venerdì 16 marzo 2012

il Fatto 16.3.12
866 mila euro da Lusi alla fondazione di Rutelli
Lo rivela L’Espresso: soldi dirottati con bonifici inferiori ai 150 mila euro. L’ex leader della Margherita: “Tutto falso, è depistaggio”
Il numero uno dell’Api parla di finanziamenti leciti e di articoli “ispirati” dall’ex tesoriere
di Rita Di Giovacchino


Uno scoop annunciato, il primo di tanti bocconi avvelenati destinati ad ammorbare l'aria nell'ex Margherita e che, stando alle previsioni dell'ex tesoriere Luigi Lusi, potrebbero “far cadere l'intero centrosinistra”. Il destinatario, come previsto, è Francesco Rutelli, fondatore del partito, poi transfugo dal Pd, a caccia di nuove sponde politiche che, prima dell'avvento del governo dei “professori”, disegnavano future maggioranze post berlusconiane. Ebbene, Luigi Lusi avrebbe girato quasi un milione, per l'esattezza 866 mila euro, alla fondazione “Centro Futuro Sostenibile” presieduta dallo stesso Rutelli che, subito dopo l'addio al centrosinistra, ha aperto nella stessa sede Alleanza per l'Italia. A rivelarlo è L'Espresso, oggi in edicola.
IMMEDIATA la reazione furibonda di Rutelli, seguita dalla querela degli avvocati Titta Madia e Zeno Zincovich al settimanale. Dietro le rivelazioni “depistanti” dell'articolo c'è soltanto Lusi, afferma Rutelli: “Le informazioni, quelle vere e quelle false, sono state fornite dall'ex tesoriere nella sua azione di inquinamento del processo penale... anche precedenti articoli sono verosimilmente ispirati dall'indagato. Sono circostanze che non emergono dal fascicolo processuale e che, qualora veritiere, sarebbero note al solo Lusì”. Motivo per il quale è stato necessario procedere, l' 8 marzo scorso, al sequestro di ulteriori beni e dell'intervista “rubata” trasmessa da Servizio Pubblico.
Rutelli non smentisce dunque che il Cfs abbia ricevuto finanziamenti dall'ex Margherita. Il fatto del resto non costituisce reato, sostengono gli inquirenti. Semmai la questione è politica, vediamo. A conti fatti, secondo l'Espresso, dal novembre 2009 al luglio 2011, la fondazione avrebbe ricevuto in media 43 mila euro al mese, accreditati sul conto corrente Unicredit-Banca di Roma numero 000401107758. Siamo nel periodo in cui, abbandonato il Pd, troppo sbilanciato a sinistra, Rutelli è impegnato a lanciare la nuova formazione politica, Tutti i versamenti sono inferiori alla fatidica soglia dei 150 mila euro, sotto la quale il tesoriere può decidere in autonomia: lo stabilisce il comma 7 dello Statuto approvato soltanto nel 2007, con lo scioglimento dell'ex partito che continuerà a ricevere rimborsi elettorali per un ammontare di ulteriori 8o milioni. I leader concordano però che i fondi siano distribuiti soltanto a chi non abbandona l'area di centrosinistra per non tradire il patto con gli elettori, cui Rutelli però volta le spalle.
Ma i versamenti non vengono fatti all'Api, ma l'accorto Lusi li versa alla fondazione Centro Futuro Sostenibile che, oltre a un comitato scientifico di tutto rispetto, ospita parlamentari di varia provenienza come Emma Bonino, Pierferdinando Casini, Piero Fassino, Fabio Granata, Maurizio Lupi, Santo Versace ed Ermete Realacci. Del resto il tema unificante è l'ambiente. L'Api nasce nel 2009, la fondazione risale invece al 1989. “Non ho mai preso un quattrino. Metto su Facebook il mio estratto conto: 56 mila euro. Da quando faccio politica il mio patrimonio è diminuito. Sul mio impegno trasparente non posso accettare ombre. Quando ho fondato Api ho tagliato la carta di credito che avevo come presidente della Margherita e l'ho restituita a Lusi”, sbraita Rutelli e con tutta probabilità i fatti gli daranno ragione. Ma ormai il giro dei soldi e dei finanziamenti passa tutto attraverso comitati e fondazioni, centinaia di milioni provenienti dai finanziamenti pubblici che, strada facendo, finiscono per perdere memoria della propria origine. Lo stesso Lusi è tesoriere di un altro comitato, quello di Centocittà, fondato dai sindaci all'inizio degli anni Novanta, nelle cui casse sono rimasti fondi che è sempre lui ad amministrare. Da Centocittà il 30 novembre 2009 parte un finanziamento di altri 150 mila euro allo stesso Ctf.
ALTRE coincidenze. Secondo l'Espresso a incassare i soldi della Margherita per conto della fondazione è il tesoriere Giovanni Castellani, che è anche revisore dei conti della Margherita, rutelliano della prima ora. Sono queste le carte che Lusi intende centellinare tra allusioni e minacce? Sono davvero in grado di distruggere il centro sinistra? L'orientamento della procura di Roma appare inflessibile: indaghiamo soltanto su reati, soltanto se qualcuno, come Lusi, ha intascato soldi per uso personale. In caso contrario se la vedano loro. Ma nei prossimi giorni Lusi sarà nuovamente interrogato. Non si esclude che Rutelli sia convocato in procura come testimone, oltre che come parte lesa.

La Stampa 16.3.12
Il Pd nell’imbarazzo Bersani: “No, questa croce non la voglio”
I democratici preoccupati dallo stillicidio
Sposetti attacca i dirigenti della Margherita: «Dicano agli elettori cos’è successo»
di Carlo Bertini


Estraneo Così si sente il segretario nazionale del Pd Bersani nella vicenda di Luigi Lusi
Il rischio è che venga coinvolto il partito anche se Rutelli ormai è uscito fondando l’Api

Se è vero che per il segretario del Pd ogni giorno ha la sua croce e spesso anche più di una, «io le croci degli altri non me le voglio prendere», dice Bersani in piena campagna per le amministrative e poche ore prima del match con Alfano al cospetto di Monti. Alludendo al fatto che, come dicono i suoi uomini, Rutelli da anni non è più del Pd e quindi il caso Margherita se lo sbrogli lui o i suoi nuovi alleati. Come a dire che casomai questa vicenda potrebbe dar fastidio più a Fini e Casini che con Rutelli hanno dato vita al Terzo Polo. Ma un ex Margherita di lungo corso come Sergio D’Antoni, in Transatlantico allarga le braccia: «Figuriamoci se questo caso non monterà ancora... ». E se lui non dice altro, per dare un’idea della preoccupazione e dell’irritazione che questa vicenda innesca tra i Democratici, bastano le frasi di ex diessini di un certo peso, come il responsabile giustizia Andrea Orlando e il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Orlando non fa mistero che il rischio di tutto ciò sia «altro fango sulla testa del Pd e più in generale di tutti i partiti, quindi non va affatto bene».
Sposetti invece prende la parola dopo l’ex An Altero Matteoli alla presentazione di un libro di Paolo Bracalini, «Partiti spa». E se la fotografia di Matteoli è che oggi i militanti non esistono più, per questo i partiti hanno perso autorevolezza; e che il problema non è tanto il finanziamento pubblico, quanto l’assenza di un serio controllo, Sposetti teorizza il sistema tedesco anche su questo fronte, dove ad ogni partito corrisponde una fondazione che fa cultura, politica e raccoglie fondi. Poi racconta che nel 2002 la legge che aumentò i rimborsi elettorali ai partiti fu decisa da Ds, Forza Italia e Lega Nord. E osserva che dopo quella data «i partiti in quanto tali hanno attraversato due vicende serie: quella dell’appartamento a Montecarlo, durata sei mesi, con una responsabilità politica imperdonabile. E quella attuale, in cui da due mesi il gruppo dirigente della Margherita sfugge dal dire all’opinione pubblica cos’è successo. Un gruppo dirigente che compie un errore ancor più grave, perché cittadini, contribuenti ed elettori hanno il diritto di sapere».
Una posizione che ricalca quella di un pungolatore come Arturo Parisi, convinto che «a questo punto è bene che siano squadernate tutte le cose al più presto, perché almeno così si evita lo stillicidio. E si eviterebbero pure tutta quella fila di affermazioni destinate ad esser smentite il giorno dopo». Parisi non lo dice, ma dietro le sue parole si coglie un interrogativo che circola soprattutto tra gli ex diessini: se cioè anche altre fondazioni che fanno capo ad esponenti della ex Margherita abbiano ricevuto contributi con quei rimborsi elettorali; e se usare quei fondi per iniziative o convegni può esser legittimo, questo è l’argomento ricorrente, la mancanza di chiarezza può dar adito al dubbio di finanziamenti alle varie correnti, malignano gli ex Ds.
Tra gli ex big della Margherita bocche cucite. Pure la Bindi si ritrae, «oggi parliamo di Scalfaro», prima di entrare alla presentazione di un libro con Bersani. Ma a far capire come la pensino in molti è Ermete Realacci, uno che è stato molto vicino a Rutelli e con lui ha condiviso l’avventura della Margherita. Il quale non nasconde neanche la sua irritazione, «perché quando Francesco rispolverò questa fondazione prima della nascita dell’Api lo fece senza coinvolgermi e ritirando fuori questo marchio per avere una sua autonoma immagine di ambientalista. Ora, che questo organismo abbia ricevuto fondi da Lusi non è certo simpatico. Ma vi aderirono diversi parlamentari e furono organizzate alcune iniziative con ospiti internazionali anche qui in Parlamento. Dunque non mi scandalizzerei se i soldi della Margherita sono stati spesi per questo o quel convegno o anche per campagne elettorali. Sarebbe un uso legittimo di una fonte abnorme, cioè quei finanziamenti ai partiti che non esistono più».
Il problema infatti sta anche nel fatto che vecchi partiti come An, Forza Italia, Ds, Margherita ed altri, per anni hanno continuato a ricevere milioni di euro di rimborsi elettorali anche se la legislatura si era interrotta e non erano neppure più presenti in Parlamento con il loro simbolo.

Repubblica 16.3.12
Tensione nella formazione un tempo guidata da Rutelli. Fioroni: "È chiaro chi è la vittima e chi è il colpevole"
La paura degli ex del partito estinto "A chi altro ha dato quei soldi?"
"Era diventato un bancomat per le varie correnti e il tesoriere li teneva buoni"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Hanno paura, i dirigenti dell´ex Margherita. Paura che sia un gioco al massacro, quello cominciato con le rivelazioni del caso Lusi. Quasi tutti scelgono il silenzio. Nessuno rivela di aver preso soldi dal tesoriere che - invece - fa capire di averne dati molti, e a tanti. Dicono che comunque era lecito, che quei fondi stavano lì per questo, per «l´attività politica». Si tratta di 190 milioni di euro però. Un po´ troppi, perché si tratti solo di convegni e manifesti. «Tu hai novità? Sai qualcosa?», chiedono a Renzo Lusetti, margheritino passato all´Udc che, insieme a Enzo Carra e Rino Piscitello, ha fatto causa a Democrazia e Libertà. Lui risponde che non sa nulla, l´udienza del suo ricorso è fissata per il 3 aprile, «Lusi e Rutelli mi hanno tolto il saluto».
Il timore, a Montecitorio, è che l´inchiesta si allarghi, come lascia presagire l´articolo dell´Espresso secondo cui l´ex tesoriere avrebbe girato 866mila euro a una fondazione presieduta da Francesco Rutelli nei mesi in cui fondava l´Api. Così, solo dietro promessa di anonimato qualcuno rivela: «Era chiaro che quello era diventato un bancomat per le varie correnti dell´ex Margherita», o ancora: «Lusi faceva così per tenere tutti buoni, perché non ci fossero troppe domande sull´uso che il partito ormai morto faceva dei fondi pubblici ricevuti».
Luciano Neri, ex dl ora responsabile pd della consulta Italiani nel mondo, racconta: «All´assemblea del 20 giugno avevo detto chiaramente che quei soldi dovevano essere restituiti alla società civile, avevo fatto la precisa proposta di destinarne metà alla ricostruzione in Abruzzo e un´altra metà ad associazioni come la Caritas e Medici senza frontiere. Per questo ho subìto una ferma e brutale opposizione. Al momento non potevo capire perché, a oggi si comprende». «Lo sbeffeggiarono - ricorda uno degli uomini vicini ad Arturo Parisi - dicevano: "I soldi sono nostri", mentre ora è lo stesso Bianco a proporre che vadano a iniziative sociali». Neri attacca: «Sono passati due mesi e mezzo e non hanno ancora convocato l´assemblea federale. Gira voce che vogliano farlo solo per approvare qualche risoluzione ambigua, e poi nominare un liquidatore. E invece no, vogliamo vedere le carte, pretendiamo di sapere tutto».
Enzo Bianco non parla «perché c´è un´inchiesta in corso». Giampiero Bocci non risponde al telefono. Per l´ufficio di presidenza c´è solo la nota di Francesco Rutelli, ma non spiega tutto. «Sono convinto che il flusso di denari non si chiuda in quegli 866mila euro - dice Mario Adinolfi, ex margherita ed ex pd - quelli sono solo l´esempio. La verità è che è in atto una guerra tra bande: qualcuno fa uscire il caviale di Lusi, lui tira fuori i bonifici». Paolo Gentiloni assicura: «Quando ho conosciuto Rutelli il centro per il futuro sostenibile esisteva già, non è una scatola finta per incamerare soldi. Per me fa fede quello che dice Francesco». Lapidario Beppe Fioroni: «Ho letto gli atti prodotti dai magistrati, individuano bene chi sono le vittime e chi i colpevoli. C´è un discrimine chiaro tra quel che è sanzionabile e quel che è lecito. Il resto non mi interessa».

il Fatto 16.3.12
Partiti in crisi dopo Tangentopoli
Mannheimer: “La fiducia in loro è al 4%”
di Stefano Caselli


Si aggirano alla ricerca delle telecamere che non sono più quelle di una volta. Di tanto in tanto ricompaiono in video e fanno uno strano effetto, come la visita di un vecchio e malsopportato parente. Qualche volta rilasciano interviste ai grandi quotidiani e giurano di tornare, un po’ come gli ubriachi allontanati dai bar a tarda notte. Sono i politici italiani, così maldestri (per esser carini) da logorarsi fino al punto di cadere al fondo del fondo della fiducia degli elettori. Lo sa bene chi per mestiere sonda gli umori del Paese, come il sondaggista Renato Mannheimer: “La fiducia nei partiti? Sta al 4 per cento”.
UNA PERCENTUALE irrisoria, eppure una quota non indifferente della vita di ciascuno di noi è ancora nelle loro mani che votano in Parlamento. Il problema, semmai, è che pochi sembrano preoccuparsene, come se della democrazia dei partiti – tale è stata la performance dei suoi rappresentanti negli ultimi lustri – si potesse tranquillamente fare a meno. Basta un poco di Monti e la pillola va giù: “Monti gode di un’elevatissima fiducia – sostiene Mannheimer – anche perché la maggioranza che lo sostiene va da destra a sinistra. È vero, infatti, che la fiducia nei partiti nel complesso è bassissima, ma la fiducia nel partito di riferimento è solitamente più elevata. Capita poi che il gradimento del governo Monti vanga messo in discussione in relazione ai singoli provvedimenti, ma pochissimi si sentono davvero in imbarazzo per il fatto di essere governati da un esecutivo che, in fondo, nessuno ha eletto. Da questo punto di vista non c’è timore per la democrazia. La voglia di elezioni è ai minimi storici, anche perché un italiano su due dichiara di non sapere per chi votare. Certo, il quadro politico attuale e la legge elettorale potrebbero cambiare molto da qui alla primavera del 2013 e questo influisce non poco sulla scelta degli elettori, ma rimane il fatto che quello degli indecisi e degli astensionisti è oggi di gran lunga il primo partito”.
SI PUÒ QUINDI parlare di politica “rinnegata”? “Non esagererei. Partiti rinnegati sì, senza dubbio, ma la politica, nonostante tutto, a volte è ancora percepita come qualcosa di diverso da chi la fa”. E il fatto che il governo Monti così popolare, pazienza se non eletto democraticamente, dipenda comunque da un Parlamento a cui quasi nessuno affiderebbe più nemmeno un pacchetto di sigarette, non preoccupa gli italiani? “Il dibattito ricorrente – ancora Mannheimer – è sui sacrifici, su chi debba pagare di più o di meno la crisi. Il consenso sulla legittimazione di questo governo a proseguire il proprio lavoro è fuori discussione. Ma forse c’è speranza anche per la classe politica attuale. Il disagio maggiore, infatti, salta fuori quando i partiti non decidono. I leader che chiacchierano, soprattutto dei rapporti tra di loro, irritano profondamente l’elettorato. Se, per fare esempio, si trovasse un accordo serio per una vera una riforma elettorale, anche loro potrebbero riguadagnare fiducia”.
Quindi, tutto sommato, l’italiano è sì indignato, ma in fondo in fondo indulgente. Un film simile su questi schermi si è già visto; e forse qui sta la minaccia vera, peggio dei vecchi leader che promettono di tornare: “Dalle nostre rilevazioni – prosegue il presidente di Ispo – emergono molti punti di contatto tra la crisi attuale e quella che seguì a Tangentopoli nel 1992-94. Allora Berlusconi seppe trovare un mercato potenziale presente nel-l’elettorato con una proposta di novità e iniziative che diedero l’idea della concretezza. Come poi sia andata a finire quella storia, è un altro discorso, ma il quadro è molto simile. Certo è difficile replicare il 1994, la credibilità di quelle proposte, allora considerate innovative, è nettamente diminuita. L’attuale crisi di fiducia nella politica, poi, è indubbiamente figlia anche della delusione per il tramonto del berlusconismo, a cui molti avevano sinceramente creduto. Il mercato elettorale che si apre di fronte a chi saprà dare di sé un’idea di novità e concretezza è tuttavia grandissimo”.
ALLA DOMANDA su chi saprà occupare questo spazio, il sondaggista si ritrae e preferisce non rispondere: “Non è il mio mestiere – conclude il professor Mannheimer – Dico solo che la via d’uscita a questa preoccupante crisi di legittimazione della politica ci può essere. Da una parte è necessario un ricambio della classe politica, ma soprattutto la gente manifesta il bisogno di un ricambio del linguaggio e delle idee. La gente si aspetta e pretende un linguaggio più chiaro, proposte concrete e non tanti discorsi in politiche-se senza contenuto”. “Linguaggio chiaro”, “ricambio”, “politichese”, mancano solo il consociativismo e il teatrino della politica e sembra di essere nel 1994. Nel 2013 si vota; un anno e poco più: poi si discuterà su cosa questi ultimi vent’anni abbiano insegnato agli italiani.

il Fatto 16.3.12
I numeri del disastro. Così le segreterie hanno perso influenza


Di quanto è calato il peso dei partiti italiani nella percezione dei loro elettori? Nelle ultime settimane diversi istituti di ricerca si sono cimentati sul tema. In un sondaggio realizzato dalla Demopolis per Otto e Mezzo ed effettuato tra il 10 e il 12 marzo 2012 su un campione di 1024 persone, è stato chiesto: “Quanto si sente rappresentato dal partito da lei votato nel 2008”, e, ancora si è chiesto quale sia la loro percezione sul tema “dopo la nascita del governo Monti, i partiti politici hanno un peso...”. I due grafici, pubblicati in questa pagina ci spiegano come il 57% degli intervistati creda che i partiti abbiano perso potere. Cifra che sale al 62% se la domanda è diretta al proprio partito e al suo grado di rappresentanza per chi l’ha votato. Tra il 24 e il 28 febbraio, sempre Demopolis ha sondato il peso politico dei singoli partiti tra novembre e fine febbraio, in occasione dei “100 giorni” del governo Monti. In termini assoluti flettono tutti i partiti che sostengono il governo Monti. Salgono quelli che vi si distanziano.

il Fatto 16.3.12
Articolo 18, la Camusso cede e vuole l’accordo sulla riforma
Vertice notturno a Palazzo Chigi: Bersani chiede soldi per gli ammortizzatori sociali. Si tratta sulle nomine Rai
di Salvatore Cannavò


Il via libera definitivo non c’è perché quella che ha tenuto occupato lo stato maggiore della Cgil per tutta la giornata di ieri non era una sede formale. Ma il sindacato di Susanna Camusso sta ormai lavorando per la firma alla riforma del mercato del lavoro anche se con mugugni interni. In Corso Italia si è infatti tenuta una riunione della segreteria nazionale allargata ai segretari di categoria e regionali da cui però è stata esclusa la minoranza interna che, con Gianni Rinaldini, ha protestato per tutta la giornata. Dalla riunione, rigorosamente a porte chiuse, non è stato fatto filtrare nulla ma alcune ricostruzioni sono possibili. Secondo quanto risulta al Fatto, la Cgil giudica positivamente l’evoluzione della trattativa avuta nelle ultime ore che modifica l'impostazione originaria. Il governo, infatti, dice di aver trovato delle risorse certe, e sugli ammortizzatori si è iniziato a ragionare anche se la Cgil, ma anche il Pd, chiede risposte certe sulla mobilità. Anche la discussione sull'articolo 18 è divenuta più accettabile.
“I presupposti per chiudere ci sono” ha detto Susanna Camus-so aprendo per la prima volta a una modifica, minima, dell'articolo 18. Non si tocca nulla per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori, l'unica riformulazione riguarda il licenziamento per motivi economici e l'ipotesi di indennizzo al posto del reintegro. La scelta tra indennizzo e reintegro viene fatta dal giudice e, propone la Cgil, occorre una precisa definizione di licenziamento economico perché solo su quello si pronuncerà la magistratura e non possono essere lasciate eccessive libertà alle imprese. Fonti interne alla Cgil spiegano che la discussione ha avuto un aspetto politico: in Corso Italia non vogliono creare problemi al Pd costringendolo a scegliere tra Monti e la Cgil.
A DIRE NO a Susanna Camus-so è stato innanzitutto il segretario Fiom, unico esponente della minoranza alla riunione, che però non si è ritrovato solo. Ma si oppongono anche settori della maggioranza, dai Pensionati alla Scuola, dai Chimici a federazioni come Torino o l'Emilia Romagna fino all'area di Nicola Nicolosi. Questo spiega la durata della riunione e il fatto che tutto sia stato rinviato al Direttivo nazionale convocato per il 21 marzo, che però è il giorno dopo l'incontro fissato da Monti per martedì prossimo. lunedì Camusso dovrà dare una risposta al premier.
I problemi per il governo si aprono però anche sul fronte delle imprese. L'aumento delle aliquote per il lavoro precario, e per la disoccupazione, non vanno giù agli artigiani e alle piccole imprese rappresentate da Rete Imprese Italia che minacciano non solo di non firmare ma anche di disdettare tutti i contratti in essere. É stato il leader dell'Udc a dare loro un sostegno con una nota serale prima di entrare nel vertice a palazzo Chigi, assieme agli altri leader di maggioranza, Pier Ferdinando Casini e Pierluigi Bersani. La questione lavoro era solo una dei punti al vertice, terminato nella notte e il cui esito sarà chiaro oggi. Bersani è andato all’incontro con Monti puntando a strappare più soldi su ammortizzatori sociali (per ora si parla di 2 miliardi, ma non si sa dove trovarli) e ulteriori concessioni nel pacchetto lavoro. Magari in cambio di concessioni su un altro tema discusso ieri sera: la Rai. Archiviata per ora l’ipotesi di una riforma dell’organizzazione dell’azienda, si tratta sulle nomine: Bersani si è opposto al rinnovo del cda con le regole attuali. Ma Monti, e il Quirinale, premono per una mediazione che potrebbe arrivare su nomi di alto profilo per le due cariche chiave, presidente e direttore generale: si parla di Piero Angela per la presidenza, ma anche di Claudio Cappon, già direttore generale. Al posto di Lorenza Lei, data per uscente, potrebbe arrivare un manager esterno come Rocco Sabelli (ex Alitalia) o Enrico Bondi (ex Parmalat). Il Pd ha insistito a mettere il tema corruzione in agenda al vertice, più per assicurarsi che ci fosse un argomento sgradito al Pdl che per ottener erisultati concreti: la legge anti-corruzione è al Senato e il ministro della Giustizia Paola Severino non sembra avere alcuna fretta di arrivare all’approvazione (serve “ grandissima cautela, consapevolezza e serietà”, ha detto ieri).

La Stampa 16.3.12
Lavoro, la corsa a ostacoli
Fiom contro Camusso lite sull’articolo 18
Landini: “Il segretario Cgil non ha avuto il mandato per trattare”
di Roberto Giovannini


ROMA È «una fase delicata», ma «esprimo la mia fiducia che l'accordo sarà realizzato entro pochi giorni». Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ieri parlando al convegno di Adapt in memoria di Marco Biagi ha manifestato ottimismo sull’esito del negoziato, spiegando che la riforma che intende approvare si ispira a tre concetti: «inclusione, universalismo, dinamismo per aumentare l’occupazione». Il prossimo appuntamento è per martedì prossimo, a Palazzo Chigi con Mario Monti. Non sarà quello l’incontro decisivo per la firma (o meno) dell’accordo sulla riforma del mercato del lavoro. Sicuramente in quella sede si dovranno però sciogliere gli ultimi nodi di merito.
Nodi che non sono di poco conto. Batte il tamburo di guerra di commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia: se non avranno qualche alleggerimento sul versante dei costi (stimano l’aggravio dovuto per l’estensione degli ammortizzatori sociali in 2,7 miliardi l’anno) minacciano la disdetta dei contratti collettivi di lavoro firmati. Ieri il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli ha incontrato Fornero: oggi Emma Marcegaglia dirà cosa pensa Confindustria delle ipotesi emerse in queste ore. C’è poi il fronte sindacale: Cisl e Uil mostrano grande ottimismo, ma come era prevedibile in casa Cgil la possibilità di arrivare a un’intesa che in qualche modo vada a toccare la tutela offerta dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha immediatamente creato problemi e tensioni politiche.
E così è durata ben otto ore, con decine di interventi, la riunione della segreteria Cgil allargata ai dirigenti delle strutture di categoria e di territorio, convocata nella sede di Corso d’Italia. Una riunione informativa, per riferire al corpo che dirige la confederazione lo stato dell’arte del negoziato. Ma i dirigenti sono tutti espressione della maggioranza che fa riferimento al segretario Susanna Camusso, con la sola eccezione, di peso, del leader Fiom Maurizio Landini. Così la minoranza di sinistra (coordinata da Gianni Rinaldini) ha protestato duramente. La numero uno della Cgil nella sua relazione introduttiva è stata esplicita: la Cgil deve stare al tavolo e ottenere il massimo possibile. «Non possiamo - ha detto Camusso - subire dal governo un altro atto unilaterale come è avvenuto per la riforma delle pensioni». Insomma, vista l’intenzione di andare avanti comunque manifestata dall’Esecutivo - e la difficoltà di trovare sponde politiche in un Pd che pare già schierato per un accordo a prescindere - per la Cgil non è praticabile altra strada se non cercare di spuntare l’intesa migliore possibile.
Ovviamente il problema principale è quello dell’articolo 18, su cui allo stato la posizione formale è ancora quella di accettare solo una «manutenzione». Ma al tavolo si parla invece di licenziamenti economici con indennizzo; e così negli interventi i dirigenti hanno espresso tutte le loro perplessità e preoccupazioni. Chi chiede l’estensione delle nuove regole alle imprese sotto i 15 dipendenti, chi pone paletti o chiede contropartite, come una norma sull’art. 19 dello Statuto che permetta alla Fiom di essere rappresentata anche nelle fabbriche Fiat. Alla fine, l’unico a dire nettamente che la Cgil non ha mandato a negoziare sull’articolo 18 bocciando le ipotesi in discussione è stato proprio Maurizio Landini. Gli altri hanno accettato la linea Camusso, ovvero «vedere» le carte del governo. I conti si faranno in un direttivo convocato dopo l’incontro con Monti. Qui, se ci saranno le condizioni, Camusso chiederà formalmente un mandato a chiudere il negoziato.

Repubblica 16.3.12
Cgil alla svolta: l´articolo 18 può cambiare
Riunione fiume tra i leader. Fiom: non avete il mandato per farlo. Cofferati: così lo uccidete
Maggioranza con la Camusso. Direttivo mercoledì. Ma si teme una lacerazione
di Roberto Mania


ROMA - La Cgil è a un passo dalla svolta sull´articolo 18. Una lunghissima riunione ieri tra la segreteria nazionale e i leader di tutte le strutture territoriali e di categoria ha preparato il terreno all´affondo della prossima settimana, quando la trattativa per la riforma del mercato del lavoro ritornerà a Palazzo Chigi sotto la regia del premier Mario Monti. Con la sola eccezione della Fiom di Maurizio Landini, che è poi il perno della minoranza «La Cgil che vogliamo», la confederazione di Corso d´Italia è pronta a dire sì al «modello tedesco» sulle procedure per i licenziamenti che non siano discriminatori, affidando al giudice la decisione se reintegrare il lavoratore oppure indennizzarlo.
Una svolta, che non compromette l´essenza dell´articolo 18, ma che per la prima volta sottrae dal reintegro obbligatorio i licenziamenti individuali per motivi economici o organizzativi.
Formalmente la Cgil non ha preso alcuna decisione. Di più: formalmente resta intatta la linea secondo cui «l´articolo 18 non si tocca» approvata dall´ultimo Comitato Direttivo di Corso d´Italia. La riunione di ieri tra i segretari generali, infatti, non è prevista dallo Statuto, ha esclusivamente una funzione consultiva e non vincolante. Ma dal punto di vista politico ha un significato importante perché coinvolge l´apice di tutte le strutture. La svolta, se come sembra ci sarà, arriverà mercoledì prossimo, 21 marzo, giorno per il quale proprio ieri è stato convocato il «parlamentino» confederale. Anche questo è un segnale. E la riunione si terrà esattamente il giorno successivo all´incontro di Palazzo Chigi quando, dopo la raffica di riunioni bilaterali coordinate dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, il governo metterà sul tavolo la sua proposta per intervenire sulla flessibilità in uscita, venendo incontro alle richieste della Banca centrale europea e della Commissione di Bruxelles. Il Direttivo della Cgil dovrà dare il mandato alla segreteria a chiudere il negoziato dentro le regole confederali. Una risposta diretta al coordinatore della minoranza, Gianni Rinaldini, predecessore di Landini alla guida della Fiom, che ieri ha attaccato duramente: «Assistiamo ad una degenerazione della vita democratica delle organizzazioni sindacali. La Cgil non ha alcun mandato per modificare l´articolo 18».
L´articolo 18 doveva essere l´ultimo capitolo da aprire e così è stato. Il governo voleva un accordo con tutti i sindacati, e ormai è del tutta esclusa la possibilità di intese separate. Quello spartito appartiene ad un´altra stagione politica. E anche sindacale. In aggiunta la Cgil questa volta - diversamente da altre - sta scegliendo di privilegiare il rapporto unitario con Cisl e Uil anziché la propria unità interna. Non era scontato.
L´alternativa, implicitamente, l´ha indicata la stessa segretaria generale, Susanna Camusso, nella riunione a porte chiuse: «Subire atti unilaterali, come sulle pensioni». Insomma la reiterata minaccia del governo di decidere da solo era fondata. Una prospettiva perdente per tutto il sindacato.
Una «trattativa sulle montagne russe», l´ha definita la Camusso quella con la Fornero, ma che ha portato a diversi risultati: a ridisegnare l´architettura dei contratti più deboli e a riorganizzare il sistema delle tutele secondo un principio universalistico tendenzialmente uguale per tutti i lavoratori. In cambio la Cgil, in particolare, si prepara a digerire per la prima volta un intervento sull´articolo 18. Scelta che potrebbe avere anche passaggi laceranti. Ieri, intervistato dall´Ansa, ha parlato anche Sergio Cofferati, l´ex leader della Cgil, che esattamente dieci anni fa riempì il Circo Massimo a Roma contro il progetto dell´allora governo Berlusconi sull´articolo 18. Ha detto Cofferati: «Ma quale manutenzione? Se sono vere le cose che i giornali attribuiscono al ministero del Lavoro, quella è l´oggettiva cancellazione dell´articolo 18. La distinzione ipotizzata tra licenziamenti per motivi disciplinari ed economici non sta in piedi, perché nessun imprenditore dirà mai di allontanare un lavoratore per motivi disciplinari, dirà sempre che è un problema di costi o di organizzazione. Introdurre queste distinzioni significa soltanto vanificare il contenuto dell´articolo 18». Questi dubbi serpeggiavano eccome nella lunga discussione di ieri a Corso d´Italia. Ma la linea di realpolitik intrapresa dalla Camusso appare ormai senza ritorno.

il Fatto 16.3.12
Dopo la Cassazione
Stupro di gruppo, “Il giudice deve decidere caso per caso”
di Silvia D’Onghia e Silvia Truzzi


Si urla – come accade solo in Rete – allo scandalo per la decisione del Tribunale del riesame di Cassino (Frosinone) che ha concesso gli arresti domiciliari a due ragazzi, di 21 e 24 anni, accusati di aver violentato una minorenne. Reato orribile, tra i più infami per viltà e violenza. Ma questa considerazione non basta per liquidare la decisione come un via libera agli stupratori. Nel 2009 il Parlamento aveva approvato una legge di contrasto alla violenza sessuale, in cui era espressamente previsto che il giudice non potesse applicare, per i delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenni, misure cautelari diverse dal carcere. Successivamente però era intervenuta una sentenza della Corte costituzionale, secondo cui la norma è in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge), 13 (inviolabilità della libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione. La Consulta ha dichiarato ammissibili le misure alternative al carcere, “nell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. Restituendo così al giudice la libertà di giudicare caso per caso.
LA TERZA sezione penale della Corte di Cassazione ha sancito che i criteri interpretativi stabiliti dalla Consulta sono applicabili anche alla violenza sessuale di gruppo che “presenta caratteristiche essenziali non difformi” rispetto ai casi di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenni. Così il Tribunale di Cassino, recependo la Cassazione, ha concesso i domiciliari ai due indagati. “Parliamo di misure cautelari”, avvisa Carlo Federico Grosso, avvocato e docente di Diritto Penale all’Università di Torino. “Quindi introdurre un principio di obbligatorietà è oggettivamente non appropriato. Il giudice deve avere la libertà di decidere se sussistono i tre presupposti per l’applicazione della misura, cioè pericolo di inquinamento probatorio, di fuga e di reiterazione del reato. Certo più grave è il reato, più il giudice deve essere prudente nel non assumere il provvedimento di custodia cautelare in carcere. Nell’esercizio del suo potere deve tener conto della gravità del reato. Può sbagliare, ma a monte può sbagliare anche il legislatore nel prevedere l’impossibilità del giudice di valutare caso per caso. Altrimenti vuol dire che i presupposti per l’applicazione della misura sono dati per scontati”.
Questo reato è infame, ma la privazione della libertà personale è comunque un’extrema ratio. L’errore, le accuse false sono una possibilità da poter tenere in considerazione. “Deve essere chiara una cosa – continua Grosso – la discrezionalità dell’applicazione di una misura cautelare non significa attenuare la sanzione penale, quando il reato venga accertato”.
Un concetto che andrebbe spiegato meglio alle donne che hanno subito violenza e alle loro famiglie, prima che venga creato il caso e si gridi al “mostro in libertà”. Altrimenti “la vittima si sente vittima due volte – spiega Gabriella Tambone, psicologa di Telefono Rosa – non solo ha subito un trauma, ma pensa di essere stata abbandonata dallo Stato. Una volta è venuta da me una donna proprio nel giorno in cui il suo aggressore era stato scarcerato: era terrorizzata dall’idea di poterlo incontrare di nuovo, aveva paura che non ci fosse alcun controllo sui domiciliari”. Per questo è importante parlarne in termini corretti, anche dal punto di vista mediatico: “È la dimostrazione che qualcuno si sta facendo carico del problema e che la legge c’è e non è inutile”.

il Fatto 16.3.12
Per la salute serve più coraggio
di Ignazio Marino


Il decreto sulle semplificazioni che martedì ha incassato il voto di fiducia alla Camera dei deputati è certamente molto utile, ma non esente da difetti. Analizzando le proposte di semplificazione sulla sanità digitale qualche dubbio sorge. L’articolo 47 bis della legge cita testualmente: “Nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, nei piani di sanità nazionali e regionali si privilegia la gestione elettronica delle pratiche cliniche, attraverso l’utilizzo della cartella clinica elettronica, così come i sistemi di prenotazione elettronica per l’accesso alle strutture da parte dei cittadini con la finalità di ottenere vantaggi in termini di accessibilità e contenimento dei costi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
COSA significa in linguaggio corrente? Che il governo comprende quanto sia cruciale archiviare le vecchie cartelle cliniche cartacee e passare a quelle elettroniche, ma non ha intenzione di investire alcuna risorsa per creare un sistema informatico dei cittadini italiani, né d’altra parte può obbligare le Regioni a implementare un progetto che ha evidentemente un carattere nazionale. Con queste premesse è lecito immaginare che la legge rimarrà lettera morta e che nessuno farà nulla in assenza di obblighi e di vincoli. Perché allora introdurre un capitolo specifico sulla sanità digitale? Il motivo ci sarebbe perché costruire un sistema elettronico in cui i dati clinici di ogni cittadino siano registrati e gestiti dal medico di famiglia servirebbe a ridurre i costi della sanità, a rendere più accessibili le informazioni e a migliorare la sicurezza per i pazienti. Nella cartella clinica personale andrebbero infatti registrate le malattie, i farmaci assunti, gli eventuali ricoveri, i risultati delle analisi diagnostiche effettuate nel corso degli anni e tutti questi dati sarebbero immediatamente disponibili su computer in qualunque momento e luogo.
QUESTO contribuirebbe a ridurre gli esami inutili e ripetuti, ma anche a evitare incidenti come la somministrazione di farmaci a cui il paziente è allergico, per non parlare del tempo che si risparmierebbe eliminando le code agli sportelli per il ritiro di analisi e lastre. È evidente che un progetto di questa portata rientra in un grande disegno di modernizzazione del paese. Ma non si può certo immaginare che sia un progetto a costo zero per le casse dello Stato, per questo fa sorridere che la legge non preveda oneri aggiuntivi per la finanza pubblica. I tecnici del governo lo sanno, come lo sanno gli assessori e tutti coloro che lavorano nella sanità e la vorrebbero migliorare. L’Italia soffre per gap tecnologico in molti settori, sanità compresa, e paga scelte poco lungimiranti fatte in passato. Oggi, se si vuole ridurre la distanza con i paesi più avanzati e se si intende davvero imprimere una svolta in senso riformatore, non si può solo allungare l’età pensionabile e rendere meno ingessato il mercato del lavoro. Servono anche misure concrete che aiutino la modernizzazione e sostengano i progetti innovativi che creano impiego e nuove opportunità economiche. Ed è proprio questo che si aspetta con impazienza dal governo Monti.
Chirurgo e presidente commissione parlamentare d’inchiesta sul SSN

l’Unità 16.3.12
Chiude il Riformista
Macaluso: vittime di tagli e giornali finti
Il Riformista chiude. Nell’edizione oggi in edicola, il direttore Emanuele Macaluso annuncia la messa in liquidazione della testata. Solidarietà da tutti i partiti e dal comitato di redazione de l’Unità
di Andrea Carugati


«Non ci sono le condizioni per andare avanti». Con un editoriale in edicola oggi, il direttore Emanuele Macaluso mette la parola fine alla storia decennale del quotidiano Il Riformista. Sarà l’assemblea dei soci della cooperativa (di cui fanno parte,
oltre a Macaluso, anche Gianni Cervetti e il condirettore Marcello Del Bosco), a votare oggi la liquidazione della società.
Una decisione choc per i 15 giornalisti (tra assunti e precari) e per i dieci poligrafici, che ieri hanno indetto una affollata conferenza stampa alla sede dell’Associazione stampa romana, cui hanno partecipato vari parlamentari di molte forze politiche, da Enrico Letta del Pd a Giorgio Stracquadanio del Pdl, per chiedere all’editore di fermare la procedura di liquidazione e di aprire un tavolo con il sindacato per trovare una soluzione alternativa. Una richiesta a cui si è associato anche il presidente della Federazione nazionale della Stampa Franco Siddi, che ha ricordato come il governo abbia appena sbloccato 120 milioni di fondi per l’editoria, mentre Macaluso punta il dito proprio contro il taglio dei fondi pubblici «di cui usufruiscono fogli clandestini legati a notabili o faccendieri». La settimana prossima, inoltre, il sottosegretario all’Editoria Paolo Peluffo farà il punto alla Camera sugli stati di crisi del settore e sui nuovi criteri per il riparto dei fondi pubblici.
Una situazione in movimento, insomma, che, agli occhi del comitato di redazione del Riformista, rende «sconcertante» la scelta di mettere in liquidazione la testata, annunciata per oggi. Un atto di «arroganza padronale degno di Marchionne», attacca Alessandro De Angelis, portavoce del Cdr. Tra le ragioni della chiusura, anche un buco di 800mila euro tra la pubblicità preventivata e realmente incassata. Un “gap” che, secondo Macaluso, i precedenti editori Angelucci si sarebbero impegnati, con una scrittura privata, a coprire, ma la vicenda è finita in tribunale. Il Cdr chiede a Macaluso una
«operazione verità sui conti». Il direttore risponde invitando i giornalisti ad assumere in prima persona la guida della cooperativa e del giornale.
«È inaccettabile che ci venga offerta una cooperativa piena di debiti a mo’ di sfregio», replicano i giornalisti. «Un comportamento anti-sindacale che non fa onore alla storia di Macaluso. Constatiamo che invece di fare un’operazione verità sull’origine dei debiti, l’ex dirigente del Pci preferisce attaccare il cdr», insistono i giornalisti. Che ricordano come a dicembre sia stato firmato un contratto di solidarietà, con un taglio alle retribuzioni, che avrebbe dovuto consentire di andare avanti per un anno. «Da dicembre a oggi cosa è cambiato nei conti?», domanda De Angelis.
«Si muova la politica», è il grido dei giornalisti. La risposta è bipartisan: da Veltroni a La Russa, Di Pietro, Frattini, Roberto Rao dell’Udc, Granata e Perina di Fli, Anna Maria Bernini. Solidarietà anche dai colleghi di Liberazione e del Manifesto, e dal comitato di redazione de l’Unità.

l’Unità 16.3.12
L’ultimo maoista rimosso dal vertice del partito in Cina
Bo Xilai sostituito alla guida della città di Chongqing
Con la popolarità conquistata nella lotta contro la corruzione poteva ambire a fare il suo ingresso nel prossimo Politburò
di Gabriel Bertinetto


Il primo canale della tv di Stato ha dato la notizia in quinta posizione con un titolo in perfetto stile politichese: «Sistemata la nomina del compagno incaricato al Comune di Chongqing». L’agenzia Xinhua non è stata meno reticente, limitandosi a informare che il posto di Bo Xilai è ora assegnato a Zhang Dejiang. Ma nella Repubblica popolare del terzo millennio i media privati e Internet, benché ostacolati e spesso censurati, riescono a perforare le maglie della comunicazione ufficiale, aggiustata e confezionata. E quindi in Cina tutti sanno che un terremoto politico ha sconvolto gli equilibri di potere a Pechino.
Il personaggio silurato, Bo Xilai, 62 anni, non è uno dei tanti leader locali, ma un pretendente al trono che sta per rendersi vacante nel partito comunista. È il protagonista di un revival ideologico in stile maoista che ha avuto enorme eco negli ultimi anni in tutta la Cina, ed è figura associata nell’immaginario collettivo ad una lotta senza quartiere contro la corruzione che gli ha guadagnato molti consensi non solo nella sua città, Chongqing.
In ottobre il congresso comunista non si limiterà a ratificare la sostituzione del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao con i loro rispettivi attuali vice, Xi Jinping, e Li Keqiang, ma effettuerà un completo rimescolamento della composizione del Politburo, il massimo organo dirigente del partito. Dei nove membri attuali solo Xi Jinping e Li Keqiang manterranno il loro posto. Gli altri saranno rimpiazzati. Bo Xilai era fra i candidati maggiormente accreditati al subentro, e nessuno si illudeva che si sarebbe rassegnato a essere uno dei nove. La sua popolarità, il carisma, il coraggio nello spezzare i riti che nella Repubblica popolare servono a costruire un’unità di facciata del gruppo dirigente, ne avevano fatto ormai il capo non dichiarato di una corrente che ambiva a prender il sopravvento nel partito. Xi Jinping sarebbe stato il re, Bo Xilai aspirava a diventarne l’eminenza grigia.
La sua stella aveva però improvvisamente smesso di brillare circa un mese fa, quando gli era d’improvviso venuto a mancare l’appoggio del suo braccio destro nella campagna contro la corruzione a Chongqing, il superpoliziotto Wang Lijun. Quest’ultimo era stato rimosso dopo un misterioso tentativo di chiedere asilo politico al consolato americano di Chengdu. Prima dissero che si stava riposando. Poi emerse che era inquisito. Di cosa non si sa. Subito molti sospettarono che attraverso il suo numero due, a prescindere dalle sue vere o presunte responsabilità, si cercasse di colpire lo stesso Bo. Forse un giorno verrà fuori che i campioni della lotta alla criminalità organizzata e alle sue ramificazioni nel mondo politico, erano loro stessi coinvolti in vicende poco pulite. O più semplicemente risulterà che hanno agito violando i limiti della legalità e perseguendo a volte gli avversari politici con il pretesto di voler punire i loro presunti affari illeciti. L’accusa di agire in modo arbitrario era stata spesso velatamente rivolta per denunciare i metodi di Bo Xilai.
Andando indietro di 24 ore si capisce meglio il senso delle parole pronunciate dal primo ministro in carica Wen Jiabao mercoledì, chiudendo l’annulla sessione plenaria del Parlamento. Wen in un discorso dai toni fortemente emotivi, in cui ha tracciato un bilancio di dieci anni trascorsi alla testa del governo, ha rispolverato una questione che sembra uscire dai libri di archeologia politica nazionale: la rivoluzione culturale. I cui «errori -ha dettodevono ancora essere del tutto eliminati». E ha ammonito a vigilare perché il Paese «potrebbe ancora sperimentare un simile periodo di instabilità».
Con ogni probabilità Wen si riferiva alla tendenza impersonata da Bo, che riproponendo con grande enfasi i vecchi schemi retorici e ideologici del passato maoista, perseguiva un progetto politico ostile ai cambiamenti. E invece, ha affermato Wen, «dobbiamo spingere verso le riforme strutturali sia economiche che politiche». Sottolineando in particolare la necessita di una «riforma del sistema di guida nel partito e nel Paese».
Pochi giorni prima aprendo i lavori dell’Assemblea Wen aveva difeso i «diritti dei contadini alla terra in cui lavorano» contro le requisizioni forzate delle autorità locali. Un fenomeno che ha scatenato proteste a catena e in alcuni casi la rimozione dei dirigenti di partito complici di spregiudicate iniziative speculative. Ora Bo Xilai è fuori gioco.

La Stampa 16.3.12
Nuove trame, antiche paure
La successione che inquieta la Cina
di Gianni Riotta


Una sola volta dal 1949, quando il partito comunista di Mao Ze Dong prese il potere in Cina, i cambi di leadership a Pechino si sono svolti senza trame sanguinose, colpi di Stato tentati e repressi, faide atroci tra fazioni. Nel 2002, durante la grande riforma economica che dal 1981 ha trasformato 630 milioni di cinesi poveri in operai e ceto medio, Jiang Zemin riesce a passare le consegne all’attuale presidente, Hu Jintao. Tutte le altre sfide, con i titani Mao, Zhou en Lai, Lin Biao, Lu Shaoqi, Hua Guofeng, Zhao Ziyang, intenti a manovrare masse sterminate in intrighi rinascimentali, hanno visto il grande paese perdersi in violenze e tensioni.
Che l’anarchia possa ripetersi era lo spettro più temuto da Deng Xiaoping, come testimonia la monumentale biografia che gli ha dedicato Ezra Vogel: lavorava perché la Cina non si disgregasse come l’Urss, o cadesse preda di una tragica versione delle antiche rivolte dei Signori della Guerra, caos assoluto e senza pace che i film del regista Zhang Yimou cercano di esorcizzare. La repressione a piazza Tien An Men e la fine politica di Zhao Ziyang si spiegano anche così. E’ ancora oggi la paura del Partito comunista cinese, e il rinnovo previsto per l’autunno con le dimissioni di Hu e l’insediamento di Xi Jinpin, deve appassionarci, almeno quanto l’elezione alla Casa Bianca: perché può avere conseguenze assai maggiori dello scontro Obama-Romney sulla politica ed economia del nostro mondo.
Per questo la saga di Bo Xilai, l’eccentrico capo del partito a Chongqing, allarma Pechino. La vita di Bo è la vita della Cina comunista. Suo padre Bo Yibo, uno degli «otto immortali della Rivoluzione», finì vittima delle purghe durante la Rivoluzione Culturale, proprio mentre Bo Xilai era attivo in una delle più feroci squadre di Guardie Rosse «Liangdong», Azione Unita sciolta per terrorismo. Padre e figlio si scambiano poi i ruoli, il primo riabilitato, il secondo ai lavori forzati: la moglie di Bo Yibo muore in circostanze misteriose.
Ma quando la Cina di Deng riparte, l’ambizioso Bo Xilai, che perfino in campo di lavoro non ha smesso di studiare l’inglese, sente il profumo del potere. Figlio di un padre della patria, il solo laureato in giornalismo in un partito di tecnocrati, impara a usare la televisione, veste con cravatte da senatore americano, sceglie campagne populiste, con retate anti prostituzione, racket, gioco d’azzardo, corruzione. Sindaco di Dalian, rompe il tabù che impedisce di glorificare i leader in attività, riempiendo la città di foto di Jiang Zemin. Sembra una campagna elettorale, esistono anche nel Pc cinese, verso il Politburo, i toni di Bo rispolverano la Rivoluzione Culturale, non perché ci creda più, ma perché, come Putin a Mosca, sa che nel Partito tanti hanno nostalgia del passato e delle sue mitologie. Rispolvera perfino certe coreografie maoiste, mentre già Internet, nei siti di base, denuncia gli eccessi di suo figlio, Bo Guagua, che ha studiato ad Harvard e Oxford.
Al mondo Bo si affaccia con «la guerra dei reggiseni», che combatte col solito tono arrogante contro il commissario europeo Peter Mandelson, duellando su dazi e produzione industriale, spesso sbattendo la porta e lasciando in finti furori la sala delle trattative. In una tragedia che potrebbe dare sceneggiature a Zhang Yimou, la fine di Bo comincia quando Wang Lijun, il capo della polizia che ha nominato a Chongqing suo partner nelle repressioni, si rifugia a un consolato americano, portando con sé documenti delle malefatte di Bo e dicendo di temere per la sua vita. Wang non riceve asilo politico, ma la carriera di Bo è stroncata.
Il premier uscente Wen Jiabao ha messo in guardia la Cina, e il mondo, contro una transizione violenta a Pechino nel 2012-2013, attaccando direttamente Bo, che sui siti Internet viene paragonato alla vecchia Banda dei Quattro guidata dall’ultima moglie di Mao e processata nel 1981. Bo aveva già i militanti che gli gridavano in pubblico «Ti amiamo Bo», slogan che alla Cina ricorda tempi durissimi.
E’ il dilemma che il partito comunista pone oggi a tutti noi. Le opinioni pubbliche democratiche non possono che sostenere i diritti dei dissidenti come l’artista perseguitato Ai Wei Wei, le ragioni degli operai migranti, la causa paziente del popolo tibetano, l’apertura del Web in Cina. Ma il freddo realismo dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger ci richiama anche al problema della stabilità, perché se la Cina sfuggisse di mano al governo, precipitando in una lotta sorda di Signori della Guerra del XXI secolo, il contraccolpo sugli equilibri diplomatici, politici e economici del pianeta sarà lacerante. Non solo si fermerebbe ogni germoglio di ripresa dopo la grande crisi del 2007, ma si accenderebbero fuochi di guerra alla frontiera nucleare con India e Pakistan, sulle rotte del Pacifico e dell’Oceano Indiano, mandando in fermento l’Asia, dal Vietnam all’Indonesia, e riportando in prima linea l’Australia, il Giappone e Stati Uniti.
La sciarada di Bo Xilai ci richiama alla dura realtà: possiamo seguire con speranza le evoluzioni verso un sistema aperto del più grande Paese al mondo, ma auspicando che la sua sterminata comunità e la sua leadership sappiano sfuggire all’antica dannazione dell’anarchia.

Corriere della Sera 16.3.12
Un’epurazione che non cancella i dubbi su un’economia in affanno
di Sergio Romano


In Unione Sovietica l'eliminazione di un leader ambizioso e ingombrante avveniva dietro le quinte del potere ed era annunciata al pubblico, molto spesso, con la rimozione del suo ritratto dai grandi cartelloni che rendevano onore alla direzione del partito e dello Stato. La Cina Popolare è comunista, ma il suo stile è alquanto diverso. Qualche giorno fa, quando ha capito che le nuvole si stavano addensando sulla sua testa, Bo Xilai, capo del partito nella grande città-isola di Chongqing (quasi 29 milioni di abitanti), ha convocato alcuni giornalisti stranieri nel suo ufficio, li ha accolti in un impeccabile completo scuro, ha ammesso di avere fatto qualche errore nella gestione della sua città e di avere dato troppa fiducia al suo principale collaboratore, ma ha trasmesso ai suoi fedeli un messaggio rassicurante.
Conoscevamo le sue aspirazioni. Sapevamo che contava di essere ammesso al Comitato dei nove, vale a dire al gruppo ristretto del Politburo che governa tra l'altro l'alternanza del potere nelle due maggiori cariche dello Stato. Sapevamo anche che gli affanni di Bo erano cominciati quando il suo vicario e capo della polizia, Wang Lijun aveva trascorso una notte nel consolato americano di Chengdu, la capitale del Sichuan. Ne era uscito il mattino seguente, era stato arrestato ed è ora oggetto di un'indagine per corruzione. Ma Bo, pur ammettendo qualche errore, appariva sereno e imperturbabile.
I giornalisti presenti non ne sono stati sorpresi. In questi ultimi tempi il boss di Chongqing ha messo in scena una sorta di entusiasmante campagna elettorale, poco conforme allo stile della leadership cinese. Ha partecipato a molti eventi pubblici, ha pronunciato discorsi, ha denunciato il crescente divario tra povertà e ricchezza nella società cinese, ha dichiarato che la crescita economica e una maggiore eguaglianza sono finalità compatibili. E ha condito queste implicite critiche al governo con un tripudio di bandiere rosse e canti popolari che appartengono al vecchio repertorio della Rivoluzione culturale. L'accostamento è certamente demagogico e ricorda certi toni nostalgici di Vladimir Putin per la vecchia patria sovietica. Ma il suo programma non è troppo diverso da quello che adottano le opposizioni delle grandi democrazie, sulle due sponde dell'Atlantico, quando promettono che i loro governi, non appena andranno al potere, sapranno garantire contemporaneamente il rigore dei bilanci e la crescita del Pil (prodotto interno lordo).
Ma la Cina Popolare non è una democrazia, e la sola opposizione possibile è quella che si esprime secondo le liturgie del regime nelle stanze sorde e mute della Città Proibita. Pochi giorni dopo la conferenza stampa di Bo, il Primo ministro Wen Jiabao ha chiuso la sessione annuale del Parlamento cinese con un discorso in cui, dopo avere descritto la situazione economica del Paese e dichiarato che la Cina ha bisogno di una radicale riforma politica, ha invitato il vertice del partito nella città di Chongqing a «riflettere seriamente e a trarre qualche lezione dal caso Wang Lijun». Non era un semplice ammonimento. Era l'annuncio cifrato della decisione che sarebbe stata presa ieri quando Bo e il suo vicario sono stati bruscamente destituiti.
Dietro questa lotta di potere al vertice dello Stato non vi sono soltanto ambizioni personali. I due discorsi pronunciati dal premier Wen Jiabao all'Assemblea del Popolo lasciano intravedere una situazione economica e sociale piena d'incertezze. Nello scorso settembre la ribellione di Wukan, una piccola città nella provincia del Guangdong, non è stata una delle numerose ma effimere fiammate popolari che si accendono quasi ogni giorno nell'immenso territorio cinese. Il governo locale lo ha capito e ha avuto il merito di trattare l'evento con grande prudenza. Ma il fenomeno rivela l'esistenza di un rabbioso malessere sociale. Il fossato tra ricchezza e povertà si allarga. Le spese sanitarie dello Stato sono insufficienti e costringono i cinesi a risparmiare una grossa parte del loro reddito per i malanni futuri. L'«indice della felicità», una misura del benessere popolare, registra cifre decrescenti. Il numero dei «senza fissa dimora», che si spostano come nomadi da una città all'altra, è pari grosso modo al doppio della popolazione tedesca. Il governo ha adottato alcune misure e promette di prenderne altre: l'aumento della spesa sanitaria, un fondo pensione per gli agricoltori, un graduale aumento dei salari, maggior credito alle piccole imprese, forse qualche provvedimento fiscale sui redditi più elevati. Ma la crisi dei grandi Paesi importatori dell'Occidente, insieme all'aumento della spesa pubblica, del costo del lavoro e del petrolio importato, avranno un effetto negativo sulla crescita dell'economia nazionale. Non è sorprendente che il governo cinese, negli scorsi giorni, abbia annunciato un aumento del Pil, per l'anno in corso, pari al 7,5%. Sino a poco tempo fa molti osservatori sostenevano che soltanto una crescita più elevata, intorno al 10%, avrebbe permesso al governo cinese di evitare i malumori di una società dove la grande modernizzazione ha prodotto molte diseguaglianze e grandi aspettative insoddisfatte. Bo Xilai ha cercato di rappresentare questi malumori con una campagna molto demagogica e ha pagato il prezzo della sua imprudenza. Ma la sua eliminazione non basta ad assicurare il futuro del Paese. I nuovi leader, destinati a prendere possesso delle loro cariche all'inizio del 2013, avranno un compito che non concerne soltanto i loro connazionali: quello di evitare che la Cina divenga il più grande malato del mondo.

La Stampa 16.3.12
Un documento della Conferenza episcopale statunitense invita i cattolici alla mobilitazione contro la riforma sanitaria
“Casa Bianca contro la libertà di fede”
L’arcivescovo di New York Dolan: sulla contraccezione Obama impone la sua volontà
di Paolo Mastrolilli


I vescovi cattolici americani non accettano il compromesso offerto dall’amministrazione Obama sul tema della contraccezione, trasformando questo scontro in una priorità. Lo ha deciso la Commissione amministrativa della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, durante una riunione di due giorni, che si è conclusa mercoledì con la pubblicazione di un documento. Il testo allarga il problema alle «varie minacce contro la libertà di religione esistenti nei nostri giorni», ma poi si concentra quasi esclusivamente sulla disputa degli anticoncezionali. Una presa di posizione molto netta, che in un anno elettorale come questo avrà importanti effetti politici.
Nel gennaio scorso il Department of Health and Human Services, in sostanza il ministero della Sanità, aveva accettato l’opinione secondo cui i contraccettivi sono parte della medicina preventiva. Quindi aveva richiesto a tutti i datori di lavoro di fornirli gratuitamente ai dipendenti che li vogliono, attraverso le assicurazioni sanitarie. Le chiese e le organizzazioni religiose erano esentate, per motivi di coscienza, ma non le altre strutture associate, come ospedali e scuole. Subito era scoppiata la polemica, con i vescovi che avevano rigettato la misura definendola un sopruso che negava la libertà di religione. Questa posizione era stata condivisa anche da molti cattolici liberal, e i repubblicani ne avevano approfittato per farne una questione politica, accusando la Casa Bianca di avere una strategia in atto contro la fede. Allora Obama, colpito dagli attacchi che rischiano di fargli perdere l’importante voto cattolico a novembre, aveva fatto una piccola marcia indietro. Aveva stabilito che i dipendenti delle strutture associate ai gruppi religiosi continueranno a ricevere i contraccettivi gratis, ma saranno le assicurazioni a pagarli, invece dei datori di lavoro.
In principio il nuovo cardinale di New York Timothy Dolan, presidente della Conferenza episcopale Usa, aveva giudicato questo compromesso come un primo passo nella direzione giusta, ma poi lo ha bocciato insieme ai suoi colleghi. Nel frattempo il dibattito politico è degenerato, perché soprattutto i due candidati repubblicani alla Casa Bianca Santorum e Gingrich, entrambi cattolici, hanno alzato il tono degli attacchi. È finita che il commentatore radiofonico conservatore Rush Limbaugh ha definito prostituta una studentessa della Georgetown University, perché difendeva il diritto a ricevere gli anticoncezionali chiedendole in cambio di mettere online i filmati delle sue prestazioni sessuali.
Col documento di mercoledì i vescovi hanno cercato di prendere le distanze da questo circo politico, ricordando che il problema in discussione non è la contraccezione, ma la libertà di religione. Il fatto che il governo imponga a tutti una pratica incompatibile con la fede di alcuni, viene giudicato una violazione del diritto costituzionale a professare ed esercitare il proprio credo. Quindi la Conferenza episcopale ha deciso di trasformare questo confronto in una priorità, annunciando la sua mobilitazione contro la scelta del governo.
La sfida, adesso, si trasferirà inevitabilmente sul terreno politico, in vista delle presidenziali. I cattolici negli Stati Uniti sono oltre 60 milioni, e vengono considerati il più importante gruppo di «swing voters», ossia elettori di centro che cambiano il loro voto in base alle posizioni dei candidati. Nel 2008 scelsero in maggioranza Obama, trascurando le perplessità della gerarchia, che però adesso torna ad alzare la voce. Il presidente punta sulla speranza che ancora una volta i fedeli siano più liberal dei loro vescovi. I cattolici più conservatori tanto non lo avrebbero votato comunque, mentre la disputa in corso potrebbe spingere quelli moderati e progressisti a tornare con i democratici.

68,5 milioni di cattolici. Otto americani su dieci sono cristiani. Quasi la metà sono protestanti, circa il 23% sono cattolici. Poi ci sono le minoranze dei mormoni, degli anglicani e dei testimoni di Geova
54% i voti nel 2008 al democratico I cattolici sono «swing voters», cioè scelgono di volta in volta il candidato da sostenere E sono spesso decisivi Nel 2004 appoggiarono George W. Bush La Chiesa contesta che nelle polizze ci sia la copertura per gli anticoncezionali

La Stampa 16.3.12
Il “Papa americano” col berretto da baseball che guida la protesta
di Andrea Tornielli


Timothy Dolan L’arcivescovo di New York 62 anni è stato definito dal vaticanista americano John Allen «la rockstar del concistoro» per le sue capacità comunicative: tiene un blog e incontra i giovani nei pub
AL CONCISTORO A ROMA Dolan ha stupito i suoi colleghi «La Chiesa stessa ha bisogno di essere evangelizzata»

CITTÀ DEL VATICANO Dopo il suo arrivo nella Grande Mela e la sua sorprendente elezione a presidente dei vescovi statunitensi, giornali e tv hanno cominciato a chiamarlo «il Papa americano». Ora che i cardinali, il mese scorso, lo hanno ascoltato parlare di evangelizzazione durante il summit che ha preceduto il concistoro, Timothy Michael Dolan «papabile» lo sarebbe davvero, se solo non fosse nato negli Stati Uniti: gli americani, si dice, non possono essere candidati perché il loro Paese è già una superpotenza nel mondo, anche se certe analisi geopolitiche del passato non sono più così scontate.
Originario di St. Louis, nel Missouri, 62 anni, ha vissuto a Roma sette anni, dirigendo il Collegio Nordamericano. Arcivescovo di Milwaukee dal 2002 al 2009, è stato trasferito a New York tre anni fa, dove appena arrivato ha dichiarato: «Il mio obiettivo primario è uno, e cioè incontrare people and people, gente e ancora gente».
Con il suo ingresso nella più importante sede episcopale statunitense, c’è chi ha creduto fosse finita l’epoca della Chiesa irremovibile sulla difesa principi: Dolan non è un intransigente e le sue posizioni non sono del tutto assimilabili a quelle della corrente più conservatrice dell’episcopato statunitense. Eppure il «Papa americano», fermo sulla dottrina, ma aperto sulle questioni sociali e a suo agio nella modernità, ha dapprima difeso come un leone Benedetto XVI durante lo scandalo della pedofilia, attaccando duramente il «New York Times». E ora non manca di alzare la voce contro la decisione dell’Amministrazione Obama di rendere obbligatoria nel 2013 anche per le chiese e le associazioni religiose un’assicurazione sanitaria per i dipendenti, comprendente rimborsi per la contraccezione e l’aborto. «Il presidente ci sta dicendo che abbiamo un anno per capire come violare le nostre coscienze... La sua altro non è che una decisione sconsiderata», ha commentato Dolan.
Il neo-cardinale a Roma, nella giornata di riflessione che ha preceduto il concistoro ha colpito e sorpreso i colleghi porporati per il suo approccio: «La nuova evangelizzazione si compie con il sorriso, non con il volto accigliato», ha detto, contestando garbatamente l’idea che gli era stata suggerita di considerare New York la «capitale della cultura secolarizzata». Ha mostrato di guardare al mondo non come a un abisso di perdizione, ma come a un campo da mietere, parlando di «un’innegabile apertura alla trascendenza» presente anche in luoghi che «solitamente vengono classificati come “materialistici” - come i mass media, il mondo dello spettacolo, della finanza, della politica, dell’arte».
Poi ha invitato i teologi a «cercare di parlare della fede come un bambino», perché «abbiamo bisogno di dire di nuovo, come un bambino, l’eterna verità, la bellezza e la semplicità di Gesù e della sua Chiesa». Ha detto che i cristiani devono essere «sicuri», mai però «trionfalisti», riconoscendo che «la Chiesa stessa ha sempre bisogno di essere evangelizzata». E ha chiuso il suo discorso scusandosi per il suo «italiano primordiale».
Il più noto vaticanista americano, John Allen, che gli ha appena dedicato un libro-intervista (A people of hope), lo ha definito la «rockstar» del concistoro, ricordando le sue capacità comunicative. E Dolan non si è smentito neanche quando ha portato in udienza la madre Shirley, ottantaquattrenne, e ha chiesto al Papa di proclamarla «first lady del collegio cardinalizio». Dolan non disdegna di farsi fotografare con berretto da baseball e tuta da ginnastica. Incontra i ragazzi della Grande Mela nei pub, rispondendo alle loro domande. Tiene un blog, che ha aggiornato anche durante il recente soggiorno romano, raccontando della sua mattinata nella Città Eterna, con la confessione, la messa e l’immancabile pastasciutta. Ha invitato chi lo legge a imitarlo per quanto riguarda la confessione frequente.
Il cibo, invece, rimane per lui un punto dolente: nell’ultimo anno si è messo a dieta perdendo 25 chili, ciò nonostante l’anello cardinalizio che il Papa gli ha messo al dito lo scorso 18 febbraio gli andava stretto. «Ci penseranno i digiuni della Quaresima a darmi una mano», ha commentato con l’immancabile sorriso il «Papa americano».

Corriere della Sera 16.3.12
La crociata repubblicana spinge le donne da Obama
Lo scontro politico si sposta sui diritti femminili
di Alessandra Farkas


NEW YORK — In Sud Dakota i repubblicani hanno proposto una legge che potrebbe rendere legale uccidere un dottore abortista. In Maryland hanno tagliato i fondi agli asili per poveri «perché le donne devono stare a casa coi figli, non lavorare». In Georgia vogliono cambiare in «accusatrice» il termine legale per definire le vittime di stupri (per i crimini non di genere come la rapina si continuerà a usare «vittima»).
L'ondata senza precedenti di iniziative che si è abbattuta sull'America negli ultimi mesi ha creato il panico tra le americane (la maggioranza degli elettori) che il prossimo novembre potrebbe favorire il presidente Obama. Secondo l'ultimo sondaggio Wall Street Journal/NBC già in vantaggio di ben 18 punti tra le donne di ogni colore politico.
Dopo mesi di petizioni «per fermare la guerra» (tra cui quella della lobby femminista Emily's list e del progressista moveon.org), ieri la rabbia è esplosa nell'aula del Senato, dove i democratici hanno chiesto l'approvazione del Violence Against Women Act, la legge sulla violenza domestica osteggiata dai repubblicani. «Siamo arrabbiate e siamo stufe marce», ha tuonato la senatrice democratica Maria Cantwell, mentre la collega repubblicana dell'Alaska Lisa Murkowski ammoniva i colleghi che «rischiamo di essere dipinti come anti-femministi».
Il clima è talmente incandescente che persino la Segretaria di Stato e paladina dei diritti delle donne nel mondo Hillary Clinton, che in teoria non dovrebbe occuparsi di politica interna, è scesa in campo per denunciare «gli estremisti». «Non importa da quale paese vengono e quale religione praticano — ha spiegato al Women in the World Summit svoltosi sabato a Manhattan — vogliono controllare come ci vestiamo, come agiamo e persino le decisioni che prendiamo sulla nostra salute e i nostri corpi».
In un'intervista al Washington Post la senatrice repubblicana Olympia Snow le ha dato ragione. «Sembra di essere ripiombati in un'altra era», denuncia la Snow che di recente ha annunciato il ritiro dalla politica in segno di protesta contro il clima tossico di un partito che, ha spiegato, «sta spingendo le donne nelle braccia dei democratici».
Dalle pagine del New York Times la nota columnist Maureen Dowd se la prende con il candidato antiabortista e anticoncezionali Rick Santorum («un talebano») e con Mitt Romney che martedì ha proposto di eliminare i fondi federali destinati a Planned Parenthood, organizzazione non profit che fornisce assistenza medica a basso costo a 5 milioni di donne indigenti ma invisa alla destra perché il 3% dei suoi servizi sono aborti. «L'assalto repubblicano contro le donne spiana la strada a Obama nel 2012 e a Hillary nel 2016», teorizza la Dowd.
Persino Sally Kohn dell'ultraconservatrice Fox News è convinta che «i repubblicani stanno dando a Obama un aiuto che nessuna costosa campagna pubblicitaria può comperare». In un'America dove il 99% delle donne americane afferma di aver fatto uso di contraccettivi, il recente braccio di ferro sulla copertura degli anticoncezionali è giudicato «un suicidio politico» anche da un'analista conservatrice come Michelle Bernard, secondo cui «le femministe pro-Sarah Palin degli stati del sud sono pronte a saltare il fosso».

Corriere della Sera 16.3.12
Quattro mogli su dieci guadagnano più del marito
di Massimo Gaggi


NEW YORK — L'ultimo dato viene da uno studio che l'Hamilton Project, un gruppo di studio sulla società americana inquadrato nella Brookings Institution, il più autorevole «think tank» degli Usa, ha presentato appena un mese fa: il tasso di matrimoni tra le donne professioniste ad alto reddito è più elevato di quello tra le donne in genere. E la spiegazione è disarmante. Uomini intimoriti dal successo della compagna? Macché. Semmai, quando scelgono la partner, molti maschi cominciano a mettere al primo posto il suo «potenziale economico». Come avveniva un tempo per le donne che nel marito cercavano soprattutto sicurezza.
L'emancipazione della donna, la sua scalata professionale è un tema che tiene banco da tempo, soprattutto negli Stati Uniti. Il suo peso economico cresce anche se in ufficio, a parità di lavoro, continua a guadagnare l'81% del suo collega maschio. Ora un passo avanti lo fa Liza Mundy, autrice di «best seller» sulla società americana, con «Il sesso più ricco», un saggio che sta per uscire nelle librerie Usa e che è diventato la storia di copertina del numero del magazine «Time» oggi in edicola.
Già ora quattro donne americane su dieci, tra quelle che lavorano, guadagnano più del loro marito. E la lunga fase post-recessione che ha cancellato molti posti di lavoro in settori tradizionali (occupati soprattutto da uomini) sta accentuando il fenomeno. Nell'arco di una generazione, sostiene la Mundy, nella maggioranza delle famiglie Usa il reddito verrà più dalle donne che dagli uomini. Cambieranno i rapporti di coppia, la vita domestica, perfino le tecniche di corteggiamento. Un terremoto? L'autrice, fiduciosa, dice di no e descrive molti casi di uomini che già oggi sperimentano, soddisfatti, un ruolo casalingo.

Repubblica 16.3.12
Migliaia in piazza, Orbàn spacca l’Ungheria
Ultradestra e opposizione si sfidano nel giorno della festa nazionale. Il premier: "Noi, colonia di nessuno"
La capitale invasa da neonazisti che inneggiano a Hitler "Un giorno triste" per i dissidenti
di Andrea Tarquini


BUDAPEST - Ha stravinto Viktor Orbàn, ha trionfato la sua maggioranza nazionalconservatrice al potere. Nel giorno della festa nazionale ungherese, i blocchi politici nella società spaccata si sono contati in piazza. E il governo ha raccolto molti più dimostranti sia rispetto alle opposizioni democratiche (sinistra), sia rispetto ai neonazisti di Jobbik con tutti i loro camerati amici europei, gli italiani di Forza nuova in testa. Dopo questo 15 marzo, il premier autocratico magiaro, nonostante lo sfacelo di economia e conti pubblici, va rafforzato al difficile confronto con l´Unione europea su debito, richieste di crediti, scontro sulle leggi liberticide. Ha esaltato la folla con dure parole d´orgoglio: non vogliamo essere una colonia oggi, come non lo volemmo nel 1848 contro l´Austria o nel 1956 contro l´Urss, non ci faremo dettare le nostre leggi dagli stranieri.
Mai come ieri, la splendida capitale ungherese ha visto nel suo centro la divisione del paese. Manifestazioni ufficiali, corteo della sinistra, raduno neonazi. A poche centinaia di metri l´uno dall´altro. La polizia in allarme rosso, migliaia di agenti gentilissimi ma in tenuta antisommossa blindata più che ad Atene, ha evitato in extremis violenze e sangue. Fatti i conti, Orbàn ha portato in piazza da 200 a 250mila persone al suo discorso a Kossuth Tér, davanti all´enorme, neogotico Parlamento. Più decine di migliaia in più sull´altra riva del Danubio alla festa delle famiglie. Milla, la Ong democratica ombrello delle opposizioni di sinistra, non ha raccolto più di centomila persone dal ponte Elisabetta al Kìskoerut, l´asburgico boulevard interno. Jobbik, i neonazisti con le uniformi nere, e le scritte in rune paleomagiare sulle divise, hanno radunato qualche migliaio di esaltati a Deak tér.
Piazza Kossuth, piazza Deak, ponte Elisabetta: solo tre stazioni di métro separavano i tre appuntamenti in cui l´Ungheria si è contata. Qualche poliziotto in meno, elmetti e manganelli meno visibili, e sarebbe finita male. Ma Orbàn ha parlato da populista abile, e raccolto il suo maggior successo dopo la vittoria alle elezioni del 2010. «Il ‘48 ce lo insegna, gli ungheresi non saranno mai colonia, non tradiranno mai l´indipendenza, né la Costituzione finalmente varata». Cioè la Costituzione criticata a Bruxelles come autoritaria. Stessa durezza contro le accuse Ue alle leggi liberticide su stampa e magistratura o sull´occupazione della pubblica amministrazione. «Noi decidiamo cosa conta per noi, al battito dei nostri cuori ungheresi, non lasciatevi fuorviare se la stampa internazionale scriverà che davanti a me c´erano poche centinaia di persone e tutte contro il governo».
Toni spavaldi, e non è finita. «Noi scriviamo la Costituzione, non abbiamo bisogno di aiuto non richiesto di stranieri che vogliono guidarci. Abbiamo già assaggiato l´assistenza fraterna, con uniformi o con abiti tagliati su misura». Paragone tra l´occupazione sovietica e le direttive dell´Unione europea. E ancora: i burocrati europei ci guardano oggi con sospetto, come fummo guardati con sospetto nel 1848, o nel 1956 con la rivolta contro i russi. «Non furono i vassalli a distruggere il feudalesimo, né segretari di partito a distruggere il comunismo, né gli speculatori verranno fermati da burocrati». Sfida aperta alla Ue, dunque. Cui l´opposizione ha dato una risposta debole. Richieste d´aiuto del resto d´Europa contro la svolta autoritaria, denunce della debolezza di Bruxelles contro le leggi liberticide, erano gli slogan al suo comizio. «Mai come oggi il nazionalismo è stato forte, per il mio paese è un giorno triste», ha commentato amaro Gaspar Miklos Tamas, capo storico del dissenso. Poco lontano da casa sua, i dimostranti di Jobbik urlavano di «volontà eterna di austriaci, russi, Ue di sterminare la nazione ungherese», e gridavano «sporchi ebrei, viva Hitler».

Repubblica 16.3.12
La primavera siriana schiacciata un anno dopo
Damasco non può per ora sperare in un soccorso dall’esterno, e Bashar al-Assad lo sa benissimo
di Bernard Guetta


Questa constatazione, avremmo preferito non doverla fare, ma i fatti sono davanti a noi. A un anno dall´inizio dell´insurrezione siriana, dopo dodici mesi, giorno dopo giorno, di manifestazioni pacifiche su cui Bashar al-Assad ha ordinato sistematicamente di sparare a freddo, malgrado il coraggio stupefacente di un popolo che ha sfidato le pallottole per conquistarsi la libertà, la vittoria di quel regime di assassini appare sempre più vicina.
Homs è caduta, schiacciata dai bombardamenti a tappeto, perché il suo martirio serva a terrorizzare l´intero Paese. Ieri anche Idleb è stata costretta alla resa; gli oppositori e i loro familiari sono braccati, votati alle torture e alla morte. Mentre dissemina mine lungo i confini con la Turchia, l´esercito attacca le città e le regioni non ancora colpite dai massacri. La notte scende sulla Siria, perché oramai quel popolo ha soltanto il suo eroismo e qualche misera pistola da contrapporre ai blindati che nessuna aviazione straniera verrà a neutralizzare.
A meno che le minoranze cristiane, druse e curde depongano la loro neutralità; a meno che si spezzi all´improvviso l´alleanza che hanno stretto con la minoranza alawita al potere, per evitare il predominio della maggioranza sunnita; a meno che d´un tratto, nel momento stesso in cui la forza trionfa, accada l´improbabile, l´insurrezione si spegnerà presto, e il mondo lo sa.
Il mondo lo vede, prostrato dall´impotenza e dalla vergogna, dato che non è indifferente, né complice di questo massacro. Al contrario, le grandi potenze non hanno mai smesso di gridare la loro indignazione. Gli Stati arabi, l´Europa, la Turchia, gli Stati Uniti e molti altri Paesi di tutti i continenti hanno denunciato quei crimini e decretato pesanti sanzioni economiche; hanno ostracizzato quella dittatura spietata, ma nessuno interverrà, né aiuterà gli insorti con forniture di armi, non previste perché – orribile a dirsi, ma è così - vi sono motivi reali per non farlo. Fornire armi a civili che non le hanno mai maneggiate non servirebbe a controbilanciare un regime armato fino ai denti, al quale per di più si offrirebbe il pretesto che cercava per moltiplicare i suoi crimini. A meno di voler ripetere l´avventura irakena, e di provocare una rottura in seno all´Onu, nessuna potenza può intervenire senza l´avallo del Consiglio di Sicurezza; e quest´avallo non sarà dato, perché Cina e Russia non vogliono che le Nazioni Unite prendano l´abitudine di andare a difendere un popolo in lotta per la sua libertà.
I siriani non possono sperare in un soccorso dall´esterno, e Bashar al-Assad lo sa benissimo, tanto che può completare in piena tranquillità la sua mattanza. Il suo regime ha effettivamente buone probabilità di superare quest´ondata. Ma poi?
Gli scenari possibili sono due. Secondo gli ottimisti, il dittatore siriano otterrà solo una vittoria di Pirro, dato che con le baionette si può fare di tutto, ma non sedervisi sopra. Odiato dal suo popolo, con le casse svuotate dalla guerra, potrà solo cadere come un frutto bacato, roso dalla tempesta. Magari.
Ma i pessimisti mormorano che innanzitutto il mondo dovrà pur finire per trattare con l´assassino di Damasco, visto che resterà al suo posto; cosa peraltro già preannunciata dai tentativi di mediazione rivolti a un capo di Stato nell´esercizio delle sua funzioni, per chiedere gesti di apertura e umanità: un po´ come domandare a un antropofago di apparecchiare la tavola.
Non lo sappiamo. Questi scenari sono entrambi plausibili, ma qualunque cosa accada nel breve termine, il popolo siriano, sia pure sconfitto, non dimenticherà il sangue versato per la libertà, né rinuncerà alle speranze che aveva destato. Anche perché in un anno tutto è cambiato. L´economia è crollata; e gli ambienti d´affari ricercano una soluzione politica che ne consenta il rilancio. Le minoranze si sono rese conto che non potranno governare in eterno contro la maggioranza. La Siria è in attesa del secondo round; e una generazione si è formata in questa battaglia. Dovrà forse passare molto tempo prima che riesca a vincere; ma chi avrebbe immaginato, un anno fa, che il mondo arabo avrebbe respinto i suoi potentati, e che la dittatura siriana, la più poliziesca e brutale di tutte, avrebbe subito scossoni tanto violenti?
Alla primavera araba è seguito l´inverno. Ma né la Storia, né la libertà avanzano d´un sol colpo. Lo si era visto in Francia, così come in Polonia e in Italia; lo si vede in Russia. La libertà prende slancio, retrocede sotto i colpi, stagna sotto il peso della reazione, ma una volta in marcia non si ferma. Riprende fiato, e finisce per prevalere.

il Riformista 16.3.12
Mosca padrona della notte siriana
di Dario Fabbri


A dimostrazione dei rapporti di forza esistenti sul territorio, ieri a Damasco il primo anniversario della rivolta è stato segnato da una grande manifestazione in favore di Assad, che ha attirato decine di migliaia di persone nella centralissima piazza Umayyad. Al grido di «viva Bashar», oltre al tricolore nazionale i lealisti hanno sventolato centinaia di bandiere russe e di Hezbollah. Mentre nel resto della Siria la giornata è scivolata via nel silenzio, dopo che l’esercito regolare ha riconquistato i quartieri ribelli delle città di Homs e Idlib.
È innegabile: a dispetto della retorica americana e in quanto espressione di una cospicua minoranza, il regime continua a godere di ampio consenso. Ma è altrettanto vero che Assad e la sua corte si ostinano a vivere in una bolla. Come testimoniato dalla corrispondenza elettronica di despota e consorte, intercettata dall’Snc e pubblicata mercoledì dal quotidiano britannico The Guardian, nelle stanze del potere la vita trascorre all’insegna dell’ozio e del lusso.
Dalla lettura delle oltre 3mila mail che Bashar e sua moglie Asma avrebbero inviato ad amici e collaboratori tra giugno 2011 e febbraio 2012, emerge il ritratto di una coppia presidenziale del tutto indifferente alle violenze che scuotono la periferia del Paese. Incurante delle atrocità commesse dai suoi uomini, Assad si diverte a scaricare filmati e canzoni da internet, mentre la first lady a luglio ha speso più di 10mila euro in oggetti di lusso (candelabri, tavoli e lampadari) e gadget per la cucina. Unici dati politici, i presunti consigli che il presidente avrebbe ricevuto da alcuni non identificati «consulenti iraniani» su come sedare le proteste.
Eppure a perdere i pezzi non è il governo baathista, ma l’opposizione. Mercoledì l’autorevole giurista, Haithem alMaleh, e altre tre attivisti Kamal al-Labwani, Walid al-Bunni e Catherine al-Talli si sono dimessi dal Consiglio nazionale siriano perché delusi dall’incapacità dell’organismo di unirsi alla causa dell’Esercito Libero e preoccupati dall’intolleranza dei Fratelli musulmani. Ed è qui che la crisi assume i contorni del rebus.
A differenza di quanto accaduto in Egitto e in Libia, in Siria le diverse anime del Paese hanno combattuto da subito una guerra settaria. Se non altro perché lo scontro si è cristallizzato immediatamente lungo le linee dell’appartenenza etnica, con le minoranze alawiti, cristiani, drusi coalizzate contro la maggioranza sunnita. Ammesso che armare gli insorti basti a rovesciare il regime Arabia Saudita e Qatar lo fanno già da mesi nessuno garantisce della democraticità dell’aspirante classe dirigente. E i precedenti iracheno ed egiziano alimentano le perplessità del Pentagono.
Al punto che, non fosse la Siria il campo di battaglia su cui Obama ha scelto di affrontare l’Iran, da tempo Washington avrebbe abbandonato i ribelli al loro destino. In ballo c’è però il parziale disimpegno americano dal Medi Oriente e l’esigenza di ridurre l’influenza di Teheran in vista di un possibile negoziato tra le parti.
Un primo obiettivo è già stato raggiunto. Il protrarsi della rivolta e l’appartenenza alla comunità sunnita avrebbero convinto Hamas a prendere le distanze da Assad e dagli ayatollah. Secondo alcuni il cambio di rotta sarebbe solo parziale mercoledì il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, si è incontrato con il numero due del movimento palestinese, Moussa Abu Marzouk, e fonti vicine al Pentagono rivelano al Riformista che il nodo della questione sarebbe soprattutto di natura finanziaria ma Hamas ha chiuso gli uffici a Damasco e, almeno a parole, si è chiamato fuori da un possibile conflitto Israele-Iran.
Per risolvere l’impasse siriana, più che ai ribelli Obama prova a rivolgersi a Mosca. Per ora lo fa aumentando la pressione sul Cremlino mediatizzazione delle proteste anti-brogli ed esaltazione del ruolo concorrenziale svolto dal gas iraniano in funzione anti-russa mentre Putin vorrebbe ottenere laute concessioni: congelamento del sistema di difesa balistica nell’Europa dell’Est e intensificazione dei rapporti con le petromonarchie del Golfo. In ogni caso l’esito della trattativa determinerà la sorte di Assad. E allora finalmente sapremo quanto durerà ancora la notte siriana.

La Stampa 16.3.12
Dio è morto torniamo a Dio
L’Ana-teismo di Richard Kearney: così l’esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza
di Gianni Vattimo


Esce oggi da Fazi il saggio di Richard Kearney Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio (pp. 330, 17,50), in cui il filosofo, allievo di Ricœur e professore al Boston College, conduce il lettore in un percorso innovativo alla ricerca del sacro dopo l’ateismo. Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Vattimo

OLTRE NIETZSCHE. Bomba atomica, Olocausto: il «progresso» si contraddice, l’approdo ateistico va in crisi
LA RELIGIOSITÀ RITROVATA. È caratterizzata dall’apertura verso l’altro ed è consapevole della pluralità delle fedi

Anateismo è l’atteggiamento religioso che Kearney sostiene e raccomanda per la spiritualità del nostro tempo. [... ]
Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico…), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.
Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondoconosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.
Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’ epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale di cui noi moderni siamo figli e prodotti.
Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’« io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.

Corriere della Sera 16.3.12
Latino è bello, nonostante la riforma
Ore di scuola ridotte da noi, boom di richieste dall'America
di Dario Fertilio


«Salvete discipuli!», annuncia il professore alla classe attonita: il saluto apre una lezione direttamente in latino, nello stile «naturale» cui siamo soliti associare i corsi di lingue «vive». Solo che qui il latino sembra decisamente rifiutarsi d'essere «morto»: basta osservare un allievo mentre si cimenta con i manuali delle Edizioni Accademia Vivarium novum, per esempio «Latine disco», dove viene scaraventato di colpo all'interno di dialoghi del tipo «due signore che si incontrano al mercato» (Stt! Iulia te audit. Syra irata est). Oppure, una volta asceso alle classi superiori, ecco lo studente alla prese col tema solleticante della «Ars amatoria P. Ovidii Nasonis»: qui, senza fastidiose lungaggini grammaticali, potrà gustarsi il capitolo «De libidine feminarum» (Omnia feminea sunt ista libidine mota...).
Così cambia l'insegnamento del latino, dunque, e sembra una rivoluzione. Invece è soltanto la punta avanzata della riforma scolastica Gelmini che sta entrando a regime, da un lato riducendo l'impatto quantitativo del latino nei programmi (eccetto quelli del liceo classico) ma dall'altro modernizzando la didattica e ampliando l'offerta e la libertà di scelta degli insegnanti, chiamati in queste settimane a decidere sui libri di testo. L'offerta editoriale, assai ampia, è accompagnata da un fenomeno inatteso: proprio la lingua morta snobbata ancora in anni recenti — per non parlare delle contestazioni ideologiche sessantottine che sembrano preistoria — oggi conosce un boom d'interesse, non solo da noi ma anche e soprattutto nel mondo.
Basta sfogliare i principali libri di testo latini per cogliere le novità. Se l'esempio citato, il metodo «naturale» dell'Accademia Vivarium Novum, resta minoritario (non più di ventimila ragazzi attualmente lo seguono, distribuiti a macchia di leopardo sul territorio nazionale), quello proposto dai manuali più diffusi rispecchia egualmente le direttive generali della riforma: accentuazione degli aspetti culturali e lessicali, confronto costante con l'italiano moderno e le altre lingue, capacità di applicare le conoscenze acquisite anche a testi nuovi. Così, nel caso della Bruno Mondadori e della Paravia (gruppo Pearson Italia), viene offerto un metodo lessicale e comparativo che propone — per esempio in «Lingua viva» di Angelo Diotti — un confronto con le parole oggi in uso di origine latina (agenda, lapsus, sponsor), o soggette a uno slittamento di significato (cattivo è la derivazione cristiana di captivus diaboli, prigioniero del diavolo), o tutt'ora pienamente inserite nel nostro lessico quotidiano (ad interim, alter ego, in medias res). Ancor più colpisce, ad esempio nel manuale della Paravia «Id est», la suddivisione degli esercizi per settori di impiego della lingua: «La famiglia e il matrimonio», «L'amore» o «Il mercato» invitano gli allievi a entrare nelle situazioni concrete, inserendo i vocaboli nelle rispettive aree semantiche, e ricollegandoli costantemente alle lingue europee (come l'inglese council a concilium, il tedesco Meister a magister, o lo spagnolo hijo a filius). Le regole della grammatica, spauracchio di tante generazioni studentesche, naturalmente non spariscono: appaiono però diluite in un panorama colorato, dove abbondano esempi tratti dalla cronaca d'oggi e perfino dallo sport. È un terreno sul quale primeggiano la Bruno Mondadori e la Paravia, sfidate però dalla Bompiani («Sermo et humanitas», «Lingua e cultura latina») nonché dalla Nuova Italia («Togata gens» di Maurizio Bettini, concepito per il secondo biennio e il quinto anno).
E qui, a coronare il felice momento del latino, si festeggia il compleanno di un classico: i cent'anni del vocabolario Campanini Carboni, colosso da 2.200 pagine che unisce aspetti linguistici e di civiltà classica, con sezioni dedicate a personaggi e popoli, città e regioni, istituzioni e aspetti del vivere sociale, corredati da schede e disegni. Dall'alto dei tre milioni di copie vendute nel corso della sua storia, il Campanini Carboni oggi può permettersi persino di punzecchiare l'anglomania senza radici di chi utilizza parole e locuzioni latine come se fossero inglesi (media o junior pronunciate con accento americano, un gioco un po' grottesco e inconsapevole, per cui la parola antica caduta in disuso sembra nuova perché recuperata da un contesto straniero).
Ma non di sola scuola vive il latino: lo testimoniano il successo dei libri di Luca Canali (ultimi Il poema dei Vangeli di Giovenco con testo originale a fronte, e Augusto, Braccio violento della storia, entrambi pubblicati da Bompiani), o gli articoli di Dario Antiseri sulla rivista «Zetesis» in cui la versione di latino è presentata come il nocciolo del metodo scientifico e liberale che procede per trial and error, esperimenti e confutazioni. Poi imperversano le dichiarazioni d'amore più impensate (da Sepùlveda che si è messo a studiarlo per leggere Virgilio, a Mina, la cantante, con il suo appello per la conservazione del canto liturgico; dagli adolescenti innamorati delle formule magiche di Harry Potter alle chat in latino che si moltiplicano sul web, alimentate dalle voci sulla chiocciola — l'onnipresente @ — che discenderebbe dall'antica et latina, adibita a usi commerciali). E si potrebbe continuare con gli splendori delle scuole latine di Lussemburgo e Saarbrücken, le trasmissioni in latino della radio finlandese, per non parlare dei simposi internazionali in rigorosa pronuncia restituta (cioè piena di suoni sordi e aspirati, come pare facessero i classici), dei certamina accademici, dei fogli specializzati.
Il fascino e il prestigio del passato si misurano anche sul piano economico. «L'interesse negli Usa è tale — racconta Luigi Miraglia, presidente dell'Accademia Vivarium Novum — che gli insegnanti europei ricevono offerte allettanti da New York: 125 mila dollari l'anno, più bonus per vitto e alloggio, per un impegno di quattro o cinque giorni settimanali». E se l'America è la nuova terra promessa dei latinisti, non scherzano nemmeno la Germania, il Giappone e la Cina, mentre in Africa crescono soprattutto le scuole missionarie.

Repubblica 16.3.12
Il cacciatore del Leonardo perduto "Così svelerò il suo ultimo mistero"
di Michele Smargiassi


Firenze, l´ultravista della diagnostica, sonde e micro-trapani di precisione all´opera nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio Ecco come Maurizio Seracini, ingegnere specializzato in storia dell´arte, cerca "La battaglia di Anghiari" sotto l´affresco del Vasari
"La mia è scienza, non fantasy e fermarsi a un passo dalla soluzione sarebbe assurdo"
"Le scaglie sono base di una lacca simile a quella dell´Adorazione dei Magi degli Uffizi"

FIRENZE Il capolavoro perduto di Leonardo è lì sotto: lui lo sente, lo crede, lo sa. È così vicino che potrebbe allungare la mano dal ponteggio nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, e toccarlo, se non ci fossero di mezzo due centimetri di affresco del Vasari, poi 15 di mattoni, poi due o tre di vuoto. L´ingegner Maurizio Seracini non è mai stato così vicino al mistero che insegue da trentasette anni, cacciatore ad altissima tecnologia all´inseguimento di una preda vecchia cinque secoli che gioca a rimpiattino con le sue armi da Superman, radar, termografie, laser, ma che ora, forse, s´è lasciata prendere per un´unghia, con l´ultimo attrezzo dell´arsenale: un endoscopio da chirurgo capace di frugare nelle profondità di un muro intoccabile.
Briciole. Quel che ha in mano Seracini, bio-ingegnere specializzato in storia dell´arte, 2.600 indagini scientifiche su pitture e architetture, docente all´Università americana di San Diego, è un minuscolo gruzzolo di polvere e schegge: ma sono materiali da pittore, non da muratore, e appartengono, lui ne è convinto, alla Battaglia di Anghiari. E allora guardare l´altra Battaglia, l´affresco con cui il Vasari nel 1557 avrebbe ricoperto il fallimento più sublime e doloroso del genio di Vinci, per Seracini è un supplizio di Tantalo: «Qui sotto può esserci il capolavoro del Rinascimento... Quale paese al mondo si lascerebbe scappare l´opportunità?».
Perforare un´opera compiuta per cercarne una che potrebbe non esserci? Spendere milioni di euro per un mistero magari deludente? Le polemiche infuriano, fuori dal portone. Ma in questa sala carica di storia ora ci sono solo un cercatore, il suo Graal, e una sfida. La pulce nell´orecchio gliela mise per primo Carlo Pedretti, "leonardista" illustre, suo docente negli Stati Uniti, incontrato nel 1975 a Firenze mentre cercava tracce della Battaglia, l´affresco "non a fresco", il manifesto politico che la rinata Repubblica commissionò a Leonardo nel 1503, e che lui volle realizzare a modo suo, senza la fretta dell´affrescatore, con una tecnica inusitata: dipingere a olio sul muro, come fosse una tavola; il capolavoro però gli si disfece sotto gli occhi. Tutto quanto? «Al massimo restano tracce malandate, inutile cercare», protestano gli scettici. «Ma una parte delle figure rimase leggibile a lungo, ne furono fatte copie, ne parlano i testi», ribatte Seracini: per esempio quel Doni che nel 1549 invitava a visitare «un pezzo di battaglia di Lionardo da Vinci, che vi parrà una cosa miracolosa». «Altro che "tracce malandate", lì sotto c´è Leonardo».
Ma dove? Per aiutare il suo maestro, Seracini comincia a sondare le pareti con ultrasuoni e termografie, scopre finestre tamponate, scale demolite, ingressi chiusi, e capisce che la parete su cui Leonardo lavorò non era quella nord, dove si pensava, ma l´opposta: la sala aveva cambiato struttura nel tempo. Poi scopre che sulla «parete giusta», dietro al Vasari, c´è un´intercapedine lasciata forse dal pittore che, quando ricoprì i cavalli di Leonardo, lui che li aveva tanto ammirati, forse li risparmiò così. Bisogna allora andare a vedere là dietro. Seracini è citato nel Codice da Vinci di Dan Brown, ma «la mia non è fantasy, è scienza». Pensa di usare l´ultravista della diagnostica per immagini. Adattando all´arte strumenti nati per la medicina. Nel 2000, Seracini prepara uno scanner ad attivazione neutronica in grado di frugare nei corpi opachi e scoprirvi la presenza di idrogeno e, grazie ai raggi gamma, di varie sostanze. L´idea è di cercare sostanze simili ai materiali pittorici notoriamente utilizzati da Leonardo, l´olio di lino, le lacche, le resine. Ma dopo esperimenti con l´Enea, all´improvviso arriva uno stop «dalle autorità culturali»: niente radiazioni a Palazzo Vecchio. Sembra la fine di tutto, ma Seracini ha un´altra idea. Andare a vedere con gli occhi. Cioè quella protesi degli occhi che i medici adoperano per frugare i corpi umani: l´endoscopio. Bisogna però trapassare fisicamente il dipinto del Vasari. Esplode l´indignazione degli storici dell´arte, ma si può fare senza ridurlo a un colapasta, l´affresco offre varchi innocui, stuccature tarde, micro-crepe. L´ingegnere chiede 14 accessi. Sotto la pressione delle polemiche sul "Vasari trapanato", l´Opificio delle Pietre Dure, tutore dell´arte fiorentina, gliene concede solo sei, per giunta «periferici rispetto all´area dove penso sia il cuore della Battaglia». Sconforto, ma è l´unica occasione.
Il trapano fa sei forellini, da 6 millimetri a 2 centimetri. Seracini di persona inserisce la sonda, una telecamera tubolare con luce, di 4 millimetri di diametro. «Non lo nego, speravo nel miracolo: vedere un occhio, un dito, un ciuffo di peli di criniera». Delusione. Dai fori 1, 2 appare intonaco neutro. I fori 3, 5 e 6 non beccano neppure l´intercapedine, ma restano ingabbiati dentro i mattoni d´appoggio tra le due pareti. Solo dal foro 4 la sonda raggiunge una cavità, e vede l´agognata parete misteriosa. Ahimè, niente occhi né criniere. Grumi di materia grezza. Ma colorata. Scaglie brune: cocciopesto? Una superficie rossa cosparsa di puntini neri, regolari: tracce di uno "spolvero", il riporto del disegno dal cartone al muro? E ancora, una superficie beige aderente «come stesa con un pennello». Con un micro-cucchiaio preleva con fatica frammenti di meno di un millimetro, abbastanza per passare al laboratorio.
E le analisi sui campioni, «che metterò a disposizione di qualsiasi verifica», confermano che non è roba da muratori, ma da pittori: il rosso è un pigmento di calcite e ferro, le scaglie sono base di una lacca che sembra «molto simile» a quella usata nell´Adorazione dei Magi degli Uffizi; il nero è terra d´ombra più biossido di manganese, componenti delle tinte scure dei pittori dell´epoca, ma con la proporzione tra ferro e manganese tipica di Leonardo, la stessa trovata dal Louvre nel San Giovanni Battista e nella Gioconda.
Ma questi referti da analisi del sangue, sono Leonardo? Tra un grumo di polvere e la Battaglia di Anghiari, professore, c´è un mare. Seracini non forza la mano: «So di non avere ancora colpito il big target, il bersaglio grosso. Ma sono indizi fortissimi. Che ci fanno in un muro lacche e pigmenti? Proprio lì dove li cercavo? Su quella parete nascosta qualcuno dipinse, e non può essere stato nessun altro, né prima né dopo Leonardo, non c´è alcun documento che parli neppure di decorazioni, eppure le spese più minuziose per quella sala sono tutte documentate».
Fermarsi qui sarebbe «assurdo. Siamo a un passo dalla soluzione». Trapanare ancora il Vasari? O smontarne qualche tassello? «È un affresco bisognoso di restauri, e gli affreschi possono essere rimossi». Guarda lo schermo colorato che lo separa dal sogno di una vita come Schliemann dovette guardare la collina di Troia: «Mi hanno concesso spiragli per 6-7 centimetri, per sondare un´area di 200 metri quadri, tre volte l´Ultima cena. Mi basterebbe una finestra un po´ più grande, e al posto giusto». Sperando di vederci spuntare quell´occhio, quel crine? In un bordo del suo affresco-schermo, proprio sulla verticale dell´area dove potrebbe esserci il Leonardo, Vasari dipinse una bandierina verde con la scritta bianca "cerca trova". Da trentasette anni, o da cinque secoli, per Seracini quella è una sfida.

Repubblica 16.3.12
Mirò
Il sognatore che volle diventare cattivo
di Lea Mattarella


Al Chiostro del Bramante di Roma ottanta opere tra dipinti, sculture e disegni ripercorrono la poetica del maestro catalano. Un viaggio alla scoperta dei segni e dei colori di un artista che ha rappresentato il lato fantasioso e onirico della pittura del Novecento
Nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo

ROMA «Quando potrò stabilirmi da qualche parte – scriveva Joan Miró nel 1935 – il mio sogno è avere un grande studio... andare oltre la pittura da cavalletto». Il desiderio di una "stanza tutta per sé", l´artista catalano lo realizza nel 1956 quando l´amico architetto Josep Lluís Sert progetta il suo atelier a Palma de Maiorca, dove Miró immediatamente si ritira.
La mostra Miró! Poesia e luce, aperta al Chiostro del Bramante fino al 10 giugno, curata da María Luisa Lax, racconta proprio gli anni in cui il pittore vive in una dimensione che aveva sempre agognato, in una terra che ama, con molto spazio intorno per creare. All´epoca è già un artista celebre, ha legato il suo nome alle esperienze surrealiste, ha vissuto a Parigi, ha inventato un mondo pittorico trasognato, fatto di elementi biomorfici, di costellazioni stilizzate, di forme misteriose che navigano, sospese e senza peso in uno spazio della tela diventato fluido.
Ma adesso, più che sessantenne (era nato a Barcellona nel 1893), nel silenzio di Palma, è come se sentisse il desiderio di reinventarsi, di accelerare il passo della sua pittura. Ed è proprio il suo studio il fulcro di questa mostra. Tanto che viene ricostruito attraverso gigantografie e oggetti originali nel piano superiore del museo: c´è la sua sedia a dondolo, il carrello su cui lavorava, sporco di colore come fosse un quadro.
Le opere raccolte in questa esposizione – 80 in tutto, tra dipinti su diversi supporti (tela, compensato, masonite), carte, sculture, ceramiche – sono state realizzate in gran parte dal 1956 in avanti. Con qualche eccezione, come il paesaggio che apre la rassegna datato al 1908. Miró, nel 1960, guardandosi alle spalle, consapevole di essere entrato in una nuova stagione della sua vita pittorica, lo aveva occultato con un giornale su cui aveva posto la firma e la data del dipinto che aveva eseguito sul retro. Un accurato restauro ha permesso di rivelare l´opera precedente, così è possibile vedere contemporaneamente l´antica veduta ancora figurativa, il nuovo quadro in cui appare il suo lessico più noto e il giornale con la firma. «Lo abbiamo voluto esporre perché è importante per capire il modo in cui l´artista lavorava –spiega la curatrice – questa è infatti una mostra sul metodo di Miró, sul suo modo di affrontare il quadro che nell´ultima fase della carriera assume toni sempre nuovi. È come se Miró vivesse una seconda giovinezza. Si mette in discussione, ribalta il punto di vista. Per esempio guarda all´arte americana, ma anche alla pittura orientale. E dà vita a un universo in cui i suoi temi classici, le stelle, l´uccello, i corpi suggeriti e mai descritti, le clessidre, i bilancieri, raggiungono una potente carica espressiva».
Questa nuova attitudine la si coglie perfettamente fin dalle prime sale. Che cosa è cambiato dal Miró parigino? Innanzitutto il formato. Le opere esposte sono, tranne qualche raro caso, tutte di grandi dimensioni. E se nel 1935 l´artista sognava di abbandonare il cavalletto, nel buen retiro sull´isola, questo accade per davvero. «Appoggio i miei quadri su trespoli o sul pavimento. Quando sono per terra, posso camminarci sopra», afferma nel 1974. E ancora: «Per terra lavoro sdraiato a pancia in giù. Oh sì, mi sporco tutto di pittura, faccia, capelli; mi ritrovo schizzi dappertutto». In queste monumentali tele si trovano tracce delle suole delle sue scarpe. E il pennello di Miró sgocciola, il suo gesto è ampio, carico di espressività. L´artista ha abbandonato la linea precisa e ferma del passato e predilige adesso gigantesche pennellate che rivelano i suoi lati più segreti. C´è certamente uno scambio con l´action painting americana. I surrealisti, che mettono l´inconscio al centro del quadro, sono alle radici dell´Espressionismo astratto americano: Miró però non solo contribuisce alla nascita di questa nuova generazione di pittori, ma arricchisce, guardandoli, il proprio linguaggio. D´altra parte Miró era entrato in contatto con Jackson Pollock quando nel 1946 aveva ricevuto l´incarico di realizzare un dipinto per il Gourmet Restaurant del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati e per realizzare quest´opera aveva vissuto a New York tra febbraio e ottobre. La decorazione in questione, come mostra lo schizzo preparatorio qui in mostra, dove le sue immagini tipiche svolazzano in un fondo azzurro, non risente ancora delle feconde suggestioni degli americani. Queste verranno fuori proprio negli anni di Palma, quelli in cui Miró non costruisce più un universo onirico e sognante, conquistando invece una brutalità e una totale immersione nel quadro quasi primitive, che provocano un´immediata reazione emotiva in chi guarda.
«Più invecchio e più divento matto, aggressivo, cattivo», –affermava. E nel corso degli anni sembra sempre di più far sua la poetica dell´amico critico d´arte Sebastià Gasch che auspicava «un´arte intensa e forte, ricca di pathos, aspra e barbara, senza attenuanti. Un´arte che ci inebri di profumi, finché non ci metterà fuori combattimento con un vigoroso pugno». È esattamente quello che fa l´ultimo Mirò: seduce con un gesto elegante che sembra quello di un maestro orientale, conducendo chi guarda in spazi di grande armonia; e poi sfodera i suoi fondi volutamente sporchi (li eseguiva con la trementina in cui aveva prima pulito i pennelli), la materia dura, gli scarabocchi, le scolature. Inoltre utilizza sempre di più il bianco nero: c´è una sala bellissima, di dipinti monocromi, che pare un viaggio nella notte tra uccelli misteriosi, figure femminili accennate e sensuali, teste inventate, orizzonti accesi da una dispettosa luna nera.
Resta costante, anche negli ultimi anni, il côté ribelle della gioventù, quell´antico desiderio di voler "assassinare la pittura", che per lui ha sempre significato la tenace volontà di rivoluzionare i codici formali della tradizione. Eccolo, nel 1976, inchiodare assi di legno su un fondo di carta abrasiva a creare il suo Personaggio e uccelli. E affrontare la scultura, recuperando oggetti. Come una zucca e una bambola uniti a creare una forma inaspettata, protetti per sempre da una colatura di bronzo.

Repubblica 16.3.12
"Un atelier per superare il cavalletto"
di Joan Mirò


Al mio arrivo a Parigi nel marzo 1919, scesi all´Hôtel de la Victoire, in rue Notre-Dame-des-Victoires. Rimasi a Parigi tutto l´inverno, e in estate ritornai in Spagna, in campagna. L´inverno successivo ritornai a Parigi e scesi in un altro hotel, al n. 32 del boulevard Pasteur, dove ricevetti la visita di Paul Rosenberg; Picasso e Maurice Raynal gli avevano parlato di me. Qualche tempo dopo, Pau Gargallo, che trascorreva l´inverno a Barcellona, dove era professore di scultura alla Scuola di Belle Arti, mi cedette il suo studio, al n. 25 della rue Blomet, accanto al Bal Nègre, che allora era ignoto ai parigini, e sarebbe stato "scoperto" da Robert Desnos. André Masson occupava lo studio a fianco; eravamo separati da un tramezzo. In rue Blomet cominciai a lavorare. Dipinsi la Testa di una ballerina spagnola, che appartiene a Picasso, il Tavolo con guanto, etc. Era un´epoca molto dura; i vetri erano rotti e la stufa, che mi era costata quarantacinque franchi al mercato delle pulci, non funzionava. Lo studio però era molto pulito. Lo tenevo in ordine io stesso. Poiché ero molto povero, potevo permettermi un unico pasto alla settimana; negli altri giorni mi accontentavo di fichi secchi e gomma da masticare. L´anno dopo non potei avere lo studio di Gargallo. In un primo momento scesi in un alberghetto del Boulevard Raspail, dove terminai La moglie del fattore, La spiga di grano e altri quadri. Lasciai l´hotel per un appartamento ammobiliato in rue Berthollet. La lampada a carburo. Estate in campagna. Ritorno a Parigi allo studio di rue Blomet. Ultimai La Fattoria, che avevo cominciato a Montroig e continuato a Barcellona. Léonce Rosenberg, Kahnweiler, Jacques Doucet, tutti i surrealisti, Pierre Loeb, Viot, lo scrittore americano Hemingway vennero a trovarmi. Hemingway comprò La Fattoria. In rue Blomet dipinsi il Carnevale d´Arlecchino e la Ballerina spagnola della collezione Gaffé. Fu piuttosto dura, nonostante le prime vendite. Per il Carnevale d´Arlecchino feci molti disegni, basati sulle allucinazioni che la fame mi provocava. La sera rientravo senza aver cenato e annotavo le mie sensazioni. Quell´anno frequentai molto i poeti, poiché pensavo che per arrivare alla poesia si dovesse andare oltre la "cosa plastica".
Alcuni mesi dopo, Jacques Viot organizzò la mia prima mostra alla Galerie Pierre. In seguito ottenni un contratto con Viot, che mi permise di tirare avanti. Affittai uno studio alla Ville des Fusains, al n. 22 della rue Tourlaque, dove avevano vissuto Toulouse-Lautrec e André Derain, e in cui Pierre Bonnard aveva ancora il suo studio. A quell´epoca ci vivevano Paul Éluard, Max Ernst, un commerciante belga della rue de Seine, Goemans, René Magritte, Arp. Misi sulla porta un cartello che avevo trovato in una bottega: Treno in transito senza fermata. Le cose mi andavano meglio, ma era ancora assai dura. Una volta, con Arp, mangiammo ravanelli al burro. Non appena mi fu possibile, presi uno studio più grande al pianterreno della stessa villa, ma non lo tenni a lungo.
Tornai in Spagna, mi sposai, rientrai a Parigi con mia moglie e lasciai la Ville des Fusains, dove avevo dipinto tutta la serie delle tele blu, per un appartamento in rue François Mouthon. Lavoravo molto; trascorrevo la maggior parte dell´anno in Spagna, dove potevo concentrarmi meglio sul lavoro. A Barcellona, lavoravo nella stanza dove sono nato.
In Spagna, dove mi recavo spesso, non ebbi mai uno studio vero e proprio. Inizialmente, lavoravo in celle così minuscole che ci entravo a malapena. Quando non ero contento della mia opera, picchiavo la testa contro la parete. Quando potrò stabilirmi da qualche parte, il mio sogno è avere un grande studio, non per motivi di illuminazione, luce del nord etc., che mi sono indifferenti, ma per avere spazio, tante tele, perché più lavoro e più ho voglia di lavorare. Vorrei cimentarmi nella scultura, nella ceramica, nella stampa, avere un torchio. Vorrei anche, per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto che a mio parere si propone un obiettivo angusto, e avvicinarmi, attraverso la pittura, alle masse umane, cui non ho mai smesso di pensare.
(Il testo apparve originariamente nel maggio 1938 sulla rivista francese XXe siècle fondata dall´editore italiano Gualtieri di San Lazzaro)