario Monti che ha fatto cadere «tutti i veti». «Il presidente del Consiglio non ha questo atteggiamento ha raccontato il segretario Pd -. È molto attento e ascolta con grande attenzione quanto i partiti hanno da dire».
L’immagine dei partiti «sotto botta» non solo nei sondaggi che ne raccontano un deficit di seduzione tra gli elettori che registrano e subiscono i diktat di Palazzo Chigi sta stretta al leader Pd, come gli sta stretta la «generalizzazione che si fa quando si parla dei partiti».
Coglie l’occasione di un’intervista a Youdem per negare che ci siano stati veti del Pd: «Sono abbastanza stanco di queste raffigurazioni dove ci sono i partiti che mettono i veti e uno che striglia...». Spiega che solo quando si è arrivati al nodo Rai si è mostrato inamovibile: «Andate avanti, io non partecipo. Avrò il diritto di non partecipare. Tutto lì il mio veto. Incredibile questa lettura che viene data alla cose, non accettabile. D’ora in poi quando si dice “partiti” pretenderò nome e cognome».
Per il resto, invece, il giudizio sul lungo incontro a quattro andato avanti oltre l’una di notte, per il segretario Pd è positivo, «siamo stati convincenti su molti punti», spiega, soprattutto sulla riforma del mercato del lavoro. E su questo punto i tre segretari di Pd, Pdl e Udc sono sintonizzati sulla stessa onda: se si arriva ad un’intesa tra le parti sociali non sarà il Parlamento a mettere i bastoni fra le ruote, «ma questo deve essere chiaro a tutti», anche a quei ministri che ancora sono tentati da una forzatura pur di arrivare alla riforma. Si può guardare alla Germania, aggiunge, «ci può essere anche qui una posizione simile. Bisogna capire in che direzione vogliamo andare come sistema regolativo e come politica industriale. L’Italia è il secondo paese esportatore d’Europa, come la Germania. Siamo un grandissimo paese manifatturiero, come la Germania». Quindi anche pensando ad un ritocco dell’articolo 18 si può guardare, tenendo fermi i capisaldi su cui poggia, alla Germania». Ma, ci ha tenuto a ribadire, spetta alle parti sociali trovare l’accordo, «e il governo ha detto che si lavora all’intesa».
Positivo anche il confronto su giustizia, legge anticorruzione, e ottima la notizia «che l’esecutivo presenterà un suo emendamento al testo Alfano in discussione in Commissione Affari Costituzionali», ma è sulla questione sociale che il segretario ha chiesto interventi immediati, «la pressione fiscale va distribuita meglio. Adesso vediamo i primi risultati delle iniziative di contrasto all’evasione fiscale. Poi bisogna ripartire da lì se vogliamo che paghino tutti», come bisogna trovare nuovo «ossigeno» per le Piccole e medie imprese, per le quali serve immettere liquidità nel sistema, «e la cosa più semplice è sbloccare un po’ di investimenti degli enti pubblici, che sono il 70% del totale». Ma se il bilancio del vertice è positivo, adesso resta da vedere come e quando l’esecutivo interverrà su questi fronti. «Non abbiamo risolto tutti i problemi ha spiegato Bersani qualche passo in avanti s’è fatto. Sui punti principali abbiamo esercitato una certa forza di convinzione». Sulla Rai, no, le distanze tra i partiti restano. Tutto rinviato al prossimo vertice.
Corriere della Sera 17.3.12
Partito e (buone) relazioni con la Cgil Bersani trova un equilibrio difficile
di Maria Teresa Meli
ROMA — Sembra incredibile, ma le sorti del Pd ancora una volta dipendono da una foto. Prima era quella di Vasto, con Vendola e Di Pietro, ora è quella che Casini ha inviato l'altra sera, via Twitter. Lì Bersani appare in compagnia del leader dell'Udc e di Alfano, in una pausa del vertice di maggioranza. Un'immagine sfocata, che però è bastata a suscitare più di una perplessità non solo nel cosiddetto popolo del Pd, ma anche tra i deputati del partito. Tanto che il segretario è stato costretto a intervenire per minimizzare l'episodio: «La foto di Casini non sostituisce quella di Vasto».
Un'immagine, quella rimbalzata su tutti i siti, politicamente poco opportuna, come poco opportuno è stato l'annuncio fatto filtrare alla stampa che nel vertice di maggioranza era stato trovato un accordo sulla riforma del lavoro. Questa è stata un'uscita che ha messo in difficoltà Susanna Camusso, pressata non solo dalla Fiom, ma anche dall'ala «centrista» del sindacato. La segretaria della Cgil era disposta a dire di sì all'applicazione del cosiddetto modello tedesco per quel che riguarda i licenziamenti per motivi economici, non certo per quelli disciplinari e discriminatori.
Fin lì poteva spingersi, fin lì poteva accettare che fosse il giudice a decidere il reintegro o l'indennizzo. Ma oltre non era in grado di andare. Lo aveva detto anche a Bersani che in tutti questi giorni ha cercato di convincerla: «Susanna, i margini per un accordo ci sono: è una mediazione favorevole alla Cgil». E Camusso, intransigente: «Io non voglio trovarmi in una condizione in cui sono costretta ad accettare tutte le modifiche all'articolo 18. Su questo non sono disposta a trattare».
Perciò, dopo il vertice, Camusso ha dovuto «scartare», onde evitare che si desse per fatto un accordo che non ha ancora il via libera della Cgil. E che forse non lo avrà mai. Ma se la segretaria della Cgil non accetta l'accordo può sempre firmare l'intesa sulla riforma del lavoro, mettendo una riserva sulla parte che concerne l'articolo 18. Già, quello che la leader sindacale può garantire a Bersani è che la Cgil non alzerà le barricate e non indirà uno sciopero generale, anche se dice di «no». Il segretario del Pd ha capito che forzare la mano sarebbe sbagliato e infatti ci tiene a precisare che «nel vertice abbiamo dato il via libera a una conferma dei pilastri dell'articolo 18 con un aggiustamento in salsa tedesca». Poi Bersani ha spiegato ai colleghi di partito: «Ci siamo solo limitati a dire che il governo deve lavorare per l'accordo, ma il negoziato è ancora aperto e ognuno fa le sue mosse». La speranza — che in politica non muore mai — è che Camusso si stia attestando su una posizione negoziale per chiedere e ottenere di più al tavolo tra il governo e le parti sociali. Comunque vada non si può dire che per Bersani questa sia una sconfitta. Il segretario, anche se non dovesse raggiungere l'obiettivo massimo, che è quello di convincere la Cgil a dire di sì, è però riuscito a non spaccare il partito tra contrari e favorevoli e a non rovinare le relazioni con Camusso. Insomma, Bersani ha mantenuto l'autonomia del suo partito rispetto alla Cgil. Il che non era del tutto scontato.
il Fatto 17.3.12
Margherita. Duro scontro nel Pd sui finanziamenti al partito defunto
Rutelli: “Tutti i bilanci sono opachi” Sposetti: “Mascalzoni, dite la verità”
“Milioni spariti, i capi parlino Così ci rovinano”
di Luca Telese
Sono un tesoriere che ha un sogno... ”. Quando Ugo Sposetti ha esordito con queste parole, due giorni fa, alla presentazione del libro di Paolo Bracalini sui finanziamenti alla politica (Partiti spa) tutti hanno capito. Da due mesi infatti Sposetti – l’uomo del forziere Ds – non proferiva parola sull’inchiesta che ha sconvolto le finanze dell’ex Margherita. Poi, ieri, dopo le rivelazioni de L’Espresso sui finanziamenti di Lusi alla fondazione Rutelli, ha cambiato passo: “Dobbiamo evitare la morte dell’etica collettiva”. Oggi (per la prima volta) spiega perché sente il bisogno di parlare e difendere – con la sua nota caparbietà – la legge sul finanziamento pubblico di cui è stato padre: “Parliamoci chiaro: posso dimostrare, dati elettorali alla mano, che senza quei finanziamenti avrebbe vinto per sempre Berlusconi”. Una tesi che senza dubbio solleverà un polverone, così come il suo ultimatum ai compagni del Pd che vengono dalla Margherita (“Dite la verità”). Sposetti è l’uomo che ha risanato le casse Ds, che ha in mano la chiave delle fondazioni e che vorrebbe aggiungere l’ultimo tassello: l’obbligo di rendicontazione.
Onorevole Sposetti, perché il suo muro di silenzio su questa storia è caduto?
Ho confidato nel senso di responsabilità di una classe dirigente. Vedo che i gesti che avevo immaginato non sono arrivati.
Ci sono tre tesorieri coinvolti in indagini: dalla Lega ai Radicali, alla Margherita. Mestiere pericoloso il suo, o cosa?
Non dica sciocchezze, per cortesia.
Il caso Lusi mette in crisi anche voi?
Se si ribaltano i nostri bilanci non troveranno un cent fuori posto. E proprio perché questa trasparenza non venga messa in discussione, chi non è stato trasparente ha il dovere di parlare. Ora.
Il caso-Lusi è stato prodotto dalla legge sui rimborsi elettorali di cui anche lei è padre?
Semmai è il contrario. Quella legge ha messo fine al malcostume del rubare per il partito. Con l’eccezione del caso Margherita, negli ultimi dieci anni, la disonestà dei politici ha preso altre strade. Noi, quindi abbiamo risolto un problema politico e uno di etica pubblica.
Ma il paradosso del partito-zombie non è figlio della vostra legge e del rimborso che non finiva con la legislatura anticipata?
ll pasticcio della Margherita lo hanno creato i mascalzoni che non hanno saputo gestire. Se uno non controlla con chi se la vuole prendere? Con se stesso.
Cosa non le va giù?
Mancano milioni di euro del finanziamento pubblico di un partito. Chi doveva vigilare non lo ha fatto. Da due mesi il gruppo dirigente della Margherita tace, gettando un’ombra di discredito su tutta la politica.
Anche su di voi?
Certo! Anche su chi, venendo da altre storie, ha gestito tutto con rigore. Lo sa che il nostro bilancio è certificato per nostra scelta, vero? Sono degli irresponsabili! Hanno fatto un pasticcio e ora non seguono l’unica via per uscirne: dire la verità. Perché il problema di come sono stati gestiti questi soldi non è legale. È politico.
Non è il caso di dare meno soldi ai partiti?
Io ne darei di più.
La prima cosa da fare?
Questi dirigenti devono dire ai militanti, agli elettori del Pd, della ex Margherita e all’opinione pubblica, chi ha avuto finanziamenti, quanti e per che cosa.
Aveva sospettato qualcosa?
Non sapevo cosa si facesse con quei soldi. Ma non era mio compito.
Perché ha scelto di parlare solo ora?
Perché sta accadendo quello che più temevo. Se tutti i giorni escono fatture, se il tenore del confronto è: tu millanti, tu depisti, io ti querelo, non si salva più nessuno e i nostri elettori non capiscono più nulla.
Le potrebbero obiettare: sono affari della Margherita.
Siccome la maggior parte di quei dirigenti sono oggi nel Pd non è più così. Purtroppo.
Il primo punto del suo ragionamento era sui valori.
Io difendo il valore etico della militanza politica, quello che si afferma solo dando spazio all’autofinanziamento. Ha idea che patrimonio siano il volontariato e le feste? È un bene inestimabile.
I partiti hanno avuto due miliardi di euro pubblici...
I partiti hanno bisogno di tanti fra’ Galdino.
Quello che nella fantasia di Manzoni raccoglieva le noci?
Esatto: le noci per il convento. Senza la pazienza di fra’ Galdino non ci sono le opere pie. Nemmeno le più nobili.
Non è che lei sogna troppo?
Io sogno i partiti organizzati secondo l’articolo 49. E tutti con bilanci certificati. La prossima settimana in Parlamento si discute sulle proposte di legge in materia, fra cui la mia.
I partiti “sono diventati macchine di potere”, come denunciava Berlinguer nel-l’intervista sulla Questione morale...
E invece dovrebbero avere una classe dirigente diffusa. Una vita democratica interna. Dovrebbero essere trasparenti come case di vetro.
Basta una legge per produrre questo miracolo?
Il lavoro che abbiamo fatto nel 2002 ha dato dei frutti. So bene che lei scrive per un giornale fascista e vagamente forcaiolo... Ma la legge sul rimborso elettorale ha difeso la democrazia che sta tanto a cuore ai suoi lettori.
Me lo spieghi.
Bastano le cifre. Nel 2001 i Ds avevano 1.130 miliardi di vecchie lire di buco, erano sull’orlo della bancarotta. Forza Italia, nata solo sei anni prima, era già gravemente indebitata, con 380 miliardi di debiti. Ma sa cosa era accaduto nelle campagne elettorali? Nel 1999, nel 2000 e nel 2001 le immense fortune di Berlusconi avevano garantito le fideiussioni delle banche. I soldi, prima ancora delle tv, avevano fatto la differenza.
In che senso?
Forza Italia spendeva l’ira di dio.
Poi lei ha convinto i tesorieri della Lega e di Forza Italia.
Sì, ora si può dire tutto. L’accordo – con il mandato di Fassino e D’Alema – l’abbiamo fatto io, Rocco Crimi e Balocchi.
E Lusi no?
La Margherita, con in testa Parisi e Rutelli, era contro.
Erano i tempi della competition.
Già. Però poi i soldi li hanno presi... Il centrosinistra li ha gestiti meglio della destra. Dall’approvazione di quella legge in poi abbiamo vinto sempre fino al 2008.
Tutto per la legge?
Ha sottratto il potere ai miliardari e ai poteri forti. Ma crede che Fini avrebbe potuto rompere senza questa garanzia? Crede che la Lega potrebbe separarsi da Berlusconi? È finito il finanziamento illecito.
Si scorda Penati?
Con il finanziamento non c’entra.
Chi deve controllare?
Il primo controllo è dato dalla militanza. L’ultimo dalla magistratura.
E i suoi beni? Ha qualcosa da nascondere? (Ride) Una vecchia Croma che ho in società con il partito e un mutuo. Tasso privilegiato per i deputati?
Mutuo Unipol, anche questo è peccato?
il Riformista 17.3.12
Commiato ai lettori
di Emanuele Macaluso
Ieri ho informato i lettori sugli ultimi sviluppi che investe il nostro quotidiano. Ringrazio tutte le persone, che hanno ruolo nella vita politica, in quella giornalistica e in altri istituzioni, per le parole che esprimono preoccupazione e solidarietà con il giornale.
Scrivo questa nota con molta amarezza dato che in momenti così difficili per me e dopo il tentativo di salvare Il Riformista, investendo anche il mio modesto prestigio c’è stato un redattore che ha responsabilità come componente del Comitato di Redazione, il quale ha cercato di infangare la mia stessa onorabilità. Parlo del signor Alessandro De Angelis, che con una raffica di interviste e dichiarazioni ha qualificato il mio operato come “antisindacale”, padronale, “peggio di Marchionne” e ha insinuato (al Giornale del Cavaliere) che nasconderei “la verità sul default” e che sto “tentando tutto per vendere questo giornale”.
Le infamie di una persona si possono anche rintuzzare, ma il De Angelis rappresenta la redazione ed è per questo che scrivo. Nei confronti di tutti i giornalisti che lavorano al Riformista ho sempre mostrato rispetto e stima come meritano. Ed è per questo che oggi sottolineo un’eccezione. Da più di settant’anni, in situazioni e momenti diversi, con incarichi diversi, ho combattuto sempre con il mondo del lavoro e la sinistra. Mai nessuno, nemmeno i nemici che ho combattuto, aveva osato mettere in dubbio la mia onestà, la mia correttezza e la mia buona fede anche nei momenti in cui commettevo errori.
Sentirmi dire oggi le cose che ho riferito, qualche giorno prima che compia 88 anni, da una persona che lavora nel giornale a cui ho cercato di dedicare le mie residuali energie scrivendo ogni giorno, anche quando sono stato in ospedale, è un’offesa che non posso tollerare. Non ritiro oggi la mia firma dalla direzione del giornale per non ostacolare possibili interventi che possano salvare il salvabile del giornale. Tuttavia in questo clima non posso più scrivere una riga in un foglio in cui la mia firma si possa mischiare con quella del signor De Angelis. Mi dispiace concludere così questa breve, ma per me significativa avventura in questo quotidiano.
P.S.: Sono a Palermo per presentare un libro sul Risorgimento in Sicilia e prima di partire avevo scritto il mio corsivo domenicale per le Ragioni. Sarà l’ultimo.
l’Unità 17.3.12
Diaz, chi occulta la memoria
di Marco Rovelli
In rete è circolata la lettera che Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova, ha scritto alla ministra degli interni Cancellieri, la quale ha detto che sì, andrà a vedere Diaz, Don’t Clean Up this Blood il film di Daniele Vicari che racconta la «macelleria messicana» alla scuola Diaz la notte di sabato 21 luglio 2001, durante il G8 genovese motivando così la sua scelta: «il Paese ama molto le forze dell’ordine, però è giusto, che mi vada a documentare perché tanto più si conosce, tanto meglio si fa».
Come Enrica Bartesaghi, non sono riuscito a credere ai miei occhi. Quella notte avrei dovuto dormirci anch’io in quella scuola, e solo per un caso non lo feci, evitando così di essere massacrato dall'irruzione delle forze di polizia. Possibile che l’ex prefetto di Genova abbia bisogno di vedere un film per documentarsi su quei fatti infami? Come scrive Bartesaghi: «per documentarsi, per conoscere, per meglio fare, lei ha bisogno di andare a vedere un film? Una fiction? Che non riporta nemmeno i nomi dei responsabili di tanta cieca violenza? Se vuole posso aiutarla, si tratta di alcuni dei funzionari, nel frattempo tutti promossi, nonostante i processi e le sentenze di condanna, ai vertici della «tanto amata» polizia italiana. Nessuno dei condannati in primo e secondo grado nei processi Diaz e Bolzaneto, è stato sospeso od allontanato dal lavoro. Nel frattempo, la maggior parte dei reati sono stati prescritti, grazie ad inspiegabili ritardi nella trasmissione degli atti alla Corte di Cassazione». Poteva dire, la ministra, che non vedeva responsabilità di sorta quella notte, sarebbe stata più chiara. Ma non è assolutamente ammissibile quest’occultamento di una memoria che dovrebbe essere parte integrante di una qualsiasi normale coscienza civile democratica.
Corriere della Sera 17.3.12
Il tribuno dell'ultrasinistra che mette paura a Hollande
L'ex benzinaio Mélenchon ora sfiora l'11 per cento
di Stefano Montefiori
PARIGI — Condurrà il popolo di sinistra alla riconquista della Bastiglia, ma potrebbe fargli perdere l'Eliseo. Jean-Luc Mélenchon, 60 anni, ex correttore di bozze, benzinaio, giornalista e ministro socialista, quattro anni fa ha lasciato un partito a suo dire senza speranze per mettersi alla testa dei movimenti anticapitalisti, ecologisti, radicali e no global che nella grande marcia di domani sfileranno per le strade di Parigi fino alla Bastiglia, nel giorno dell'anniversario della Comune: sono attese dalle 30 alle 40 mila persone. «Populisti», hanno riassunto finora gli avversari, di destra e soprattutto di sinistra. Ma Mélenchon continua a crescere nei sondaggi e sfiora ormai l'11 per cento, a cinque punti da Marine Le Pen e a tre da François Bayrou, entrambi in stallo.
Nelle settimane del duello Sarkozy-Hollande, dei faraonici meeting costati milioni di euro prima al Bourget poi a Villepinte e dell'occupazione degli spazi radio-tv da parte delle due grandi macchine di partito, Mélenchon è giudicato il candidato che sta conducendo la campagna migliore: pochi mezzi ma grande efficacia, e i risultati si vedono. Non solo dall'ascesa nei sondaggi, ma dal fatto che i suoi temi e le sue proposte vengono ormai regolarmente ripresi dai due candidati di testa.
Tassare al 75% la parte di reddito che supera il milione di euro l'anno? «La versione improvvisata e raffazzonata da François Hollande della mia proposta di stabilire 14 aliquote diverse, con l'unico scopo di fare pagare davvero i ricchi», dice Mélenchon. Sarkozy annuncia in televisione che gli esiliati fiscali dovranno pagare parte delle tasse anche in Francia? «Un trionfo — dice Mélenchon —, le mie tesi sono giuste, funzionano e pure il presidente della Repubblica sa che sono popolari, quindi me le copia. Io propongo questo: un francese che lavora all'estero, e versa le tasse nel Paese di residenza, deve dire al Fisco francese quanto paga. Se paga meno di quanto pagherebbe in Francia, verserà la differenza da noi. Vi sembra una cosa da Corea del Nord? No, è quel che succede per i cittadini degli Stati Uniti, che legano fiscalità e nazionalità».
Sarkozy, i suoi collaboratori e i media amici lasciano trapelare stima per il capopopolo in ascesa, dimenticando o fingendo di dimenticare le sue sbandate per Hugo Chávez e il comunismo cubano: Mélenchon riscuote sempre più simpatia anche a destra, dove viene trattato come l'anticapitalista puro d'animo che ha il coraggio delle proprie idee, al contrario di un François Hollande tacciato di opportunismo e incoerenza.
Un modello di relazione non nuovo (basti pensare all'ammirazione per Fausto Bertinotti sbandierata tempo fa da Silvio Berlusconi) che è un crescente, imprevisto problema per François Hollande. Oggi il candidato socialista — tuttora dato vincitore al secondo turno su Sarkozy — incontra a Parigi i leader della sinistra europea, tra i quali Pier Luigi Bersani e il socialdemocratico tedesco Sigmar Gabriel, in un convegno che vuole segnare la «rinascita» dell'ideale europeo secondo una visione opposta a quella dell'asse conservatore dei Sarkozy, Merkel e Cameron. Un'iniziativa che serve anche a bilanciare gli appoggi internazionali del «presidente uscente», come Hollande si ostina a chiamare Sarkozy. Ma intanto, all'interno della Francia, Mélenchon continua a muoversi come una spina nel fianco. La destra rispolvera e pubblicizza su Internet un vecchio video di tre anni fa, nel quale Mélenchon dice: «un accordo con Hollande o niente, è la stessa cosa, tanto non rispetta mai la parola data». Segue l'imbarazzante racconto — soprattutto per Mélenchon — di quando nel lontano 1997, al congresso di Brest, i due si misero d'accordo per truccare i risultati dello scrutinio, «ma lui alla fine mi dette solo l'8%, si divertì a umiliarmi».
Hollande chiede agli elettori di sinistra di non disperdersi, di pensare al «voto utile» già per il primo turno del 22 aprile. Mélenchon si infuria e chiede i consensi per sé, «al secondo turno ci penseremo dopo». Così Hollande si trova a lottare allo stesso tempo contro il presidente dei ricchi e il campione dei poveri.
l’Unità 17.3.12
Gaza
risponde Luigi Cancrini
Da mesi i droni israeliani volano su Gaza e il mondo tace. Un ferito, un morto, due feriti... Da Gaza fino a ieri hanno scelto la resistenza non violenta, e il mondo tace. Centrati 4 militanti e il mondo tace. La resistenza gazawi risponde e il mondo s’accorge che a Gaza succede qualcosa. *Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese
Ho letto un libro quest’inverno che mi ha colpito. Il titolo del libro è Ogni mattina a Jenin, l’autrice del libro è Susan Abulhawa nata e vissuta, appunto, a Jenin, uno dei primi campi allestiti per i palestinesi profughi dalle terre che Israele decise di far sue, nel 1948, dopo l’allontanamento delle truppe inglesi. Tenero e struggente, attento al cuore che batte negli uomini e nelle donne che il destino ha messo dall’una e dall’altra parte di questa guerra infinita, il racconto di Susan Abulhawa propone una riflessione su cui oggi si torna poco a proposito del modo in cui, freschi degli orrori dell’olocausto, si mossero gli israeliani nei confronti degli arabi che senza loro colpa erano nati e vissuti nella «terra promessa». L’odio genera odio e l’odio si trascina attraverso le generazioni, da Auschwitz a Jenin fino a Sabra e Shatila e negli autobus dilaniati dalle bombe dei kamikaze e non si è ancora spento perché ancora non si ha la forza di fermarsi per ascoltare le ragioni dell’altro. Di ricordare insieme, liberandosi dalla paura, in questa storia triste in cui l’unica cosa certa è il dolore sparso a piene mani nella vita di tutti.
l’Unità 17.3.12
Quei massacri umanitari e le industrie di armi
di Moni Ovadia
Le avventure militari degli Stati Uniti e dei suoi volonterosi alleati in Iraq prima e ora in Afghanistan, dopo più di undici anni dimostrano una volta di più la natura di falso ideologico sia dell’ossimoro che i media ufficiali del potere hanno spacciato come «guerra umanitaria», sia di quel capolavoro di retorica militarista definito guerra al terrore.
Se c’è qualcuno che si è avvantaggiato realmente di queste operazioni squisitamente belliche sono stati l’industria militare statunitense, quella planetaria e i talebani.
Le vittime di queste guerre ancora una volta sono stati, quasi esclusivamente, civili innocenti. L’ ultimo episodio di un militare «impazzito» che ha massacrato 16 civili afghani nel sonno è stato definito dall’amministrazione americana: «un atto inspiegabile», qualcun altro avrà sicuramente pensato di definirlo: «una tragica fatalità», come il rogo delle copie del Corano, come l’urinare sui «cadaveri nemici», come le migliaia e migliaia di civili fatti a pezzi per «errore» o perché scambiati per terroristi.
Il giornale britannico The Guardian mercoledì scorso ha riportato il seguente commento del Generale statunitense Stanley McChrystal, già comandante delle truppe Nato in Afghanistan: «Abbiamo ammazzato un impressionante numero di persone, ma a mia conoscenza, di nessuna di esse si è provato che costituisse una minaccia».
Le guerre di oggi sono questo: massacri, crimini e torture. Ogni riferimento ad Adolf Hitler per giustificarle è un’offensiva idiozia. Ieri come oggi ci sono altri mezzi per fermare tiranni e tirannelli, a patto di scontentare i fabbricanti di armi.
il Riformista 17.3.12
Amina non vedrà la Primavera
Il suicidio di Amina scuote il Marocco
Costretta a sposare il suo stupratore, la ragazza si è tolta la vita. Le donne si mobilitano rivendicando una Primavera che il codice culturale e penale ancora nega. E il governo islamista ascolta
di Luigi Spinola
Amina Filali aveva sedici anni e viveva a Larache, città portuale del nord del Marocco, vicino a Tangeri. Qui ha passato i suoi ultimi giorni lieti il cattivo ragazzo della letteratura francese Jean Genet, che vi trovava giovani disponibili e molta luce lungo la corniche affacciata sull’oceano.
A Larache Jean Genet c’è tornato da morto è sepolto nel piccolo cimitero spagnolo della città dopo aver perso la vita cadendo in una triste stanza d’albergo parigina. Amina a Larache è morta dopo aver mandato giù veleno per topi, in mezzo alla strada dove l’aveva trascinata per i capelli il marito, oltraggiato dal suo tentato suicidio.
Amina si è tolta la vita perché è stata costretta a sposare l’uomo che l’aveva violentata. E le donne marocchine infuriate si stanno ora mobilitando per rivendicare una primavera di diritti ignorati dal codice culturale, e negati da quello penale.
L’articolo 475 del codice penale marocchino prevede per chi “sequestra” una donna alla violenza sessuale si allude soltanto, per non disonorare la famiglia di chi la subisce la possibilità di non finire in galera sposando la vittima. E siccome in teoria il reato può essere punito con la reclusione fino a dieci anni se la vittima è maggiorenne, fino a venti se ha meno di diciotto anni, allo stupratore il matrimonio conviene. E “conviene” alla famiglia della vittima, che può cancellare l’onta della verginità perduta. Così è andata a Larache. Quando il padre di Amina ha denunciato la violenza subita dalla figlia, la stessa magistratura gli ha suggerito l’accomodamento previsto dal codice, racconta ora Lahcen Filali al quotidiano on-line goud.ma. Le due famiglie hanno trattato. Lo stupratore era riluttante. Poi si è fatto convincere. Le famiglie si sono riconciliate. E il giudice tenendo conto conto delle «circostanze speciali» ha permesso il matrimonio, altrimenti vietato dalla legge prima dei diciotto anni. Amina è andata a vivere con l’uomo che l’aveva stuprata e che nei pochi mesi in cui è durato il matrimonio l’ha anche sistematicamente picchiata. Sabato scorso Amina si è suicidata.
La sua storia ha scosso il Paese e acceso la rivolta delle donne, che prima sono scese a manifestare a Larache, davanti alla corte che ha dato il via libera al matrimonio, e oggi a mezzogiorno si ritroveranno non solo tra donne si augurano davanti al parlamento di Rabat per «dire no allo stupro con la complicità dello Stato», come recita la pagina Facebook a lei intitolata. «Amina è stata violentata tre volte, dal suo stupratore, dalla tradizione e dall’articolo 475 del codice penale» twitta l’attivista Abadila Maaelayne.
La pressione dell’opinione pubblica ha costretto anche il governo guidato dal Fratello musulmano Abdelilah Benkirane a dedicare al caso buona parte dell’ultimo consiglio dei ministri. Il Marocco per la prima volta ha un esecutivo espresso da una maggioranza parlamentare “reale”, quella uscita dalle elezioni di fine novembre, organizzate dopo le riforme costituzionali volute da re Mohammed VI. E a Rabat si è da poco insediato un governo di coalizione dominato dal partito islamista moderato della Giustizia e dello Sviluppo, ancora sotto osservazione su questioni “sensibili” come i diritti delle donne.
«Questa ragazza è stata violentata due volte, la seconda quando è stata sposata» commenta il portavoce governativo e ministro della comunicazione Mustapha el Khelfi, assicurando che «studieremo in modo approfondito la situazione (...) considerando anche la possibilità di aggravare le pene nel quadro di una riforma dell’articolo 475». E il ministro della Giustizia Mustapha Ramid fa sapere che ha «un’attenzione speciale al caso di Amina» e s’impegna a metterà in piedi una commissione speciale che lavorerà sulle disposizioni penali per garantire «una migliore protezione dei diritti delle donne».
Il Marocco peraltro ha già varato nel 2004 un nuovo diritto di famiglia considerato un modello di riformismo nella regione. E’ stata abolita l’obbedienza dovuta dalla moglie al marito, la possibilità per lo stesso di divorziare unilateralmente fuori dai tribunali e il suo diritto esclusivo all’affidamento dei figli. Questo sulla carta. E sulla carta (statistiche Onu del 2009) in Marocco vi sono solo 3.6 casi di stupro denunciati su 100.000 donne, mentre stando a uno studio dello scorso anno quasi una donna su quattro è stata sessualmente aggredita almeno una volta nella vita. E presumibilmente ha poi preferito stare zitta, per non fare la fine di Amina. «In Marocco, se una ragazza non vi vuole, violentatela!» twitta Layla Belmahi. «Così siete sicuri di poterla anche sposare». La primavera ancora tarda ad arrivare.
l’Unità 17.3.12
Scienza debole? Non è colpa di Croce e Gentile
Il declino della ricerca è iniziato negli anni Sessanta quando essere gentiliani non era di moda
Le responsabilità, casomai, vanno cercate tra gli attori coinvolti direttamente: industria, enti pubblici, governi, università
di Alessandra Tarquini
Nel dibattito pubblico è ricomparso un antico luogo comune: quello secondo cui la ricerca scientifica italiana ha avuto uno sviluppo stentato grazie all’influenza del neoidealismo di Croce e Gentile. Dunque, se siamo un Paese diverso dagli altri, con una mentalità retorica e antiscientifica, se studiamo poco la matematica, e, soprattutto, se non abbiamo colto fino in fondo l’importanza del progresso scientifico e tecnologico, lo dobbiamo principalmente a loro. Ma davvero il neoidealismo monopolizzò la cultura italiana del XX secolo? E cosa accadde nel nostro paese quando i filosofi neoidealisti esercitarono la loro maggiore influenza sulla società e sulla politica? E, ancora, come cambiò la scienza quando la fortuna di Croce e Gentile lasciò il posto ad altri sistemi di pensiero?
Iniziamo dall’egemonia degli idealisti: nel 1903 Croce fondò la «Critica» con la collaborazione di Gentile e con l’obiettivo di suscitare una discussione che attraversasse diverse discipline e contribuisse al rinnovamento della cultura nazionale, allora dominata dal positivismo. E in effetti, in quei primi anni del Novecento, senza alcun potere accademico o politico, Croce rappresentò un riferimento teorico per moltissimi intellettuali italiani. Proprio allora, a giudicare da Camillo Golgi e Guglielmo Marconi, da Vito Volterra e Ulisse Dini, la scienza visse una stagione di grandi successi, che non rimasero confinati al mondo dei ricercatori. Come hanno recentemente ricordato Pietro Nastasi e Angelo Guerraggio, gli scienziati dell’Italia liberale furono fra gli esponenti più autorevoli della classe dirigente: alcuni erano membri del Parlamento, altri ricoprivano posizioni di responsabilità politica.
Il ruolo di Croce cambiò con la guerra di Libia. Da allora fu Gentile a esercitare una maggiore influenza sui giovani e, con l’avvento del fascismo, un vero e proprio potere sull’organizzazione della cultura. Nominato ministro dell’istruzione nel 1922, portò in Parlamento la riforma che istituì il liceo scientifico e rese il liceo classico, già previsto dalla legge Casati, una scuola d’élite dove, com’è noto, si insegnavano le scienze in misura decisamente meno rilevante rispetto alle discipline umanistiche. Nel 1925 Gentile fu nominato direttore scientifico dell’Enciclopedia Treccani che diede alle scienze applicate e a quelle pure uno spazio considerevole; nel 1928 divenne direttore della Scuola Normale di Pisa e nel 1941 fondò la domus galileiana, un importante centro di ricerca per la storia della scienza.
ASCESA E DECADENZA
In che modo, dunque, la sua indiscutibile egemonia sulla cultura italiana pesò sulla scienza? A giudicare dagli enti di ricerca fondati dal regime totalitario, con la volontà di controllare e dare spazio agli scienziati, dovremmo pensare che la presenza di un filosofo neoidealista, ai vertici dell’organizzazione culturale del fascismo, fu un fatto sicuramente positivo: nel 1923 nacque il Consiglio nazionale delle ricerche; nel 1926 l’Istituto centrale di statistica; sempre nel 1926 l’Accademia d’Italia che negli anni Trenta assunse il patrimonio dell’Accademia dei Lincei; nel 1927 l’Istituto di storia delle scienze; nel 1934 l’Istituto di sanità pubblica e nel 1939 l’Istituto nazionale di alta matematica e quello di geofisica. In realtà, nella seconda metà degli anni Trenta, l’influenza di Gentile sulla cultura italiana entrò in una fase di decadenza. Ad esempio, nel 1933 a Roma, durante l’ottavo congresso nazionale di filosofia, i filosofi realisti insieme ai neopositivisti, a molti cattolici e ad alcuni neokantiani sferrarono un attacco durissimo contro il filosofo, dichiarando, dopo trent’anni di neoidealismo, il ritorno al realismo.
Gentile morì nel 1944, Croce nel 1952. Nel dopoguerra la sconfitta proseguì provocando il tramonto irreversibile di una cultura considerata nazionalista e, in ogni caso, responsabile dell’avvento del regime fascista. Norberto Bobbio raccontava che dopo il fascismo, i giovani iniziarono a esplorare le filosofie «straniere», decisi a debellare per sempre lo spiritualismo della cultura italiana nelle sue diverse forme. Ancora più esplicitamente, Paolo Rossi scrisse che la sua generazione si era impegnata nella critica contro Croce e Gentile, come ci si dedica a uno sport praticato con tenacia, continuità e un certo sadismo. In effetti, dagli anni Quaranta gli idealisti costituirono una minoranza degli intellettuali italiani, ben più affascinati dall’esistenzialismo, dalla fenomenologia, dal marxismo e dal neoilluminismo e, negli anni Sessanta, pronti ad accogliere gli stimoli offerti dallo strutturalismo, cioè da una riflessione che non nasceva in Italia e mostrava una forte attenzione alle scienze sociali. Da allora l’antropologia, la ricerca sociale, la psicologia, la critica letteraria e, ovviamente, la linguistica divennero campi del sapere di una cultura che faceva della distanza da Croce e da Gentile un suo tratto distintivo.
Ora, a ben vedere, fu proprio in quel periodo che iniziò il lento e irreversibile declino della scienza. Come ha ricordato Giovanni Paoloni, negli anni Sessanta sia le politiche della ricerca pubblica, sia gli orientamenti del sistema privato dovettero misurarsi con cambiamenti di vasta portata. L’Olivetti e la Montecatini, per citare due aziende molto note che avevano prodotto ricerca industriale di altissimo livello, tagliarono i settori innovativi e rafforzarono quelli economicamente più sicuri. A sua volta lo Stato investì sempre meno nelle politiche che avrebbero potuto promuovere la ricerca industriale e facilitò l’espansione della piccola e media imprenditoria, tradizionalmente estranee ai processi di innovazione. Dalla metà degli anni Sessanta, insomma, quando essere crociani o gentiliani non era certo di moda, abbiamo seguito un modello diverso da quello dei paesi che hanno impiegato risorse economiche e le hanno messe a disposizione dello sviluppo scientifico e tecnologico. Ma allora, se è così, invece di attribuire le colpe al liceo classico voluto da Gentile, o alla concezione crociana della scienza, perché non ricordiamo che la ricerca scientifica coinvolge una grande quantità di soggetti come le industrie, le università, gli enti privati, la pubblica amministrazione, i governi e, non da ultimo, le imponenti agenzie sovranazionali? Ma soprattutto perché non diciamo che gli imprenditori, i tecnologi, gli scienziati ostacolati da Croce e da Gentile non ci sono mai stati? Forse dovremmo iniziare a chiederci se la responsabilità di una sconfitta non sia prima di tutto di chi la subisce. Se in Italia non si è avvertita l’importanza della ricerca, se le dedichiamo l’1,2 per cento del nostro Pil contro il 2 per cento della media europea, non dipenderà forse dagli scienziati, dalle politiche pubbliche e dalle industrie private? E allora lasciamo in pace Croce e Gentile. Semmai studiamo la loro filosofia e il rapporto che ebbe con il proprio tempo, senza dimenticare che fu un tempo assai generoso con la ricerca scientifica.
il Fatto 17.3.12
Lo spread dei suicidi
di Massimo Fini
Fabio Canessa, una delle non rare intelligenze che arricchiscono la provincia italiana e preferiscono starsene acquattate, uomo che a una vastissima e trasversale cultura unisce uno straordinario brio espositivo (in un seminario organizzato qualche anno fa da Filippo Martinez a Oristano, cui partecipavano, fra gli altri, Giulio Giorello, Barbara Alberti, Vittorio Sgarbi, la sua 'lectio magistralis' sulla lingua latina, che non è materia che si presti, fu ritenuta la più brillante), professore di liceo a Piombino, ha fatto leggere ai suoi studenti del penultimo anno il mio pezzo “Psicofarmaco della Modernità” pubblicato sul Fatto del 6 marzo e con loro lo ha discusso. I ragazzi sono stati particolarmente colpiti dall'escalation dei suicidi dall'Europa preindustriale a oggi: 2,5 per centomila abitanti a metà del Seicento, 6,8 nel 1850, 20 per centomila oggi (questa è la sequenza corretta, io, citando a memoria, ne davo una leggermente diversa e comunque più sfavorevole alla mia tesi: 2,5-6,8-20). Qualche lettore del Fatto, dubbioso, ha obiettato: “Ma come si fa a fare statistiche attendibili per il '600?”. Ora , nel '600 nasce in Europa la scienza moderna, con Tycho Brahe, Galileo, Keplero, Cartesio, Huygens. Sono per lo più astronomi e matematici, ma ci sono anche i primi cultori di statistica. Il più importante fu, forse, Gregory King che si occupò di alimentazione, di composizione della famiglia e di redditi (da cui si ricava che le distanze fra i redditi da allora a oggi, epoca dell'uguaglianza, non sono affatto diminuite, ma di gran lunga aumentate). John Graunt studiò invece la mortalità e quindi anche i suicidi e ne diede conto nel suo volume Natural and political observations upon the Bills of Mortality, del 1662. Graunt prese per campione 400 mila abitanti di Londra nel ventennio 1640-1660. Le fonti sono gli archivi parrocchiali. Il risultato dà, appunto, 2,5 suicidi per 100 mila abitanti. Indubbiamente è un po' azzardato prendere la sola Londra come rappresentativa dell'intera Europa. Ma è molto probabile che il dato pecchi per eccesso. La popolazione preindustriale era per i 4/5 rurale. Londra era già una metropoli ed è noto dal classico studio di Durkheim che l'urbanizzazione è uno dei più importanti fattori che determinano il livello dei suicidi. Se si va a spulciare gli archivi di qualche villaggio di campagna, per esempio Ashton-under-Lyne, sempre nel '600, si vede che “parecchi decenni trascorrono con un solo suicidio o addirittura nessuno” (P. Laslett, “Il mondo che abbiamo perduto”). In ogni caso le statistiche che vanno dal 1850 ad oggi, che sono fatte con metodi di indagine moderni e coprono tutta l'Europa, confermano in qualche modo il dato precedente e dicono che in 150 anni i suicidi sono triplicati e vanno di pari passo col Progresso. Negli organizzatissimi Paesi scandinavi i suicidi sono molto più numerosi che nel meridione d'Europa, così come quelli nel Nord Italia sono quasi il triplo del più povero Sud (qualche anno fa i picchi maggiori si registravano nell'opulenta Emilia, per l'oggi non sono documentato). Nella Cina del boom economico il suicidio è diventato la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. Insomma il Progresso fa male. Questa è la dura sentenza che non si vuole ascoltare. E per quanti dati tu porti (altri se ne potrebbero fornire per le malattie mentali) i ciechi epigoni dell'Illuminismo trovano sempre il modo di non tenerne conto. E quando sono proprio a corto di argomenti allora, come scrive Ceronetti, saltano in piedi e con gli occhi pieni di sangue illuminista gridano: “Comunque indietro non si torna!”. Bravi, è proprio questo il nostro dramma.
Repubblica 17.3.12
Sfida agli editori virtuali
“Così Amazon e gli altri alterano l’ecosistema dei libri"
di Antonio Gnoli
Stefano Mauri, presidente di Gems, spiega come i nuovi giganti cambino le regole
"La loro idea è quella di eliminare la mediazione e considerare tutti come dei clienti"
"La gente non ha mai letto come oggi Ma si sta abituando a farlo gratis, dall´ebook al web"
È il gruppo editoriale che somma più marchi: una vera costellazione, costruita negli anni grazie alla congiunzione di due grandi famiglie di editori: gli Spagnol e i Mauri. Dal loro incrocio è nata Gems, la terza realtà editoriale italiana, con una quota del 12 per cento del mercato (alle spalle di Mondadori e Rizzoli) e un fatturato di 161 milioni di euro. Nella pancia di Gems - composta da 16 case editrici - ci sono Longanesi, Guanda, Garzanti, Salani. Come dire: tra i marchi più prestigiosi che l´editoria italiana abbia prodotto negli anni. Incontro Stefano Mauri, il presidente del gruppo. Cinquant´anni, una laurea in lettere (tesi sul consumo del libro), molta gavetta e ora in sella a un´impresa che dovrà far fronte alla crisi generale e al terremoto tecnologico che investe il libro.
Fate una politica editoriale particolare. Passate parte del vostro tempo a guardarvi intorno per vedere cosa comprare. Cosa vi spinge al rastrellamento di vecchi marchi editoriali?
«La necessità di rafforzare il gruppo e insieme salvare aziende che hanno la potenzialità economica e la riconoscibilità culturale. Ossia marchio e catalogo. Nel 2009, per esempio, abbiamo acquistato interamente Bollati Boringhieri, preso una quota di maggioranza della Coccinella e siamo entrati con la partecipazione di un terzo in Fazi».
Alcuni chiudono, altri si ridimensionano. Voi vi allargate. Quali sono i vostri successi?
«L´anno scorso i due maggiori successi in Italia sono stati due libri della Garzanti: Il profumo delle foglie di limone e Il linguaggio segreto dei fiori. Un altro obiettivo raggiunto è stato che, dopo tanti anni di bilanci in rosso, nel 2011 la Bollati Boringhieri chiuderà in pareggio».
Lei in tutto questo di cosa si occupa?
«Per metà del tempo mi occupo dell´organizzazione generale, sovrintendo ad alcune funzioni industriali che fanno capo a Gems e svolgo le funzioni editoriali che riguardano le singole editrici. Per l´altra metà sono il referente ultimo della Garzanti e della Longanesi, di cui sono amministratore delegato».
Concretamente cosa fa un amministratore delegato?
«Traduce in numeri la qualità delle scelte. Decide, quando si va oltre una certa soglia di impegno economico, l´acquisizione di autori, si occupa del marketing e dialoga con la direzione editoriale. Il conto economico è fondamentale, ma un amministratore delegato deve avere la sensibilità di capire che non si fanno solo libri che si vendono».
Il vostro gruppo si compone di 16 marchi. Sfornate 1200 titoli l´anno. Da un punto di vista dell´editoria tradizionale siete imbattibili. Ma l´ingresso dell´e-book non rischia di moltiplicarvi i problemi?
«C´è un problema più generale, innanzitutto. Da quando è esploso l´e-book si è visto che in certi paesi, soprattutto negli Stati Uniti, sono entrati in competizione dei player molto più grandi dei singoli editori».
Pensa ad Amazon?
«Ma anche a Apple e Google che insieme ad Amazon sono i tre che si cimentano in questa lotta titanica».
Lo dice con apprensione.
«Non sono parte della comunità del libro. Ciascuno di loro propone un ecosistema alternativo a quello tradizionale. Alla lunga puntano alla disintermediazione. Hanno interessi non del tutto coincidenti con gli autori, i lettori, gli editori. Il libro diventerà anche uno strumento per profilare i clienti e vendergli altro: l´hardware, la pubblicità, le offerte finanziarie».
Ma abbassano anche il prezzo del libro.
«Quelli di Amazon sono scesi dopo che è stata fatta concorrenza al loro Kindle. Prima vendeva molto più caro il suo hardware. In ogni caso, è un fatto che l´elettronica di consumo ci abitua a prodotti sempre più sofisticati e a prezzi più bassi. Il vero tema che ci attende è se in futuro riusciremo a traghettare la parte più sana dell´attuale sistema editoriale».
Come se lo immagina questo futuro e come vi state preparando?
«Cerchiamo di attrezzarci come se la curva dell´e-book, pur partendo bassissima da noi, raddoppi ogni anno. Qualcosa del genere, almeno fino a un certo punto, è accaduta negli Stati Uniti. Se la teoria del raddoppio fosse vera noi avremmo, che nel giro di quattro o cinque anni, il mercato dell´e-book si attesterebbe tra il trenta e il quaranta per cento. Producendo un evidente sconvolgimento delle nostre abitudini. Dopodiché, mi dicono che negli Usa, come accade molto spesso con le curve logistiche, il fenomeno sta rallentando. Vedremo cosa accadrà da noi».
È un grosso interrogativo.
«Non è il solo. L´altro problema è il prezzo. Per cui se l´e-book non conserva un prezzo decente si rompe tutto. Avremo la situazione che chi fa l´offerta più bassa vince e la qualità si andrà a fare benedire e non ci saranno più risorse per aiutare l´autore a produrre qualcosa di buono».
Il business dei ricavi tenderà a ridimensionarsi.
«Bisognerà vedere se ridimensionerà anche i margini. Se noi pensiamo che oggi il libraio ha il 30 per cento per ordinare i libri, scaricarli, metterli negli scaffali, consigliare i lettori e poi venderli, e poi vediamo che quel 30 per cento le piattaforme se lo prendono con una lieve scossetta da un loro server in Arizona beh, la sproporzione mi pare evidente.
E quindi?
«Abbassare a vantaggio del consumatore il prezzo va benissimo. Ma occorre lasciare le risorse a chi i libri poi li deve produrre. Però c´è un´altra questione».
Quale?
«Un altro grosso cambiamento si avrà nel campo delle novità librarie. Quelle cartacee sappiamo che devono competere con i long-seller e con le altre novità degli ultimi tre o quattro mesi. Nel mondo dell´e-book ogni novità dovrà competere con tutto quello che è uscito prima. Se pubblico un romanzo on line io so che dovrà fare i conti anche con Guerra e Pace uscito in e-book a 99 centesimi. Prima lo scarto tra libri in diritto e fuori diritto era di almeno due euro, ora si è ridotto in modo drastico».
A proposito di diritti c´è la polemica su quelli d´autore.
«Sono convinto che il diritto d´autore va rispettato. Qualcuno sulla rete, come sulla carta, deve essere responsabile di quanto viene pubblicato sia agli effetti del plagio che della diffamazione. Il punto è che gli editori hanno la pessima abitudine di rispettare le leggi che conoscono mentre molto business del web poggia sull´ignoranza di queste regole. E anche questo contribuisce alla crisi».
A proposito di crisi, mi pare cominciate a subirla in modo serio.
«In tutti i paesi europei il libro è entrato in flessione dal 2009. Solo in Austria e in Italia la contrazione è iniziata nel 2011. Ho l´impressione che siamo un paese che ha faticato a prendere atto della crisi. Dai primi di agosto, quando sono cominciati gli allarmi sullo spread, la gente si è risvegliata bruscamente da un sogno. La caduta l´abbiamo registrata in gennaio e febbraio con una flessione del 10 per cento. Ora vedo qualche segnale di ripresa».
Si dice che il "lettore forte" vi sta abbandonando.
«Secondo me, la gente non ha mai letto così tanto. Ma si sta abituando a leggere gratis. E non è solo l´e-book. Internet, con Twitter, Facebook e tutto il resto, ha diversificato le fonti di lettura. Però quando c´è un´offerta forte il lettore risponde ancora».
Non c´è più il grande best-seller.
«Ma il mega-seller è casuale. L´editoria ha avuto un decennio fortunato con Il codice da Vinci, Twilight, Millennium, Harry Potter, Gomorra e poi il romanzo di Giordano e il libro di ricette della Parodi. Tutti sopra il milione di copie. Ma nessuno poteva immaginare che avrebbero raggiunto questi risultati».
La Parodi pubblicava per la vostra Vallardi. Ora è passata a Rizzoli. Perché è andata via?
«È stata mal consigliata dal suo agente. E non credo che il passaggio le abbia giovato. Quando abbiamo sentito l´offerta che aveva ricevuto ci siamo chiesti se con quegli stessi soldi non era meglio far contenti molti altri autori e investire nell´attività di ricerca».
Ogni volta che si parla del futuro dell´editoria vedo molta preoccupazione generale, mai però riportata a quello che succede in casa propria.
«Non so se siamo una delle migliori orchestre del Titanic o semplicemente una buona orchestra e basta. Lo diranno i prossimi anni. La preoccupazione personale c´è. I primi due mesi sono stati molto negativi, ma improvvisamente è tornato un po´ di sereno. Se gettiamo lo sguardo oltre il nostro mondo vediamo che l´economia va male ovunque. In questo momento è difficile discernere la crisi dell´impatto del digitale dagli altri problemi che la gente ha».
Che cosa le viene spontaneo di fare?
«Sento la responsabilità di preparare il nostro personale al cambiamento. Con le persone che lavorano con noi non abbiamo mai avuto l´atteggiamento usa e getta. È gente preparata e curiosa, altrimenti non si occuperebbe di libri. Devono capire in quale mondo si nuoterà prossimamente. E dovremo adeguarci in fretta».
Repubblica 17.3.12
Un intervento dopo il pezzo sul fenomeno "Lacrime & bestseller"
Perché vogliamo parlare tanto di noi
Chi scrive cerca di dare un senso all’esistenza, di mettere un po’ di ordine nel mondo
di Michela Marzano
Perché scrivere del proprio dolore? Perché raccontare la propria storia? Ieri Stefano Bartezzaghi parlando di Gramellini e citando anche me faceva una critica garbata ad alcune forme di narrazione autobiografica che a volte diventano bestseller. Non prendo in considerazione l´ipotesi che uno lo possa fare per vendere libri, ma vorrei provare a spiegare, piuttosto, perché si sente l´urgenza di raccontare. Non credo che esista una sola risposta. Come sempre, tutto dipende da colui o da colei che, un giorno, decide di "fare qualcosa" di quella sofferenza e di quegli attimi di solitudine estrema in cui nessuno poteva capire, perché nessuno trovava le parole per dirlo. Ma anche dal valore che si accorda alla scrittura. Perché talvolta si bara limitandosi a sbattere in faccia agli altri le proprie lacrime. Ma questo è proprio quello che cercano di evitare coloro che scrivono per dare un senso all´esistenza. In questo caso le emozioni non vengono mai "buttate" sulla carta. Quando si scrive, è perché ci si è messo tanto tempo – talvolta anni e anni – prima di trovare finalmente quelle parole. E allora si cerca solo di condividerle con gli altri. Per mettere un po´ di ordine nel mondo, come direbbe Albert Camus. Per trasformare il proprio dolore in un atto militante. Visto che scrivere di sé e delle proprie esperienze, ormai lo sappiamo bene, è anche un´azione politica, un modo di mostrare che il "privato" è, in fondo, sempre "pubblico".
Certo, nella scrittura autobiografica può accadere che alcuni ci "mettano le viscere" senza essere capaci di passare per la mediazione razionale. E appunto il problema non è quello del "perché" si parla di sé, quanto quello del "come". Che è poi l´eterno problema del raccontarsi. Come dire quello che si è vissuto senza scadere nell´infantilismo, nella commiserazione? Come utilizzare metafore, ossimori e paradossi senza svuotare di senso la scrittura?
Quello che ho cercato di fare con Volevo essere una farfalla è stato proprio questo: trovare le "parole giuste". Raccontare la mia anoressia non per "mettermi in scena", ma per nominare quell´evento che mi aveva attraversato. Quell´evento di cui parla Hannah Arendt quando spiega che l´unico modo per incarnare il pensiero è partire dalla macerie da cui ci si trova un giorno circondati. Quell´evento che lascia tante persone senza parole, e che ha invece proprio bisogno delle parole per dirsi, affinché si possa pian piano imparare ad accettare la propria fragilità e le proprie ferite. Quell´evento che rinvia al "vuoto esistenziale" che ognuno di noi, in fondo, si porta dentro e con il quale deve poter convivere, senza illudersi di incontrare un giorno chi sarà capace di colmarlo. Perché è una mancanza ontologica che caratterizza la condizione umana, come spiega Jacques Lacan. Ecco perché scrivere di sé non significa solo "scrivere dolore", ma trovare il modo per "nominarlo". Per raccontare le sfumature impercettibili dell´esistenza, quel non detto e quel non fatto che talvolta ci tormentano. Che senso avrebbe d´altronde scrivere la propria storia, se le parole non servissero poi a raccontare quegli attimi di "non senso" che, in fondo, ogni essere umano conosce, o ha conosciuto, almeno una volta nella propria vita?
La Stampa TuttoLibri 17.3.12
San Francesco la rivoluzione prima di Nietzsche
Massimo Cacciari analizza i ritratti del religioso in Dante e Giotto: entrambi falliscono nello spiegare le ragioni della povertà
di Franca D’Agostini
Conosciamo bene lo stile di Massimo Cacciari. Uno stile che non fa nessuna concessione all'angloitaliano oggi dominante, e alla sua sintassi elementare, didattica e paratattica. Anche in questo Doppio ritratto (Adelphi, pp. 86, 7), piccolo libro sui due ritratti di San Francesco, in Dante e Giotto, Cacciari resta fermo nel suo aristocratico spaesamento mentre intorno a lui scorre e cresce la facile lingua dei social media. Cacciari privilegia la comunicazione indiretta, «il movimento metodico del respiro», come diceva Benjamin nel Saggio sul dramma barocco. La sua è prosa «saggistica» nel senso stretto dell'espressione, una prosa che gira intorno al suo oggetto, procede e ritorna sui suoi passi. Prosa che non intende ammaestrare ma appunto respirare, insieme al lettore.
Ma ci si chiede: che cosa vuole Cacciari, scrivendo in questo modo? Che cosa intendere ottenere? Mi viene in mente una sola possibile risposta: nascondersi. Più precisamente: riuscire a dire quel che vuole dire senza dirlo veramente, o dicendolo a metà, perché non venga frainteso, svilito, deturpato. È l'antica paura di Platone, di Kierkegaard, di Antonin Artaud. Paura giustificata, perché spesso le migliori idee filosofiche, afferrate brutalmente, fanno i peggiori danni. Specie in politica.
Ed è specificamente politica l'idea di fondo di questo libro. Tanto Dante quanto Giotto tentano di restituire in immagini (poetiche e figurali) il programma rivoluzionario di Francesco: un «rovesciamento di tutti i valori» concepito sei secoli prima di Nietzsche, ma come una paradossale rivoluzione pacifica, e il cui scopo è anzitutto la pace. Entrambi cercano di capire e far capire l'enigmatica strategia politica di Francesco: una strategia la cui decisione è l'abbandono, e la cui risolutezza è l'umiltà.
Ma entrambi, in vario modo, falliscono in ciò che era più importante: spiegare le ragioni della povertà, e della specifica gioia o letizia che il programma francescano assegna al non possedere, e al privarsi di tutto. Né Dante né Giotto riescono a cogliere «l'aspetto più profondo e inquietante della mistica di Francesco» vale a dire «l'aspetto femminile, materno di questa santità». La mistica femminile di Francesco risulta allora il vero messaggio politico, l'autentico «rovesciamento» che vede una «vittoria» là dove sembra esserci una estrema irrecuperabile sconfitta. Un «paradosso» che non si può rappresentare, né in poesia né in figura.
Forse, non si può neppure apertamente dire. In effetti, se Cacciari fino in fondo dicesse tutto ciò che consegue da queste tesi, dovrebbe ammettere la fine della politica come sempre è stata concepita, e come lui stesso l'ha praticata. Si comprende allora che qui si limiti a suggerire l'ipotesi, senza difenderla apertamente, lasciando che per lui parli come voleva Benjamin il respiro del pensiero.
Repubblica 17.3.13
"Doppio ritratto" un saggio di Cacciari sulle diverse visioni del frate
San francesco tra Giotto e dante
di Franco Marcoaldi
L´azione ha il suo epicentro nella basilica di Assisi dedicata a San Francesco e si consuma in un periodo storico che vede la Chiesa drammaticamente impegnata su un duplice fronte, interno ed esterno: da un lato il pullulare di forze religiose centrifughe che ne mettono in discussione l´autorità teologico-politica; dall´altro, la forza montante della potenza statuale. Per parte sua Francesco ha tentato l´impossibile: il ritorno pieno all´insegnamento di Cristo e del Vangelo combinato al vincolo indissolubile con un´istituzione ecclesiastica che se ne è allontanata. Rifuggendo da qualunque tentazione eretica, Francesco ha finito così per imprimere alla sua vita il timbro di un ardente martirio, che ora chiede soltanto di essere raccontato.
È quanto accadrà nel cantiere poetico della Commedia dantesca e prima ancora nel cantiere pittorico di Assisi, secondo le diverse sensibilità dei due "capomastri": Dante e Giotto (anche se in questo secondo caso gli artisti implicati sono molteplici e le loro opere oggetto di controverse attribuzioni). Questo comunque è l´affascinante confronto proposto da Doppio ritratto, un breve, densissimo saggio di Massimo Cacciari (pubblicato da Adelphi) che, partendo da lontano, finisce per interrogare con estrema efficacia il nostro presente.
Giotto è pittore amato dai potenti in generale e dalla corte pontificia in particolare; Dante è in perenne battaglia contro tutti "i falsi dèi" del suo tempo. Entrambi riconoscono l´eccezionalità della santità incarnata di Francesco. Ma Dante insiste sulla necessità di combinare la dottrina militante dei domenicani e la caritas francescana, la dura predicazione dei primi e la misericordiosa povertà dei secondi: «Francesco deve andare a nozze anche con l´altro "principe" per salvare la Chiesa che crolla»; una Chiesa che entrerà ripetutamente in conflitto con la proposta di Francesco, mentre nel ciclo di Assisi è la stessa corte pontificia ad accompagnare armoniosamente tale processo, finendo così per normalizzare una vicenda altrimenti scandalosa. Dunque niente chiodi né corpo nudo e piagato, né lotta «contro e con la Chiesa, e il suo stesso Ordine, e il mondo».
Molto spazio invece, nella basilica umbra, viene dedicato al Francesco poeta (che il poeta Dante, in qualche modo, trascura). Spazio al nuovo discorso sulla natura e su una creaturalità intrinsecamente divina, come indica la predica agli uccelli, che, annota Cacciari, in realtà sale verso Dio grazie a un canto comune di uomo e animale. L´idea e l´esperienza di vita francescana – a ben vedere – si intrecciano e si elidono di continuo in questo "doppio ritratto". A ulteriore dimostrazione dell´inafferrabile radicalità di Francesco, così evidente in quell´immagine estrema di "Madonna Povertà" che ne caratterizzerà il destino. Povero è chi si libera non soltanto degli averi, ma di sé, della propria persona. E grazie a questo sarà tanto più potente (perché avrà raggiunto l´essenziale) e tanto più lieto (perché vivrà solo dell´amore e nell´amore per l´altro). È l´ultimo passaggio, il più azzardato di tutti. Né Dante (attratto dall´idea "regale" di Francesco), né Giotto (che insiste soprattutto sull´obbedienza e l´umiltà) riusciranno a rappresentare fino in fondo il paradosso di una «"vittoria" che emerge dal colmo stesso della miseria, che si annuncia lietamente nella sconfitta». Ma questa "incomprensione", questo "tradimento", si chiede Cacciari, non sono forse gli stessi che ha patito Cristo, a cui Francesco guarda insistentemente come unico, inarrivabile modello?
Irripetibile, esemplare, la vita di Francesco – su cui si sono incentrati i ripetuti, mirabili studi di Chiara Frugoni – continua ad affascinare per la sua radicalità. Per quel suo modo insieme semplice e paradossale di stare al mondo, che questo vibrante saggio di Cacciari indaga piega per piega in tutta la sua santa follia; nello slancio assoluto per il prossimo, che arriva a disfare e ricreare l´idea stessa di persona; nella scelta della povertà come sinonimo di suprema leggerezza e letizia. Di una vera, compiuta libertà.
Corriere della Sera 17.3.12
Rubbia chiude il caso dei neutrini. L'idea di Einstein non è superata
di Giovanni Caprara
I calcoli del Nobel col super rilevatore: non sono più veloci della luce La scoperta del 1905
«L'esperimento "Icarus" ha fornito un'importante verifica del risultato anomalo raccolto l'anno scorso da "Opera". Le misure dicono che il neutrino non è più veloce della luce. Per noi la questione è chiusa». Le calcolate parole del Premio Nobel Carlo Rubbia, responsabile di «Icarus», suonano, anche nel tono, come una pietra tombale sulla prospettiva di una scoperta che, se fosse stata vera, avrebbe rivoluzionato la fisica portandoci oltre i confini conquistati da Albert Einstein.
«Il nostro risultato indica che siamo al di sotto di 0,3 nanosecondi rispetto alla velocità della luce. Abbiamo analizzato sette eventi registrati tra ottobre e novembre 2011 e tutti ci hanno fornito la stessa conclusione», aggiunge Rubbia spiegando che il rilevatore del suo esperimento «è di nuovo tipo consentendo un'accurata ricostruzione delle interazioni del neutrino ed è dotato di sistemi di acquisizione dei dati tutti elettronici capaci di fornire un preciso calcolo del tempo».
«Icarus», nato da una proposta di Rubbia, è entrato in funzione nel 2010 nel laboratorio del Gran Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare ed è stato concepito per scandagliare in modo approfondito la natura e il comportamento dei neutrini sia di origine naturale provenienti dal Sole o dal cosmo sia quelli generati dal Cern di Ginevra. Il rivelatore contiene 600 tonnellate di argon liquido e fornisce immagini in 3D delle interazioni che si verificano quando le effimere particelle attraversano il liquido.
«Il risultato ci fa piacere — commenta Antonio Ereditato che guida l'esperimento "Opera" — e fa parte di quello che avevamo chiesto alla comunità scientifica presentando il lavoro. Del resto anche le nostre verifiche riferite qualche settimana fa ci avevano fatto sospettare che il risultato fosse conseguenza di malfunzionamenti strumentali di alcune parti del sistema». Le indagini, tuttavia, proseguiranno ancora.
«Utilizzando la nuova tecnica di generazione del segnale messa a punto dal Cern con grande perizia e che proietta ad intervalli impulsi di 3 nanosecondi — nota Carlo Rubbia — effettueremo da aprile quattro settimane di ricerche. Per noi il risultato è comunque definitivo».
Ma non saranno le sole e altri gruppi di scienziati sono mobilitati tra il Cern e il Gran Sasso. «L'evidenza ci mostra che si trattava di un cattivo funzionamento di qualche apparato di "Opera" — conclude Sergio Bertolucci, direttore scientifico del Cern — e per sciogliere eventuali dubbi, dai prossimi giorni, si estenderanno le indagini anche con gli esperimenti "Borexino" e "LVD", sempre al Gran Sasso». A quel punto non resterà che attendere ciò che diranno i test in Giappone e negli Usa. Ma arrivati a questo punto sembra proprio di vedere il sorriso ironico di Albert Einstein.
Corriere della Sera 17.3.12
Camus: ecco i mezzi con cui si difende l'informazione libera
di Stefano Montefiori
PARIGI — Tre mesi dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale Albert Camus era il caporedattore — e unico collaboratore assieme a Pascal Pia — del quotidiano «Le Soir républicain» ad Algeri. Il 25 novembre 1939 Camus scrisse un editoriale sui doveri e la funzione del giornalista in tempo di guerra, una sorta di manifesto della stampa libera. A riprova del fatto che le sue idee erano giuste e che bisognava provare a diffonderle, quel testo venne censurato e mai più pubblicato.
Lo ha ritrovato Macha Séry, collaboratrice di «Le Monde», che ha cercato negli «Archives d'outre-mer» di Aix-en-Provence spulciando cassa dopo cassa tutti gli articoli mancanti dei giornali «Alger républicain» e «Le Soir républicain», che erano soliti uscire con le colonne bianche al posto del testo bocciato. «È così che sono riemersi, sotto i nostri occhi, le parole, le frasi, i passaggi e anche gli articoli interi che non erano piaciuti ai funzionari incaricati di esaminare le bozze delle pagine dei giornali», racconta la Séry su «Le Monde» di oggi.
Camus scriveva che «un giornalista inglese, oggi, può andare ancora fiero del suo mestiere, lo si vede. Un giornalista francese, anche indipendente, non può non sentirsi partecipe della vergogna nella quale viene mantenuta la stampa francese. A quando la battaglia dell'Informazione in Francia?». E quindi ecco i cardini sui quali ritrovare la dignità perduta: «Ci piacerebbe definire qui le condizioni e i mezzi attraverso i quali, in seno alla guerra e alle sue costrizioni, la libertà può essere non solamente preservata, ma ancora manifestata. Questi mezzi sono in numero di quattro: la lucidità, il rifiuto, l'ironia e l'ostinazione». Uno dei passaggi più interessanti riguarda l'ironia, con un omaggio al «Canard enchaîné» ancora oggi in brillante attività. «Possiamo stabilire in linea di principio che uno spirito capace di negare la libertà sia impermeabile all'ironia — scrive Camus —. Difficile che Hitler, per non prendere che un esempio tra gli altri, utilizzi l'ironia socratica. Eppure l'ironia resta un'arma senza precedenti contro i troppo potenti. È una qualità che completa la capacità di dire no, perché permette non più di rifiutare ciò che è falso, ma di dire spesso ciò che è vero. Una verità enunciata con tono dogmatico è censurata nove volte su dieci. La stessa verità detta scherzando non lo sarà che cinque volte su dieci. Questo spiega come dei giornali francesi come «Le Merle» o «Le Canard enchaîné» possano pubblicare regolarmente i coraggiosi articoli che sappiamo».
Il finale va oltre la questione della libertà di espressione in circostanze eccezionali, per toccare il tema eterno dell'esistenza da uomini liberi. «Formare i cuori e gli spiriti, o meglio risvegliarli, è il compito modesto e ambizioso insieme che spetta all'uomo indipendente. A questo bisogna attenersi, senza guardare più avanti. La storia terrà o non terrà conto di questi sforzi. Ma saranno stati fatti».
Twitter @Stef_Montefiori
Repubblica 17.3.12
Dove nascono i sogni
Viaggio nella zona limbica
Il regno delle emozioni
di Maurizio Ferraris
Un saggio del cognitivista Bara sostiene la tesi che non è l´attività onirica a metterci in comunicazione con la nostra personalità profonda ma la sua interpretazione e traduzione
Si passa da una forza a una forma E la trasformazione mette in contatto parti diverse
Non si tratta di pensieri in libertà: sono procedure in cui la mente opera in parallelo
Nel racconto biblico Giuseppe interpreta il sogno del faraone, ma - è il caso di dirlo - non si sogna minimamente di psicoanalizzarlo, cioè di trarre dal sogno qualche indicazione sulla personalità del sovrano (che difficilmente avrebbe gradito un simile interesse).
Gli antichi, racconta Bruno Bara, direttore del centro studi cognitivi dell´Università di Torino nella premessa storica del suo Dimmi come sogni (Mondadori), si mettevano ritualmente in profonde caverne sotterranee, sperando di avere sogni particolarmente illuminanti. Era il gesto simmetrico al salire in cima alle torri per contemplare le stelle: in entrambi i casi, la visione veniva dall´esterno, era qualcosa di oggettivo. Ed è per questo che nell´antichità si usava scrivere dei manuali di interpretazione e traduzione dei sogni, delle specie di vocabolari di racconti e visioni considerati indipendenti dalla soggettività dei sognatori.
È la tradizione che sopravvive nella smorfia, il prontuario per tradurre i sogni in numeri da giocare al lotto. È invece soprattutto con Freud che abbiamo la rivoluzione copernicana, con il passaggio dall´oggetto al soggetto: i sogni non ci parlano del mondo, non anticipano l´avvenire, ma rivelano al soggetto qualcosa che non riesce a confessarsi, qualcosa che ha a che fare non con la coscienza ma con l´inconscio. Il sogno è un rebus in cui con degli accorgimenti cifrati (spostamento, condensazione, figurazione con il contrario) una parte dell´io comunica qualcosa a un´altra parte dell´io - qualcosa che quella parte non ha il coraggio di dirsi. In somnis veritas, soprattutto quando si tratta dei nostri segreti desideri, come canta la Cenerentola di Walt Disney: "I sogni son desideri di felicità, nel sogno non hai pensieri, ti esprimi con sincerità. Se hai fede chissà che un giorno la sorte non ti arriderà".
Cosa cambia con le scienze cognitive? Da una parte, ovviamente, la conoscenza della fisiologia del sogno è estremamente più sofisticata, ma sotto il profilo delle interpretazioni abbiamo due concezioni contrapposte. Una, che in sostanza si riallaccia alla ipotesi psicoanalitica della rimozione, vuole che i sogni siano una specie di coscienza più debole e rilassata: la nostra personalità da svegli e quella da dormienti è la stessa, tranne che la seconda è meno repressa, è più loquace e disinibita.
Bara è invece teorico dell´altra scuola. L´idea è che ciò che in noi sogna non abbia niente a che fare con la nostra coscienza, perché tra la coscienza e il sogno interviene una discontinuità qualitativa. I sogni non sono pensieri in libertà, sono procedure in cui la mente opera in parallelo, come per le percezioni. In questo momento, mentre scrivo queste righe, i miei occhi vedono dei colori, sento dei rumori intorno a me, ho delle sensazioni termiche e tattili: tutto questo è vero, ma niente di questo accede alla dimensione del senso, che è invece quello che sto cercando di esprimere in questo articolo, con un ordine seriale di conseguenze logiche. Bene, il rapporto tra il mondo onirico e il pensiero diurno è proprio di questo tipo.
Se le cose stanno in questi termini, la conoscenza di noi stessi che può venire dal sogno è molto più indiretta di quanto non assumano le ipotesi che vedono nel sogno la rivelazione di un io più inerme e confidenziale. La nostra personalità si rivela molto meglio nella vita diurna e nell´azione, il sogno è un prodotto che si sottrae al controllo del sognatore, il quale se ne riappropria al risveglio. Perché, secondo l´ipotesi difesa da Bara, non si sogna d´accordo con la propria personalità, né con il proprio linguaggio e la propria cultura.
La sfera da cui vengono i sogni è la zona limbica e paralimbica, come l´amigdala, la corteccia cingolata anteriore e l´insula. È l´area primitiva ed emotiva del cervello, che ci riporta agli albori dell´umanità, il che spiega, tra l´altro, la frequenza degli incubi, cioè del terrore primario. Quello che ci fa visita ogni notte è davvero qualcosa di molto lontano, e ci mette in comunicazione non tanto con la nostra personalità profonda, quanto piuttosto con gli aspetti emotivi più elementari del nostro essere umani, e dunque anche del nostro essere animali.
La personalità (e con lei la cultura e il linguaggio) intervengono a un secondo livello, nel passaggio dal sogno alla sua interpretazione. Prima di tutto, il sognatore, quando cerca per sé di dare senso alla successione parallela dei sogni, incomincia, con la sua personalità, a conferire un ordine che prima non c´era: un ossessivo non sogna da ossessivo, interpreta da ossessivo.
In secondo luogo, se cerca di raccontare il sogno sovrappone alla struttura emotiva dell´esperienza che ha vissuto le griglie del linguaggio, e non è difficile immaginare quanto la descrizione di una emozione possa essere poco emozionante (credo che sia per questo che ci sembra di essere così inespressivi quando raccontiamo un sogno che ci ha particolarmente emozionati). Infine, posto che il sognatore si stia confrontando con un terapeuta, nella descrizione interverranno anche i loro problemi relazionali.
Insomma, nella traduzione del sogno abbiamo il passaggio da una forza a una forma, da una emozione a una espressione, sancita, proprio come nelle opere d´arte, dal momento in cui si dà un titolo al sogno, come nei celebri esempi di Freud. Ora, sono proprio queste procedure di trasformazione (analizzate e codificate nel manuale di Bara, che vuol essere anche una guida per terapeuti o semplici lettori) che risultano rivelative della nostra personalità, mettendo in comunicazione zone diverse della nostra mente.
Il punto fondamentale è che non ci si deve attendere troppo e non bisogna avere troppa precipitazione. Il sogno è un dono misterioso che conviene osservare senza aver troppa fretta di concludere su un senso, perché se è dubbio il principio "non c´è vero senso di un testo", è certo che non c´è vero senso di un sogno, e che il sogno non è qualcosa su cui sia possibile dire l´ultima parola.
Corriere della Sera 17.3.12
Come calmare la paura dei bambini per la morte
di Federica Mormando
qui
Repubblica 17.3.12
Clint Eastwood "I figli ci insegnano a vivere"
La star racconta il rapporto con i suoi ragazzi
A 81 anni ho avuto bisogno di loro per smettere di "fare" il giovane
di Angelo Aquaro
Adesso che è finalmente tornato davanti alla macchina da presa tutti si chiederanno perché a 81 anni Clint Eastwood ha deciso di mettersi nei panni di un personaggio che sarà uno shock: un padre che vive una storia d´amore con la figlia. «Sì, il mio prossimo film sarà una storia d´amore tra un padre e una figlia. Ma per carità: nessun equivoco e niente di morboso - è la storia di un rapporto semmai un po´ cervellotico. Ma è un tema forte, che sento molto». L´uomo che visse almeno tre volte - il cowboy dei western di Sergio Leone, l´Ispettore Callaghan, l´imprevedibile regista di pensosissimi capolavori da Oscar - in questi giorni si avvia serenamente verso il suo quarto tempo: in un reality show. E il tema, ancora una volta, è quello: la famiglia. «Sono molto orgoglioso della mia famiglia», ha detto alla presentazione di Mrs. Eastwood & Company, lo show su "E! Entertainment" dove, per la verità, la vera protagonista è l´ultima moglie Dina con le figlie e il vecchio Clint ha promesso giusto qualche comparsata: «La mia famiglia è una fonte costante di ispirazione e intrattenimento».
L´ispirazione non si discute: e i sette figli avuti da cinque donne diverse stanno lì a dimostrare anche un certo gusto per l´intrattenimento. Eppure la fama di "donnaiolo" che Hollywood gli appiccicò negli anni d´oro non rende la complessità emotiva di questo "libertario" - così si definisce lui stesso: repubblicano in economia ma vicino ai democratici sui temi più sociali - che alla sua età confessa di avere imparato tanto proprio dai suoi figli. «Si può sempre imparare da tutti: anche e soprattutto dai tuoi ragazzi. Io, per esempio, dal mio Kyle ho imparato a perseverare: a non fermarmi di fronte alle difficoltà, a non arrendermi». Mentre parla butta l´occhio sul vecchio pianoforte qui nel bungalow della Malpaso, la sua casa di produzione ospitata nei megastudios della Warner Bros. Lo suona spesso? «Certo: ma non sono bravo come Kyle. Mi siedo qui e tiro giù qualcosa che sento per i miei film. Poi viene un mio amico che è una specie di mago e con un computerino riesce a tirare fuori di tutto. Gli dico, chessò, vorrei un suono alla Bach, tipo Variazioni Goldberg. Oppure andiamo sul boogie boogie, il jazz, perfino il country: mi piace di tutto e mi servo di tutto, a seconda dell´occasione».
L´amico mago è la dimostrazione che nella musica mister Eastwood non è un professionista come Kyle: che è appunto il figlio avuto dal primo matrimonio con la modella Maggie Johnson. Quel figlio che perseverando, come dice Clint, ha mostrato però a papà che ogni cosa era possibile: anche fare i film che nessuno voleva fare e nelle sue mani si sono dimostrati poi spettacolari successi - come Million Dollar Baby. Lo spiega bene quell´altro attore da Oscar che lui considera guarda caso di famiglia, quasi un figlioccio: Matt Damon: «In tutta la sua straordinaria carriera Clint non si è mai preoccupato di che cosa la gente pensasse del suo lavoro: dai western a Mystic River a Million Dollar Baby. Se avesse pensato di seguire il business avrebbe smesso di fare film 40 anni fa». Praticamente quando è nato Kylie.
«Non sono mai stato molto disciplinato» riconosce adesso il vecchio regista. «Ma in certe cose il talento non basta. L´ho visto proprio con mio figlio e la musica. Quando gli chiedono come si arriva, musicalmente, a certe altezze, lui ha la risposta pronta: tanta pratica, pratica, pratica». Naturalmente perché un padre possa imparare da un figlio occorre prima che il padre qualche cosa al figlio insegni. E il rapporto di Clint col suo primogenito sembra proprio il classico ritratto del padre che si rispecchia nel figlio. In fondo è stato proprio lui a passargli la passione per la musica. «I miei genitori mi hanno donato il gusto per la musica e l´amore per il jazz da ragazzino» ha confessato Kyle all´"Independent". «Papà suona il piano, mia madre suonava il piano e la madre di mia madre insegnava musica alla Northwestern University, Illinois».
A dire la verità papà la racconta un po´ diversamente: quantomeno sul jazz. «A lui piaceva il rock. Per carità, piace anche a me: ma lui del jazz non ne voleva sapere. Ricordo ancora la sera che me lo portai in un club proprio qui dietro, lui da ragazzino andava matto per la chitarra rock ma sul palco c´era un bassista straordinario, un bassista jazz. Andai da quel signore: ma lei sarebbe disposto a dare lezione al mio ragazzo? E Kyle fece quello che io alla sua età non mi sarei mai sognato di fare: studiare, studiare, studiare».
Sembra quasi di percepire un pizzico di risentimento: pentito di qualcosa? «No» sorride illuminando gli occhi che non invecchiano mai, «nella mia vita non mi sono mai pentito di niente. Però chissà, avessi avuto io da ragazzino la disciplina che ha dimostrato mio figlio, magari sarei diventato davvero un musicista, come da piccolo avevo sognato. Un musicista jazz con la sua brava band». Clint Eastwood Jazz Band? «Oh yeah!».
Il mondo non ne ha sentito la mancanza. Prima di tutto perché gli rende grazie per quella sua carriera straordinaria. E poi perché quasi tutti i temi dei suoi ultimi film sono ormai firmati da lui. Tranne però gli splendidi accordi di Gran Torino: scritti proprio dal figlio Kyle. Come se lasciandogli firmare quella canzone, sulla soglia degli ottant´anni anche il grande Eastwood avesse voluto riconoscere la grandezza del figlio - e il suo proprio limite di musicista e padre. «Perché a volte mi sento come se avessi ancora quarant´anni. Poi, certo, guardo i miei figli, e anche questo, anche la loro presenza mi aiuta a prendere più coscienza dell´età». Irraggiungibile Clint: il vecchio innamorato dei figli che dalle sue creature ha imparato a diventare ancora più grande.
Repubblica 17.3.12
Quando le generazioni non obbediscono più alle stagioni della vita
di Emanuele Trevi
Era il fatidico 1989 quando Milo De Angelis intitolò Distante un padre una sua memorabile raccolta di versi. Decisamente, solo i poeti e i bambini sono in grado di arrivare a queste folgoranti intuizioni accostando tra loro parole di per sé normalissime.
La genialità della formula consiste nel fare del padre un´unità di misura: come fosse un chilometro, o un mese, o magari uno di quei concetti della fisica in cui lo spazio e il tempo non sono più distinti, come l´anno-luce. Quello che il poeta milanese esprime con tanta forza icastica, inoltre, è il punto di vista dei figli, o meglio di tutti coloro che, anche se i casi della vita li hanno trasformati in padri, e sono stati capaci di essere degli ottimi padri, e magari nel corso del tempo sono diventati nonni e bisnonni, non hanno mai smesso di percepire se stessi come figli.
Tra i tanti prodigi della modernità, questa sopravvivenza del figlio merita tutto il nostro rispetto e il nostro stupore. Nell´uomo antico, la successione delle famose età della vita è un processo lineare e irreversibile. Il ragazzo assorbe e annulla il bambino, e a sua volta cede il passo all´uomo adulto, che si trasforma in vecchio. A ogni età della vita corrispondono, in questa visione che possiamo definire "classica", determinate prerogative e possibilità. Non c´erano confusione e possibilità di errore; non si tornava mai indietro. Forse ci vorrebbero i volumi di un´intera biblioteca per spiegare le ragioni di una mutazione così immane come quella di cui siamo i rappresentanti, noi che invece di procedere lungo una linea retta, e come a cavallo di una freccia scagliata dal passato verso il futuro, abbiamo cominciato a muoverci in circolo, o meglio seguendo il percorso di una spirale che avanza ritornando sempre sui suoi passi.
Fatto sta che la nostra vita è diventata un singolare prodigio psicologico, una specie di illusione ottica all´interno della quale tutte le età resistono all´usura, continuano ad affermare i loro diritti, si alternano a un ritmo imprevedibile anziché succedersi seguendo il passo ineluttabile del tempo. E all´interno di questa specie di luna park evolutivo, eccoli qui, i nuovi padri e i nuovi figli, finalmente liberi dalla prigione edipica, capaci di guardarsi in faccia come ci si guarda in uno specchio. La metafora del poeta rimane valida più che mai. Incapaci di dare un senso certo alla nostra vita, ci limitiamo a misurarla. E il padre è la misura esatta della nostra distanza da un´origine, da una pienezza vitale, da un´energia creatrice che noi, figli perpetui, non siamo più in grado, e non abbiamo nessuna voglia, di recuperare.
Repubblica 17.3.12
Educare lo sguardo dei grandi
di Massimo Ammaniti
Un quadro seicentesco della pittrice Artemisia Gentileschi illustra bene come i figli possano intervenire nel mondo dei genitori: la Madonna è assopita mentre sta allattando Gesù di pochi mesi che protende la mano quasi a proteggere il sonno della madre.
La psicologia ha profondamente modificato i propri modelli teorici e mentre in passato si riteneva che il neonato fosse un vaso vuoto che doveva essere riempito dai genitori, negli ultimi decenni si è affermata una visione interattiva del rapporto fra genitori e figli. Non solo i genitori si prendono cura ed educano i figli, ma anche quest´ultimi hanno un ruolo importante, stimolano i genitori e li mettono costantemente alla prova.
Già l´arrivo di un figlio è una rivoluzione, nei genitori riemergono ricordi e storie della propria infanzia che sembravano ormai rimossi e ritorna a galla il sé infantile dei genitori, potenzialmente ricco di vitalità e di curiosità. E ripercorrendo con i figli la propria infanzia si può rileggerla con occhi nuovi.
Ma forse è proprio l´adolescenza ad aprire un capitolo nuovo: i genitori sono costretti a confrontarsi con la sessualità prorompente dei figli, con i loro comportamenti a rischio e la loro capacità di immaginare mondi diversi ed impensabili. Se i genitori sono pronti a raccogliere la sfida dei figli adolescenti, entrando in risonanza con i loro stati d´animo, potremmo dire facendo uso delle proprie risorse personali e della propria dotazione cerebrale, ad esempio i neuroni specchio, avranno l´opportunità di arricchire il proprio mondo personale e di rendere meno rigide le proprie identificazioni adulte. Se al contrario l´adolescenza dei figli suscita paure ed insofferenze, i genitori perderanno questa grande occasione di ritrovare il gusto per la vita.