l’Unità 18.3.12
Presentato a Parigi il documento dei progressisti. Sul palco Hollande, Bersani, Gabriel
Il segretario dei democratici: «L’austerità non basta». D’Alema: «Ora serve un riequilibrio sociale»
Manifesto della nuova Europa
Bersani: «Destra al capolinea»
Un nuovo ciclo nelle politiche europee. Arrivati a Parigi per sostenere la corsa di François Hollande all’Eliseo, i leader di tutti i maggiori partiti progressisti lanciano il loro manifesto: un programma comune per l’Europa
di Simone Collini
Sotto la volta del Cirque d’Hiver sventolano bandiere col nome di François Hollande ma gli applausi sono anche per gli altri leader delle forze progressiste, per questa sorta di gemellaggio europeista.
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e quello della Spd Sigmar Gabriel sono arrivati a Parigi per sostenere la candidatura del leader socialista francese alle presidenziali di maggio, ma anche per firmare una piattaforma programmatica comune. A metterla a punto sono state la Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) e altre fondazioni vicine al Pd (Italianieuropei), al Ps (Jean Jaurès) e ai socialdemocratici tedeschi (Friedrich Ebert Stiftung).
Ma i leader politici dei tre partiti hanno concordato sulla necessità di dare un seguito non solo di elaborazione a questa operazione. Hollande, Gabriel e Bersani hanno infatti deciso di continuare con l’elaborazione programmatica comune ma anche con la cooperazione rafforzata nelle istituzioni europee e con la pianificazione di altri appuntamenti di carattere elettorale che verranno organizzati la primavera del prossimo anno a Roma (prima delle elezioni politiche) e poi in autunno a Berlino (prima del voto in Germania).
CAMBIARE VOLTO ALL'EUROPA
«Nei prossimi diciotto mesi l’Europa può cambiare volto», dice aprendo i lavori Massimo D’Alema, che come presidente della Feps ha pianificato e lavorato per la riuscita di questa operazione. «Il problema non è l’Europa in sé, è questa Europa, guidata da governi conservatori con miopia ed egoismo». Che le prossime elezioni in Francia, Italia e Germania possono cambiare la direzione politica dell’Ue è un concetto che non sfugge a nessuno. Non sfugge a un britannico che aveva allentato i rapporti con le forze progressiste europee come David Miliband e che a sorpresa è venuto a Parigi per partecipare al seminario preparatorio alla conferenza di ieri, a un tedesco come Martin Schulz, a un bulgaro come Sergei Stanishev, a un austriaco come Hannes Swoboda o ai politici svedesi che hanno partecipato insieme agli altri a una cena in cui si è parlato dei prossimi mesi e in cui l’ottimismo sulla possibilità di un cambio di vento era piuttosto palpabile.
IL PATTO DI STABILITÀ NON BASTA
Insiste sulla necessità di aprire un nuovo ciclo nelle politiche europee anche Bersani. Una vittoria di Hollande è per il leader del Pd una prima conferma che c’è una strada alternativa a quella tracciata in questi anni dall’asse “Merkozy” e dai partiti conservatori al governo. «Soprattutto sarà la conferma che l’Europa più egoista e cinica sta chiudendo il suo ciclo». I quattromila parigini stipati nel Cirque d’Hiver esplodono in un applauso quando Bersani ricorda che l’ultimo anno «si è portato via il governo Berlusconi, anche grazie al Pd». Un discorso che riguarda l’Italia, che «è di nuovo un paese ascoltato», ma che riguarda anche i destini comunitari: «I progressisti mostrano la volontà che li unisce, aprire una nuova stagione della storia e della politica per l’Europa. Questo è il nostro tempo. I conservatori la loro chance l’hanno avuta. Hanno guidato a lungo le sorti dell’Europa, hanno seminato le loro idee e i loro valori. Ma la raccolta si è rivelata disastrosa». Con la Grecia a fare da simbolo del cinismo e del fallimento delle loro politiche.
Tra i principali errori commessi dai governi guidati dalle forze di destra c’è per Bersani l’insistere esclusivamente su politiche di austerità. Anche il «Fiscal compact» fortemente voluto da Merkozy può rappresentare più una minaccia che un’opportunità per l’Europa. «Quel trattato non basta, non è sufficiente», dice Bersani tra gli applausi dei sostenitori di Hollande, che ha già annunciato l’intenzione di ridiscuterlo, nel caso dovesse andare all’Eliseo. Nel documento siglato a Parigi dai leader progressisti si fa riferimento alla necessità di integrare il patto di stabilità con politiche per la crescita. E Bersani non vede nessuna contraddizione nel sostenere Monti, che ha firmato insieme ad altri 24 capi di governo quel testo, e auspicare una vittoria di Hollande alle presidenziali francesi. «Il governo italiano ha firmato e manterrà la sua firma – dice ai giornalisti che lo avvicinano al termine dell’iniziativa – ma da italiano di buon senso dico che se un Paese sovrano come la Francia pone questo problema, si può aprire uno spazio di discussione con la prospettiva di un miglioramento. C'è la possibilità di rafforzare il trattato sul versante della crescita e può essere interesse dell’Italia e non solo dell’Europa». Fa notare anche D’Alema di fronte a chi ricorda le critiche di Sarkozy all’intenzione di Hollande di ridiscutere il patto di stabilità. «I Parlamenti sono sovrani e la ratifica di un trattato non è un rituale. È un diritto sovrano inalienabile dei francesi rinegoziare, riequilibrare le politiche coniugando alla disciplina di bilancio misure urgenti di sostegno alla crescita, all’occupazione, all’eguaglianza». È un diritto anche degli italiani, e la discussione potrebbe presto aprirsi in Parlamento.
l’Unità 18.3.12
E se «Merkozy» resiste?
Il leader Pd vede i rischi ma la strada è obbligata
Il rapporto con i socialisti Nel Pd non ci sono più resistenze interne di tipo ideologico
L’alleanza coi socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi è fondamentale anche per impostare le elezioni del 2013 come una competizione tra progressisti e conservatori
di S.C.
Né la foto di Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro perché il campo è troppo stretto né quella a Palazzo Chigi con Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano scattata col cellulare del leader dell'Udc perché l'inquadratura è troppo larga. Considerato che ormai le istantanee sono entrate stabilmente nel dibattito politico, è con la foto di Parigi con François Hollande e Sigmar Gabriel che Pier Luigi Bersani vuole andare alla prossima campagna elettorale. E non a caso il gruppo dirigente del Pd, appena siglata nella capitale francese la piattaforma programmatica comune sulle politiche europee, già si è messo al lavoro per preparare a Roma il 19 e 20 aprile una conferenza internazionale a cui sono stati invitati i vertici di tutti i gruppi parlamentari progressisti presenti a Strasburgo.
Per Bersani l’alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi (ma anche i laburisti inglesi e gli altri partiti progressisti del Belgio e della Scandinavia) è strategica per più di un motivo, quando finita la fase di transizione guidata dal governo Monti si andrà alle urne. Stringere un patto con le altre forze di centrosinistra europee vuol dire da un lato cominciare ad impostare fin d'ora per la primavera 2013 una competizione tra progressisti e conservatori chiudendo così la porta all’ipotesi di una Grosse Koalition in salsa italiana, caldeggiata fuori ma anche dentro il Pd. Dall'altro lato, l’esito delle presidenziali d'Oltralpe influenzerà in un senso o nell’altro il tipo di coalizione e anche la candidatura per la premiership alle prossime politiche italiane.
Bersani, che comunque pensa debbano essere le primarie a scegliere il candidato premier, sa bene che la scommessa ha una posta tanto alta quanto è alto il rischio che l'operazione comporta. Legare strettamente le vicende nostrane all'esito delle presidenziali francesi e anche ai consensi su cui potrà contare nei prossimi mesi Angela Merkel è chiaramente pericoloso. Nicolas Sarkozy non ha esitato a mettere in discussione Schengen pur di guadagnare qualche punto nei sondaggi, e il timore confessato dai socialisti francesi agli italiani arrivati a Parigi è che da qui a maggio giocherà altre carte pericolose per la tenuta dell’Ue. Puntare su un cambio del vento in Europa è d'obbligo per il Pd, ma se la fine del ciclo conservatore dovesse rivelarsi nei prossimi mesi un'illusione il contraccolpo si farebbe sentire pesantemente anche sulle vicende italiane.
L'Udc soprattutto, ma anche alcuni settori del Pd di provenienza centrista o ex-popolare puntano a un governo di larghe intese anche per la prossima legislatura. E se l'asse Merkozy dovesse riaffermarsi si farebbe più complicato per i Democratici esprimere il candidato premier.
Casini lo dice chiaramente che lavora per un avvicinamento di Pd e Pdl in vista della prossima campagna elettorale, ma va letto in questa chiave anche il memorandum firmato proprio in questi giorni da Beppe Fioroni, Marco Follini e una dozzina di esponenti ex-Ppi e della minoranza di Movimento democratico favorevole al “Monti bis”, un documento critico nei confronti del sostegno a Hollande e favorevoli invece a un’intesa con il centrista François Bayrou.
Un aspetto positivo per Bersani è che comunque in questo passaggio non deve fare i conti con resistenze interne di tipo ideologico sul rapporto con i partiti socialisti europei. Il fatto che la vecchia discussione sull'appartenenza alle famiglie politiche non sia stata sollevata da nessuno dopo che è stato creato a Strasburgo il gruppo dei Socialisti e Democratici consente al leader del Pd un'ampia possibilità di manovra in questa operazione.
Bersani però non vuole rischiare a agli interlocutori francesi e tedeschi ha spiegato che il campo socialista deve allargarsi. «Arriviamo a questo appuntamento forti della nostra storia e della identità di ciascuno, storie ed identità che non sono mai nemiche del coraggio e dell'innovazione», è il messaggio consegnato a Hollande e a Gabriel. «Noi democratici italiani in questi anni abbiamo innovato molto, abbiamo scelto di superare le antiche appartenenze e di dare vita a un Pd che già adesso, a quattro anni dalla sua nascita, è il primo partito italiano».
Da questo alla possibilità di esprimere il candidato premier alle prossime politiche c'è un percorso che, nel bene o nel male, passa anche per l'Europa.
l’Unità 18.3.12
Il candidato socialista all’Eliseo: mai un’elezione francese ha avuto una tale posta in gioco
Gabriel, leader Spd: «Uniti per le modifiche al Trattato». Stanishev, presidente Pse: destre egoiste
Progressisti, Hollande apre la sfida «Dopo Parigi cambierà l’Europa»
La battaglia per l’Eliseo apre la sfida dei Progressiti per una nuova Europa. Dalla manifestazione di Parigi Hollande indicaa assieme agli altri leader i passaggi centrali. A cominciare dalla modifica del fiscal compact
di Luca Sebastiani
PARIGI Forse non si tratta ancora di una terza Internazionale, ma da oggi si potrà senz’altro cominciare a parlare di una «foto di Parigi». Quella scattata ieri al Cirque d’hiver, nella capitale francese, per sostenere il candidato alle presidenziali François Hollande è stata infatti un’immagine assai rilevante politicamente per la sinistra europea e gravida di avvenire per la Francia e tutto il Vecchio continente. Non solo i maggiori leader delle forze progressiste europee si sono trovati su una proposta di Europa alternativa a quella conservatrice guidata dal duo Merkozy, ma hanno anche abbozzato un cammino politico-elettorale che da Parigi a Berlino passando per Roma potrà in poco più di un anno cambiare il profilo dell’Ue. O si procede tutti insieme, o nel ripiegamento si perde.
IL RUOLO DELLA FEPS
La Fondazione europea di studi progressisti (Feps), su ispirazione del suo presidente Massimo D’Alema e con il contributo delle varie fondazioni à gauche del Continente, ha preparato un manifesto per il Rinascimento dell’Europa che è stata la premessa di una convergenza abbastanza inusuale delle forze democratiche, socialiste e socialdemocratiche per un impegno comune a flettere l’orientamento politico del continente nella direzione della crescita e della solidarietà. Dal segretario della Spd Sigmar Gabriel, al presidente socialista del Parlamento europeo Martin Schulz passando per Pier Luigi Bersani e il presidente del Pse Sergei Stanishev, ieri i maggiori leader progressisti sono intervenuti alla tribuna parigina per denunciare all’unisono la condotta politica «cinica ed egoista» delle destre che ha portato l’Europa nella crisi e fin sull’orlo dell’esplosione. Tutti hanno sottolineato l’inadeguatezza del patto sottoscritto a Bruxelles il 2 marzo sulla disciplina di bilancio, che da solo rischia di chiudere l’Europa nella recessione.
Il fiscal compact non basta. La chiarezza era tanto più necessaria perché interviene in un contesto come quello della campagna per le presidenziali francesi in cui Hollande rischiava di rimanere isolato, accerchiato dalla Santa alleanza dei conservatori che hanno ispirato il trattato «dell’austerità». Di qui la foto di gruppo di ieri e la prova di forza dei progressisti.
«Noi sosteniamo un riorientamento del trattato europeo», ha detto Gabriel che l’anno prossimo contenderà la cancelleria ad Angela Merkel. E dopo aver attaccato Sarkozy sulla sua minaccia di portare la Francia fuori da Schengen, ha rivendicato «un’iniziativa europea per la crescita», magari proprio con gli eurobond per finanziare i progetti europei. Via via i leader europei hanno denunciato la finanza, «il rigore senz’anima» imposta delle destre, la loro mancanza di «visione» e la necessità di «rilanciare il grande sogno europeo». Insomma, tutti uniti come ai tempi della seconda Internazionale, ha ricordato Gabriel, fondata proprio a Parigi nel 1889 prima che l’unione dei socialdemocratici europei naufragasse sugli scogli del nazionalismo che portò alla Prima guerra mondiale. E tutti uniti ieri erano a sostenere Hollande, che con la sua elezione il prossimo 6 maggio potrebbe aprire una breccia nel blocco delle destre e aprire la strada ai democratici italiani prima e ai socialdemocratici tedeschi poi.
«Mai un’elezione francese ha avuto una tale posta in gioco», ha sottolineato Hollande alla tribuna parlando di «un’alternanza per la Francia al servizio di un’alternanza in Europa». Il candidato socialista all’Eliseo ha qualificato il trattato europeo come un «patto d’austerità che crea le condizioni per una crisi economica duratura». Tanto che, ha fatto notare, anche nella famiglia della destra europea c’è già chi lo sta mettendo in discussione. Vedi la Spagna e l’Olanda. E ha ripetuto che se riceverà il mandato dai francesi intraprenderà un nuovo negoziato a Bruxelles per «ottenere nuovi strumenti per nuovi obiettivi». Non si tratta di mettere in discussione l’equilibrio dei conti, che si è impegnato a mantenere, ma di integrare i patti aprendo il discorso sulla crescita. Hollande ha anche fissato i termini del negoziato in quattro punti in linea col manifesto di Parigi: aumento dell’intervento della Banca europea d’investimento, creazione degli eurobond, tassa sulle transazioni finanziarie con i paesi che ci stanno, e mobilitazione dei fondi strutturali europei oggi sottoutilizzati. Hollande ha anche proposto una Banca centrale europea che fissi tra i suoi obiettivi anche la crescita, un rilancio della vecchia idea di Jacques Delors di un’Europa dell’energia e il l’introduzione di un principio di reciprocità negli scambi commerciali.
l’Unità 18.3.12
Centrosinistra, ecco la foto che vale di più
di Claudio Sardo
Il dibattito sulla foto migliore dell’album Pd non è tra i più appassionanti. Tuttavia l’istantanea scattata ieri a Parigi con Hollande (candidato socialista alle presidenziali francesi) e Gabriel (presidente Spd) è per Bersani assai più impegnativa di quella di Vasto e anche della foto che giovedì Casini ha diffuso su twitter, in avvio del vertice di maggioranza a Palazzo Chigi.
Che Vasto non fosse una matura alternativa lo ha dimostrato la nascita del governo Monti. Il gruppo dirigente del Pd non ha dimenticato la dura lezione dei Progressisti del ’94: ma proprio per questo l’accesa, reiterata polemica su Vasto è diventata anzitutto una leva per allargare le divisioni a sinistra, oltre che per indebolire la leadership di Bersani. Il Pd è nato per superare l’Unione del 2006 e costruire un credibile progetto di governo di centrosinistra. L’orizzonte riformista, tuttavia, non pretende che vengano recise le basi popolari e le radici di sinistra. Chiede innovazione, coraggio, capacità di rivolgersi al Paese intero e di mobilitare le forze del lavoro e dell’impresa, non certo una catarsi moderata, quasi che la politica moderna altro non possa essere che la disciplinata esecuzione delle direttive dell’Europa del centrodestra o dei sacerdoti dell’ortodossia economico-finanziaria. Saranno i prossimi mesi a definire il grado di solidarietà a sinistra e le battaglie comuni. Ma per il Pd sarebbe un suicidio tagliare pregiudizialmente quei ponti, non meno che proclamare un’autosufficienza stile Unione.
La vera questione strategica è piuttosto un’altra: rassegnarsi al prolungamento della Grande coalizione la foto dell’altra sera a Palazzo Chigi o scommettere sull’Italia che torna a essere una democrazia competitiva con legittime alternative di governo? Piegarsi alla sovranità del «pensiero unico», e dunque della «politica unica», o puntare su un’Europa diversa, capace di equità e sviluppo, e non solo di spingere la Grecia verso l’autodistruzione o di allargare gli squilibri interni al Continente? L’incontro di ieri a Parigi, i discorsi dei leader progressisti e il manifesto nel quale si sono riconosciuti costituiscono per questo un evento di grande importanza. La foto di Parigi è la chance che abbiamo per evitare che la foto di Palazzo Chigi rappresenti non l’immagine di un Paese che risale dal precipizio della Seconda Repubblica, bensì una prigione in cui la competizione democratica è bandita.
Non si può negare però che il successo della foto di Parigi è legato a doppio filo al successo elettorale di Hollande. L’Italia è parte dell’Europa. E il centrosinistra italiano farebbe molta fatica a proporsi come pilastro di un’alternativa nazionale, se in Francia prima e in Germania poi tornasse a vincere il centrodestra. L’alternativa politica, oggi più di ieri, ha una dimensione europea. E la grande novità del documento di Parigi sta proprio nell’impronta europeista degli impegni assunti dai leader progressisti.
Già negli anni Novanta i progressisti guidarono tutti i maggiori Paesi europei. Ma il loro limite, allora, fu esattamente il disinvestimento sull’Europa politica. Il punto più alto di quella stagione fu l’accordo di Lisbona concepito come la Maastricht sociale e dell’innovazione ma l’impresa fallì per la debolezza delle istituzioni comunitarie. I progressisti di fatto aprirono la strada all’involuzione intergovernativa dell’Unione, poi accelerata dai governi di centrodestra. Resta per noi una magra soddisfazione che in quel vertice di Lisbona sia D’Alema che Prodi indicarono nel troppo debole europeismo il difetto strutturale dell’intesa. Dunque non basta che vincano le sinistre. È necessaria una nuova idea di Europa. Un’Europa che metta in comune il proprio destino. E ieri Hollande ha detto cose che segnano una novità rispetto alla stessa tradizione dei socialisti francesi. Il documento è ancora più esplicito nell’indicare le linee di correzione del Trattato sul fiscal compact e il rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Ciò potrebbe aiutare a superare le polemiche nostrane, di carattere ideologico, sull’identità «socialista» dei progressisti europei.
È sempre più assurdo e anacronistico contrapporre l’identità socialista a quella democratica. Il Pd è democratico. Per scelta. E perché ritiene questa sua identità più ricca e promettente per l’intero centrosinistra europeo. Bersani l’ha ripetuto anche ieri. Ma ciò non può comportare la rinuncia alle necessarie alleanze, l’isolamento. Sarebbe questo sì un tradimento del patto costitutivo del Pd e del suo stesso europeismo. Il tema infatti è come costruire un’alternativa politica in Europa. Mettendo in rete democratici, socialisti, progressisti. Tenendo insieme sviluppo, riduzione degli squilibri interni, integrazione comunitaria. A Parigi è stato compiuto un passo di valore strategico. Si può anche perdere, ma guai se si rinuncia a combattere, acconciandosi fin d’ora a una soluzione centrista.
Corriere della Sera 18.3.12
Crisi, anti Merkel 6 italiani su 10
La cancelliera e l'Ue percepite come poco attive per la crescita
di Renato Mannheimer
Negli ultimi giorni, e anche nel suo intervento al convegno di Confindustria, il presidente del Consiglio ha rassicurato gli italiani, affermando che il Paese ha ormai superato i momenti più drammatici della crisi. Effettivamente, l'azione del governo negli ultimi mesi ha migliorato lo stato dell'Italia. I tassi dei Bot sono tornati a livelli accettabili, lo spread con i titoli tedeschi è diminuito e anche l'immagine del nostro Paese all'estero è significativamente mutata in positivo.
Ciononostante, il «sentiment» della popolazione e delle imprese del nostro Paese permane pessimista e non pare riflettere questa situazione più rosea. Beninteso, la maggioranza attribuisce all'esecutivo il merito delle iniziative per aiutare il Paese a superare la crisi. Ma metà della popolazione ritiene che «nessuna istituzione sta facendo veramente qualcosa», giudicando quindi negativamente la situazione attuale.
Come mostrano gli ultimi dati dell'Eurobarometro, grandi responsabilità vengono attribuite alle politiche attuate dall'Ue e dalla Germania in particolare, ritenute troppo restrittive. Non a caso quasi il 60% degli italiani giudica l'azione della Cancelliera «troppo legata agli interessi della Germania».
Anche a causa di questi motivi, dunque, l'atteggiamento degli italiani riguardo alla situazione economica e alle sue prospettive resta fortemente negativo. Ad esempio, dall'Osservatorio Ispo-Confesercenti si rileva come solo il 5% (con una accentuazione tra gli elettori di centro, vale a dire i più convinti sostenitori dell'esecutivo guidato da Monti) ritiene che «il peggio della crisi sembra davvero passato». Secondo tutti gli altri siamo ancora nel mezzo di un periodo drammatico. Di qui, una forte preoccupazione verso l'attuale situazione economica, manifestata anch'essa da più del 90% dei cittadini, con una accentuazione al Sud, specie per ciò che concerne l'economia della propria regione. Anche se, malgrado continui a collocarsi a livelli molto elevati, il grado di preoccupazione ha subito negli ultimi tre mesi un calo relativo, frutto probabilmente degli interventi del governo.
Resta il fatto che la crisi «morde» tutt'ora una fetta consistente di popolazione. Quasi il 20% dichiara che qualcuno nella propria famiglia ha perso il lavoro di recente e un altro 14% sottolinea (per se stesso o per un famigliare) il coinvolgimento nella cassa integrazione. Il confronto con il passato mostra che il numero di famiglie toccate dalla crisi si è accentuato proprio nell'ultimo periodo. Di qui un'insicurezza diffusa (70%) per il proprio posto di lavoro, specie al Sud e tra i dipendenti con qualifiche meno elevate. Ancora maggiore è la quota (81%) di chi dichiara in generale di temere per la propria situazione economica famigliare.
Sin qui i severi giudizi sulla condizione attuale. Ma cosa immaginano gli italiani per il futuro? Pur non essendo, ovviamente, accurate come lo sono (talvolta) quelle degli economisti, le previsioni della popolazione sono di grande rilievo perché un ottimismo diffuso può stimolare la tanto auspicata ripresa dei consumi e il pessimismo invece accentua la contrazione di questi ultimi e, di conseguenza, la stagnazione. Si registra al riguardo un mix di sentimenti, ove il perdurare della visione negativa viene in qualche misura controbilanciato da qualche cauta speranza.
Le ultime rilevazioni per Intesa Sanpaolo mostrano come ancora oggi più di un italiano su quattro (29%) preveda un ulteriore peggioramento della condizione economica del Paese e che un altro 32% reputi comunque che essa sarà «negativa come ora». Ma d'altra parte più di un terzo (37%) ipotizza invece una qualche forma di ripresa.
Questa percentuale di «ottimisti» si è andata accrescendo da novembre (quando eravamo, come affermò Monti, «sull'orlo del baratro») a oggi. Come sempre, le previsioni per la propria situazione personale sono relativamente migliori di quelle concernenti il complesso dell'economia del Paese. Il 20% ipotizza un peggioramento del proprio status economico attuale e un altro 30% afferma che la propria condizione resterà invariata, «negativa come ora». Ma una percentuale superiore (24%) si azzarda invece a prevedere un miglioramento.
In definitiva, gli italiani sentono ancora di vivere un periodo assai poco felice. Ma, forse grazie anche al loro carattere (e a qualche timido segnale di ripresa), vedono nei prossimi mesi qualche possibilità di parziale uscita dalla crisi.
l’Unità 18.3.12
Incontri informali con Fornero e Monti. Il governo: subito le nuove norme sui licenziamenti
Camusso: troppe forzature. Bonanni polemico con lei. Fassina, Pd: «Basta battute»
Cgil, Cisl e Uil critici: così si allonta l’intesa sul mercato del lavoro
Si allontana l’intesa sul lavoro. Il governo alza il tiro sull’art. 18. Camusso: «Non capisco se vogliono l’accordo». Per Bonanni il rischio è che finisca come con le pensioni, con l’esecutivo che decide da solo
di Laura Matteucci
MILANO «Siamo belli lontani dall’accordo». La sintesi della nuova giornata di trattativa sul lavoro, tra incontri informali separati e plenari in occasione del convegno organizzato da Confindustria a Milano, la fa Susanna Camusso. «Il confronto non sarà né semplice né breve», soprattutto non limitato all’articolo 18, è l’aggiunta della segretaria Cgil, e di certo non arriverà alla stretta finale martedì, quando il tavolo si riunirà per la convocazione ufficiale. Ci sono tutti: i leader sindacali, il presidente Monti, il ministro Elsa Fornero, e ovviamente la padrona di casa, la presidente dei confindustriali Emma Marcegaglia. Ma la giornata milanese parte male e finisce peggio, a iniziare dalla presa di posizione del governo, che sulla trattativa in generale e sull’articolo 18 in particolare alza il tiro, accogliendo le richieste di Confindustria (reintegro limitato ai licenziamenti discriminatori) e stringendo i tempi: «Chiuderemo la prossima settimana», sostiene Monti, aggiungendo che «tutti devono cedere qualcosa, ma sono convinto che le parti sociali supereranno le visioni particolari». Che il governo voglia proseguire spedito lo conferma anche l’arrivo del presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso che, a fianco di Monti, parla di «riforma necessaria», auspicandola «audace».
I PALETTI DELLE IMPRESE
Il segretario Cisl Raffaele Bonanni si dice «molto preoccupato»: «Siamo agli opposti estremismi spiega Così l’articolo 18 diventa uno straccio da far volare davanti agli occhi degli europei. È un gioco al massacro, finirà con il governo che decide nel peggiore dei modi, com’è successo con le pensioni». Bonanni ce l’ha col governo, con le imprese, e pure con l’atteggiamento secondo lui troppo rigido della Cgil. Cui infatti lancia più d’una frecciata: «Senza mediazioni si consente solo al governo di cambiare unilateramente l’art.18. La Cisl lo vuole salvare, altri evidentemente preferiscono lavarsi le mani. Sarebbe un errore storico gravissimo». Chiara la risposta di Camusso: «Credo che la risposta utile, invece di continuare a dire che comunque bisogna fare un accordo, sarebbe costruire un’ipotesi contrattuale che tenga». L’accordo, insomma, non può prescindere dai contenuti. Che sono ancora lontani dal punto di mediazione possibile. La leader Cgil non ci sta a fare la parte dell’unico ostacolo all’intesa: «Trovo insopportabile riprende che ogni volta che si apre questa discussione, il tema sia se la Cgil vuole fare l’accordo. E il governo, invece, lo vuole fare un accordo?». Su posizioni vicine a quelle della Cgil anche la Uil: «Non scommetterei soldi sull’accordo dice il segretario Luigi Angeletti Non ci sono soluzioni condivise: non siamo per nulla d’accordo su modifiche che cancellino l’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari».
Sull’articolo 18 la posizione dei sindacati non è sostanzialmente cambiata, la Cgil resta disponibile a mediare per i licenziamenti dovuti a motivi economici, lasciando facoltà al giudice (accorciando i tempi) di decidere tra indennizzo e reintegro. È ovvio, però, che la valutazione sull’intesa è complessiva, e comprende ben altri temi oltre all’articolo 18, a partire dagli ammortizzatori e dalla flessibilità in ingresso. Questioni sulle quali sono le imprese a frenare, Confindustria e pmi, con queste ultime che non vogliono contribuire con un aggravio dei costi all’estensione degli ammortizzatori. Anche Marcegaglia è netta: «Una riforma al ribasso non avrà la firma di Confindustria». Dove per ribasso si intendono modifiche alla flessibilità in entrata.
L’articolo 18, insomma, non è certo l’unico punto di contrasto in una trattativa per il resto già chiusa, anzi. Ma è su questo che si continuano a scaricare le tensioni e concentrare le attenzioni. «Pazzesco pensare di attaccare i pilastri delle tutele dell’articolo 18 dice da Parigi il segretario Pd Pier Luigi Bersani È assurdo, non serve a niente. Si può organizzare invece una manutenzione di quell’articolo, ispirandosi a qualche altra esperienza». Rincara Stefano Fassina, responsabile Pd per il lavoro: «Stupiscono alcune affermazioni ascoltate a Milano. È completamente infondato sul piano teorico e empirico sostenere che sull’ulteriore facilità di licenziamento si gioca il futuro del Paese. Non esiste alcun dato a sostegno. È soltanto il tentativo illusorio e depressivo di recuperare attraverso la svalutazione del lavoro le ormai impossibili svalutazioni della moneta. È necessario andare in direzione opposta: valorizzare chi lavora per uscire dal tunnel».
l’Unità 18.3.12
La generazione negata è pronta alla sfida
Il futuro è adesso
di Eugenio Levi, Giovani Democratici
Il Congresso dei Giovani Democratici che stiamo tenendo in questi mesi ha un obbiettivo chiaro: vuole portare quel pezzo di giovane generazione che sta nel Pd al centro del conflitto politico in Italia. La nostra generazione viene descritta talvolta come vittima impotente di un sistema che non offre opportunità e talvolta come soggetto passivo, incapace di rischiare.
Non è così. Fra le rimozioni che questo trentennio neoliberista ci ha consegnato, c’è quella della responsabilità collettiva che ognuno di noi deve sentire rispetto alla storia. Siamo rimasti stretti, anche come generazione cresciuta con le categorie del berlusconismo, fra una visione giustizialista della battaglia politica, un populismo insofferente alle istituzioni quanto inconcludente sul terreno riformistico e un approccio tecnocratico arido di valori e politicamente subalterno. La maggior parte delle esperienze politiche di questo decennio sono iscrivibili dentro questi confini, dal movimento no-global ai governi dell’Ulivo e al centrodestra italiano. Il tentativo generazionale di portare le battaglie contro la globalizzazione neoliberista e contro le riforme scolastiche della Moratti su un piano tecno-riformista si è scontrato con il fallimento dell’Unione. In questi primi anni dei Giovani Democratici e nell’avvitarsi della crisi economica e politica del nostro paese, abbiamo capito però una cosa semplice ma rivoluzionaria: per chiudere questo ciclo trentennale dobbiamo maturare la consapevolezza che siamo dentro la Storia, cioè che le istituzioni democratiche sono obbiettivo e strumento della nostra azione, che la politica è il luogo dove si manifestano le tensioni etiche di una società, che nuove sintesi vanno cercate nei conflitti sociali del nostro tempo. Il governo Monti, in questo senso, è tutt’altro che la morte della politica. In ultima battuta, riportare l’impegno politico di un giovane, così prezioso, al ruolo storico di una generazione vuol dire riaprire il capitolo degli orizzonti possibili, all’insegna dell’inclusione sociale e dell’emancipazione della persona e del lavoro nella sostenibilità economica e ambientale. Significa capire che la questione è affermare la cittadinanza del XXI secolo, in cui un rinnovato patto sociale di diritti e doveri accompagni una nuova fase della storia d’Italia e d’Europa.
Da questi ragionamenti nasce la sfida dell’autonomia politica dei Giovani Democratici. Su queste basi si poggiano le tante idee che stanno emergendo in questo Congresso. Il radicamento che abbiamo costruito in questi anni ci aiuta a renderci soggetti attivi delle molteplici istanze dei territori; solo in questo modo riusciremo a dare concretezza al ruolo storico di cui vogliamo essere portatori.
Il Fatto 18.3.12
“La giustizia non è una priorità e rischiamo di essere spazzati via”
Il senatore Marino (Pd): “Non daremo un salvacondotto a B.”
di Fabrizio d’Esposito
Il senatore Ignazio Marino, dell’antica minoranza del Pd, ha appena partecipato a una scuola di formazione del suo partito (sì ce n’è una) e dice: “Sono giovani tra i 20 e i 30 anni, delle intelligenze straordinarie. Sarebbero un’ottima e nuova classe dirigente. Se non usiamo questa transizione per rinnovarci perderemmo una grande occasione”. In realtà il nuovo clima da inciucione induce al pessimismo.
È un clima diverso e preoccupante. Come se ci fosse un accordo non scritto tra i partiti. Partiti che sono al minimo storico della loro credibilità nel Paese.
Quindi che cosa teme?
La sensazione è che i partiti stiano cercando di superare questa fase del governo Monti solo per ripresentarsi e pretendere i loro posti e le loro stanze nei Palazzi del potere.
Anche il Pd?
È chiaro che il Pd deve fare uno sforzo diverso per essere in grado di governare questo Paese domani, dal lavoro alla giustizia, dalla sanità alla scuola. Altrimenti si rischia di essere spazzati via assieme agli altri.
Al vertice dell’inciucione...
Un momento, non mi attribuisca questo termine.
Va bene. Riprendiamo: all’ultimo vertice dell’inciucione si è parlato di giustizia. Addirittura si può cambiare la concussione, favorendo il solito Berlusconi per il processo Ruby. Tornano le leggi ad personam.
Chiariamo una cosa. Io credo che Pier Luigi Bersani stia affrontando questa fase con grande senso di responsabilità. Non dimentichiamo che fino a qualche mese fa al governo c’era un uomo che andava in giro per il mondo a raccontare barzellette.
Detto questo.
Nonostante la logica delle richieste europee, non possiamo emendare il codice penale sulla concussione rischiando la cancellazione del processo Ruby. Non sarebbe opportuno.
Poi ci sono di nuovo le intercettazioni. È la linea del dialogo portata avanti dallo sherpa del Pd, Luciano Violante.
Francamente non credo che la giustizia sia una priorità in questo momento. Forse è la priorità di alcuni esponenti del centrodestra. Io sono contro il bavaglio alle intercettazioni e faccio sempre l’esempio della clinica Santa Rita dove dei chirurghi, e fatico a dirlo da chirurgo, toglievano delle mammelle senza tumore solo per guadagnare un migliaio di euro in più. Senza le intercettazioni questo scandalo non sarebbe stato scoperto.
Nei vertici però Bersani sembra quello che prende sempre gol, da destra e da centro. Non esclusa la giustizia.
Io non credo che nella testa del segretario del Pd ci sia l’ipotesi di un salvacondotto per Berlusconi.
Ma dei provvedimenti in materia se ne discute.
E io le ripeto che non sono una priorità. Siamo in una fase di crisi grave, al cittadino interessa solamente il costo del pieno di benzina o della spesa al supermercato, non sapere se è intercettato o meno. Le intercettazioni sono l’argomento prevalente tra la gente.
Quindi niente dialogo sulla giustizia?
A meno che il Pdl non accetti la visione democratica e trasparente della giustizia che ha il Pd.
Il sospetto di scambio è aggravato dagli scandali che coinvolgono il Pd.
Questa logica di uguaglianza mediatica mi preoccupa e da democratico un po’ mi offende. Io sono stato tra i primi a chiedere l’espulsione di Lusi dal Pd.
Restano i fatti.
Ed è per questo che il Pd deve muoversi in fretta verso la strada del rinnovamento. Se non cambia questo clima si perde altra credibilità.
L’inciucione può sfociare nella Grande Coalizione permanente.
Dipenderà dalla nuova legge elettorale e io mi auguro che il Porcellum venga sostituito al più presto possibile.
E se con la nuova legge elettorale si passa dalla foto di Vasto (Bersani, Vendola, Di Pietro) a quella di Palazzo Chigi dell’altro giorno (Alfano, Bersani, Casini)?
Quella di Palazzo Chigi è una foto per senso di responsabilità.
Ma quale le piace di più?
La foto di Vasto è più bella e sono sicuro che piace di più anche a Bersani.
Corriere della Sera 18.3.12
Da Palermo a Parigi
I nodi irrisolti dei tanti inquilini di Casa Bersani
di Maria Teresa Meli
qui
Repubblica 18.3.12
Il calderone del malaffare
di Carlo Galli
Che il presidente della Repubblica Napolitano esorti i partiti a rinnovarsi e a prendere atto dell´indifferibilità della questione morale proprio nel giorno in cui si chiudono le celebrazioni del 150° anniversario dell´Unità d´Italia, ha un significato tristemente simbolico.
Un significato che rinvia a una questione che il Paese si porta dietro da quando è nato - già nell´Italietta post-unitaria era ben nota, col nome di "faccenderia", quella che oggi chiamiamo corruzione - ; una questione che ciclicamente si pone, e che costantemente rinvia.
Che il premier Monti lo stesso giorno affermi che il primo problema sollevato dai leader stranieri non è più la messa in sicurezza dei conti pubblici ma la nostra riluttanza a varare una nuova ed efficace legge anticorruzione, e che anche da questo nostro ritardo sono frenati gli investimenti esteri in Italia, significa che tutto il mondo ci sta mandando il messaggio che la corruzione è ormai oltre il livello di guardia.
E mentre il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio lanciano messaggi che si echeggiano l´uno con l´altro, le cronache registrano sempre nuovi casi di corruzione - o di indagini per corruzione - , quasi a dimostrare che le voci delle istituzioni non rimbalzano nel vuoto, ma registrano una realtà fin troppo piena di scandali, troppo folta di sospetti, straripante di illegalità. Fatta salva la presunzione d´innocenza, e le necessarie distinzioni fra le diverse gravità dei fatti e fra i diversi stili di amministrazione nelle diverse regioni d´Italia, è quasi inevitabile che all´opinione pubblica appaiano omologate le pratiche di governo locale della Lombardia e della Puglia, dell´Emilia e della Liguria (solo per parlare delle realtà locali che in questi ultimi giorni sono giunte a contendere l´onore delle cronache ad altri scandali di livello nazionale, come quello dei fondi della Margherita). E che il pesce e le cozze si confondano, in un unico calderone, con ogni altro, e ben più grave, malaffare.
Un´omologazione fatale, che non può non accrescere - semmai ce ne fosse bisogno - la delegittimazione dei partiti, e della politica in generale; e che dimostra ad abundantiam che la corruzione è un cattivo affare sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista civile. Che, insomma, distrugge capitali d´investimento, ma anche e soprattutto quel capitale sociale e civile di fiducia reciproca fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, che è il patrimonio più prezioso di una democrazia e in generale delle forme politiche moderne. La cui essenza è l´impersonalità e l´imparzialità del comando legislativo e degli atti amministrativi, e il cui fine è sottrarre la vita civile all´arbitrio, all´ingiustizia, alla partigianeria, al favoritismo, e fondarla sulla prevedibilità del potere, frenato dalla legge, e sull´uguaglianza dei cittadini nella sfera pubblica. La corruzione - in quanto è appunto il prevalere delle ragioni private su quelle pubbliche, la vittoria della famiglia sulla polis, della disuguaglianza sull´uguaglianza, del vantaggio di pochi sulla pubblica utilità - di fatto riporta la politica a una logica di scambi personali, di fedeltà private, di lealtà tribali, che sono la negazione del "pubblico". Che può ben prevedere il compromesso alla luce del sole, la trasparenza delle transazioni tra forze politiche differenti, all´interno del quadro della legalità, ma non certo l´oscuro lavorio di mercificazione della politica, di svendita sottobanco della democrazia, in cui, alla fine, consiste la corruzione.
Il cui esito, se non viene contrastata pubblicamente ed efficacemente, e sanzionata in forza di legge - di una legge che non contenga sotterfugi e regali in extremis a favore di chi ha già goduto di fin troppe leggi ad personam - , non può essere altro che la distruzione della fiducia nella politica. Un "liberi tutti" permanente, una frammentazione privatistica della vita associata, che segnerebbe, in realtà, la fine della fiducia degli italiani in se stessi. E il trionfo di una sorta di legge della giungla, divenuta la costituzione materiale di un popolo, trasformato in un insieme di cricche, che si autogiustifica con un comodo "così fan tutti", e che, magari, crede di salvarsi l´anima con l´invettiva antipolitica, con lo sdegno a man salva - le reazioni dell´opinione pubblica a Tangentopoli, e il successivo passaggio della maggioranza degli italiani nelle schiere di Berlusconi sono un esempio non fuori luogo di queste dinamiche - .
Chi si pone il problema del dopo-Monti, del ritorno alla fisiologia di una politica che veda come protagonisti i partiti, deve anche porsi - e porre con forza - il problema della loro ri-legittimazione. E dovrà anche fare della legge anti-corruzione il banco di prova di un´autentica volontà di riscossa democratica - non populista né qualunquista - contro il degrado indecente della nostra vita civile. "Qui c´è Rodi, qui salta": un popolo di donne e di uomini liberi sa che il proprio sviluppo passa attraverso un nuovo costume, e lo esige da se stesso ma anche, e prima di tutto, da chi lo vuole rappresentare e amministrare.
Corriere della Sera 18.3.12
I conti alla rinfusa e opachi dei partiti
di Sergio Rizzo
Trasparenza e controlli: zero. La lezione che impartisce la penosa vicenda dei rimborsi elettorali assegnati alla Margherita e finiti ancora non si sa esattamente dove, eccola. Per troppo tempo si è fatto finta di non vedere che i bilanci dei nostri partiti non rispondono a nessuno dei requisiti cui dovrebbe sottostare chiunque maneggi denaro pubblico. Verifiche esclusivamente formali, ipocrisie procedurali, opacità spesso garantita. Con l'aggravante che tutto questo è consentito da una legge dello Stato, approvata alla fine degli anni 90, alla quale è allegato persino un modello contenente le voci da compilare. Entrate, uscite, debiti, crediti, proprietà…
C'è proprio tutto. Ma i controlli? Il solo Partito democratico, dai tempi della segreteria di Walter Veltroni, affida volontariamente l'esame dei propri conti a una primaria società di revisione. Mentre il Fli di Gianfranco Fini ha recentemente introdotto questa disposizione nel suo statuto.
Nessun altro partito fa certificare il bilancio: semplicemente perché la legge non li obbliga a farlo.
Ai controlli ci pensa un collegio sindacale interno. Il quale è composto normalmente da fedelissimi della segreteria politica e dal tesoriere, che è il vero dominus delle finanze del partito. Tutto in famiglia, insomma, al riparo da occhi indiscreti. Dissociarsi da questa linea, come aveva fatto il Pd ai tempi di Veltroni coinvolgendo qualche controllore esterno, è un atto anch'esso volontario. La legge non prescrive assolutamente nulla circa l'indipendenza dei sindaci.
Vero è che i bilanci devono essere presentati al Parlamento, dove c'è un apposito comitato che ha l'incarico di esaminarli. Si tratta però di una presa d'atto squisitamente formale. Il comitato si limita a verificare che il documento contabile sia stato compilato correttamente, secondo il famoso modulo allegato a quella legge approvata alla fine degli anni 90. Altro non può fare.
Di più. Nonostante i partiti siano finanziati con una valanga di contributi pubblici, la Corte dei conti non ha alcuna possibilità di metterci il becco. L'unico compito che le è affidato è quello di esaminare i rendiconti delle spese elettorali. Senza però alcun potere sanzionatorio: i magistrati si devono limitare a segnalare al Parlamento eventuali irregolarità. La legge impone poi che i bilanci siano resi pubblici. E ci mancherebbe altro. Finiscono sulla Gazzetta Ufficiale e su qualche giornale. Nessuna norma, però, stabilisce che i conti dei partiti debbano essere accessibili pure su Internet. Con il risultato che talvolta si è costretti a una specie di caccia al tesoro per rintracciarli. La forma, come sempre, è salva. La sostanza molto meno.
Si potrebbe continuare ricordando che con un decreto «mille proroghe», varato poche settimane prima delle elezioni politiche del 2006, è stata portata a 50.000 euro la soglia al di sotto della quale un contributo privato a un partito può restare comodamente anonimo. Ma già ce ne sarebbe abbastanza per pretendere che la legge sui bilanci delle organizzazioni politiche venga cambiata con la velocità del fulmine, introducendo controlli reali su come i nostri soldi vengono spesi. In Parlamento ci sono già delle proposte in tal senso. Perché non si tolgono dai cassetti e non vengono immediatamente discusse? La fiducia nei partiti da parte dei cittadini è già ai minimi storici: la maleodorante storia dei soldi della Margherita può essere una mazzata letale.
il Riformista Ragioni 18.3.12
La sagra del non detto (e del non pensato) nella sinistra italiana
di Alberto Benzoni
qui
Corriere della Sera 18.3.12
«Riformista, serve un miracolo. Un aiuto dal Pd? Ma ci detesta»
di Monica Guerzoni
ROMA — «E dove sarebbe il comportamento antisindacale? Non ho più la libertà di scrivere? Se non mi dimetto è solo per non mettere in difficoltà Il Riformista, semmai qualcuno dovesse farsi avanti». Le parole di Emanuele Macaluso al Corriere grondano amarezza quanto quelle dell'ultimo editoriale, dal mesto titolo «Commiato ai lettori». Ha guidato la Cgil, animato con Napolitano la corrente migliorista del Pci, militato in Parlamento per quasi sei lustri e fra tre giorni compirà 88 anni, ma non ha perso la grinta di un tempo. La redazione lo accusa e lui reagisce, medita querele, sfoga tutto il suo rammarico contro il pupillo di un tempo, Alessandro De Angelis, alla testa del sindacato: «In una famiglia c'è sempre una pecora nera, ma lui guida il comitato di redazione e quel che dice è una forma di sfiducia». L'Associazione stampa romana gli ha suggerito di «tenere un comportamento più consono alla sua storia e alle regole di un civile confronto sindacale» e Macaluso ribatte: «Perché non difendono piuttosto la mia storia e la mia dignità? De Angelis ha detto che sono come Marchionne, che i conti sono taroccati e che voglio vendere il giornale. Cose inaudite, roba da andare davanti al giudice. Mai i nemici politici, che pure ho combattuto, mi hanno mancato di rispetto in questo modo». Tra i suoi «bravissimi giornalisti» non si sente più a casa, convinto com'è che se non sfiduciano il loro rappresentante è perché ne condividono i giudizi. Ammette che «solo un miracolo» può salvare il foglio arancione — nell'era dei tecnici e della «deriva giustizialista di un pezzo della sinistra» — però non ci sta a passare per colui che ha assestato al Riformista il colpo di grazia: «Per noi la strada è sempre stata in salita. Sui temi di libertà cari al riformismo di ispirazione europea c'è resistenza nel Paese e nel Pd, lo spazio è limitato ma bisognerebbe non abbandonarlo». Dunque non è vero che è lei a voler chiudere? «Stupidaggini. Non potrei farlo, la testata non l'abbiamo noi. Nel maggio 2011 Il Riformista era morto e io gli ho allungato la vita». Se sparirà dalle edicole non sarà per colpa del suo ultimo direttore, assicura, ma per «la riduzione del contributo pubblico» e per le «inadempienze contrattuali» dei vecchi proprietari: «I signori Angelucci non riuscirono a vendere il giornale e noi abbiamo fatto un tentativo, un contratto per un anno. Ma loro non hanno versato i contributi promessi e li porteremo in tribunale. Senza un intervento esterno non possiamo farcela, una cooperativa non può indebitarsi ogni giorno di più». Perché non chiedete aiuto al Pd? «Lei scherza... Ci vedono come il fumo negli occhi!».
Corriere della Sera 18.3.12
su Il Manifesto: «Cara sinistra, si torni a Marx»
«A sinistra va di moda l'ideologia dell'oltrismo. E se tornassimo a Marx
e Keynes?». A proporlo, ieri sul manifesto, Alberto Burgio e Alfonso Gianni.
l’Unità 18.3.12
Sul barcone partito dalle coste libiche salvati altri duecento migranti, alcuni sono molto gravi
Altri gommoni puntano verso l’isola siciliana. Nuovo scontro tra Italia e Malta sui soccorsi
Tornano gli sbarchi: cinque migranti morti 300 i soccorsi in mare
Un gommone a 85 miglia da Lampedusa: a bordo 5 vittime. Erano partiti dalla Libia. Tratti in salvo gli altri 52 passeggeri. In tutto, oltre 200 le persone soccorse in mare e portate a Lampedusa. Riprendono gli sbarchi
di Mariagrazia Gerina
Non era finita. Lo sapevano bene i lampedusani. Lo avevano detto l’Unhcr, Medici Senza Frontiere, Save the Children, che con la bella stagione, come ogni anno, i viaggi sulle carrette del mare attraverso il canale di Sicilia sarebbero ripresi. Con il loro carico di viaggiatori stremati da soccorrere. E di cadaveri.
Ieri, così è stato. Cinque morti, stipati tra i vivi su un primo barcone avvistato all’alba, più di duecento migranti soccorsi in mare, tre carrette avvistate e un motopesca con a bordo 70 passeggeri saltati su da un barcone alla deriva in acque tunisine e il braccio di ferro che ricomincia con Malta. Il bilancio, provvisorio, a sera, è quello di un’altra giornata di passione scandita da soccorsi senza sosta e lutti in mezzo al Mediterraneo. E poco importa se da settembre scorso il centro d’accoglienza sia chiuso e Lampedusa sia stata dichiarata «porto insicuro» dopo l’ultima sommossa di migranti “dimenticati” sull’isola. L’emergenza, come dimostra la giornata di ieri, passa sempre di lì. E di quell’avamposto naturale la macchina dei soccorsi non può fare a meno.
Sono le quattro del mattino quando dal porto di Lampedusa la Guardia Costiera parte in soccorso del primo barcone, fermo 79 miglia più a sud, in acque ancora libiche. Parecchie ore dopo, sul molo Favaloro, cinque bare raccontano che la tragedia è ricominciata. Quattro uomini e una donna non ce l’hanno fatta ad arrivare vivi su quel barcone dall’altra parte del Mediterraneo. Gli altri ci sono arrivati tremanti, disidratati, ustionati dal carburante che, misto all’acqua di mare, dentro lo scafo inzuppa tutto, anche i vestiti. Nell’ambulatorio lampedusano ricevono le prime cure. Una donna, incinta, è grave e viene trasferita all’ospedale Civico di Palermo in elicottero. Insieme ad altri tre uomini e un ragazzino di 15 anni, ustionati e disidratati.
Hanno rischiato di finire tutti sul fondo del mare. La Guardia Costiera quando li ha raggiunti si è trovata davanti uno scafo verde di una decina di metri con gli anelli di poppa sgonfi e il motore guasto che stava per affondare con a bordo il suo carico di 57 passeggeri, 5 già morti.
Un pattugliatore delle Guardia di Finanza ha tratto in salvo i primi 19, quelli in condizioni più critiche. E li ha portati a Lampedusa. Gli altri 32 li ha presi a bordo la vedetta della Guardia Costiera. Direzione, sempre Lampedusa. Mentre in mare vengono soccorsi altre due imbarcazioni dirette verso la maggiore delle Pelagie: 107 persone tratte in salvo da un rimorchiatore e a114 soccorse in acque maltesi dalla Capitaneria di Porto, dopo che Malta, avvertita, non ha dato risposte.
L’ALLARME DELL’UNHCR
«Fino a quando ci saranno situazioni di tensione in aree non lontane, come il Corno d'Africa, le persone continueranno a scappare, dobbiamo essere pronti a ogni evenienza», ripete, ancora una volta, Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr. Ed essere pronti spiega molto chiaramente significa che «il centro di primo soccorso e transito deve essere di nuovo messo in grado di funzionare» e che Lampedusa deve tornare a essere «porto sicuro, come è stato fino a qualche mese fa». Altrimenti - insiste Boldrini «si creano troppi problemi a chi opera in mare».
E invece dal giorno in cui l’incendio è divampato nel centro di Contrada Imbriacola tutto è fermo. La risposta dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni fu dichiarare Lampedusa «porto non sicuro» perché sprovvisto di un centro di accoglienza. Due settimane fa, il nuovo titolare del Viminale, Anna Maria Cancellieri, durante un sopralluogo deciso in vista dei nuovi sbarchi, ha promesso che presto inizieranno i lavori per ripristinare la funzionalità del centro. Bisognerà riparare il padiglione andato distrutto e l’altro pesantemente danneggiato. Ma ne restano altri due che potrebbero essere riaperti anche in breve tempo.
Fare in fretta, è quello che chiedono i lampedusani. «Nessuno vuole che Lampedusa torni a essere un carcere a cielo aperto come un anno fa», spiega Peppino Palmieri, consigliere comunale del Pd.
Intanto i migranti che vengono soccorsi vengo portati nel villaggio turistico di Cala Creta. «È importante però che in brevissimo tempo vengano trasferiti in Sicilia o in altri centri, altrimenti non ci sarà posto per ospitare nuovi arrivi», avverte Giusy Nicolini, di Legambiente: «L’altro giorno guardavamo estasiati le balene vicinissime alla costa, ora contiamo i morti».
il Fatto 18.3.12
La vera emergenza sono i nomadi
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, uno dei peggiori eventi del nuovo razzismo italiano è la cosiddetta “emergenza nomadi”. È una delle squallide leggi lasciate dal leghista Maroni per conto della Padania (che è più il nome di una malattia mentale che di una regione che non esiste). Ma il “pacchetto sicurezza” (ovvero persecuzione di Stato contro le minoranze) esiste ancora?
Davide
È LA STESSA domanda che il 7 marzo scorso la deputata radicale Rita Bernardini ha presentato alla Camera rivolgendosi al ministro dell'Interno Cancellieri. Ha detto la Bernardini: “Ci riferiamo, signor ministro, alle discriminazioni per legge, in nome dell'emergenza a cui sono state e sembrano tuttora sottoposte le minoranze rom e sinti. Una vera e propria schedatura di massa realizzata su base etnica. Una sentenza del Consiglio di Stato del novembre 2011 ha annullato lo stato di emergenza che può essere dichiarato solo in presenza di calamità o catastrofi”. Il ministro ha risposto come si risponde nel Paese civile che l'Italia è tornata a essere dopo Maroni: “Il governo ha approvato il piano di una strategia complessiva relativa a rom, sinti e camminanti volta a favorire politiche inclusive di integrazione con particolare rispetto ai diritti fondamentali della persona”. Non sembra vero per chi ricorda il ministro dell'Interno padano penetrato nella nemica Repubblica italiana proclamare come un vanto: “Saremo cattivi” tra gli applausi di tutta (tutta) la destra. Infatti la Bernardini ha potuto aggiungere, nella replica: “Mi chiedo che fine abbiano fatto le enormi quantità di schedature con impronte digitali, fotografie, foto di gruppo anche di bambini che ora giacciono negli archivi delle questure d'Italia”. E ha ricordato che c'è una proposta di legge per il riconoscimento delle minoranze rom e sinti, riconoscimento che ne cambierebbe lo status giuridico e avrebbe impedito l'arbitrio violento della Lega. Ma come non ricordare che, in questi stessi giorni, è appena stato pubblicato “Rom, genti libere, storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto” (Dalai Editore). Ne è autore Santino Spinelli, noto musicista e compositore (con il nome d’arte “Alexian”) che insegna Storia e cultura rom all'Università di Chieti. Con questo libro la cultura rom entra nelle biblioteche universitarie. Sbugiarderà e svergognerà la Lega e i suoi leader.
l’Unità 18.3.12
Dopo 8 anni sospeso il servizio di assistenza sanitaria ai richiedenti asilo
San Giovanni-Addolorata I pazienti sotto cura abbandonati a se stessi
A Roma chiude l’ambulatorio che cura le vittime di tortura
Dal primo marzo, senza preavviso, è stata chiusa la struttura medica che dava assistenza ai richiedenti asilo vittime delle torture. Una piccola «enclave umanitaria» dissolta nel nulla. E i pazienti non sanno dove andare
di Ma.Ge.
ROMA L’Italia dovrebbe prendersi cura di loro. C’è scritto così nella direttiva 9 del 2003 sulle “misure minime” in materia di accoglienza dei richiedenti asilo: «Gli Stati membri provvedono affinché, se necessario, le persone che hanno subito torture, stupri o altri atti di violenza ricevano il necessario trattamento per i danni provocati dagli atti sopra menzionati». Vedi alla voce: diritti umani. Eppure i pazienti dell’ambulatorio per le vittime di tortura del San Giovanni Addolorata di Roma attivo dal 2004 proprio per adempiere a quell’obbligo, da un giorno all’altro si sono ritrovati senza più assistenza.
Dal primo marzo, senza alcun preavviso, quella piccola preziosa “enclave umanitaria” creata per garantire assistenza specialistica ai tanti richiedenti asilo che arrivano in Italia portando ancora sul corpo e nella mente l’orrore subito nel paese d’origine, ha chiuso i battenti. Così da un giorno all’altro. La direzione generale del San Giovanni ha deciso semplicemente che non serviva più. Senza considerare neppure che nel frattempo quell’ambulatorio era diventato un punto di riferimento nazionale, capofila degli altri Centri pubblici specializzati sorti nel frattempo nel resto d’Italia, nell’ambito del progetto Nirast, Network Italiano per i Richiedenti Asilo Sopravvissuti a Tortura. Una rete promossa dall’Unhcr e dal Cir. E dal ministero dell’Interno, che con il San Giovanni aveva anche stipulato una convenzione, 30mila euro l’anno, a sostegno delle sole attività di coordinamento nazionale.
Poi da ottobre quel finanziamento è stato tagliato. E la direzione ha preso la palla al balzo. Anche se quel taglio non c’entrava nulla con le prestazioni mediche effettuate nell’ambulatorio, da sempre a carico del Sistema sanitario nazionale, Da un giorno all’altro ha chiuso quel piccolo centro d’eccellenza, che, messo su con pochissimi mezzi (un solo medico ospedaliero, un paio di tirocinanti, due psicologhe a progetto, pagate dal progetto Nirast), in otto anni ha assistituo più di 110 vittime di tortura. Senza concedere neppure il preavviso a chi in quella piccola struttura d’avanguardia aveva trovato per la prima volta le cure di cui aveva bisogno.
Pazienti già seguiti da tempo. E più di 200 approdati al San Giovanni solo da pochi mesi. Come Brunelle, la chiameremo così. Una donna congolese che nel suo paese è stata violentata davanti ai figli e ha visto uccidere il suo bambino più piccolo. O come Adam, nome di fantasia anche in questo caso. Un ragazzino di 17 anni, arrivato da solo dall’Afghanistan. «In pochi mesi, dall’arrivo in Italia, aveva perso 15 chili: anoressia post-traumatica», racconta il professor Massimo Germani, il medico che otto anni fa ha deciso di aprire questo piccolo presidio umanitario. Anche Adam alla quarta visita ha trovato la porta sbarrata.
Non c’è stato verso finora di far cambiare idea alla direzione generale. «Neppure la richiesta di riaprire l’ambulatorio il tempo necessario per indirizzare i pazienti verso altre strutture ha trovato risposta», racconta Germani, che adesso si è rivolto alla Regione Lazio perché riconosca l’ambulatorio del San Giovanni come centro d’eccellenza e con una delibera gli restituisca un futuro. E alla stessa Regione si sono già rivolti lo stesso Unhcr, il Cir e le associazioni impegnate nella cura dei richiedenti asilo per chiedere che quella chiusura così crudele e incomprensibile sia subito revocata.
La Stampa 18.3.12
«Almeno 10 casi negli Anni ’50»
Olanda, “Bimbi castrati negli ospedali cattolici”
Era la punizione per chi denunciava gli abusi o per una «tendenza gay»
di P. Dm.
AMSTERDAM Negli Anni 50 una decina di bambini vennero castrati negli ospedali psichiatrici cattolici in Olanda per «comportamento omosessuale» o come castigo per aver denunciato abusi in ambienti ecclesiastici. Lo rivela il quotidiano di Rotterdam Nrc Handelsblad, precisando di aver raccolto prove di carattere medico e giudiziario, ma anche lettere di avvocati e corrispondenza privata. Prove presentate nel 2010 anche alla Commissione Deetman, incaricata dal governo di indagare su eventuali abusi sessuali commessi da parte di esponenti della Chiesa cattolica, che però nel suo rapporto finale non ha menzionato la castrazione delle vittime di abusi. Fonti della Commissione hanno dichiarato che c’erano «troppi pochi indizi». Secondo il rapporto, tra i 10 e i 20 mila minori furono vittime di abusi dal 1945.
La Stampa 18.3.12
Russia. Le radici del potere
Nella Russia di zar Putin la corruzione inizia a scuola
Le tangenti sono ovunque. Il leader non decide tutto, il suo potere non può fermare tangenti richieste ormai perfino a scuola
Più che una nuova Urss autoritaria è un sistema di clan avidi e incontrollabili
di Federico Varese
Una manifestante dell’opposizione a Mosca mostra la foto di Vladimir Putin che piange commosso dopo la vittoria elettorale
Il criminologo di Oxford Ferrarese, 46 anni, Federico Varese insegna criminologia a Oxford. Il suo libro «Mafie in movimento» (Einaudi) per Saviano è «opera di un maestro nell’esplorare le mafie»
La nascita della protesta Le manifestazioni contro Putin hanno spaventato il regime
Il sostegno al Cremlino I comizi a favore del premier erano, secondo molti, pagati
Chi governa la Russia oggi? Molti osservatori descrivono il Paese come un regime autoritario di stampo sovietico che si proietta sulla scena mondiale sicuro di sé. La Russia che Putin si trova a governare è in realtà un sistema politico fragile, fatto di centri di potere autonomi che non rispondono in maniera meccanica agli ordini del centro.
La tesi del ritorno all’Urss è diffusa. L’ultimo capitolo dello straordinario «Putin. L’uomo senza volto» di Masha Gessen si intitola «Back to the Ussr», come la canzone dei Beatles. Il coraggioso corrispondente del Guardian Luke Harding, espulso da Mosca nel 2011, ricorda nel suo «Mafia State» che è la prima volta dalla fine della guerra fredda che un rappresentante della stampa viene costretto a lasciare il Paese. E aggiunge: «Otto decadi dopo, nulla è cambiato», la Russia «è diventata il principale Stato-spia al mondo». Anche gli oppositori del regime tendono a ingigantire il ruolo dell’attuale primo ministro e futuro Presidente. Valter Litvinienko, il padre della spia russa uccisa a Londra nel 2006, pensa che la Russia sia un «sistema verticale», con in cima Putin, il quale ha ordinato la morte del figlio. La vittoria di Putin alle elezioni di marzo dimostrerebbe che l’ex funzionario del Kgb è, nonostante tutto, in grado di controllare la macchina statale. Convinte da questa tesi, le cancellerie occidentali sono rassegnate a convivere con l’uomo forte del Cremlino per i prossimi sei anni.
Questa interpretazione è errata. Una conferma indiretta me la suggerisce una mia vecchia conoscenza, un imprenditore che ho conosciuto negli Anni 90 mentre raccoglievo il materiale per un libro sulla mafia russa nella città di Perm’. Oggi ha messo su famiglia, lavora in banca e non paga più il pizzo alla banda di criminali di un tempo. Ha due figli che frequentano la scuola statale. «Ho visto molta corruzione nella mia vita, ma mai come nel settore scolastico», dice Mikhail. «Tutti gli anni, la direzione chiede ai genitori un contributo di diecimila rubli (circa 260 euro), e non ci è dato sapere dove finiscono questi soldi. Inoltre esiste un fondo statale che invece di essere usato per spese correnti finisce nelle tasche degli insegnati». Ma non è tutto: «Oltre l’obolo annuale, ogni insegnante pretende durante l’anno contributi aggiuntivi. Neppure il preside riesce a controllare le richieste dei suoi dipendenti».
Non sorprende che il denaro regni sovrano tra i banchi delle scuole. Uno dei personaggi più popolari del programma satirico «Nasha Russia» è Snezhana Denisovna, maestra di una scuola di provincia. Il suo sketch consiste nell’inventarsi modi sempre più improbabili per estorcere denaro a genitori e ragazzi. In un episodio, fa vestire gli studenti con degli stracci e li porta a chiedere l’elemosina per strada; in un altro li costringe a giocarsi i soldi della merenda. Il pubblico ride amaro. Sorprende però che la corruzione sia così capillare anche in un settore che tocca la vita quotidiana di milioni di genitori.
L’aumento dei centri di riscossione delle tangenti fa aumentare la corruzione totale. Non a caso ogni anno la Russia perde posizioni nella graduatoria dei Paesi onesti stilata da Transparency International: nel 2011 era al 143esimo posto su 182, a pari merito con la Nigeria, un altro Stato dove la corruzione è endemica e decentralizzata. Anche il sistema giudiziario è in vendita: secondo una stima citata da Masha Gessen, circa il 15% della popolazione carceraria è composta da uomini d’affari che sono stati incastrati da partner invidiosi o avversari. La protezione mafiosa è fornita oggi da frammenti degli apparati statali: il padrone di un casinò illegale, Ivan Nazarov, ha confessato nel 2011 di aver pagato quasi l’80% dei suoi profitti a magistrati e poliziotti per ottenere la «krysha» («tetto»). Grazie a questa protezione, nessun gangster ha osato interferire nei suoi affari.
Venuto meno il collante del partito comunista, si sono formati poteri autonomi in competizione tra di loro, frammenti di uno Stato defunto. Gli imbalsamatori di Lenin lavorano per i nuovi oligarchi e i mafiosi, i manicomi dell’ex Urss sono pieni di anziani sloggiati senza troppe cerimonie dai loro appartamenti in centro, Gazprom, l’ex ministero delle risorse energetiche, detta la politica energetica al governo. «Il sistema si regge sull'impunità di un esercito di burocrati che hanno la licenza di rubare e chiedere tangenti», ha dichiarato il direttore del Moscow Times a Luke Harding. Putin non è in grado di interrompere il fiume delle tangenti più di quanto non sia in grado di intimare all’insegnante di Perm’ di anteporre il benessere degli studenti alla propria cupidigia.
Non ha dunque senso ascrivere a Putin tutte le decisioni, come l’espulsione del giornalista inglese o l’omicidio di Litvinenko. Allo stesso tempo, non è merito di Putin se fino ad ora le proteste dell’opposizione democratica non sono finite nel sangue. Chi conosce le segrete stanze del Cremlino racconta un’atmosfera di panico, di rabbia estrema e pericolosa. La distruzione sistematica delle istituzioni rappresentative e la loro sostituzione con macchine mangia-soldi non hanno reso il sistema più stabile, e non assicurano ai principali esponenti del regime una pensione dorata in Svizzera. Anche per questo Putin doveva ricandidarsi: per proteggere se stesso.
Ma l’autonomia dei centri di potere rende possibile anche atti di resistenza concreta. Ad esempio, molti giudici, dandosi malati, non compaiono a confermare il fermo dei manifestanti. Il Primo Canale della TV di Stato ha cominciato a dar voce all’opposizione. Quando la maestra Snezhana Denisovna si ritroverà in piazza a manifestare contro se stessa, la parabola della spia di Leningrado sarà davvero finita.
Repubblica 18.3.12
La rivoluzione russa che non ci sarà
di Emmanuel Carrère
Psicoanalisti di boss mafiosi, finti manifestanti di regime, dissidenti che vanno in vacanza in Messico, intellettuali vip Un grande scrittore spiega perché con le ultime elezioni la Russia ha avuto paura di far cadere Putin E perché le voci da ascoltare, come racconta nel suo ultimo libro, sono quelle del vecchio Limonov e del giovane Prilepin
Potete spostarvi, potete dire quello che volete, guadagnare soldi, rubarli, ma non potete dire la vostra sulla direzione del Paese: non è faccenda che vi riguardi
Mosca. Verso la metà degli anni Novanta Alex voleva fare lo psicoanalista, professione ancora ai primi passi in Russia: la sua carriera ebbe una svolta inattesa quando il parafango della sua scalcinata autovettura urtò quello di una Mercedes con i vetri oscurati. I due scimmioni usciti dall´auto gli fecero capire senza mezzi termini che quella scalfittura gli sarebbe costata cara. Non avendo lui di che pagare, i due lo caricarono in macchina e se lo portarono dietro. Credendo che fosse arrivata la sua ora, Alex cercò non di parlare lui ma, più abilmente, di far parlare loro. Non mi sa dire come ci riuscì, fatto sta che nel giro di mezz´ora uno dei due aveva cominciato a raccontargli ricordi crudeli dell´infanzia e piangeva a calde lacrime. La faccenda risalì fino al capo, un mastodontico mafioso uzbeko. Diversi suoi amici erano stati mandati al creatore recentemente e lui cominciava a prendere coscienza della precarietà della vita: era in preda a una specie di depressione. È così che Alex, come nella serie televisiva I Soprano, è diventato uno psicoanalista per mafiosi.
Racconto questa storia, già parecchio datata, perché è dall´alto di questa competenza che Alex mi ha dato il suo parere su quello che ci si poteva aspettare dalle elezioni di marzo. Niente. Niente perché la politica (è Alex che parla) in Russia non ha nessuna importanza: qui il vero potere è nelle mani delle mafie, che si comportano come degli azionisti che il giorno in cui l´amministratore delegato cesserà di essere popolare troveranno senza problemi qualcuno di più presentabile per sostituirlo, all´apparenza un po´ più democratico. Il problema quindi non è Putin: se il malcontento persisterà, sarà cacciato in favore di un altro uomo di facciata, e tutto continuerà come prima. Potete viaggiare, dire quello che volete, guadagnare soldi, rubarli, ma non potete dire la vostra sulla direzione del Paese: non è faccenda che vi riguardi. Perché questo stato di cose cambi ci vorrebbe una rivoluzione autentica, cosa che nessuno si sogna di fare. Ecco perché anche Alex, che pure era stato uno degli eroi sulle barricate nel 1991, oggi non ha la minima voglia di andare a manifestare accanto a questi vip pieni di sé, gli Akunin, le Ulickaja, i Bykov, i Parchomenko, che piacciono tanto ai commentatori francesi e ai quali ben si attaglierebbe, se non fosse già presa, l´etichetta di gauche caviar: lui, la domenica, preferisce andare a giocare a tennis.
Era il primo giorno del mio soggiorno in Russia e subito dopo aver incontrato Alex sono andato a far visita a Eduard Limonov. Dovevamo festeggiare il successo del libro che ho scritto su di lui, e poi è sempre interessante ascoltarlo, perché è uno che parla senza peli sulla lingua. La differenza tra Limonov e Alex è che lui sogna sempre la rivoluzione e Alex non la sogna affatto, ma concordano nel loro disprezzo per quelli che Limonov chiama i «leader borghesi». Dice che in autunno, dopo lo scambio di poltrone fra Putin e Medvedev e dopo quelle elezioni legislative così spudoratamente truccate, c´è stata una vera indignazione popolare, ma che quella indignazione è stata riassorbita, indebolita, svuotata da quella banda di intellettuali che si è messa a manifestare non appena è stato chiaro che non si correva più alcun pericolo, e a cui poco dopo si sono uniti vari politici opportunisti; e tutti, come un sol uomo, dal 24 dicembre al 4 febbraio se ne sono andati in vacanza: il blogger Navalny in Messico, gli altri al mare.
Non si può fare a meno di scorgere, nelle parole di Limonov, l´amarezza del pioniere che era l´unico a fare una cosa quando per farla ci voleva coraggio, quando c´era davvero il rischio di finire dentro, e non per qualche ora ma per anni interi, e che ora se la vede trafugare da persone che a farla rischiano ben poco. Ma osserva anche che due mesi fa tutti erano convinti che lui fosse fuori strada, mentre ora in tanti gli danno ragione: c´è stata una vera occasione, non di fare una rivoluzione, ma di agire con efficacia, un´occasione di influire sul potere e ottenere le riforme autentiche che venivano rivendicate - riforma elettorale, liberazione dei prigionieri politici - e l´opposizione non ha saputo coglierla. Uno spiraglio si è aperto per richiudersi subito dopo, e tutto è tornato come prima. Lo sentirò dire spesso.
Le manifestazioni in auto sono una specificità russa. Per una ragione evidente, e cioè che in macchina fa meno freddo che a piedi, ma anche perché il russo medio in macchina ci passa un tempo smisurato, bloccato in ingorghi mostruosi, con le donne che in alcuni casi si provvedono di pannoloni per poter alleviare la vescica. E uno dei segni più indigesti dell´arroganza dei ricchi e potenti è il lampeggiante che mettono sul tetto della loro auto per sottrarsi a questa schiavitù comune. Da due o tre anni, su internet, piovono denunce di queste violazioni del codice della strada da parte di persone che non hanno nessuna ragione valida per essere dotate di un lampeggiante, di vecchietti e bambini che finiscono sotto le ruote di questi macchinoni neri che corrono all´impazzata e i cui guidatori, o i loro datori di lavoro, la passano sempre liscia. Questo è il tema su cui più di tutti si coagula il malcontento popolare, e da quando un certo Shkumatov ha avuto l´idea, in segno di scherno, di incollare sul tetto della sua auto un secchiello azzurro di quelli che i bambini usano in spiaggia, le manifestazioni dette «dei secchielli blu» si sono moltiplicate, e l´opposizione ci si è ispirata.
È così che mi sono ritrovato, trascinato da un amico giornalista, a srotolare lo scotch con le dita intirizzite per fissare uno di questi secchielli sull´auto del deputato di Novosibirsk Ilija, Ponomarev. Probabilmente Limonov pronuncerebbe giudizi sferzanti su questo Ponomarev e lo tratterebbe da utile idiota: appartiene a Spravedlivaja Rossja (Russia giusta), una formazione che in molti considerano un finto partito d´opposizione, strumentalizzato dal Cremlino; ma nessun partito, se è per questo, sfugge a sospetti di questo genere (o meglio, qualcuno sì: i comunisti di Zyuganov, ad esempio, ma anche se l´idea è di rompere le scatole a Putin a qualunque prezzo, bisogna avere parecchio pelo sullo stomaco per votare comunista in Russia). Ponomarev, in ogni caso, ha una bella faccia, è un uomo giovane, gioviale, caloroso ed è stato piacevole, stipati in cinque o sei nella sua auto, girare lungo la circonvallazione interna di Mosca suonando il clacson e abbassando i finestrini, sfidando il freddo, per scambiarsi gesti calorosi con gli occupanti di altre macchine equipaggiate con un secchiello azzurro come la nostra o con quei nastri bianchi che sono diventati il simbolo dell´opposizione a Putin (il quale ha finto di scambiarli per dei preservativi). Sembrava un matrimonio: persone di tutte le età erano appostate sul marciapiede per applaudire il passaggio delle automobili infiocchettate. Qualcuno, sprovvisto di nastri, agitava dei palloni o delle buste di plastica, l´essenziale era che fossero bianchi. In questo ambiente da festa della maturità, Ponomarev telefonava in continuazione per cercare di sapere quanti eravamo. Tremila macchine secondo gli organizzatori, trecento secondo la polizia: questa divergenza di cifre è un classico, ma per amore di verità bisogna dire che dall´interno di una di queste auto era impossibile riuscire a farsi un´idea anche vaga del successo della manifestazione, e comunque tremila macchine su una grande arteria di scorrimento non sono un corteo granché nutrito. Le cifre sui manifestanti sono la posta in gioco di un´escalation senza fine: ogni volta che l´opposizione si vanta di aver portato in piazza, poniamo, diecimila persone, il partito di Putin, Russia unita, si farà un punto d´onore di radunarne centomila un´ora dopo.
Un´altra posta in gioco sono le autorizzazioni per le manifestazioni: bisogna dire quante persone sono previste e quale tragitto si intende percorrere; sono tutte cose che si negoziano con il potere e quelli, come l´ex ministro di Eltsin, Boris Nemtsov, che hanno fama di essere abili in questi negoziati sono immediatamente sospettati di compromesso, se non addirittura di tradimento. È uno dei grandi rimproveri che gli muove Limonov: invece di correre il rischio di scontri di piazza manifestando nei pressi del Cremlino, Nemtsov ha lasciato che le manifestazioni si impantanassero in un luogo del tutto privo di rischi per il potere, e che non a caso si chiama Bolotnaja, "la palude".
Durante tutto il mio soggiorno, una delle mie occupazioni principali è stata seguire su internet le voci che annunciavano manifestazioni e contro-manifestazioni quasi quotidiane, e di cui, a dire il vero, pochi sembravano essere informati. La Lega degli elettori (ossia i «leader borghesi» tanto vituperati da Limonov) ha programmato, la domenica precedente il primo turno elettorale, una catena umana lungo la stessa circonvallazione periferica che avevamo percorso in macchina: perché l´iniziativa riuscisse servivano trentaquattromila partecipanti. È stato aperto un sito su internet dove ci si poteva iscrivere segnalando il punto in cui si voleva andare: otto giorni prima dell´evento eravamo a quota milleduecento. Il mio volo di ritorno era prenotato per quella domenica, ho deciso di posticiparlo.
Il complesso Artplay è ricavato da vecchi magazzini trasformati in ristoranti, gallerie d´arte, studi di architettura; tutti gli esponenti più in vista dell´opposizione affollano una mostra che celebra la creatività delle proteste iniziate a dicembre: cartelli, magliette con stemmi, maschere di carnevale, tutte variazioni sul tema "Fuori Putin". Alcuni sono molto divertenti, ma dà da pensare la rapidità con cui questa recentissima cultura della ribellione si trasforma in arte contemporanea, e bisogna ammettere che è proprio questo il problema dell´opposizione moscovita: il suo essere incorreggibilmente modaiola. Sembra di essere al cocktail di inizio anno della rivista Inrockuptibles, in Francia, dove tutti sono giornalisti, artisti, performer, tutti hanno il loro sito o il loro blog, e naturalmente la loro pagina Facebook. Il potere definisce questi giovani «gli hamster [criceti, ndr.] di internet», loro si autodefiniscono gli hipster, cioè gli stilosi (in russo le due parole inglesi si pronunciano gamster e ghipster, perché la "h" aspirata diventa "g" dura). Quando Putin ripete ossessivamente che quelli che manifestano contro di lui sono il partito degli stranieri e sono tutti pagati dalla Cia, ci si accontenta di sorridere, ma non si può fare a meno di considerare la tesi di chi sostiene che rappresentano soltanto un´infima minoranza della popolazione, che non hanno niente a che vedere con la vera Russia. Questa "vera Russia", che nessuno dubita possa vincere anche senza brogli, devo confessare di non averla vista nel corso di questo viaggio. Il fatto è che non conosco nessuno che si fregi di appartenervi ed è troppo triste andare da solo a una manifestazione, soprattutto con questo freddo infame. Le loro manifestazioni però ci sono, e sono imponenti, ma anche in questo caso quello che si vede su internet dà da pensare.
Prendete il grande comizio allo stadio Luzhniki. Centotrentamila persone secondo gli organizzatori e secondo la polizia, per una volta concordi. Dato che l´autorizzazione ufficiale era stata richiesta per centomila persone, la nuova civetteria del potere consiste nel chiedere scusa, con un legalismo finora mai riscontrato, per il superamento imprevisto del numero dichiarato, e pagare l´ammenda relativa: duemila rubli, poco meno di 50 euro. Putin, che pure centellina le sue apparizioni, è venuto di persona. Arringa la folla insistendo appunto sul tema della vera Russia, e della minaccia che rappresentano per essa coloro che non la amano. «Voi amate la Russia?». «Sì!», risponde la folla entusiasta. «Siete pronti a difenderla?». «Sì!». Tutto bello e buono, ma quando, alla fine del comizio, i giornalisti intervistano i partecipanti, molti si sottraggono alle domande con diffidenza, qualcuno ammette che è stato pagato, o ha subìto forti pressioni per venire; e quelli che dicono il contrario lo fanno con uno zelo sospetto, come quel tizio dall´aria tetra che brandisce un cartello con sopra scritto: "Sono venuto di mia volontà". Questa folla sarà anche la vera Russia, ma assomiglia soprattutto all´Unione Sovietica. Allora non si manifestava, si sfilava. Oggi c´è una Russia che continua a sfilare e una Russia che manifesta. Quella che sfila lo fa più o meno strascicando i piedi, quella che manifesta lo fa perché ci crede, perché ne ha voglia, perché è divertente. Poco importa il numero, quindi: la seconda ha già vinto.
È appena uscito in Francia un film intitolato Ritratto al crepuscolo che a mio avviso è il migliore film russo da parecchi anni a questa parte. Considerando che la trama si sviluppa in modo molto inaspettato, per non guastare la visione ai lettori dirò semplicemente che parla di una ragazza della classe media che i suoi amici, quando alzano i bicchieri per brindare al suo compleanno, possono dichiarare realizzata: un marito gentile, che non si ubriaca e che guadagna bene facendo affari, un mestiere interessante, un appartamento in centro. Insomma, tutto le va bene. Fino al giorno in cui degli sbirri di pattuglia la caricano in macchina, la violentano e la lasciano sul bordo della strada e può anche dirsi fortunata di non essere stata pestata. In seguito ritorna sui luoghi dove tutto è successo, individua uno dei suoi stupratori e ci si aspetta che si vendichi, però... Da qui in poi non vi racconto più la trama, andate a vedere il film; una cosa però ve la posso dire: è universale perché è una storia d´amore, ma è anche straordinariamente russa. Rivisita in chiave moderna la vecchia contrapposizione, che attraversa tutto il XIX secolo e tutta la grande letteratura russa, fra occidentalisti e slavofili. Da un lato la borghesia rampante che aspira a vivere, e di fatto vive, come a Parigi o a Londra: i giovani che sono su Facebook e che vediamo tamburellare sulla tastiera dei loro MacBook Pro negli Starbucks delle grandi città. Dall´altra la Russia dei piccoli centri e dei villaggi, arretrata, alcolizzata, brutale, lurida: ma, dicono gli slavofili, è qui che sta l´anima della nazione. L´eroina di Ritratto al crepuscolo incarna la prima Russia, lo sbirro stupratore la seconda, e il film, senza nessun dogmatismo, traccia un cammino accidentato fra l´una e l´altra. In termini politici, la trasposizione sembra scontata: l´emergente classe media deve il suo crescente slancio, il suo crescente benessere e la sua crescente libertà a Putin, ed è la classe media che oggi manifesta contro di lui; le province arretrate, che hanno molte più ragioni per lamentarsi, gli restano invece fedeli.
Ritratto al crepuscolo è stato fatto, con pochissimi soldi e tanto talento, da due giovani donne: Angelina Nikonova, regista, e Olga Dychovishnaja, sceneggiatrice e attrice principale. Le avevo incontrate brevemente a Parigi, e quando sono arrivato a Mosca Olga mi ha invitato a cena a casa sua. Prima sorpresa: casa sua non è un piccolo appartamento, come quelli in cui vive la maggior parte dei russi che conosco, ma una magnifica dacia che si raggiunge passando dalla Rubljovka, la strada che serve i sobborghi più esclusivi della parte ovest di Mosca e che è diventata il simbolo della cultura del «lampeggiante». In queste abitazioni nascoste dietro muri altissimi, protette da milizie private, vivono i ricchi e potenti. Amico lettore che hai visto il film e come me sei rimasto affascinato da Olga non hai motivo di rimanere deluso. A casa sua non c´è nessuna ostentazione, nessuna pacchianeria da nuovi russi. In casa sua, come in lei, tutto è grazia e semplicità. Ma questa grazia e questa semplicità non sono quelle della borghesia rampante che il film ritrae, sono indiscutibilmente quelle dell´élite e mi accorgo improvvisamente che questa élite non è poi cambiata di molto dai tempi dell´Unione Sovietica. Di serate del genere, con invitati squisitamente colti e poliglotti, inframmezzate da brindisi, da sudate nella sauna raggiunta correndo attraversando il giardino innevato e da canzoni esaltate intonate da una bella georgiana che si accompagna con la chitarra, dovevano essercene di esattamente identiche, in posti identici, ai tempi in cui Nikita Mikhalkov non era lo spaventoso despota che è diventato, ma un giovane regista di inebriante carisma e talento. E quando affronto l´argomento della politica, nessuno si tira indietro, al contrario: tutti adorano parlare di politica, e naturalmente tutti sono contro Putin, ma contro Putin come l´élite culturale di quarant´anni fa era contro Breznev. Si parlava male di lui, del regime e dei gulag, ma la verità è che chi apparteneva alla nomenklatura culturale sotto Breznev viveva come un re, faceva i film che voleva e non aveva nessun motivo di desiderare che le cose cambiassero. Allora sì, si può ridere, e ridere di gusto, degli spot elettorali che mostrano "la Russia senza Putin" (file di gente davanti ai negozi vuoti, folle stravolte che si aggirano per strade devastate, guerra civile), ma quando Putin dice, in sostanza, «Il partito degli stranieri ci augura questa cosa meravigliosa, una "primavera araba", ma voi la volete questa "primavera araba"? Volete che la Russia diventi come l´Egitto? O come la Libia?», tutti, tranne qualche illuminato come Limonov, sono costretti a rispondere: «No, non la vogliamo». Sono felicissimi di manifestare, perché è nuovo e divertente avere il diritto di farlo. Sarebbero felicissimi di avere delle elezioni più pulite, perché queste usanze da repubblica delle banane fanno venire da vergognarsi. Sarebbero felicissimi di avere qualcuno più giovane e aperto di Putin, perché il presidente russo è come Rambo: il primo e il secondo ancora si reggevano, ma dal terzo in poi la sensazione netta è della minestra riscaldata. Ma a condizione che tutto avvenga senza traumi, e senza lasciare il certo per l´incerto. Putin parla innanzitutto di stabilità, e la stabilità è un bene prezioso.
I putiniani sono introvabili. Pensavo di incontrarne qualcuno in provincia, nei bastioni della "vera Russia", ma devo ammettere che andare a Nizhnij Novgorod per vedere Zachar Prilepin non era la strategia migliore per scovarli. Prilepin, a nemmeno quarant´anni, è riconosciuto, nel suo Paese e all´estero, come uno dei migliori scrittori russi. Lui non è un prodotto dell´élite moscovita, ma un ragazzotto di provincia che è stato soldato in Cecenia e poi militante del Partito nazional-bolscevico, i crani rasati di Limonov. Lui peraltro ha ancora il cranio rasato, le Doc Martens ai piedi, un paio di begli occhi azzurri e qualcosa di assolutamente commovente nel modo in cui si sforza di conciliare la sua condizione di autore celebrato, invitato nel mondo intero, sollecitato dalla gente che conta, e la sua fedeltà al mondo di amici in cui è cresciuto e su cui continua a scrivere: non il mondo degli hipster, ma il mondo dei giovani proletari abbandonati al bordo della strada. Quando lo incontro ci sono altre tre o quattro persone con lui, tra cui un tizio molto gentile e molto colto, lettore di Alain Badiou e Julius Evola, che per molto tempo ha diretto la radio locale dei nazional-bolscevichi, e un vecchio democratico che è stato in prigione per aver denunciato le estorsioni delle forze armate russe in Cecenia. Prilepin, che di quelle forze armate ha fatto parte e ne ha fatte di cotte e di crude con loro, si ricorda che al ritorno dal fronte considerava il vecchio democratico un traditore e aveva perfino pensato di ucciderlo, ma oggi, quasi quindici anni dopo, sono amici per la pelle e concordano appieno nella loro analisi della situazione politica. C´è un nemico, che si sa che vincerà, e di fronte a lui soltanto dei comprimari impresentabili: l´eterno giullare nazionalista Zhirinovskij (il cui slogan elettorale promette, sobriamente, «Con Zhirinovskij andrà meglio»), il vecchio comunista Zyuganov (slogan ancora più sobrio: «Votate Zyuganov»), il miliardario Prochorov, meno logorato degli altri e il cui programma di riforme a tutto campo sarebbe condivisibile se non ci fosse il dubbio che fingendo di fare opposizione corra in realtà per il Cremlino. Ci sarebbe da scoraggiarsi, soprattutto se per giunta, come Prilepin e i suoi amici, si guarda con diffidenza ai vip che pretendono di rappresentare la società civile: eppure no, loro non sono per niente scoraggiati; sono disincantati, beffardi, ma in fondo ottimisti, ed è l´affascinante lettore di Badiou, ex capo dei nazional-bolscevichi di Nizhnij, che mi fa il discorso più sensato, a mio avviso, fra quelli che ho ascoltato in questo mio soggiorno. «Nessuno in questo Paese», ammette questo rivoluzionario, «vuole sentir parlare di rivoluzione. Nessuno, seriamente, può definire quello che sta succedendo come una rivoluzione. Il maggio ´68 in Francia non era una rivoluzione: erano degli avvenimenti che hanno cambiato la società nel profondo. All´epoca, naturalmente, dopo il maggio del ´68 avete avuto Pompidou al potere, e andava benissimo avere Pompidou: nessuno voleva che Daniel Cohn-Bendit diventasse presidente della Repubblica. Anche i russi non vogliono che un tipo come Navalny diventi presidente. Ma quindici, venti anni dopo il maggio ´68, i valori del maggio ´68 avevano vinto. Le persone che avevano fatto il maggio ´68 erano al potere. Da noi sarà lo stesso: le persone che hanno fatto il dicembre 2011, quelli che erano a Bolotnaja, ben presto saranno al potere e hanno tutto l´interesse a una transizione morbida».
Quando dice questo si percepisce che al lettore di Badiou la cosa non lo riguarda direttamente: lui al potere non ci sarà mai, non è il suo genere, ma il suo amico Zachar Prilepin sì, certamente. Finché Limonov, che l´ha formato come ha formato tante persone in questo Paese, sarà ancora in attività, non si lancerà in politica, ma dopo… Prilepin presidente? Ministro della cultura? Facciamo tintinnare i bicchieri ridendo: vogliamo scommettere?
Due gradi sottozero, è quasi primavera, e la grande manifestazione dell´ultima domenica prima delle elezioni è un successo. Ci si tiene per mano lungo la circonvallazione periferica: in certi punti la catena umana è molto fitta, in altri si sfilaccia e allora gli organizzatori mandano rinforzi; spontaneamente, in un´atmosfera gioviale, il cerchio si chiude e la sera, quando sentiamo la polizia parlare di undicimila partecipanti ci diciamo che l´obiettivo dei trentaquattromila probabilmente è stato ampiamente raggiunto. Io sono andato alla manifestazione con un gruppo di psicanalisti lacaniani. Gli psicanalisti lacaniani a Mosca non sono come da noi, vecchi e sentenziosi. Non indossano il papillon o mantelline a spina di pesce alla Mitterrand. Sono anche loro giovani borghesi entusiasti e telematizzati, esemplari tipici di quella che comincia a essere chiamata "generazione Bolotnaja": hanno più paura degli ukaz di Jacques-Alain Miller, l´allievo e curatore testamentario di Lacan, che della repressione di Putin. Però un brivido ha attraversato il nostro gruppetto quando alcuni giovani putiniani si sono messi a sfilare sul viale brandendo cartelli a forma di cuore su cui era scritto "Putin vi ama tutti". «I fascisti…», mormoravano i miei amici, tutti contenti di farsi paura, e mi sembrava di essere tornato non ai tempi del ´68, ché non ho l´età, ma almeno ai tempi delle manifestazioni contro la legge Debré, negli anni Settanta.
Contrasto edificante: gli antiputiniani hanno mediamente sui trent´anni, l´aria prospera e gioiosa, si conoscono tra loro, si abbracciano, si scambiano notizie su amici in comune, mentre i filoputiniani sono molto giovani - spesso hanno meno di vent´anni - indossano giacche a vento nere così misere che mettono tristezza, hanno quella faccia sorniona con la pelle chiazzata di macchie rosse che è il marchio tipico dei tifosi di calcio in tutto il mondo, e mi sono sentito un po´ a disagio quando uno dei miei nuovi amici ha chiesto ironicamente a uno di questi ragazzini se veniva spesso a Mosca. L´altro ha sbraitato, contro ogni evidenza, che lui era di Mosca, ma si vedeva chiaramente che non sapeva nemmeno dove si trovava, che l´avevano portato lì insieme ai suoi amici in macchina o in treno quella mattina stessa, dal suo paesino di provincia, e che lo avrebbero riportato lì la sera, senza nemmeno offrirgli una notte di baldoria nella capitale. La domanda del mio amico, moscovita da tre generazioni, intellettuale, poliglotta, che vive in un bell´appartamento, tradiva ingenuamente il più classico disprezzo classista, quello del borghese che guarda dall´alto in basso il proletario. Certo, non è una novità, è cosa nota che le rivoluzioni sono fatte dai borghesi a proprio beneficio; ma mi sono detto che dovrebbero quantomeno fare un po´ di attenzione.
Traduzione Fabio Galimberti © 2012 Le Nouvel Observateur all rights reserved
La Stampa 18.3.12
Un “soldato-modello” l’autore della strage di civili in Afghanistan
di Maurizio Molinari
Il sergente che ha fatto strage di civili afghani a Panjwai è un veterano decorato, considerato dai vicini un padre modello, e questo aumenta gli interrogativi sulla genesi di quanto avvenuto. È la scelta degli investigatori militari di rendere pubblico il nome del killer a farne emergere il profilo. Si tratta di Robert Bales, nato 38 anni fa nell’area di Cincinnati, in Ohio. Il suo profilo pubblico sembra convergere con quello privato. Nelle forze armate si arruola l’8 novembre 2001, forse in seguito all’11 settembre. Diventa tiratore scelto, entra nella Stryker Brigate della II divisione di fanteria e va volontario in Iraq per tre volte, sommando un totale di 37 mesi. È al fronte nel 2003-2004, quando la guerra civile incombe; nel 2006-2007, durante l’invio dei rinforzi che consentono di sconfiggere i jihadisti; poi torna ancora una volta fra il 2009 e 2010.
Per due volte un mezzo sul quale si trova viene investito dall’esplosione di ordigni, lui subisce una lieve lesione cerebrale e perde una parte di piede con conseguente assegnazione della medaglia Purple Heart. A segnare il suo curriculum militare è la battaglia di Najaf nel 2007. Bales fa parte dell’unità che soccorre l’equipaggio di un elicottero Apache abbattuto e nel rapporto scrive: «Abbiamo fatto attenzione a distinguere i guerriglieri dai brutti tipi e così, dopo 3-4 ore, stavamo aiutando quelli che prima volevano ucciderci». Nel 2008 ottiene i gradi di sergente e quando la guerra in Iraq finisce va volontario in Afghanistan.
D’altra parte i vicini di casa a Lake Tapps, una località immersa nei boschi dello Stato di Washington, poco distante da Fort Lewis dove ha sede la suaunità, lo descrivono come «un marito e padre modello» per il rapporto che ha con la moglie Karilyn, dalla quale ha avuto due figli di 3 e 4 anni. «Non posso credere che Bob abbia fatto le cose orrende che gli attribuiscono - afferma Paul Wohlberg, suo vicino di casa -, è una brava persona che forse si è trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato». «Sono scioccata, non posso crederci - aggiunge Kassie Holland, un’altra vicina - l’ho visto spesso giocare con i figli, sempre sorridente, affezionato, mai arrabbiato».
Per l’avvocato John Henry Browne, già difensore dell’imprendibile giovane violento meglio noto come «Il bandito a piedi nudi», tali testimonianze giovano a gestire un caso difficile, mentre per gli investigatori militari la priorità è tentare di comprendere che cosa può essere successo.
La presenza di alcol negli effetti personali di Bales suggerisce la violazione delle norme per i militari in servizio, ma l’ipotesi più probabile resta quella della sindrome da stress posttraumatico che affligge molti veterani. Ma un agente immobiliare di Tacoma aggiunge un altro particolare: pochi giorni prima della strage la moglie aveva verificato la possibilità di vendere la casa per trasferirsi in Kansas «al fine di mettere a posto le nostre finanze», scoprendo però che il valore di mercato era inferiore di 50 mila dollari al prezzo pagato. La stessa moglie, in alcuni messaggi su Internet, fa trapelare l’insoddisfazione del marito per non aver avuto «nonostante il suo amore per la patria» una promozione che gli avrebbe consentito di guadagnare di più.
Per comprendere quale tesi sosterrà la procura militare bisogna attendere la formulazione dei capi d’accusa. Intanto però anche il governo di Kabul solleva dubbi sul ruolo di Bales a Panjawi. «In una casa sono state uccise donne e bambini in quattro diverse stanze, poi i corpi sono stati portati in una stanza ed è stato dato fuoco. Una persona sola non può riuscire a fare tutto questo», sostiene il presidente Hamid Karzai, lasciando intendere che il «sergente modello» potrebbe essere un capro espiatorio.
Corriere della Sera 18.3.12
Un padre di famiglia dietro la strage di bambini afghani
Ma per Kabul «non era solo»
di Massimo Gaggi
NEW YORK — Nel giorno in cui il governo americano identifica Robert Bales — un sergente stressato, reduce da troppe missioni in zona di guerra, già trasferito in un carcere militare del Kansas — come unico autore della strage di 16 civili nel villaggio di Zangabad, le autorità afghane contestano la versione Usa parlando apertamente di un'azione compiuta da più soldati Nato.
Sposato con due figli, il 38enne Bales in passato avrebbe sempre avuto rapporti amichevoli con la popolazione locale. L'esercito Usa sostiene che è improvvisamente uscito di senno e spiega il ritardo nel comunicare la sua identità con la necessità di mettere al sicuro la sua famiglia, ora trasferita in una base militare. Ma Shakila Hashimi, una deputata che fa parte della commissione del Parlamento di Kabul che indaga sull'eccidio, sostiene addirittura che l'azione è stata condotta da 15-20 soldati appoggiati da due elicotteri.
La vicenda non sta incendiando le piazze afghane com'è avvenuto per le copie del Corano sbadatamente distrutte in un rogo in una base Nato. Ma sul piano politico si è approfondito in modo drammatico il solco tra le autorità Usa e il governo di Kabul. Cresce, così, anche il malessere dell'opinione pubblica americana: fino a qualche tempo fa appariva abbastanza convincente la scelta di Barack Obama di ritirarsi dall'Iraq — la guerra evitabile — per concentrare le forze Usa sull'Afghanistan, il fronte della «guerra giusta», quella contro il terrorismo. Ma ora l'obiettivo di restituire a un governo solido non più infestato da bande e movimenti violenti alimentati dal fanatismo religioso, si allontana sempre più.
Ad accusare le forze Usa e a chiedere che in futuro vengano «segregate» nelle loro basi è lo stesso presidente Hamid Karzai, l'alleato di Washington che sta assumendo atteggiamenti che provocano sconcerto alla Casa Bianca. Dopo la sua prima sortita in cui aveva chiesto un'accelerazione del ritiro delle forze Usa dal Paese, da completare prima della scadenza attualmente prevista (il 2014), il presidente americano lo aveva chiamato giovedì sera. Congratulazioni per la nascita di un'altra figlia di Karzai, ma anche il tentativo di capire se le sue parole vanno prese alla lettera.
Alla fine Obama aveva trovato tranquillizzanti le spiegazioni del presidente afghano. Che, però, il giorno dopo non solo ha rincarato la dose sul ritiro delle truppe Nato, ma ha anche sposato la tesi di un attacco a Zangabad non compiuto da un unico soldato impazzito, chiedendosi: «La gente del villaggio è stata uccisa in quattro luoghi diversi. Poi i cadaveri sono stati radunati e bruciati. Come può averlo fatto un uomo solo?».
Non è la prima volta che Karzai accusa gli americani. Ma ora la situazione ha preso una piega drammatica: al vertice col crescente scollamento tra occupanti e governo alleato, mente alla base si moltiplicano gli attentati contro militari Nato compiuti da soldati di Kabul che decidono di sposare la causa dei ribelli talebani. Il futuro, insomma, è sempre più cupo: se restano e insistono a voler formare il nuovo esercito, gli occidentali si espongono a rischi crescenti. Se accelerano il ritiro lasciano il Paese nel caos: l'esercito di Kabul resta drammaticamente impreparato.
Corriere della Sera 18.3.12
Garin, l'ultimo maestro tra Gramsci e Nietzsche
Restano fondamentali i suoi studi sul Rinascimento
di Armando Torno
Eugenio Garin, scomparso il 29 dicembre 2004 a 95 anni, è stato uno degli ultimi maestri. O forse un'anima rara che avrebbe preferito vivere al tempo di Lorenzo il Magnifico, quando si faceva politica dopo aver discusso sull'immortalità dell'anima. Gli capitò il Novecento. Seppe farsi onore anche in quest'epoca, da uomo di sinistra che non accettò né il Sessantotto, né la cultura che si adeguava a quanto era politicamente corretto.
Garin torna in libreria grazie a una serie di riproposte delle Edizioni di Storia e Letteratura. In quest'uomo dal rigore morale assoluto, che parlava pacatamente e sapeva rendere indimenticabile una telefonata, che aveva confidenza con Giovanni Pico della Mirandola o Descartes («il nostro Cartesio», soleva intercalare), con i moralisti inglesi del Settecento o con il Rousseau politico, convivevano gli innamoramenti per i Quaderni del carcere di Gramsci e il rispetto per il pensiero di Giovanni Gentile. Forse fu la sua acutezza di storico delle idee a indurre Roderigo di Castiglia, ovvero Palmiro Togliatti, a recensire favorevolmente le Cronache di filosofia italiana da lui pubblicate presso Laterza nel 1955. Il Migliore — chiamiamo ancora così il più acuto e abile dei segretari politici del dopoguerra — lo portò verso il Pci. Vero è che nel gennaio 1958 fu lo stesso Garin ad aprire il convegno per i vent'anni della morte di Gramsci. Ovviamente con Togliatti presente.
Molto ha giovato in questi ultimi mesi il profilo che ha scritto il suo allievo Michele Ciliberto: Eugenio Garin. Un intellettuale del Novecento (Laterza pp. 176, 20). Sono pagine che offrono un profilo ricco e documentato, soprattutto non dimenticano le ricerche e gli innumerevoli carteggi. Ci restituiscono uno studioso che ha scritto pagine importanti sulla condizione umana lavorando nel laboratorio del «suo» Rinascimento. Lui che rifiutava la qualifica di filosofo, sapeva portare alla filosofia come nessun altro: e lì si congedava sempre dagli allievi con indicazioni per continuare il viaggio, per comprendere uomini e idee.
Il suo lavoro, soprattutto per le ricerche sull'età della Rinascenza, ha un credito mondiale indiscutibile. Non a caso James Hankins, della Harvard University, ha partecipato al convegno fiorentino del marzo 2009 per ricordarne il centenario della nascita con una relazione dedicata ai rapporti tra lo studioso italiano e Paul Oskar Kristeller (il suo contributo si trova nel volume Eugenio Garin. Dal Rinascimento all'Illuminismo, uscito da Storia e Letteratura nel 2011). L'importanza dei suoi studi, agli antipodi di tanto dilettantismo dilagante nelle attuali università italiane (dove ci si può laureare in filosofia medievale senza conoscere il latino), si coglie nei due tomi Interpretazioni del Rinascimento, entrambi pubblicati da Storia e Letteratura. Quasi 700 pagine, nelle quali si ritrovano dei saggi che restano un modello di ricerca, da tempo non reperibili. Ecco, per esempio, una recensione del 1943, apparsa negli «Annali della Scuola Normale Superiore» di Pisa, a un volume dedicato al processo di Giordano Bruno uscito in Vaticano: in essa, impeccabilmente, contestualizza avvenimenti e fonti e invita a riflettere anche sui casi di Campanella e dello Stigliola, il quale, tra l'altro, finì nei guai per la pretesa di spiegare scientificamente i miracoli. Oppure si ritrova un saggio del 1944 su I trattati morali di Coluccio Salutati. Garin entra in queste pagine «prive delle ricercate grazie umanistiche» per cogliere «la rivalutazione della sanità della vita e del mondo». E poi altre ricerche, anche recenti — l'ultima è del 1993 — dedicate a magia, astrologia, aspetti ermetici, all'amato Leon Battista Alberti o a Galileo o al tumulto dei Ciompi. Viene ristampato da Storia e Letteratura anche l'importante saggio che Garin terminò all'inizio del 1934, ma che uscì soltanto nel 1937: Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina. Lo scrisse a Palermo dove, prima della guerra d'Etiopia, insegnò al liceo. Cesare Vasoli, che firma la prefazione, offre l'analisi degli studi da lui lasciati sul prodigioso pensatore.
Ogni volta che si riprendono in mano le opere di Garin si resta colpiti dalla straordinaria cultura e dall'accuratezza delle citazioni, dal fascino che conservano i suoi argomenti a distanza di decenni. Quel suo saper cogliere le idee essenziali, senza perdersi in minuzie, si constata aprendo la Storia della filosofia che gli venne chiesta da Enrico Vallecchi alla fine del 1943 (con lo stratosferico compenso di ottomila lire!) e che vide la luce nel 1945 (ora anch'essa è ristampata da Storia e Letteratura). Quest'opera — da non confondersi con la Storia della filosofia italiana, che vide la luce da Einaudi nel 1966 in tre volumi — stupisce per l'impostazione e la lungimiranza. Nel capitolo «pensatori d'oggi» già analizza Heidegger e Jaspers, Husserl e Scheler; anzi, Garin segnala l'importanza di Dostoevskij e di Nietzsche (per quest'ultimo evidenzia il tema della «morte di Dio»). Tutto in un'epoca nella quale i manuali di storia del pensiero erano fermi all'Ottocento, intenti a far conoscere Rosmini e Gioberti e magari Ardigò, mentre Nietzsche era considerato, se ci si ricordava di citarlo, ispiratore di Mussolini o di d'Annunzio. O un seguace di Darwin.
il Riformista Ragioni 187.3.12
Gramsci e Turati
Anticritica sulla tolleranza
di Alessandro Orsini
qui
William Shakespeare grande anticipatore della modernità
NellibrodiFrancoRicor- di la filosofia del bardo è in continuità con quella di Eschilo e Leopardi che, per Emanuele Seve- rino, sono «luoghi del- l’essenza autentica del nichilismo».
di Laura Landolfi
qui
Corriere della Sera 18.3.12
Un giovane su dieci usa ansiolitici. Il mercato nero in Rete
I genitori andavano in farmacia, ordinavano il Plegine, anfetamina, e tiravano avanti per un po'. Studio, lavoro o chissà cos'altro. Niente ricetta, tutto in regola. I ventenni di oggi, invece, usano altri psicostimolanti. E se in farmacia non te li danno, meglio comprarli online, per strada, a scuola oppure a casa di amici. Pillole per dormire, gocce per calmarsi, anoressizzanti, ansiolitici. Stessa storia: l'uso è diffuso, il ventaglio di scelta è spalancato, così come quello dei rischi connessi.
Gli ultimi dati sul consumo degli psicofarmaci in Italia sono inquietanti: quasi il 5% dei giovani under 30 ne fa un uso regolare; il 15,4% lo ha fatto almeno una volta nella vita; l'11,9% solo nell'ultimo anno. Le fragilità dei giovani sembrano essere combattute così. Da soli, a suon di farmaci. E senza prescrizione, come nel 7,5% dei casi. Un dato che sale all'11,7% nei ragazzini tra i 15 e i 19 anni, che se li prendono in discoteca al posto delle pasticche. Uno su tre dei giovanissimi consumatori ci spende più di 90 euro al mese.
È lo spaccato di una gioventù imbottita di medicinali. I numeri parlano di un 16,7% di utilizzatori tra le prime generazioni di figli di divorziati e il 15,3% tra chi vive con un solo genitore contro l'11,2% delle famiglie tradizionali. In generale, sono le donne le maggiori consumatrici, con il 5,8% di acquirenti abituali, quasi il doppio rispetto agli uomini. L'esatto opposto di ciò che accade con le droghe, dove sono gli uomini i più assidui.
È il risultato che emerge da due studi tra i più importanti del settore, in anteprima per il Corriere e Solferino 28/anni: Espad (campione di 50 mila giovani scolarizzati) e Ipsad (su altri 11 mila casi). Ricerche declinate in tutta Europa e in Italia affidate all'Istituto di Fisiologia clinica del Cnr. Gli anni scorsi, lo scenario era meno allarmante: 3,6% di consumatori abituali. I ventenni d'Italia che comprano sonniferi, dal 2007 al 2011, sono passati dal 3,1 al 5,8%, ansiolitici dal 5,9% al 9,8%, antidepressivi dal 2,4% al 3%. Solo l'80% dei farmaci, tuttavia, viene comprato legalmente. Il 7,5% dei giovani acquista medicinali senza prescrizione, mentre un altro 7,7% compra da un generico «conoscente». Il restante 5% se li procura nell'ombra, in «altro modo».
Sabrina Molinaro, si occupa di Ipsad e Espad dal 2000, «li ho visti crescere» dice, con al fianco una giovane ricercatrice, Valeria Siciliano. «Ciò che preoccupa — afferma Molinaro — è la facilità con cui si riesce a procurarsi i farmaci, soprattutto via Internet».
Sono giorni di crisi e di liberalizzazioni. Tempi in cui, a Milano, un farmacista, il dottor Paolo Gradnik, promuove il Tavor al 3x2 per contestare il governo. Tema delicato: come cambia l'accesso agli psicofarmaci in deregulation? «Aumenti dell'offerta — conclude Molinaro — fanno registrare incrementi del consumo: è l'economia di mercato».
Corriere della Sera 18.3.12
La generazione Punto Zero
Ragazzi condivisi
I figli tradizionalisti e autonomi dei separati
«L’ultima cosa che farei è rompere le nozze»
I compleanni festeggiati due volte. Lo stesso con il Natale e decine di altre ricorrenze. La famiglia per molti ragazzi non è mai stata così «larga» come in questi ultimi anni. Da istituzione millenaria basata sul modello madre-padre-figli, oggi la struttura familiare è esplosa in una girandola di «format». Resiste ovviamente quello originario, ma sono sempre più frequenti le coppie non sposate con figli, le famiglie con un solo genitore oppure quelle «ricostituite» (in cui almeno uno dei partner ha già un matrimonio alle spalle). Queste sono le cornici, i tanti nuclei nei quali sono cresciuti i ventenni di oggi.
In Italia, i figli lasciano le loro case — con nuclei più o meno tradizionali — sempre più tardi, a differenza di quanto accade nell'Europa centro-settentrionale, dove invece i giovani vanno più precocemente a vivere da soli, con amici (ipotesi più frequente tra chi ha vent'anni o più) o con un partner. La prima indagine sulle strutture e i comportamenti familiari condotta dall'Istat nel 1983 registrava che il 49% dei 18-34enni viveva in famiglia, percentuale salita al 51,8% nel 1990 e al 60,2% nel 2000, per poi restare abbastanza stabile (58,6% nel 2009).
Erano sette milioni i giovani non sposati tra i 18 e i 34 anni che nel 2009 vivevano con almeno un genitore. La quasi totalità dei figli resta in famiglia fino a 24 anni (il 96,9% di quelli tra 18 e 19 anni, l'86,1% di quelli tra 20 e 24), ma la percentuale continua a essere elevata anche tra i 25-29enni (59,2%). Ci sono forti differenze di genere: i ragazzi rinviano l'uscita più di quanto non facciano le ragazze. Tra i 25 e i 29 anni vive ancora in famiglia il 68,8% dei maschi contro il 48,8% delle femmine. Quelle di genere non sono le uniche differenze. Nel Mezzogiorno i figli 18-34enni che vivono ancora con almeno un genitore costituiscono i due terzi del totale, contro poco più della metà nel Nord-Est.
In questo panorama frastagliato, in cui le famiglie restano l'ammortizzatore sociale fondamentale per le giovani generazioni, l'orizzonte sembra ricomporsi al capitolo dei sogni e delle aspirazioni. «I figli delle famiglie allargate possono vivere un surplus di instabilità e ansietà — spiega lo psichiatra Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano — ma questo può essere uno stimolo a crescere. Trovo in questi ragazzi una maggiore autonomia, sono meno legati al nucleo originario e hanno meno difficoltà a lasciarlo. Si abituano ad avere più punti di riferimento e di appoggio e soprattutto imparano presto che la vita è fatta anche di sentimenti, che i genitori non restano insieme per dovere ma hanno diritto a una vita sentimentale e sessuale che li faccia stare bene. Certo, quando funziona la famiglia dà sicurezza, il punto è che deve fondarsi su sentimenti autentici».
«In chi proviene da famiglie in cui i genitori si sono separati c'è una gran voglia di normalità — dice la psicologa Silvia Vegetti Finzi, autrice di Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli —. Quasi tutti i figli di separati sognano una famiglia tradizionale: si desidera sempre quello che non si ha. La famiglia normale viene però da loro idealizzata, i concetti più tradizionali come il pranzo della domenica vengono immaginati come momenti perfetti, di armonia e felicità». Molti i commenti sul tema inviati questa settimana al blog Solferino 28/anni. Ha scritto un lettore: «Nella vita succede di peggio che subire una separazione o vedersi imposta la convivenza con degli estranei. Di solito si riesce a tirare avanti. Quello che non si sopporta sono i discorsi ipocriti e manipolatori di chi vorrebbe dimostrare che è "normale" che i figli debbano passare attraverso queste esperienze». Sempre nelle parole dei lettori, si ritrova quel desiderio di normalità. Si legge anche in questo commento di una figlia di genitori separati: «I miei avrebbero potuto fare qualche sforzo in più per tentare di ricucire il loro rapporto. Ho dovuto subire, con mio fratello, i due figli del nuovo compagno di mia madre. Per noi è stato devastante, in primo luogo vedere nostra madre condividere il letto e la vita con un uomo che non era nostro padre e poi dover forzatamente convivere in casa nostra con due bambini intrusi che non conoscevamo, non avevamo nessuna voglia di conoscere, e che di fatto erano venuti ad occupare "abusivamente" spazi e tempi che prima erano solo nostri. Certo, alla fine si supera tutto, anche perché non se ne può fare a meno se si vuole sopravvivere. Non appena ho potuto, sono andata a vivere per conto mio. Adesso che sono sposata e ho dei figli, penso che l'ultima cosa al mondo che farei se dovessi separarmi (ma non credo che questo accadrà), sarebbe trovarmi un nuovo compagno e imporlo ai miei figli». Una lettrice definisce la separazione dei genitori «una liberazione»: «Non sopportavo più le liti, i malumori, le ripicche che si facevano e la mia reazione quando mi è stato detto della separazione è stata: era ora... I bambini e i ragazzi sono molto più elastici di noi adulti, basta semplicemente parlare con loro e spiegare le cose».
La Stampa 18.3.12
Generazione “No future”
Due libri-denuncia, dello psicoterapeuta Pietropolli Charmet e di Marc Augé: così gli anziani hanno convinto i giovani che l’avvenire sarà catastrofico e che si può solo consumare
di Marco Belpoliti
LA COSPIRAZIONE DEGLI ADULTI. Rinunciano consapevolmente a reclutare gli ideali dei ragazzi, il loro bisogno di cambiamento
AI DANNI DEGLI ADOLESCENTI Attività sportive, vacanze-studio, corsi: tutte creazioni finalizzate a ridurre il loro tempo libero
Lo slogan «No future» l’ha inventato, o almeno messo in circolazione, un ragazzo di strada londinese, figlio di un gruista irlandese, appassionato di musica. Nel 1976 scrisse il testo di una canzone per il gruppo di cui era il cantante: i Sex Pistols. John Lydon «Rotten» lo ripeteva più volte mentre la musica percussiva della band correva via. Da quel momento l’espressione è diventata, nei due decenni seguenti, la parola d’ordine, prima dei punk, poi del ribellismo giovanile d’ogni tipo e forma, fino a che è rispuntata, forse non a caso, sui muri della Val di Susa, dichiarazione provocatoria sul nostro presente collettivo.
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta, che da anni si dedica all’ascolto degli adolescenti e delle loro famiglie, riprende questo tema e lo mette al centro di un saggio dal piacevole tono colloquiale, Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza, pp. 146, 15), il cui primo capitolo s’intitola programmaticamente: «Sottrarsi alla tirannia del passato». In tanti anni di psicoterapia, propria e altrui, Pietropolli Charmet ha maturato la convinzione che siamo prigionieri del nostro passato, rivolti a ricostruire traumi, paure, angosce, ansie che traggono la loro origine da ciò che sta alle nostre spalle, incapaci di metterci in relazione col futuro, di affrontarlo, colonizzarlo, deciderlo.
Di più, esiste come una cospirazione attiva e palese - un «intrigo», per dirla con Marc Augé autore di Futuro (Bollati Boringhieri, pp. 134, 10) da parte degli adulti e degli anziani (la gerontocrazia al potere) per sottrarre il futuro ai giovani, per convincerli, con un efficace marketing, che il futuro sarà catastrofico, terribile, inabitabile, per cui è meglio vivere nel presente, coltivando il sogno del consumo di se stessi e del mondo, secondo le indicazioni della «sottocultura televisiva» che ha nella pubblicità il suo aedo più efficace. Lo psicoterapeuta è invece tutto dalla parte dei ragazzi e li invita - tramite i loro genitori che leggeranno questo volume a resistere e a rilanciare la loro lotta per conquistare il futuro. Insomma, rovesciare l’inno nichilista e sadomasochista dei Sex Pistols, che rivolgevano contro se stessi la rabbia per le delusioni subite da parte del mondo adulto con le sue promesse di sviluppo e progresso - anno 1976 - mentre migliaia di loro provavano sulla propria pelle gli effetti della prima crisi della società postindustriale.
Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, in mezzo a una nuova grande crisi, dipinta come la peggiore dal 1929, il futuro diventa sempre più incerto, o addirittura assente. «Il mondo degli adulti, scrive Pietropolli Charmet, «ha abdicato in modo consapevole a reclutare gli ideali dei giovani, la loro capacità di sperare, il loro intrinseco bisogno di cambiamento, per organizzare la svolta culturale, etica, politica, relazionale e simbolica». I giovani hanno il futuro dalla loro parte, mentre gli anziani hanno solo un lungo passato alle spalle. È in corso un vero e proprio scippo del tempo, l’effetto di un’attiva invidia degli anziani, che culmina nella requisizione del tempo di vita dei ragazzi, per farlo diventare tempo della scuola, come accade nei licei, o del dopo scuola, come nelle attività sportive e nei corsi di addestramento, dalla musica alla dizione, fino alle vacanze-studio in Inghilterra: «tutte creazioni adulte finalizzate a ridurre il tempo libero dei ragazzi».
Come si è arrivati a questo? Augé nel suo volume spiega che la fine del «Sol dell’avvenire», delle Grandi Narrazioni, ovvero delle ideologie del Novecento, ha prodotto in Occidente una riduzione dell’orizzonte della vita umana al solo presente, riprendendo una lettura di Lyotard nella Condizione postmoderna. Ma mentre l’antropologo francese descrive per grandi linee il fallimento dell’idea di futuro, dei progetti utopici del Secolo breve, lo psicoterapeuta racconta le sue esperienze con i ragazzi e ci spiega come il superamento dei modelli tradizionali - il «padre etico» del passato - ha significato l’emergere di una «cultura generazionale» che prescinde dalla famiglia come dalla scuola, e che non è affatto negativa; o meglio: contiene, tra tante cose anche molti elementi positivi. Il Noi è più forte dell’Io, per quanto, come ha scritto in un precedente libro - Fragile e spavaldo (Laterza), nato anch’esso da un intervento al Festival della Mente di Sarzana - il santo patrono dell’adolescente contemporaneo non sarebbe più Edipo, uccisore del padre, minacciato dall’incombente senso di colpa, bensì Narciso, dedito all’autocontemplazione e insieme tormentato da un’insostenibile vergogna.
Il fatto è che le istituzioni adulte, la scuola per prima, non insegnano più il «tempo futuro», con grande depauperamento dell’intera società. Il nuovo padre, genitore «accuditivo», nutre grandi aspettative di tipo narcisistico nei confronti della riuscita sociale del figlio, mentre il «padre etico» imponeva la propria visione e costringeva i figli al conflitto, il cui esito era pur tuttavia incerto, vista l’idea assai diffusa tra gli ex ragazzi divenuti adulti, ribelli o no, d’avere comunque fallito. Oggi il problema è diventato, scrive Pietropolli Charmet, quello di un conflitto d’altra natura prodotto da un’adolescenza che rischia di essere bloccata nella sua ripetizione, come accade nell’ossessiva esplosione musicale della band punk inglese. Un anonimo ragazzo delle banlieue francesi, durante una delle rivolte, ha scritto su uno striscione: «Papà, voglio un posto di lavoro: il tuo». Come andrà a finire, per il momento, nessuno lo sa.
Corriere della Sera 18.3.12
La creatività dei bimbi distratti
Secondo una ricerca hanno una migliore memoria operativa (e sono più felici)
Negramaro «La distrazione»
di Silvia Vegetti Finzi
Attenzione e disattenzione si intrecciano e un buon funzionamento dell'apparato psichico deve essere in grado di utilizzare entrambe. Chi tra i genitori non si è mai sentito dire da un insegnante del figlio: «Va bene ma non sta attento»? Minima nei più piccoli, l'attenzione si acquista intorno ai sette anni. Ma, come giustamente avverte una ricerca dell'università del Wisconsin, enfatizzando la concentrazione mentale, qualche cosa si perde. Pare che i «sognatori a occhi aperti» siano più creativi.
Chi tra i genitori non si è mai sentito dire da un insegnante del figlio: «Va bene ma non sta attento»? L'attenzione è così valorizzata socialmente da condannare il suo opposto, la disattenzione, come fosse una colpa o un sintomo. In realtà le due facoltà si intrecciano e si relativizzano e un buon funzionamento dell'apparato psichico deve essere in grado di utilizzare entrambe. La capacità di attenzione fa parte del patrimonio genetico di tutti gli animali: sollecitata da un segnale di pericolo (ad esempio prossimità di un predatore) o da un bisogno vitale (ad esempio ricerca del cibo), induce un atteggiamento di vigilanza che, benché necessario, tende a diminuire con la ripetizione degli stimoli.
Per quanto riguarda il funzionamento mentale, è interessante osservare che l'attenzione è il risultato di una operazione di sottrazione che si attua inibendo le percezioni ritenute irrilevanti, selezionando quelle utili e concentrandosi sullo stimolo essenziale. Nella esperienza umana, dove i casi di allarme sono piuttosto rari, l'attenzione non è tanto connessa alla sopravvivenza quanto all'acculturazione, alle dinamiche di apprendimento, soprattutto scolastiche.
Minima nei più piccoli, si acquista intorno ai sette anni, quando i bambini divengono più discriminativi, meno eccitabili e dispersivi, più capaci di orientare volontariamente la coscienza. Tuttavia l'attenzione prolungata comporta un costo psichico rilevante, misurabile seguendo la curva dell'attenzione che, dopo il raggiungimento di un picco, tende a decrescere, sostituita da una forma di stanchezza, anche emotiva, come cantano i Negramaro nel brano musicale «La distrazione».
La disposizione all'attenzione fa parte del temperamento individuale ma risente del clima culturale e delle motivazioni che la sostengono. Nelle nostre istituzioni scolastiche, basate sulla sequenza insegnamento-apprendimento-valutazione, l'attenzione puntuale costituisce una esigenza fondamentale, a scapito della fantasia, sempre vagante, e degli interessi personali, non programmabili. Ma, come giustamente avverte ora una ricerca americana — realizzata dall'University del Wisconsin — enfatizzando la concentrazione mentale, qualche cosa viene perduto. Ed è la capacità di cogliere ed elaborare più stimoli contemporaneamente, di seguire due percorsi ideativi, di comprendere empaticamente le emozioni proprie e altrui. Pare che le persone più distratte abbiano una miglior memoria operativa e che i «sognatori a occhi aperti» siano più creativi. Se l'intelligenza consiste soprattutto nel realizzare connessioni, sarà potenziata dall'attivazione di più circuiti neuronali e cerebrali. Naturalmente finché sussiste un certo equilibrio tra le due facoltà ed è possibile passare dall'una all'altra; si cade altrimenti nella patologia del delirio o della depressione acuta. Credo infine che l'elogio della distrazione contenga una critica alla nostra società che, come narra Pirandello nella novella omonima, costringe in un'unica maschera o ruolo sociale, il flusso continuo della nostra vita. In questo senso la capacità di «distrarsi» assume anche il significato di sottrarsi alle prescrizioni e alle preoccupazioni quotidiane per acquisire gradi di libertà, di piacere e, talora, di felicità.
La Stampa 18.3.12
Scienziati hippie per salvare la fisica dei quanti
A Berkeley l’eredità di Einstein difesa dai figli dei fiori
di Massimiliano Panarari
NEGLI ANNI 70. Il campus ospitò incontri di un gruppo eterogeneo di studiosi
L’IMPORTANZA. Discutendo il sistema misero le basi della Silicon Valley
Sia lode agli «scienziati pazzi» (e «capelloni»...). Vale a dire i protagonisti di una formidabile battaglia epistemologica che un professore del Mit di Boston piuttosto noto, David Kaiser, racconta nel suo Come gli hippie hanno salvato la fisica (Castelvecchi, pp. 378, 22). Posta in palio: la salvezza della meccanica dei quanti le cui evoluzioni (dalla crittografia all’informatica quantistica) fanno parte della vita quotidiana della contemporaneità, consentendo, per fare soltanto due esempi, i trasferimenti sui conti bancari e il voto elettronico. Opportunità che dobbiamo - al pari dello spirito che ha informato di sé la rivoluzione high tech della Silicon Valley - al calderone incasinatissimo della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, in seno alla quale, tra cristalloterapia, religioni orientali, massicce dosi di New Age (e di cannabis), un drappello di scienziati davvero anticonformisti si eresse a paradossale custode dell’eredità della mitica fisica quantistica degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Quella dei grandi - da Einstein a Schrödinger, da Bohr e Heisenberg - che l’impegno embedded e il pragmatismo dei megaprogetti imposti dal secondo conflitto mondiale e poi dalla Guerra fredda rischiavano di seppellire definitivamente. Altro che le «particelle», e i correlati interrogativi filosofici (quando non mistici) cui i padri fondatori indulgevano, ritenendoli componenti essenziali per la decifrazione del glorioso mistero dell'Universo. Le equazioni quantistiche erano troppo oscure e poco efficienti, sofismi superflui per i gusti dell’apparato militar-industriale definitivamente al potere. Poche balle: non si doveva «interpretare», ma far funzionare i macchinari sempre più giganteschi. E, dunque, «Zitto e calcola! »: lo slogan che per la generazione postbellica dei fisici aveva finito per condensare la mission del proprio lavoro.
Ma non tutti erano disposti ad aderire a questo credo All American. E così, complice l’aria dei tempi della contestazione, si costituì sulla West Coast una «comunità aperta» di fisici, tutti giovani e squattrinati, che si ribattezzò Fundamental Fysiks Group. Correva il 1975, e dal maggio di allora, per tre anni e mezzo, ogni venerdì alle 16, si tenne un partecipato incontro settimanale per tornare a riflettere sulle questioni fondamentali, e neglette, della meccanica quantistica. Teatro di questi appuntamenti che si prolungavano sino a notte fonda in un vicino ristorante indiano, era il campus di Berkeley, l’ateneo che aveva dato il la al movimento studentesco statunitense (e occidentale), nei pressi di quella lisergica e allucinogena San Francisco che era la roccaforte planetaria dei figli dei fiori e della New left. Ad animare il gruppo di discussione, vera e propria cellula anti-sistema (scientifico e politico), erano dei personaggi dai tratti quasi romanzeschi: gente come Fred Alan Wolf, Elizabeth Rauscher, George Weissmann, l’italo-americano Jack Sarfatti, Gary Zukav e il più famoso (grazie al best-seller Il Tao della fisica) Fritjof Capra, impegnati a passare il tempo tra l’«allargamento delle porte della conoscenza» mediante il perseguimento di forme di trance, la sperimentazione di allucinogeni, interminabili immersioni in vasche da idromassaggio, marce pacifiste, preghiere buddiste, esercizi di telepatia e sessioni di yoga.
Insomma, sesso, droga, rock’n’roll… e quanti. Ma dai bizzarri brainstorming di questa comune di scienziati hippy scaturì la «nuova fisica» che, dopo aver lottato strenuamente contro l’ostracismo e la diffidenza del sapere ufficiale, seppe magistralmente inserirsi nella crisi, innanzitutto economica (e determinata dall’avvento dell’austerity), della Big science. E i fisici alternativi erano sì bizzarri, ma (contro) culturalmente attrezzati per imprimere il loro segno alla fase di futura new economy che si stava aprendo, sempre più immateriale. E, pertanto, finirono per venire braccati non più dalla polizia, ma da mecenati, che andavano dai venture capitalist alla Cia (già, proprio lei…), sino a imprenditori di tipo nuovo come Werner Erhard, il profeta del «movimento del potenziale umano». Perché il loro era precisamente «pensiero laterale», fedele agli insegnamenti dei titani della fisica primo-novecentesca, secondo cui il progresso della scienza avveniva lungo traiettorie mai banalmente lineari e assai poco «euclidee». Era l’alba di una nuova America, capace di tenere insieme lontane ascendenze controculturali e neocapitalismo simbolico. Quella di Steve Jobs, il quale, nel ‘76, fondava in California, non per caso, la sua Apple Computer.
Repubblica 18.3.12
La scrittrice israeliana Lizzie Doron e la storia di una bimba
Che è quella dei figli della generazione sopravvissuta alla Shoah
Quella piccola in cerca del padre nella generazione dei figli della Shoah
La piccola Aliza nel paese del padre immaginario
di Benedetta Tobagi
Un´istantanea in bianco e nero degli anni Cinquanta: in un giardino fitto di piante, una bimba paffuta in costume da ballerina di krakoviak (una danza popolare polacca, in omaggio alla famiglia d´origine) strizza gli occhi abbagliata dal sole. Dietro uno dei cespugli, osservando bene, si scorgono appena un occhio e una zazzera nera. Aliza, la bambina della foto (che ora è una scrittrice cinquantenne) non l´aveva mai notato. Ancora non lo sa, ma quella rara immagine dell´infanzia cela la chiave del segreto che le ha segnato la vita: l´uomo nascosto nel cespuglio è il suo papà, la cui assenza è da sempre avvolta nel mistero. La piccola Aliza non sa chi sia il padre, non sa nemmeno se sia vivo. Le sue domande insistenti si scontrano col mutismo della madre infermiera, una donna enigmatica, indurita, silenziosa. La congiura del silenzio coinvolge l´intero microcosmo in cui si muove la bambina: amici, insegnanti, vicini di casa. D´altronde, in quel quartiere di Tel Aviv, dove i sopravvissuti alla Shoah tentarono di rifarsi una vita, le stranezze sono la norma. La piccola Chayale, per esempio, di papà ne ha ben due (e quanti pettegolezzi!). Tutti hanno dei segreti. Tutti vivono assediati dai fantasmi di un passato rimosso. Così Aliza racconta a se stessa di un padre immaginario finché, cresciuta, smette di pensarci. Le ultime parole della madre morente («Quello che volevo sapesse lo sa») sembrano sigillare per sempre il segreto, ma una visita al vecchio quartiere per un funerale (non avendo parenti suoi, Aliza, per l´ilarità del marito, ha un´autentica fissazione per cerimonie e commemorazioni altrui) sblocca gli ingranaggi della memoria. Da quel momento, brandelli di passato inintelligibili si intrecciano al presente e dalla foto in bianco e nero si dipana un avvincente giallo dell´anima.
Voce tra le più significative della "seconda generazione" della Shoah, con Salta, corri canta! Lizzie Doron torna su temi a lei cari (C´era una volta una famiglia, Giornate tranquille) e li rinnova con una piena maturità di stile, confermandosi una delle figure più interessanti del panorama letterario israeliano. La costruzione del romanzo mima con sapienza i capricciosi moti della memoria e le "intermittenze del cuore" attraverso cui l´io narrante (che, rivela pudicamente l´ultima pagina del libro, è Lizzie Doron stessa, alle prese con bruciante materiale autobiografico) matura infine la volontà di sapere. La scrittura, delicata ed essenziale, è come una membrana sottile funzionale a metterci in contatto con la grande profondità umana dell´autrice. La sua sensibilità ricca e chiaroscurale rifugge il giudizio e stende sui personaggi un velo amorevole di empatia. Nel loro microcosmo anomalo, l´amicizia, «che non naviga mai in acque tranquille» è un pilastro della vita e diviene – non a caso – un motore fondamentale dell´intreccio, in un gioco fatale di rispecchiamenti e reciproche rivelazioni. «Siamo le cicatrici l´una dell´altra», scrive Lizzie/Aliza delle amiche d´infanzia. «Siamo le verità di cui nessuno conosce l´esistenza». Lizzie Doron alterna le corde dell´emozione a uno humour sottile e dissacrante, tipicamente ebraico, capace di trasformare i dolci bruciati da una madre infelice in "Buchenwald Delikatessen". «Signore, dammi il dono dell´umorismo», pregava il condannato a morte Tommaso Moro: saper ridere anche nella tragedia è una questione di sopravvivenza.
«Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare» dice Qoelet. Di fronte al concentrato di dolori e tragedie raggrumatosi nel quartiere, perché ostinarsi a sapere? Lieve e profondo, il romanzo esplora i dilemmi posti dal rapporto con un passato pieno di traumi segreti e la sorprendente fecondità di un percorso di riconciliazione con le proprie ferite. Il segreto che imprigionava Aliza bambina si rivelerà figlio della tragedia di una scelta impossibile, ma piena d´amore. Il vuoto del silenzio sarà colmato dall´immaginazione creativa, l´impulso vitale che soccorre la bambina e offre alla donna adulta una possibilità di redenzione attraverso la scrittura. Nel rivisitare la propria infanzia, l´autrice coglie la stupefacente capacità dei bambini di sentire e assorbire tutto come spugne, intuendo l´essenza della verità oltre il silenzio e le maschere: insieme all´immaginazione, un altro dono che l´autrice ha conservato tutto intero.
La condizione dei figli dei sopravvissuti si colloca nel punto dove la banalità della vita quotidiana fa attrito con il buco nero della storia. Una fragile normalità assediata dall´abnorme, un´esperienza per certi versi unica, per altri universale: Doron riesce a rendere il quartiere una metafora della condizione umana. Scopriamo solo alla fine a quale incredibile circostanza si leghino i tre imperativi del titolo, Salta, corri, canta!, e la commozione è indicibile. Il viaggio del romanzo culmina nella scoperta di una verità struggente e terribile, come la vita. Vita come peso insostenibile che impara ad accettarsi, a convivere con cicatrici indelebili e destini incomprensibili, ad accettare la gratuità insensata dell´esistenza come dono anziché colpa originaria, a concedersi la possibilità della gioia. Questo romanzo è un inno alla vita nonostante tutto. Cioè, alla vita.
Repubblica 18.3.12
Al Museo e Gipsoteca di Possagno un´esposizione dedicata al genio del marmo Protagoniste le "ballerine" di inizio ´800 ispirate ai reperti di Pompei ed Ercolano
La danza della scultura tra eros e neoclassicismo
di Cesare De Seta
Salendo verso Possagno si scorgono le colline d´argilla, solcate dai castagni, da cui Antonio Canova traeva la materia per i bozzetti. La sua straordinaria mano conferisce al marmo il morbido fraseggio che realizza tra il nudo anatomico e il peplo che talvolta lo ricopre. Il modellato delle vesti e le trasparenze hanno una sottile carica erotica sottolineata dalla movenza dei gesti o della danza. Molte sue opere sono ispirate ai modelli di Ercolano e Pompei che visitò nel 1779: l´avevano tanto affascinato, che, circa vent´anni dopo, dipinse una serie di tempere su carta con fanciulle che danzano, e a più riprese vi ritornerà negli anni a seguire. A un uomo colto, quale fu Canova, non potevano essere sfuggite le pagine, commosse fino all´eccitazione, che Winckelmann aveva dedicato alle sognanti immagini di bellezza rinvenute sulle pareti dipinte nelle città dissepolte alle falde del Vesuvio: le Danzatrici «sono fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie» scrisse il sassone. È geniale l´idea che una forma dipinta possa essere fluida come qualcosa di assolutamente immateriale quale il pensiero. Canova, che amava la musica e la danza, seppe trasferire il moto e la danza in scultura: la Danzatrice con le mani sui fianchi (1806), la Danzatrice col dito al mento (1809) e la Danzatrice con i cembali (1809, come inciso nel gesso) sono un trittico che incarna il mito del Sublime, uno dei cardini dell´estetica settecentesca. Nelle danzatrici Canova, con ineguagliata maestria, si libera dalla soggezione della gravità: il movimento è sempre una sfida per uno scultore e Canova aveva ben studiato il Laocoonte in Vaticano e quello scritto da Lessing, aveva sotto gli occhi Bernini.
Tra i capolavori del Museo e Gipsoteca di Possagno, si conserva il gesso originale della Danzatrice con i cembali, affidandone poi la trasposizione in marmo ai collaboratori, su cui interveniva alla fine nell´intento di rappresentare «la vera carne». Attorno alle tre fanciulle, ruota la mostra Canova e la danza, a cura di Mario Cuderzo, (fino al 30 settembre, catalogo Terra Ferma), ma la Danzatrice con i cembali è la vedette della rassegna. Dall´originale in gesso fu tratta la scultura in marmo, eseguita per l´ambasciatore russo a Vienna Andrej Razumovskij, ora patrimonio inamovibile del Bode Museum. Il museo di Berlino ha consentito che si ripristinasse il gesso originale. Le tecnologie adottate dai restauratori sono un´eccellenza dell´Italia che andrebbe coltivata assai più di quanto non accada. Infatti il gesso (cm 187 x 80 x 55) fu gravemente mutilato nel 1917, perdendo le morbide braccia, che, alzate sul capo reclinato della fanciulla, avevano tra le mani, i cembali, piatti cavi originariamente in bronzo da usare a percussione.
Girando attorno alle tre figure muliebri ci si avvede che esse sono delle fanciulle felicemente prese in una danza su un´aia: non scendono dal Parnaso, non sono dee come Ebe (1796) ancora legata al revival neoclassico e, nella perfezione delle sue movenze, irraggiungibile: come nel bassorilievo della Danza con il figli di Alcinoo (1790-92). Non sono neppure associabili ai sofisticati tableaux vivants che Emma, nel palazzo di Sir William Hamilton, metteva in scena a Napoli per spettatori ammirati come Goethe. C´è piuttosto in esse la grazia spigliata della giovinezza, sono gioiosamente spontanee nelle loro movenze e mi spingerei a dire che Canova qui sfiora un´aura protoromantica, la stessa che aleggia in Foscolo e Goethe. Perché esse non sono menadi sfrenate in danze dionisiache e, nell´inudibile musica che ispira i loro movimenti, risuona l´eco dei loro giovanili anni: «Quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», dice Leopardi. Le gambe e i panneggi del gesso hanno un moto rotatorio che parte dal piede sollevato, mentre le braccia lo bilanciano in virtù della loro disposizione asimmetrica. Il capo reclinato s´accosta alla spalla e lo sguardo volge in basso, mentre tutta la figura si libra da terra in elevazione. Un equilibrio sapiente che dà vita all´idea stessa della danza. La storia della scultura la ricama Alvar González-Palacios. Ma del maestro qui si vedono anche il gesso del suo busto del 1812 e la testa della Danzatrice con i cembali, attornianti da quaranta tempere e dalle incisioni dedotte. L´Ala Scarpa del museo, tutta bianca, ha due lucernari in alto: da uno di essi si scorge una edificio attiguo con intonaco rosso che lede l´armonia di questa splendida sala. Dipingerla in bianco eviterebbe un´assai sgradevole intrusione cromatica.
Repubblica 18.3.12
Musica e Letteratura
Perché la costruzione di un romanzo assomiglia a quella di una sinfonia
C’è un parallelo nella creazione di queste due forme artistiche
Joyce concepisce l´Ulisse come un maestoso contrappunto
di Will Self
Le eccelse arti della musica e della letteratura sono legate tra loro da un rapporto curioso, al tempo stesso solidamente collaudato e profondamente inquieto, simile a quello che talvolta contraddistingue i matrimoni di lungo corso. All´estremità "solidamente collaudata" dello spettro troviamo quelle vette del canto rappresentate dalla tradizione tedesca dei lieder e dalle Opere più riuscite. Nelle manifestazioni più alte di queste due forme d´arte, parole e musica appaiono tra loro straordinariamente e indissolubilmente fuse. All´estremità opposta dello spettro si incontrano invece quei generi musicali che si sforzano di essere letterari – la cosiddetta "musica descrittiva" – e quelle forme di letteratura che aspirano, tanto attraverso la rappresentazione descrittiva che l´emulazione, alla condizione di musica. Non intendo denigrare qui tali opere, e tuttavia ritengo che quando una forma d´arte, anziché attenersi alle modalità che le sono proprie si sposta sul terreno che pertiene a un´altra, il risultato che ne deriva tradisce inevitabilmente un compromesso – per non dire un´involuzione.
Per quanto mi riguarda, sono giunto tardivamente ad apprezzare "sul serio" la musica "seria" – se da questa escludiamo il jazz, che nelle mani di professionisti quali John Coltrane o Thelonious Monk raggiunge l´inventività musicale e la raccolta espressività dei migliori piccoli ensemble che la musica classica è capace di offrire. Nella vita di ciascuno di noi arriva prima o poi il momento di prendere le distanze da quegli strumenti adolescenziali che sono la chitarra elettrica e l´armonica, e forse è proprio perché quando iniziai ad ascoltare davvero la musica sinfonica ero già sulla quarantina che mi sono avvicinato a questa forma d´arte senza alcun pregiudizio al suo riguardo – un modo elegante per ammettere la mia completa ignoranza in materia.
Intuivo inoltre che la mia esperienza di scrittore – e in particolare dei momenti di maggiore ispirazione artistica – presentava molti più punti in comune con il metodo seguito dai compositori quando concepiscono una sinfonia che con il procedimento a cui (stando alla critica letteraria) gli scrittori si attengono quando, di fatto, scrivono.
La ricerca di un motivo dominante e di temi, la creazione di un mondo parallelo da rendere a parole, gli sforzi fatti per conseguire l´autenticità della voce narrante, il contrapporsi dei punti di vista dei diversi protagonisti rappresentano obiettivi cruciali che accomunano chi scrive romanzi e chi compone sinfonie. E il livello di condivisione è tale da non trovare riscontri in altri professionisti della musica e della letteratura. Voglio spingermi oltre: il sinfonista e il romanziere hanno in comune tra loro più di quanto non abbiano con altri che operano nel loro rispettivo ambito artistico di appartenenza.
Credo che il motivo per cui ciò non sia mai stato ampiamente riconosciuto sia dovuto all´errata convinzione essenzialistica secondo la quale le parole-che-descrivono-la-musica sortirebbero lo stesso effetto che la musica stessa, così come la musica-che-parla-di-parole sarebbe in grado di produrre le stesse reazioni delle sole parole.
Da un punto di vista letterario il Till Eulenspiegel o il Don Giovanni – due poemi in musica di Strauss – non raggiungono livelli eccelsi sul piano narrativo e della caratterizzazione. Né riescono a rappresentare i mondi che tentano di descrivere con quell´efficacia e quell´accuratezza di cui persino un romanzo mediocre può dare prova. D´altro canto, un´ibridazione come quella ottenuta da Anthony Burgess con il suo Napoleon Symphony: un romanzo in quattro movimenti appare, in tutta onestà, musicalmente insoddisfacente e, da un punto di vista letterario, praticamente illeggibile.
Solitamente, anziché ricreare la struttura della forma sinfonica classica – come Burgess ha eroicamente tentato di fare – gli scrittori si limitano a descrivere l´impatto che la musica ha sugli individui o sulla psiche collettiva. Questo ci pone nuovamente di fronte a una strada senza uscita: per ogni lettore che ritiene che la scena del concerto alla Albert Hall in Casa Howard, di E. M. Forster, fornisca un´efficace descrizione di menti rapite dalla musica, ce n´è un altro secondo il quale lo scrittore ha mancato, e di gran lunga, l´obiettivo. E mentre l´invenzione della Sonata di Vinteuil (la cui "piccola frase" tanto coinvolge Swann in La ricerca del tempo perduto) offre forse un efficace tropo letterario, il suo persistente ricorrere non ha fatto che suscitare in chi scrive l´insistente smania di poter sentire di cosa diamine si trattasse.
Io credo che sia nell´ambito della vera e propria prassi che le due forme entrano realmente in comunicazione tra loro – e per rendersene conto basta seguire da vicino la loro parallela evoluzione. La sinfonia affonda le proprie origini nell´ouverture operistica, sulla quale è stata successivamente innestata la forma già matura della sonata – a cui la sinfonia deve la propria suddivisione in tre (e poi quattro) movimenti collegati tra loro. Tale processo ebbe luogo – non a caso, a mio avviso – quando il romanzo era ancora nella sua fase primordiale. Tuttavia, mentre non scorgo alcuna inevitabile correlazione tra, ad esempio, le sinfonie di Stamitz o Gossec e i romanzi di Aphra Behn o Samuel Richardson, questi sono accomunati da un´affinità di ordine pratico: durante la fine del XVIII secolo infatti, quando l´orchestra sinfonica non aveva ancora raggiunto una sua forma prestabilita, il romanzo epistolare era in procinto di definire quella che potremmo considerare l´unità della voce narrante e un´efficace organizzazione strutturale basata sulla suddivisione in capitoli.
Che entrambe le forme abbiano poi raggiunto il proprio apogeo nel XIX secolo – e in base a modalità tra loro molto simili – mi sembra sia attribuibile al fatto che condividono il medesimo obiettivo artistico: ovvero la rappresentazione quanto più possibile completa del mondo-attraverso-le-parole (o del mondo-attraverso-le-note-musicali) e, simultaneamente, la realizzazione della personalità creativa dell´autore.
Per il sinfonista del XIX secolo gli universi sonori creati dovevano possedere una coerenza interna ed esprimere l´originalità del proprio spirito – funzioni che venivano assolte, rispettivamente, dall´armonia e dalla melodia. Nei grandi romanzi realisti del XIX secolo, simili propositi sfociano invece nella presunta sovrapposizione tra scrittore e voce narrante. Un espediente che induce il lettore a convincersi dell´autenticità degli eventi descritti e della sincerità di colui o colei che li descrive – anche in questo caso: armonia e melodia.
Le massime vette raggiunte dal romanzo e dalla sinfonia nel XIX secolo denotano una diffusa fiducia nelle possibilità di queste due forme e un senso della loro totalizzante capacità. Le sinfonie di Beethoven e di Brahms o i romanzi di Tolstoj e George Eliot testimoniano pochi dubbi circa la potenzialità della forma di cui sono espressione – nessun nevroticismo, nessuna insinuante ironia. Dio rimane relativamente saldo nel proprio mondo, mentre lo scrittore e il compositore si dimostrano sicuri delle proprie capacità di interagire con questo al fine di produrre effetti esteticamente soddisfacenti. Certo, all´orizzonte già si delineano dei problemi (come potrebbe essere altrimenti?), ma per il momento la concezione illuministica del progresso informa con la stessa intensità l´evolversi delle due forme artistiche.
Lo sconcertante tritono – l´intervallo di tre toni interi che Alex Ross, nella sua magistrale Il resto è rumore, in cui è descritta la storia della musica classica del XX secolo, considera lo squillo di tromba della modernità dissonante – trova il suo equivalente letterario nel senso di disagio che comincia a insinuarsi nelle caratterizzazioni di Henry James o Marcel Proust (per citare due esempi), e negli espedienti di Joseph Conrad o Gustave Flaubert. Il realismo psicologico, associato alla profonda carica sessuale del freudismo, è sul punto di uccidere il fidato narratore di un tempo, mentre le sequenze burrose di cui un altro Gustav – Mahler – arricchisce le sue imponenti sinfonie ci suggeriscono, attraverso la loro stessa dolcezza, che non dovremmo considerarle realmente di burro.
Mahler, la cui produzione musicale comprende generosi accenni a citazioni e allusioni – e il cui stile si potrebbe forse definire "postmoderno" – prefigura inoltre la formale dissoluzione della forma sinfonica. La sua tanto strombazzata ossessione personale con la "rassegnazione" e la morte rappresenta sia la ricerca di una trama narrativa ormai definitivamente perduta che l´acuta consapevolezza che après lui scoppierà un dissonante diluvio. E mentre forse c´è chi non apprezza quel vandalo di Schönberg né la sua broda basata su dodici note, io invece scorgo, nella risposta data dalla musica classica al movimento modernista, una schietta sincerità.
Schönberg stesso si cimentò in un´unica sinfonia, che compose per un´orchestra da camera la cui composizione sarebbe risultata familiare a Gossec. Altrove, ai margini del fermento musicale, i sinfonisti reagirono diventando deliberatamente recherché (come dimostra il romanticismo folcloristico di Sibelius o Dvorak) o attuando una paradossale autenticità postmoderna in cui l´artista è considerato al tempo stesso molto più e molto meno della somma delle influenze che lo ispirano (come nel caso di Shostakovich, il più prolifico sinfonista del XX secolo).
Verso la metà del XX secolo tuttavia, i compositori più autorevoli avevano nella maggior parte dei casi abbandonato la sinfonia, prediligendole delle forme che non richiedessero la ricerca di un´unità organica laddove non ritenevano che ne esistesse alcuna.
Se solo fosse possibile affermare altrettanto del romanzo! Certo: la letteratura occidentale ha conosciuto a sua volta un movimento modernista ben sostenuto, ma la risposta data da Virginia Woolf, James Joyce e altri alla morte delle vecchie divinità (quella narrativa in prosa capace di affrontare il fenomeno della coscienza individuale vista nell´ambito di un mondo caotico) non è riuscita ad affermarsi.
A prescindere da come si svolsero i fatti, ritengo che Ulisse sia da collocare nel punto di massima vicinanza tra la forma del romanzo e quella della sinfonia. Joyce, che era a sua volta pervaso di musica, mise in atto nella sua opera principale tutti gli accorgimenti di un grande sinfonista: la sua prosa, al pari della musica, si svolge in un continuo presente; il suo impiego di colore come effetto modale presenta una coerenza che non ha rivali; il ritmo della sua punteggiatura, anziché risultare un irritante artificio, è integrale al significato delle frasi. Infine, e quel che è forse l´aspetto più significativo, Joyce concepisce l´intero libro come un maestoso esercizio di contrappunto, in cui le menti di Leopold Bloom e Stephen Dedalus si chiamano e si rispondono vicendevolmente.
Ponendo uno accanto all´altro il flusso torrenziale della rassegnata affermazione di Molly Bloom che conclude l´Ulisse e l´altrettanto deliberato fatalismo espresso dall´adagio finale che rappresenta il momento culminante della Nona sinfonia di Mahler (sullo spartito si legge "molto lento e ancora ritenuto") si ha l´impressione di trovarsi al cospetto di due gemelli nati a pochi anni di distanza l´uno dall´altro.
Tuttavia, mentre uno dei due continua a richiamare nelle sale da concerto folle di entusiasti ammiratori, quasi nessuno legge più l´Ulisse. Gli scrittori preferiscono soddisfare l´amore dei propri lettori per le rassicuranti certezze di un tempo voltando le spalle alla verità sperimentale per cercare rifugio nell´apparente armonia del passato.
Uno dei romanzi letterari di maggior successo dello scorso anno – Libertà, di Jonathan Franzen – è consapevolmente ispirato a Anna Karenina di Tolstoj, a cui si attiene realisticamente, come se il Modernismo non fosse mai esistito. È come se un compositore contemporaneo riscrivesse l´Eroica iniettando cospicue dosi di saccarina nelle melodie e rendendo le armonie oltremodo sdolcinate – per poi presentare l´opera così ottenuta alla serata di chiusura del festival dei Proms, tra gli applausi scroscianti degli intenditori di musica classica.
Per tornare al tropo citato in precedenza: sinfonia e romanzo hanno soavemente amoreggiato per un secolo o giù di lì. Ma adesso che il suo partner artistico è morto, il romanzo – anziché proseguire per la sua strada – se ne resta al buio ripensando alle gioie del passato e trastullandosi in un´orgia masturbatoria di populismo.
© Guardian News & Media Ltd 2011 (Traduzione di Marzia Porta)