l’Unità 8.1.12
Colloquio con Pier Luigi Bersani
Bersani: unire subito i progressisti europei
Il colloquio «Non c’è tempo da perdere. L’Europa rischia grosso. Tocca a noi guidare la battaglia per l’integrazione e la crescita»
di Ninni Andriolo
Adesso bisogna stringere con le decisioni, perché non è che i mercati abbiano bisogno di cavare informazioni dalla libera stampa, visto che sanno già tutto e speculano sui nostri tentennamenti e sulle nostre divisioni. Bisogna dare un segnale inequivocabile adesso: l'Euro costi quel che costi lo si difende assieme». Unico leader di partito presente alle celebrazioni del 215 ̊ anniversario del Tricolore, Pier Luigi Bersani, lascia il Valli dopo aver ascoltato il presidente del Consiglio pronunciare parole «di verità» sulla realtà dell'emergenza economico-finanziaria che investe l'Italia, e l'Europa.
Frasi che capovolgono il “tutto va bene” distribuito a piene mani in questi anni. Dietro le transenne c’è la gente che applaude il nuovo premier e ci sono indignados, leghisti e militanti di Rifondazione che lo contestano chiedendo elezioni. «Vedo la Lega laggiù commenta Bersani Ecco fin quando si tratta di indignati o di Rifondazione nulla da dire. Ma la Lega no. Ha governato otto degli ultimi dieci anni, ci ha parcheggiati davanti a un baratro e adesso tutto può fare tranne che contestare». È preoccupato il segretario del Pd. La moneta unica è sotto attacco, mentre l'Europa non stringe, stenta a decidere. «La mia idea è che, come riflesso alla globalizzazione, sia venuto fuori purtroppo un punto di vista ideologico di ripiegamento che è più duro della pietra, un meccanismo difensivo dal quale non si vuol venire fuori. Vedi le cose che dovresti fare ma non le fai, e questo è veramente assurdo. Uno può dire normalmente che se tutti sono d'accordo quella certa cosa si farà. Ma il dramma, qui, è che non è detto che a prevalere sia la ragione...».
Non è vero che le ideologie sono finite, ripete Bersani, «ne sopravvive una profondissima che produce nel cuore dell'Europa, e anche da noi, un meccanismo di chiusura che fa pascolare gli egoismi». Soprattutto in Germania. E i mercati giocano sull'indecisione, sugli irrigidimenti e sui ripiegamenti nazionali. Bersani ha visto Mario Monti, un incontro riservato seppure breve. Per il presidente del Consiglio l'Italia ha fatto la sua parte, e «adesso tocca all'Europa». Ma da Prodi, a Bersani, a Castagnetti, tra gli esponenti politici del centrosinistra presenti a Reggio Emilia si respira un clima sospeso, d'attesa disincantata. «Con Sarkozy è andata bene commenta Bersani, alludendo al vertice dell'Eliseo Anche la Francia comincia ad essere preoccupata perché qui siamo veramente agli Orazi e Curiazi. Il fatto è che se non c'è la difesa comune dell'euro ci sarà sempre, per definizione, un Paese che è più sull'argine. Ed è matematico che man mano che ne fanno fuori uno ce ne sia un altro che rischia di precipitare. Dopo di che quella nazione che pensa di farcela da sola ha già avuto una riduzione degli ordinativi industriali di 4 punti...». Di questo passo, quindi, rischia perfino la Germania. Si dia qualche regolata,
allora, in modo tale che, «quando si arriva ai vertici, si arrivi a qualche decisione».
Trilaterale Monti, Merkel, Sarkozy; Eurogruppo; Consiglio europeo. Di qui alla fine di gennaio sono molte le occasioni per “stringere”. E Berlino «deve mollare, deve dare una mano a fare girare un po' d'economia se non vuole che vada sotto anche lei». E deve sconfiggere quel pregiudizio che circola nella sua opinione pubblica. «Loro che con l'euro altroché se ci hanno guadagnato sono convinti invece che ci hanno rimesso», commenta Bersani.
Si passeggia sotto i portici del Teatro, il leader Pd stringe molte mani, saluta, riconosce, parla in dialetto emiliano. Ascolta un “compagno”, costretto su una carrozzella da un handicap, che si sfoga contro la manovra. «Conosco bene la vostra situazione», dice il segretario del Pd. Poi ricorda «quel passaggio del discorso del presidente del Consiglio sull' equità particolarmente azzeccato. Perché qui non si tratta di fare Robespierre, ma di arrivare a un tasso di fedeltà fiscale comparabile con quello di altri Paesi europei. E se il governo ha iniziato ad agire, secondo noi c'è anche altro che si può ancora fare. Per questo abbiamo avanzato proposte e continueremo a non mollare».
Ma è l'Europa il cruccio, il nodo da sciogliere per ripartire. «Il presidente del Consiglio mi sembra impegnatissimo sul fronte europeo ma ognuno deve lavorare dal suo lato.
Noi lo facciamo da quello dei progressisti europei. Una piattaforma, in ogni caso, si sta determinando. Anzi già c'è. Tra gli economisti e in tanti governi avanza l'idea che bisogna imboccare una direzione precisa per non sbattere contro il muro». Sul trattato salva-euro, ad esempio, «la situazione è in evoluzione, stanno girando le carte, si lavorerà perché ci siano delle correzioni. Il Parlamento europeo, tra l'altro, sta assumendo una posizione unitaria, più aperta. I margini ci sono per migliorare l'intesa intergovernativa». Ma da solo, secondo Bersani, quel terreno non basterà a placare la speculazione. «Sto dicendo che ci vuole anche dell'altro, qualche novità ancora...». Quale? «Quella di dare più risorse al fondo salva Stati snellendone le istituzioni. Nel frattempo, però, perché l'emergenza va affrontata subito, andrà dato qualche mandato in più alla Bce e si dovrà sbloccare la prospettiva degli Eurobond. Certo, tutto questo va accompagnato da regole di disciplina sui bilanci, e nessuno nega questa esigenza. Ma bisogna dare l'idea che si va verso una certa prospettiva comune per stoppare il mercato che vuol distruggere l'euro. E mettiamoci sopra tutti i soldi che servono per salvarlo. Tanto, secondo me, se si seguisse questa strada, non ci sarebbe nemmeno bisogno di usarli alla fine..».
Tutto questo, ormai, «è parte integrante della piattaforma dei progressisti sulla base della quale faremo a marzo un’iniziativa in Francia per sostenere Hollande. Ci saremo tutti annuncia Bersani e rilanceremo anche l'idea di un maggiore coordinamento delle iniziative economiche». Per il segretario Pd «serve la politica». Un'iniziativa coordinata dei progressisti europei, quindi. Perché «un conto è se si alza un partito in Germania o in Italia e dice: basta ragazzi, se ognuno va per i fatti suoi tutti poi andiamo alla rovina, altra cosa è se l'Spd in Germania, il Pse in Francia, il Pd in Italia sviluppano insieme tra le opinioni pubbliche battaglie ideali, culturali e politiche». Troppo tardi? «Speriamo di no risponde Bersani con un sospiro Certo, se tre anni fa si fosse spento sul nascere l'incendio che poi è divampato in Grecia, tutto ci sarebbe costato meno. Guarda un po’, invece, dove siamo arrivati oggi per colpa delle ideologie».
l’Unità 8.1.12
Intervista a Giuliano Pisapia
«Un centrosinistra ampio e coeso per uscire col voto dalla crisi»
Il sindaco di Milano apprezza «la generosità e la responsabilità del Pd» nel sostenere Monti. Ma invita a prepararsi alle elezioni, senza divisioni e polemiche
di Rinaldo Gianola
Sostenere il governo Monti è stata una scelta generosa, responsabile. Il Pd ha fatto bene, anche se penso che avrebbe vinto facilmente le elezioni. Non potevamo far affogare il Paese con conseguenze drammatiche soprattutto per i ceti più deboli. Ma oggi bisogna anche evitare che ad annegare sia il centrosinistra. Dobbiamo porci l’obiettivo delle elezioni per uscire dalla crisi con una svolta progressista, di cambiamento profondo della politica e delle scelte sociali ed economiche».
Giuliano Pisapia guarda al futuro del Paese iniziando il nuovo anno sul fronte dell’”Area C”, cioè la zona del centro di Milano dove dal 16 gennaio le auto potranno circolare solo a pagamento. È un provvedimento forte, europeo, che alimenta polemiche e divisioni, ma per il sindaco di Milano questa battaglia segna il passaggio dalla fase dell’emergenza allo sviluppo, al cambiamento anche culturale della città. È un esperimento importante, assieme ad altri progetti, perchè misura la credibilità di un’amministrazione di dare risposte ai cittadini, con la consultazione, la trasparenza delle decisioni giuste o sbagliate che siano, la determinazione nel difendere gli interessi prevalenti della comunità. Di Milano «che può ripartire nel 2012» e della crisi che «ci lascerà ben diversi dal passato» il sindaco parla con l’Unità.
Sindaco Pisapia, qual è il suo giudizio sul governo Monti e la sua prima manovra?
«Monti è una necessità, anzi è un imperativo nella situazione in cui ci aveva trascinato Berlusconi. Penso che solo un governo come questo sia in grado di decidere velocemente i provvedimenti indispensabili a salvare il Paese, provvedimenti tanto impopolari quanto è grave la nostra situazione. La credibilità e la capacità, anche tecnica, del governo Monti sono oggi i fattori su cui deve fare affidamento anche la politica per evitare che il Paese affondi».
In altri tempi avremmo definito Monti e la sua manovra semplicemente di “destra”. È l’emergenza che fa cambiare i giudizi?
«Questa crisi ci sta cambiando e ci lascerà profondamente diversi dal passato. Non mi sfugge che i provvedimenti di Monti sono pesanti e colpiscono chi già fa il suo dovere. Per questo mi aspetto al più presto una correzione, proposte finalizzate a una maggiore equità e giustizia sociale, sostegni alla ripresa e per i ceti sociali più deboli. Monti ha deciso misure straordinarie perchè questo momento è straordinario nella sua gravità, ma la stagione dell’emergenza deve avere un limite. È necessario, anche per confermare le nostre basi democratiche, che siano gli elettori a scegliere i governi».
Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro hanno riproposto la modifica dello Statuto dei lavoratori e il superamento dell’art.18. Cosa ne pensa? «Penso che il governo tecnico non possa ripercorrere una strada dove hanno già fallito politicamente Berlusconi e Sacconi. Spero che il governo abbia capito che oggi non c’è bisogno di creare e alimentare altre tensioni sociali. È poi il problema non è certo l’articolo 18, non è questo che frena lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Lo sanno tutti, compresi gli imprenditori, almeno quelli che non sognano vendette ideologiche».
Non teme che il centrosinistra possa uscire logorato da un lungo sostegno al governo tecnico?
«Questo è il momento della responsabilità. Ma il centrosinistra deve prepararsi a una nuova stagione politica, deve essere pronto per la prova elettorale, con un programma, un disegno politico preciso e credibile, aperto alla società e alle associazioni. Sostenere Monti e pensare al voto non è una contraddizione, serve anche a evitare lacerazioni nel centrosinistra. Questa crisi e dico anche le dure scelte di Monti approvate dal Pd devono servire per costruire una proposta nuova, seria, credibile per il futuro del Paese. Possiamo farcela se ripartiamo dal basso, se evitiamo divisioni e polemiche inutili, se ci poniamo l’ambizione di uscire a “sinistra” dalla crisi. Dobbiamo puntare su un allargamento delle alleanze, su un centrosinistra ampio e coeso».
Lei è sindaco di Milano da sei mesi. In che punto si trova?
«Penso di essere uscito dalla drammatica emergenza in cui la mia amministrazione si è trovata nei primi mesi a causa delle scelte realizzate dalle giunte di destra. Abbiamo riavviato il progetto Expo 2015, abbiamo sistemato i conti e rispettato il Patto di stabilità e ora penso che, malgrado la crisi del Paese, Milano possa ripartire nel 2012. Dico che Milano riparte perchè vedo in città una grande partecipazione e disponibilità da parte di tanti soggetti, dal mondo del lavoro alle imprese, dalla società alle associazioni». Come sta incidendo la crisi economica sul tessuto sociale?
«In città ci sono sacche di povertà, anche di nuove povertà, preoccupanti. C’è chi ha perso il lavoro, lavoratori in cassa integrazione che non ce la fanno, famiglie in difficoltà. L’obiettivo prioritario dall’amministrazione è fronteggiare queste situazioni, mobilitando tutte le risorse possibili e chiedendo la partecipazione di tutte le forze sociali. Oltre alla Fondazione Welfare che ha iniziato ad operare, in questi giorni abbiano recuperato 5 milioni di euro nelle pieghe del bilancio da utilizzare in aiuto dei precari».
Lei ha deciso di vendere una quota della Sea (la società che gestisce gli scali di Linate e Malpensa) per rispettare il Patto di stabilità. Altri suoi colleghi, invece, pensano di violarlo.... «Penso che il Patto vada cambiato, ma Milano ha deciso di rispettarlo e vogliamo restare un comune virtuoso. Abbiamo venduto la quota Sea, di cui manteniamo comunque il 51%, anche per pagare le centinaia di aziende che attendevano i soldi all’amministrazione, abbiamo dato una mano all’economia. Le precedenti giunte di Milano abbellivano i bilanci grazie al fatto che non pagavano le fatture. Oggi siamo nelle condizioni di far ripartire gli investimenti, di realizzare progetti e tutti i giorni ricevo sollecitazioni, offerte da parte di governi e imprese, soprattutto delle economie emergenti, interessati a investire a Milano». Come conseguenza del riassetto azionario della Edison si è aperta una discussione sul futuro di A2A, la società di cui il Comune di Milano assieme a Brescia ha una ricca partecipazione. La venderete?
«Il dibattito di questi giorni è surreale. La giunta non ha affrontato il tema, lo discuteremo insieme al bilancio 2012. A titolo personale mi pare che A2A, oltre a generare dividendi che servono sempre, possa essere il perno di un grande progetto industriale che potrebbe coinvolgere le altre ex municipalizzate del Nord. È possibile pensare che Milano, Brescia, Bologna, Torino lavorino insieme alla creazione di un forte operatore industriale, a controllo pubblico? Questo mi sembra la sfida dei prossimi mesi».
I poteri economici e finanziari di Milano stanno cambiando. Berlusconi non è più al governo, Ligresti è in gravi difficoltà, il San Raffaele ha perso il suo leader Don Verzè e avrà presto una nuova proprietà. C’è un filo che lega questi fatti?
«Non entro nel merito di singole vicende imprenditoriali. Ogni azienda ha la sua storia e i suoi problemi. Quello che posso dire, in linea generale, è che c’è un cambiamento profondo in città nei rapporti tra i poteri dell’economia, della finanza e la politica. La mia amministrazione non dipenderà mai da quei poteri, da quegli interessi che, in passato, hanno sempre fatto quello che volevano»
il Fatto 8.1.12
Teologia della crisi italiana
di Furio Colombo
Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. I due gruppi però ora sono tutt’altro che omogenei, fatti di gente molto diversa, fra imposizione e fiducia da una parte, fra scetticismo e rivolta (qualcuno teme rivolta violenta) dall’altra. Sia i leader delle nuove tavole della legge, sia coloro che sono decisi (non tutti decisi allo stesso modo) a restare fuori dal tempio, sono consapevoli che l’evento è unico, che il momento è decisivo. Vibra intorno a tutti (anche i miscredenti) la percezione di una eccezionalità che dà un peso enorme a ogni frase, a ogni gesto, trasforma tutto in simbolo. Salvezza e perdizione sono i due modi per definire lo spazio e i limiti dello spazio. “Adesso, subito” oppure “prima parliamone” sono i due modi di qualificare la percezione del tempo. Come sempre, la grazia non può aspettare. Il rifiuto della grazia, intesa come salvezza, è il peccato. Il peccato si annuncia col trascinamento nel tempo. “Discutiamone” è la tipica via d’uscita di chi non ha fede. Di che cosa sto parlando? Il lettore ha capito che sto parlando di Europa in questi giorni, che sto parlando dell’Italia.
Ho detto della contrapposizione tra salvezza e perdizione, ma la parola giusta è esclusione. Esclusione dalla comunità dei salvati. È la vera sanzione del peccato: fuori dal benessere, fuori dalla crescita, fuori dal futuro, fuori dall’euro, fuori dal-l’Europa. Il peccato è rifiutare il sacrificio. È vero che il sacrificio non è uguale per tutti, ma questo avviene in tutte le religioni, dove alcuni, per la stessa fede, pagano prezzi immensi e altri no.
NELLE RELIGIONI classiche si dice che Qualcuno o Qualcosa provvederà, in un’altra ambientazione di fatti e di tempi, a rimborsare chi ha dovuto eccedere nel-l’offerta (“beati i poveri”). In questa, che stiamo vivendo e discutendo, il rimborso è affidato a una speranza che prudentemente rimane inespressa. Al massimo ti dicono che, se il sistema tornerà a produrre ricchezza, non potrà che distribuirla. Tranne che in casi di guerra o di estrema calamità naturale, nessuna autorità ha mai preteso, nei sistemi democratici, una così rigorosa accettazione indiscussa di regole tanto dure che però non assicurano alcuna certezza, solo una chance. Esigono, ma non promettono. “Forse” è già un articolo di fede. Cerco di essere preciso. Tutto ciò di cui sto parlando non è il capitalismo. Del capitalismo ci sono, e vengono ripetute, regole e comportamenti che costituivano buona parte di quel disegno di costruzione sociale basata, come si ama dire, sul merito, e fondata, nella vita reale, su occasioni, ben raccolte e bene usate, di privilegio. Non sto parlando – lo vedete – di corruzione. Perché i corrotti non sono mai fra i miscredenti, non si contrappongono mai a un sistema religioso. La corruzione – così come aveva visto per tempo Martin Lutero per il cattolicesimo – si nasconde nelle migliori pratiche di fede. E perciò, in attesa di una “riforma”, sulla corruzione sospendiamo il discorso.
Mi premeva dire che la strana, mistica avventura che stiamo vivendo non è un ritorno o una rivincita del capitalismo. Il capitalismo è freddo e pragmatico e non perde tempo con le sue vittime. Spiana dove deve costruire, e costruisce, se deve, anche murando la tua finestra. Per giunta il capitalismo è privo di preoccupazioni che non siano “l’affare”, non si volta indietro, dialoga solo con soci e con partner.
Qui siamo in un tempio. Le lacrime non sono finzione, la preoccupazione anche grave non è una messa in scena, la parola deve essere ascoltata non per sottomissione alla autorità ma perché in essa chi partecipa al nuovo rito riconosce la verità. Da quella verità non si sfugge perché è l’unica possibilità di salvezza. Non fornisce tutti i dati del “come” si arriverà alla salvezza, ma una cosa è certa: questa è l’unica strada. Una religione prevale quando anche i miscredenti gravitano su di essa, nel senso che discutono, anche accanitamente, ma voltati verso l’altare, ovvero il punto sacro e caldo del tempio, quello in cui deve avvenire il miracolo. I più non stanno dicendo che la strada è un’altra. I più stanno invocando un cambiamento o attenuazione o dilazione di regole per me, o per te o per loro. In inglese la parola è advocacy. Significa che la nuova fede è più forte dei miscredenti e li sta portando, con tutte le differenze e le eresie, a un unico punto caldo? Di sicuro dimostra che non stiamo parlando di rivincita e ritorno del capitalismo puro, che non si è mai proposto come salvezza ma come naturale espressione tecnica ed economica della democrazia liberale. E non stiamo parlando di un battibecco tra destra e sinistra, fra conservatori e liberal.
No, signori, qui c’è fede, dunque vita, morte, salvezza o dannazione (nella forma della esclusione), via d’uscita o precipizio (il baratro viene continuamente invocato, e anche il baratro non è una figura del capitalismo, se non come fallimento di una impresa, e danno grave per qualcuno, quasi sempre a beneficio di qualcun altro). La strada della salvezza invece la imbocchi per fede, non perchè ti forniscono le prove.
A essere sinceri non siamo sicuri neppure del peccato originale che ci ha portato così vicini alla perdizione. Ogni paese ha il suo, in Europa. Ma la passione religiosa si estende all’America, dove il candidato repubblicano (uno di loro, Romney, ma a nome di tutti) dichiara: “Non un dollaro per salvare l’Europa”. Che vuol dire: mai finanziare il peccato. Tutto ciò porta a non notare che – proprio in America – una solida e pericolosa congrega di atei, guidata dai premi Nobel per l’economia Krugman, Stieglitz e Amartya Sen, sostiene che la nuova chiesa si fonda sull’errore. Alle dovute condizioni e con le dovute regole, si deve spendere per salvarsi, non risparmiare. E cominciare con il salvare i poveri (molti) e ridare speranza ai quasi poveri (moltissimi).
È tollerabile una simile eresia? È tollerabile se la si isola in un ghetto universitario-giornalistico, lontano dai governi. I governi tagliano, in Europa e in America, per non essere esclusi dal tempio. Dunque la decisione è terribile e semplice: abbracciare o no la fede. Tanto più che si diffonde l’inquietante sensazione che fuori dal tempio e sopra e lontano, abiti un dio potente che non ha ancora svelato il suo volto.
l’Unità 8.1.12
La nuova scritta «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato. I camerati»
Presenti Giorgia Meloni e un assessore capitolino. L’imbarazzo del sindaco Alemanno
Strage di Acca Larentia. La targa della vergogna davanti all’ex ministra
Giorgia Meloni insieme all’assessore Ghera e al consigliere comunale Mollicone era presente alla cerimonia, e non ha trovato nulla da ridire. Alemanno: «Si rischia di percorrere una strada ideologica»
di Massimo Solani
Si temevano incidenti ma la commemorazione del trentaquattresimo anniversario della strage di Acca Larentia, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta furono uccisi da alcuni colpi di arma da fuoco davanti alla sede del Msi mentre Stefano Recchioni fu colpito a morte da un proiettile esploso da un carabiniere nel corso di alcuni scontri esplosi alcune ore dopo, quest’anno porta con se soltanto le polemiche esplose per la targa inaugurata ieri per ricordare l’assassinio dei tre militanti missini a sostituzione di quella affissa nel 1978. «Morti per la libertà e per un’Italia migliore», c’era scritto prima. «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato», si legge adesso sotto ai nomi delle tre vittime, firmato «i camerati». Parole di fronte alle quali non hanno trovato nulla da protestare nemmeno l’ex ministro Giorgia Meloni, l'assessore ai Lavori pubblici di Roma Capitale Fabrizio Ghera e il presidente della Commissione Cultura in Campidoglio Federico Mollicone che hanno preso parte alla commemorazione depositando una corona. Rappresentanti dello Stato, eppure niente affatto a disagio sotto la grande bandiera nera con la celtica. I motivi del cambio di dicitura della targa li ha spiegati Carlo Giannotta, responsabile della sede Autonoma di Acca Larentia. «Gianfranco Fini e il suo gruppo la sua versione tra cui Gasparri e La Russa, fecero la promessa di una Italia migliore quando nel ‘78 misero la vecchia targa. Promessa poi non rispettata. Per questo noi l’abbiamo sostituita ed abbiamo specificato l’ideologia che ha assassinato quei tre ragazzi».
ALEMANNO: STRADE IDEOLOGICHE
Parole che imbarazzano il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che non ha partecipato alla commemorazione. «È corretto mantenere su queste lapidi la dicitura: “Vittime della violenza politica”». Secondo Alemanno, infatti, «andare più nello specifico significa rischiare di ripercorrere una strada di carattere ideologico. Noi dobbiamo condannare a prescindere la violenza ideologica». Di rimuovere la targa però, come ha chiesto Fabio Nobile, consigliere regionale del Lazio del PdCI-Fds, e il senatore dell’Idv Stefano Pedica, il sindaco ha preferito non parlare. Una brutta pagina in una giornata di ricordo cui si era unito anche il presidente della Provincia Nicola Zingaretti. «Roma deve rendere omaggio ai ragazzi assassinati ad Acca Larentia cosi come a tutte le altre vittime di destra e di sinistra stroncate da una idea esasperata del conflitto politico le sue parole Dobbiamo con forza e coraggio tenere viva la memoria perché quello che è accaduto non possa più succedere».
I CORI DEL PRESIDIO
Un invito alla concordia arrivato dopo giorni di tensione e polemiche, con un corteo organizzato da Forza Nuova e Casa Pound annunciato, contestato dall’Anpi e dalla sinistra, e infine annullato anche per il timore di incidenti. Anche perché nel frattempo, non lontano dalla sede di Acca Larentia, era stato organizzato un presidio antifascista che ieri si è tenuto regolarmente sotto il controllo delle forze dell’ordine. Duecento, non di più, le persone che hanno risposto alla convocazione riunendosi all’Alberone. Abbastanza, però, perché dal presidio si alzassero cori come «10, 100, 1000 Acca Larentia» e «fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero». Parole che hanno permesso alla destra di gettarsi alle spalle gli imbarazzi causati dalla nuova lapide per tornare ad attaccare a testa bassa. «Questi slogan fanno rabbrividire e devono indurre tutti a riflettere, in particolare una sinistra strabica che vede solo i rischi dell’estremismo di destra ha commentato Alemanno Credo che in anniversari come quelli di Acca Larentia come in quelli che hanno visto ucciso dei giovani di sinistra, tutte le istituzioni e tutte le parti politiche responsabili dovrebbero tenere un tono molto basso e molto rispettoso del sangue versato». «Forse chi si lamentava del ricordo dei ragazzi di destra uccisi a via Acca Larentia voleva che ci fosse una manifestazione di sinistra che inneggiasse a quella strage si è accodato Maurizio Gasparri Ora che c’è stata saranno contenti? O si vergogneranno della loro intollerabile faziosità? Chi fa apologia di un martirio dovrebbe finire in galera. Spero che le forze dell’ordine identifichino i responsabili di questo scempio». Il tutto mentre davanti alla sede di via Acca Larentia decine di braccia tese nel saluto romano salutavano i nomi dei «camerati» morti. In mezzo alla folla anche il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico e l’ex presidente dell'Ama Marco Daniele Clarke.
Corriere della Sera 8.1.12
I cinesi preparano la fiaccolata «In diecimila da tutta Europa»
di Alessandro Capponi
ROMA — «Arriveranno da tutte le parti, dalla Francia, dalla Spagna, e soprattutto da molte zone d'Italia, da Milano e Prato come dal Sud. In otto-diecimila, almeno». Le novità non riguardano solo i numeri di questa manifestazione-fiaccolata, perché c'è quest'altra frase che Lucia King, incaricata dell'organizzazione, pronuncia subito dopo l'incontro all'ambasciata cinese, ieri sera: «I presidenti di tutte le associazioni presenti si sono impegnati a mantenere la calma. Ma è inutile nascondere che ci sentiamo tutti colpiti, sia da quello che è accaduto alla piccola Joy e a suo padre, sia da questi furti e rapine che subiamo di continuo, ormai da mesi». Da molti punti di vista martedì non si annuncia come una giornata semplice, per Roma.
Nella serata di ieri appare chiaro che la richiesta di autorizzazione precedente, quella per «cinque-seicento persone» presentata al commissariato di Tor Pignattara, si può anche strappare. La fiaccolata si farà, sì, ma non muoverà dal quartiere dell'agguato che ha ucciso la piccola Joy e suo padre: l'appuntamento, visti i numeri annunciati dei soli partecipanti di origine asiatica, è stato spostato in piazza Vittorio, nel multietnico e centrale rione Esquilino. Da lì, poi, intorno alle cinque del pomeriggio, il corteo vorrebbe spostarsi e raggiungere, a piedi, la via dell'agguato. Quasi quattro chilometri da percorrere, in un giorno feriale, a metà pomeriggio: il traffico, nel quadrante est della città e non solo, rischia di impazzire. «Adesso vedremo se sarà possibile — spiega il capogruppo pd del quartiere del duplice omicidio, Gianluca Santilli — ma noi di certo contribuiremo alla riuscita della manifestazione con almeno cento persone per il servizio d'ordine. Almeno, perché i numeri potrebbero essere imponenti: oltre ai cinesi saranno presenti i moltissimi romani indignati per quanto accaduto mercoledì sera. Noi comunque faremo di tutto per evitare che tra i partecipanti qualcuno possa reagire al dolore in modo sconsiderato». I parenti della piccola Joy sono arrivati ieri dalla Cina: hanno visto la piccola nella bara bianca, all'obitorio, accanto a quella del padre, e, all'esterno, si sono sentite urla disperate.
Nel corteo non ci saranno bandiere di partito: «Ma di fronte a una ferocia mai vista in città, questa fiaccolata sarà la risposta più importante». La comunità cinese lo sa: «Noi manifesteremo per esprimere vicinanza alle vittime di quella violenza inaudita, ma anche per chiedere la protezione che spetta alle nostre vite e ai nostri beni». Subito dopo, Lucia King aggiunge un'unica frase: «Sarà pacifica». La ripete tre volte, come se qualcuno non le credesse.
Il Fatto 8.1.12
Scuole per pochi con i soldi di tutti
di Marina Boscaino
Mi chiedo se le parole di Maria Grazia Colombo, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), intervistata da La Stampa, siano più ridicole o più irresponsabili. In ogni caso non mi sembrano coerenti con l’orientamento religioso e morale della signora. Colombo afferma: “Proprio in questo momento di crisi economica, il sistema paritario costituisce un elemento di novità. Nonostante ciò, veniamo penalizzati”. Che il sistema paritario sia una novità è relativamente vero: facciamo i conti con questa realtà – che coinvolge soprattutto scuole cattoliche – dal 2000, quando con la L. 62 le scuole private hanno potuto chiedere la parità con quelle statali. Quanti di voi, avendo deciso di non usare i trasporti pubblici, pretenderebbero il rimborso della benzina consumata per raggiungere il posto di lavoro? È ciò che le scuole paritarie hanno ottenuto e continuano a esigere, con lo Stato che – persino in un momento grave come quello che stiamo attraversando – concede loro finanziamenti, pur sottraendoli alla scuola pubblica, che esiste e offre un servizio per tutti.
Colombo scocca tutte le frecce che crede di avere al proprio arco per sostenere la sua singolare tesi: “Le differenze, tra spesa per alunno che frequenta la scuola statale e alunno della paritaria, generanoperloStatounrisparmiosulla spesa complessiva destinata alla scuola di 6.245 milioni di euro all’anno”. La presidente dell’Agesc continua: “È evidente che il mantenimento e lo sviluppo del sistema paritario risulta una voce a favore dello Stato, in quanto attua un vero e proprio sistema sussidiario all’incontrario”. Ringraziando la pia Colombo per la provvidenziale indicazione di come risolvere la crisi e cercando di non annoiare con la disamina di quanto lo Stato spende per ciascun alunno di scuola statale e paritaria (oggettivamente di più nella prima), vorrei osservare che non è questo il punto. I dati vanno letti correttamente: l’Agesc si riferisce al bilancio (parziale) dello Stato e non a quello (complessivo, non formalizzato, ma reale) della Nazione, intesa come insieme di cittadini e di famiglie. Se tutti ci pagassimo sanità e scuola privata, lo Stato avrebbe un enorme avanzo di bilancio. Chi manda i figli alle paritarie, se non le evade, paga sia le tasse – che finanziano anche la scuola pubblica – sia la retta. Lo studente paritario costa meno allo Stato perché costa di più alle famiglie. Meglio: a quelle che se lo possono permettere. Il problema è dunque decidere se istruzione e sanità siano diritti costituzionali per tutti, principi fondanti la nostra società e se lo Stato consideri imprescindibile perseguirli e sostenerli; o se invece siano uno spreco. Colombo suggerisce la seconda interpretazione. Se abolissimo istruzione, sanità, difesa, giustizia, assistenza agli anziani e continuassimo a far pagare le tasse, lo Stato andrebbe subito in attivo. Colombo sarebbe soddisfatta? Mi auguro di no, considerata la sua fede. Non bisogna poi dimenticare che in molti casi questo tipo di ragionamento suggerisce in modo implicito che mandare i figli alla paritaria dovrebbe implicare l’esenzione dalle tasse per la pubblica: meno tasse, chi può si paga la scuola di serie A, e chi non può va in quella di serie B. La formula proposta da Colombo – oltre che di facile impatto immediato, ma profondamente scorretta – porta a una società disomogenea, che determina diritti e doveri dei cittadini in base a censo e a potere d’acquisto di chi li esercita. Che fine ha fatto la morale cattolica? Inviterei Colombo, anziché a strumentalizzare le esigenze di bilancio per portare acqua al mulino della scuola paritaria confessionale, a riflettere sulla necessità di contrastare la lotta all’evasione che – ne sono certa – si annida anche tra coloro che mandano i figli alla paritaria cattolica. E a pensare un po’ di più alle esigenze di equità, di giustizia e – persino! – di carità cristiana.
Corriere della Sera 8.1.12
Il capitale umano che manca all'Italia
Siamo tra gli ultimi per diplomati e laureati. Peggio di Estonia e Polonia
di Paolo Conti
«Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse del 73%. È troppo poco. Dobbiamo studiare di più. Se l'Italia cresce meno di altri Paesi europei dobbiamo migliorare il nostro capitale umano». Parole di Mario Monti a Reggio Emilia, durante la festa del Tricolore. Le cifre dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, sono chiarissime. Solo il 54% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha ottenuto un diploma di scuola media secondaria. La media Ocse è del 73%: ma siamo lontanissimi non solo dall'85% della Germania, dall'88% del Canada, dall'89% degli Stati Uniti ma anche dal 91% della Repubblica Ceca, dall'89% dell'Estonia, dall'88% della Polonia. Nelle nuove generazioni, fascia 25-34, noi italiani siamo ancorati a un non esaltante 70%.
Commenta il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo: «Scontiamo un pregresso di bassa scolarità nella fascia alta della popolazione. Tra i 19-25 approdiamo finalmente all'81% di diplomati. Un primo intervento deve riguardare l'orientamento, per cercare di limitare al massimo la dispersione scolastica. Bisogna fornire nuove modalità per orientare le scelte, optando per percorsi coerenti con le aspettative ma anche con le caratteristiche personali. E sarà necessario informare i giovani sulle ricadute occupazionali delle loro scelte». Poi Profumo pensa a «un tutoraggio nelle fasi transitorie dei cambiamenti di livello di istruzione, medie-superiori e superiori-università. Questi passaggi avvengono nell'età critica dell'adolescenza, quando i percorsi personali sono meno chiari. Quindi un tutoraggio attento, rivolto non solo ai contenuti della didattica ma soprattutto alla necessità di insegnare ai giovani metodi, organizzazione del lavoro di studio e, insieme, un ascolto delle problematiche legate alla loro crescita».
Profumo progetta «un intervento deciso nelle aree di difficoltà che non si trovano soltanto al Sud, ma anche nelle grandi aree urbane». Il ministro sottolinea che «qui si concentra maggiormente l'abbandono scolastico che si sovrappone maggiormente proprio con le aree di maggiore povertà. Sarà necessaria una maggiore integrazione tra scuola dell'obbligo e superiore che potrebbe essere in molti casi di tipo professionale, verticalizzando in un solo plesso più gradi di istruzione (per dare riferimenti certi e continuità a ragazzi che non li hanno in casa e nella società) e fornendo agli studenti delle professionalità specifiche. Così si potrà dare continuità formativa e un mestiere (il cuoco, l'idraulico, il falegname, l'elettricista, l'elettrauto)».
Scuola e formazione. Un binomio che Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, studia da anni: «La carenza di capitale umano di cui giustamente parla il presidente Monti ha motivazioni storiche. Per questo non basta dire che ci sono pochi diplomati. Bisogna parlare anche di "quali" diplomati. Nel 1993 l'industria italiana, ogni 100 assunzioni, richiedeva solo 11 tecnici, in Germania erano 17. Oggi ne chiede ben 22. Eppure vent'anni fa su 100 ragazzi solo 20 sceglievano un liceo e 45 un'istruzione tecnica, oggi siamo con 42 al liceo e solo 33 a un istituto tecnico. E così ci ritroviamo con una gran mole di disoccupati in un'area di "genericismo indeciso" dell'istruzione e con industrie che non trovano tecnici. Urge un migliore orientamento migliorando ovviamente la qualità dell'istruzione anche tecnica».
Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell'apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell'education) invita a osservare il problema da un'altra prospettiva: «Le cifre sulle nuove generazioni dovrebbero spingerci a un moderato ottimismo. Ma sarebbe un errore. Lo scarto con gli altri Paesi in termini di capitale umano misurato con i titoli di studio diventa più spaventoso se calcoliamo che il 20-25% dei ragazzi esce dalla scuola senza alcun titolo di studio mentre la media europea è del 10-15% con l'obiettivo di ridurlo all'11% secondo la strategia di Lisbona. Una catastrofe. Si prova sgomento pensando che nel 2020, secondo le proiezioni del Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, in Italia il 37% delle forze di lavoro avrà un basso livello di qualificazione, contro il 20% dell'Europa. Avrà livelli alti di qualificazione solo il 18% della forza di lavoro italiana, contro il 32% dell'Europa».
Un'Italia condannata a diventare un fanalino di coda? Oliva vorrebbe cavarsela con una battuta: «Difficile rimanere troppo a lungo ricchi e ignoranti... Ricordo che nell'era laburista in Gran Bretagna si diceva: the more you learn, the more you earn, più sai e più guadagni». Proposte per una soluzione? «I ragazzi e le famiglie dovrebbero responsabilizzarsi, analizzare le prospettive e comportarsi di conseguenza. In quanto ai governanti, dirò questo. Abbiamo una scuola antichissima che ha strutture, programmi e metodi identici ai tempi in cui l'istruzione riguardava il 20% della popolazione. Per esempio l'uso del computer e l'approccio verso le nuove tecnologie è ridottissimo. E i dipendenti di quel settore, più di un milione, sono governati senza alcuna tecnica del personale ma in modo egualitario e burocratico senza selezione, formazione, prospettiva di carriera, incentivi. Di conseguenza la qualità dell'insegnamento è troppo modesta, ed eccone i risultati».
Dice Tullio De Mauro, linguista, ex ministro dell'Istruzione: «Sono lietamente sorpreso che un capo del governo italiano analizzi questo aspetto del nostro sviluppo. Come uscire dalla crisi? Investendo nella qualità degli insegnanti e nella stessa edilizia scolastica. Ma vorrei aggiungere un dato che proprio l'Ocse ci contesta da anni: la completa mancanza di educazione per gli adulti. Quando si esce dalla scuola fatalmente si regredisce. Il risultato è che il 71% degli italiani adulti non è in grado di leggere correntemente un documento, un giornale, meno che mai un libro. Monti, che conosce l'Europa dove certe cose funzionano, lo sa. Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per "rieducare" quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Parla anche Andrea Caradini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, da sempre fautore della meritocrazia e animatore sul Corriere della Sera di polemiche sul basso livello dell'istruzione in Italia: «Monti ha tutte le ragioni e finalmente questo governo apre un capitolo nuovo che da tempo andava affrontato. L'Italia non ha mai avuto un vero progetto culturale. Quindi: qual è il ruolo della conoscenza nel nostro futuro sviluppo economico? E quale contributo può dare la produzione culturale alla crescita del Paese?»
La Stampa 8.1.12
Israele - Palestina
I pericoli di uno stato binazionale
di Abraham Yehoshua
In un articolo pubblicato il 23 dicembre scorso sul quotidiano Haaretz Abraham Burg formula una nuova ipotesi secondo la quale è giunto il momento di prendere in considerazione la possibilità che Israele proceda ciecamente e inesorabilmente verso la creazione di uno Stato unico, o binazionale.
A eccezione dei sostenitori dello schieramento religioso (per via della struttura stessa dell’identità religiosa), di quelli della destra radicale laica (per via delle loro fantasie di violenza), e di quelli della sinistra post-sionista (per via dei loro ideali umanisticosmopoliti), tutte le altre fazioni politiche e ideologiche di Israele capiscono e dichiarano che uno Stato israeliano binazionale sarebbe un’eventualità pessima e pericolosa, sia a breve che, ovviamente, a lungo termine. Ciò nonostante procediamo ineluttabilmente verso la realizzazione di tale possibilità che, in determinati periodi della storia sionista, è stata considerata ragionevole e accettabile da certi ambienti.
Anche se molti di noi credono che si possa evitare la creazione di uno Stato binazionale grazie a un'incisiva azione politica, abbiamo tuttavia il dovere di prepararci, ideologicamente ed emotivamente, a una tale eventualità (così come ci si prepara ad altre potenziali emergenze) affinché essa non sconvolga la struttura democratica di Israele e non distrugga completamente l'identità israeliana-ebraica consolidatasi negli ultimi decenni.
Va compreso che uno Stato binazionale potrebbe sorgere non solo in seguito all'operato di Israele ma anche a una cooperazione segreta fra le diverse fazioni palestinesi, sia all'interno del territorio israeliano sia in Giudea e in Samaria. Persino gli esponenti più pragmatici di Hamas vorrebbero trascinare Israele in una prima fase di tale processo. Non solo per via del discutibile presupposto che ciò che è male per gli ebrei è certamente bene per i palestinesi ma perché per i palestinesi uno Stato binazionale nella terra di Israele sarebbe, a lungo termine, una possibilità più allettante del controllo sul territorio spezzettato e smembrato che potrebbero, con grande sforzo e probabile spargimento di sangue, estrarre dalle fauci di Israele.
Uno Stato binazionale, anche solo in parte democratico, potrebbe garantire ai palestinesi, grazie alla solida economia israeliana e ai suoi legami forti e profondi con l'Occidente, una vita migliore e più sicura, ma soprattutto un territorio più ampio che, entro qualche decina di anni, potrebbe diventare Palestina in toto.
Ovunque sentiamo parlare del sogno palestinese di uno Stato binazionale. E questo può forse spiegare l'insistenza dell'Olp a Camp David nel 2000, dell'Autorità palestinese durante i colloqui con il governo Olmert e anche nel corso dei recenti approcci dell'attuale governo israeliano, a non addentrarsi in negoziati seri con l'intenzione di arrivare a una vera conclusione. Questo sogno spiega anche l'incomprensibile paralisi dei palestinesi nell'organizzare una protesta civile e non violenta contro gli insediamenti, e forse pure il loro profondo sopore notturno quando dei vandali bruciavano le loro moschee. A differenza dei loro fratelli in Siria o in altri Paesi arabi che affrontano a torso nudo i proiettili dell'esercito i palestinesi osservano passivamente l'accelerato ampliamento degli insediamenti trascinandoci, con pazienza, verso uno Stato binazionale. Al tempo stesso gli ebrei, forti di una «competenza» millenaria, tornano a insediarsi e a intrecciarsi nella trama dell'identità di un popolo straniero parte dell'enorme nazione araba come hanno fatto per secoli in Ucraina, in Polonia, nello Yemen, in Iraq o in Germania, lasciandosi trascinare con timore, o forse con entusiasmo, in una situazione che ha causato loro grandi catastrofi ma che soprattutto potrebbe distruggere definitivamente la possibilità di normalizzazione della sovranità israeliana.
Alla gran maggioranza dei religiosi estremisti, o anche parzialmente moderati, l'ideale di uno Stato binazionale non appare tanto minaccioso. Chi ha saputo mantenere la propria identità per secoli in ogni parte del mondo per mezzo di testi scritti e di una vita comunitaria ristretta riuscirebbe di certo a serbarla anche in un singolo avamposto circondato da villaggi arabi con una compagine militare a garantirne la sicurezza. Gli estremisti di destra, dal canto loro, che considerano Israele una gigantesca portaerei statunitense (secondo le parole del ministro Uzi Landau), credono che quella confusa potenza concederà loro di risolvere il problema demografico al momento opportuno con una serie di silenziosi trasferimenti di popolazione. E nemmeno gli umanisti cresciuti nell'ideale di fratellanza fra i popoli secondo gli insegnamenti dei movimenti politici Hashomer Hatzair e Brith Shalom non vedrebbero nulla di male nella futura presenza di uffici di Hamas nelle torri Azrieli di Tel Aviv, fintanto che questi non intralcino il loro approccio umanistico.
Ma per chi ha creduto e sognato un'identità ebraica indipendente che metta alla prova, nel bene e nel male, i propri valori in una realtà territoriale nazionale, uno Stato binazionale spezzerebbe dolorosamente questo sogno e sarebbe fonte di duri conflitti, come dimostra il fallimento di altri Stati binazionali costituiti da popoli molto più vicini sotto un profilo religioso, economico, storico e di valori comuni di quanto lo siano ebrei e palestinesi.
È ancora possibile evitare il male che ci aspetta? Riusciremo a convincere i palestinesi a realizzare l'ideale di due Stati per due popoli (anche nel quadro di una federazione)? È ancora possibile convincere i sostenitori di Israele negli Stati Uniti e in Europa a mostrare risolutezza morale e a impedire a Israele di seguire l'ambigua via che ha intrapreso? E nel caso in cui il binazionalismo dovesse diventare realtà, come potremmo limitarne i danni? Come potremmo prepararci senza che esso distrugga l'indipendenza laica israeliana e non ci schiacci fra la discriminazione femminile di stampo ebraico e quella di stampo musulmano? Queste sono domande serie e nuove alle quali anche i sostenitori della pace devono trovare una risposta.
il Riformista 8.1.12
Tra passato e futuro
I sentieri lunghi della primavera araba
Tunisia Egitto Siria
Spread in Piazza Affari, sangue a piazza Tahrir, il libro di Francesca Corrao, il vecchio imprenditore mazziniano di Tunisi: «Qui era una pentola a pressione».
di Giuseppe Provenzano
Il ‘68 non fu solo il Sessantotto, si sa, ma già un po’ il ’67 e il ’69 soprattutto. E se il ’48 fu proprio un Quarantotto, il ’49 non sarebbe stato meno. E come poteva allora il 2011 arabo compiersi nell’anno appena scorso? L’esercito siriano spara ancora sulla folla e continuano le violenze nello Yemen, le milizie gheddafiste resistono al governo transitorio della Libia e in Egitto il travagliato processo democratico dei militari, pure in questo tempo di elezioni, si macchia nelle galere o nelle piazze del sangue del popolo, delle donne, specialmente.
Persino in Tunisia, dove tutto cominciò col rogo umano a Sidi Bouzid in quello scampolo finale del 2010, protagonisti e studiosi meno improvvisati avvertono che se date e anniversari sono simboli importanti e necessari il 14 gennaio della cacciata del dittatore, a cui già intitolano piazze e che ci s’appresta a celebrare – la Primavera non può durare un solo anno, non dura tutto l’anno, in altre stagioni bisogna attendere i frutti, molte volte ancora sarà sfiorito e rifiorito il gelsomino. Sorprendente, l’anno vecchio. Prepotente, la voglia di giustizia e libertà sulla sponda Sud del mare nostro, ci colse di sorpresa. Ci mancavano gli “antefatti”, quelli che Francesca M. Corrao – nel lungo captolo che apre il recente volume da lei curato, Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, Mondadori Università – ricostruisce in due secoli di storia politica e processi culturali e sociali. Eminente arabista, andata e venuta dal Nord Africa e dal Medio Oriente, e specialmente dall’Egitto (che molto ritorna nelle pagine del libro), in decenni di studio e passione, offre uno sguardo sui rivolgimenti politici, i mutamenti nelle strutture sociali, i processi (talvolta effimeri) di modernizzazione, oltre il velo di un orientalismo mitico troppo usato o la coltre fumosa con cui recentemente abbiamo avvolto un mondo vario nell’immaginario “popolo islamico”, «dai contorni poco definiti, ma vagamente tendenti al fanatismo».
Fa saltare molti meccanismi di «invenzione dell’altro»: quelli perfezionati nel chiacchiericcio occidentale sulla donna araba, a cui è dedicato un capitolo decisivo, che arriva al ruolo delle donne «con o senza velo» negli eventi rivoluzionari svolgendo il filo di una riflessione complessa sulla condizione femminile; o quelli ridotti alla logica più spietata e disumana che l’Europa per nostra mano ha messo in campo a Lampedusa, tutta un’estate in cui abbiamo volto in inferno la loro primavera.
Al di là del crimine, qui peserà l’errore politico d’aver lacerato le «trame mediterranee», una storia lunga di scontro e incontro con «l’altro»: quelle percorse nel libro, quelle che hanno ammantato il “Sogno mediterraneo”, la curiosa intraprendenza e l’intelligente lungimiranza di Ludovico Corrao, tragicamente scomparso nell’agosto siciliano di questo terribile anno vecchio – a cui il libro della figlia è inevitabilmente dedicato.
Il pregio migliore dei saggi raccolti – oltre al valore squisitamente “didattico” dell’insieme (utile la lunga cronologia finale che risale al Settecento e ricchi i riferimenti bibliografici) – è di aver mantenuto la promessa introduttiva di sfatare i troppi luoghi comuni. L’approfondimento politico sui tre paesi – Tunisia, Egitto e Siria – che per diverse ragioni svolgono un ruolo cruciale ed egemone nell’area, è preceduto da una messa a fuoco degli elementi «che hanno svolto un ruolo cruciale prima e durante le rivoluzioni»: il processo di emancipazione femminile, la democratizzazione della società civile, i media arabi e i new media. Nella «crescita culturale, tecnologica e demografica» vanno dunque ricercati i fili conduttori alla crescita economica e alla consapevolezza delle disuguaglianze, e finalmente al rivolgimento politico.
Il carattere generazionale che ha guidato i movimenti di protesta in tutta l’area, benché non si presti a eccessive semplificazioni, ci dice «cosa si muove in queste società in rapida crescita che, pur sviluppandosi autonomamente, interagiscono con noi»: la «forza demografica che manca alla sponda Nord» e che «contribuirà in modo decisivo a delineare il futuro del Mediterraneo».
Le parole dei poeti (e letterati, artisti, registi, filosofi, intellettuali), spesso tradotti e frequentati dalla Corrao, impreziosiscono un volume che suggerisce «sentieri nuovi» alla riflessione: il racconto e l’analisi geopolitica, socio-economica e strategica, talvolta rischia di perdere di vista «l’humanitas e le ragioni profonde» che possono dar conto della «valanga di collera crescente» e «voce ai protagonisti che dietro le quinte hanno promosso il progresso di questi paesi e infine hanno dato anima e corpo alle rivoluzioni».
La suggestione di questi due secoli di storia, aneliti di libertà e repressioni politiche o religiose, si faceva immagine per le strade di Tunisi. Un gioco a nascondersi e a specchiarsi con «l’altro», un groviglio di rimandi e coincidenze – le più banali e inquietanti: Primavera araba e crisi dell’Europa, spread in Piazza Affari e sangue a Piazza Tahrir – mi ha condotto per rue de Russie, oltre le balle di filo spinato che circondano l’ambasciata d’Italia, alle porte aperte del palazzo di fronte, sotto l’insegna “Imprimerie Finzi”.
«All’inizio del Novecento qui era una palude, mio nonno ci veniva a caccia». Non dice, Elia Finzi, il vecchio patriarca della comunità degli italiani in Tunisia, stampatore da cinque generazioni ed editore (la cui attività ora è proseguita, più industrialmente, dal figlio Claudio), quanto dev’essere costato al nonno Vittorio e al padre Giuseppe, lasciare la prima sede della stamperia del 1829, il palazzo Gnecco nel cuore della Medina, per «la città nuova, che gli italiani contribuirono a costruire», per questo edificio che vide la prima linotype del Maghreb e che ora è la sede del Corriere di Tunisi.
Il vecchio Elia, ottantasette anni, lo dirige con tenacia e ci accoglie nel suo studio rialzato. «Quel palazzo nella Medina era luogo di esuli politici, mazziniani e liberali, fuggiti dall’Italia prima del 1848». Giulio Finzi fu uno dei primi ad arrivare, carbonaro livornese scappato ai fallimenti dei moti del ‘20 e ‘21. «Vi si costituì la Giovane Italia e ci passò anche Garibaldi, costretto poi a fuggire per aver insidiato tutte le belle signore dell’alta borghesia tunisina».
Elia parla con voce roca, fioca, in un bellissimo italiano depurato da ogni inflessione che lo rende un po’ straniero. «La storia della mia famiglia la trova sui libri», taglia corto. Grandi idealisti, laici e democratici, «veri eredi della Rivoluzione francese», animatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «cittadini del mondo» che hanno attraversato tutte le vicende politiche italiane e tunisine degli ultimi due secoli: il Risorgimento e il regime beylicale, il Fascismo e il protettorato francese, la Repubblica e l’indipendenza tunisina, Bourghiba e Ben Alì, Craxi e Berlusconi. «Non è stato certo facile. Durante la guerra, noi eravamo nemici di tutti». Sulla storia che ripercorriamo, avverte l’uomo cresciuto a pane e tolleranza, non ha giudizi da esprimere, «solo opinioni».
Così sulla Primavera, sui Gelsomini: «Esattamente un anno fa, in quei giorni, mi trovavo tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale». Da lì, dettava editoriali incoraggianti alla Rivoluzione per il suo giornale e diceva al figlio, pur nell’incertezza e crisi di liquidità, di trovare il modo di «continuare a pagare gli operai», gli oltre cento tunisini che lavorano nella loro impresa. «Certo che si può essere imprenditori di sinistra», sorride. Parla di pane e lavoro, pance troppo piene e pance vuote: «Non è solo la libertà, è anche la giustizia sociale. Qui era una pentola a pressione. Era evidente che sarebbe esplosa. L’Europa era distratta».
È più di un’ora che siamo nella stanza. Alle pareti le sue foto con Pertini e con Napolitano. «E quindi se n’è andato davvero, quello là?», e quasi non ci crede. «Come finirà qui, chi po’ saperlo? Chi poteva immaginare che dopo il 1789 sarebbe arrivato il terrore...». Non gli manca certo l’entusiasmo, eppure frena i nostri, per prudenza. Sale lenta per le scale, con sobria eleganza d’abito e d’occhiali scuri, la signora Lea. Interviene decisa nella discussione, e ci invita risoluta a non fare troppe domande: «Basta andare davanti a una qualsiasi Moschea». È francese, la signora Finzi, e si capisce. Ha origini genovesi, «e chi non ha origini italiane»? Torniamo a parlare d’emigrazione. Allora riprendo le suggestioni, azzardo il parallelismo – quasi personale, stavolta – tra quel suo avo e i compatrioti fuggiti per la lotta nel Risorgimento italiano ed europeo, Primavera dei popoli, accolti in Tunisia dove hanno prosperato, e quei ragazzi tunisini e arabi che, nei giorni della loro Primavera, rinchiudevamo a Lampedusa o a Manduria. «Loro ci hanno aperto le porte. Noi invece le sbarriamo». E com’è che in Tunisia non se ne parla? «Tra la gente del popolo, la tragedia si sente». Mi invita a sporgermi dalla finestra. Di fronte, è l’ambasciata. «Lo vedi il filo spinato? Tutti i giorni venivano le madri a gridare, a chiedere dei loro figli».
S’è fatto tardi, ora. Elia forse s’è stancato. «Spiace, alla mia età, non poter seguire la situazione a lungo, in pieno». Nella stanza, è il piccolo Claudio, figlio di Emanuela e di Michele, osservatore internazionale per il processo costituente. Il suo primo anno, appena compiuto, lo ha trascorso in Tunisia. Piange forte e si dimena, non sente ragioni. S’è stancato pure lui. Elia lo guarda, azzurro negli occhi. «Hai ragione tu».
il Fatto 8.1.12
Quei cinque corpi appese, incubo di Varsavia
Ritrovate in un cassetto alcune foto perfetto esempio della banalità del male
di Robert Fisk
Clive Burrage mi ha scritto parlandomi di suo cognato, Harry Leekes, pilota di un bombardiere della Raf negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale e poi di stanza a Colonia nei primi mesi dell’occupazione della Germania a opera delle forze alleate. “Mentre cercava dei mobili, per caso ha trovato queste foto in un cassetto”, mi ha detto Clive quando gli ho telefonato. In una foto si vede Hitler che cammina nella strada di una città che sembra Varsavia, probabilmente nel 1939. In un’altra si vedono Hitler e Goering che giungono in una base aerea. La terza foto è agghiacciante: in una strada buia e fredda – soldati e civili indossano pesanti cappotti – si intravede l’insegna di un negozio verosimilmente in polacco mentre dal balcone del primo piano penzolano i cadaveri di cinque uomini impiccati.
LE MANI sono legate dietro la schiena. Sulla sinistra dell’immagine si scorge un soldato tedesco che scatta una foto dei cadaveri. Non avevo mai visto questa foto. Sembra il souvenir di un militare tedesco che probabilmente spedì la fotografia alla sua famiglia, cui apparteneva la credenza nel cui cassetto Harry Leeks la trovò quattro o cinque anni dopo. Questa foto racconta una storia, mi ha scritto Clive Burrage, quella dell’homo homini lupus (l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi simili). La lettera di Clive è arrivata insieme alla lettera di un lettore, T.J. Forshaw, che – come Clive – è rimasto colpito dalla fotografia che abbiamo pubblicato poco tempo fa sull’Independent: ritraeva un ufficiale dell’Einsatzgruppen nazista mentre, nel 1942, sparava ad alcuni ebrei a Ivangorod, in Ucraina.
“È possibile che in alcune circostanze quasi chiunque – compreso chi le scrive – possa diventare un feroce assassino? ”, mi ha chiesto il lettore. “E se la risposta è affermativa, queste belve come possono dormire sonni tranquilli nei loro comodi letti senza sognare di suicidarsi? ”. Nemmeno a farlo apposta sempre lo stesso giorno mi è arrivato un biglietto di Wies de Graeve dell’Istituto Fiammingo per la Pace, che tre anni fa mi aveva invitato a tenere a Ypres una conferenza in occasione delle celebrazioni per l’armistizio.
Quest’anno il discorso a Ypres lo ha fatto Lakhdar Brahimi, lo statista algerino cui si deve il cessate il fuoco in Libano dopo 15 anni di sanguinosa guerra civile. Brahimi, che è una mia vecchia conoscenza ed è inoltre una persona molto per bene, parlando a Ypres ha sollevato lo stesso identico interrogativo che Clive e Forshaw sollevano nelle loro lettere: “I libanesi sono considerati da tutti – e si considerano – persone sofisticate, raffinate, dotate di una gran senso degli affari, amanti dell’arte, pacifiche e inclini a godersi la vita. Tuttavia a partire dai primi anni ’70 sorpresero il mondo, e se stessi per primi, combattendo con inaudita violenza e ferocia tra loro e contro l’invasore israeliano”. Naturalmente una cosa è combattere contro un invasore straniero, altra cosa è combattere contro i propri fratelli in una guerra civile. “A questa come a molte altre domande non sono riuscito a trovare risposte adeguate e pienamente soddisfacenti”, ha detto Brahimi. “Non ho trovato risposte né nei libri degli studiosi né nell’esperienza di vita. Forse la verità è più semplice di quanto siamo indotti a pensare: probabilmente noi esseri umani non siamo poi così diversi gli uni dagli altri sia individualmente che collettivamente nel senso che, a seconda dei casi, siamo capaci del meglio come del peggio. Sono le circostanze a renderci in un modo un certo giorno e nel modo opposto un altro giorno”.
È UNA spiegazione che non mi soddisfa. I soldati britannici, i soldati americani, i soldati “alleati” hanno fatto cose tremende, terribili, durante la seconda guerra mondiale, in Corea, in Malesia, in Indonesia durante la dominazione olandese, in Algeria e – sì! – in Afghanistan e in Iraq. La crudeltà di questi soldati era il prodotto della cultura dell’impunità, del colonialismo e del razzismo ispirato dai vari governi. La storiella ridicola e ingannevole delle “poche mele marce” ripetuta pappagallescamente da George W. Bush e da Tony Blair è una colossale sciocchezza. Ma i nazisti avevano qualcosa di intrinsecamente terribile: appartenevano a un regime irrecuperabilmente malvagio, a una società nella quale ogni singolo individuo poteva essere giudicato cattivo. Avner Less, consulente della pubblica accusa nel processo contro Adolf Eichmann celebrato in Israele, era convinto che Eichmann potesse essere prodotto solo da una dittatura, mai da uno Stato democratico. Ma nemmeno questa spiegazione mi convince del tutto. Stando alle esperienze degli ultimi decenni possiamo tranquillamente giungere alla conclusione che noi occidentali incoraggiamo, spingiamo e induciamo altri a commettere atti orribili senza assumercene alcuna responsabilità morale.
CERTO non si tratta di atti e comportamenti paragonabili a quelli di cui si macchiarono i nazisti. Ma il trasferimento di prigionieri verso Paesi totalitari nei quali dovevano essere torturati, le prigioni segrete, la tortura sistematica e di massa, le esecuzioni per mano dei nostri alleati (in Afghanistan, in Marocco, a Damasco su mandato della Cia e in Libia con la complicità britannica) sono vergognose manifestazioni di una inclinazione alla ferocia che appartiene a noi tutti. Forse non siamo più capaci di sporcarci le mani da soli. Il diritto internazionale – per lo meno ciò che ne è rimasto dopo i comportamenti criminali di George Bush e Tony Blair – continua a impedirci di trasformarci in nazisti. E temo proprio che tutti – nessuno escluso – dormiamo sonni profondi e senza incubi.
Una cosa è tendere una mano amichevole ai musulmani – come ha fatto Barack Obama al Cairo due anni fa – e a quanti si battono contro le dittature, altra cosa è fornire armi ai tiranni. Al Cairo ho avuto modo di vedere alcune cassette di granate sparate dalla polizia di Mubarak contro i dimostranti di piazza Tahrir. Sapete dove sono state fabbricate? A Jamestown, in Pennsylvania.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
La Stampa 8.1.12
Giovanna d’Arco & C. la politica arruola i fantasmi
Sarkozy strappa la Pulzella a Le Pen e divide la Francia Ma il Medioevo “addomesticato” dilaga in molti Paesi
In Italia i leghisti si sono appropriati di Alberto da Giussano sulla cui epopea non mancano i dubbi
di Massimiliano Panarari
Non c'è mai pace per la povera Giovanna d’Arco. In questi giorni la Francia sta celebrando il sesto centenario della nascita della patrona nazionale (avvenuta il 6 gennaio del 1412), e le polemiche esplodono con una durezza che non si ricordava da tempo. La ragione, naturalmente, risiede nel clima elettorale fattosi ormai incandescente e in un Nicolas Sarkozy che, divenuto timoroso riguardo le proprie chances di rielezione, non si fa scappare nessuna occasione promozionale. A tre mesi e mezzo dal voto, la visita di Sarkò alla casa natale di Giovanna a Donrémy, nei Vosgi, ha così dato fuoco alle polveri, con la sinistra che, sentendo stavolta il vento in poppa, non ci sta a farla trasformare in un santino elettorale a uso e consumo dell’Ump. E anche questo è un fatto nuovo, perché, da sempre, la Pulzella d’Orléans rappresenta innanzitutto un’icona della destra dura e pura, la quale riserverebbe (metaforicamente) al Presidente in carica una fine simile a quella che gli inglesi inflissero alla santa combattente, bruciata sul rogo come eretica (un’«imputazione» che la Chiesa cattolica cancellerà prontamente).
Ecco, allora, che dal Partito socialista, da sempre assai tiepido nei confronti della mistica condottiera (con l’eccezione di Ségolène Royal), si è levata più di una voce per ricordarne la valenza di simbolo di unità e concordia, da non strumentalizzare per la battaglia elettorale. E, dunque, Sarkò giù le mani da Giovanna d'Arco: parola di Harlem Désir (il vecchio leader di Sos Racisme, oggi numero 2 del Ps di Martine Aubry) e di Vincent Peillon (l’eurodeputato attualmente uomo chiave della campagna di François Hollande). Mentre, da altri lidi della variegata sinistra transalpina, Eva Joly (l’ex magistrato candidata dello schieramento ecologista) rimprovera al capo dello Stato di inseguire l’estremismo di destra esaltando un «simbolo ultranazionalista», quando il problema vero consisterebbe, invece, nel rilanciare la solidarietà tra europei di fronte alla crisi drammatica che stiamo vivendo. E, naturalmente, fuoco e fiamme contro Sarkozy vengono da Marine Le Pen (anch’essa temutissima candidata alle presidenziali), che lo accusa di scippo, rivendicando la maternità della memoria dell’eroina che «ha buttato gli inglesi fuori dalla Francia», recuperata a metà degli anni Ottanta dal Front national di suo papà per venire riconvertita nella testimonial di una serie di dure campagne anti-immigrati e a difesa della «purezza della stirpe» francese. Peraltro con le sue innegabili (ancorché discutibili) buone ragioni, perché se la Pulzella è stata spesso invocata anche dai laici governanti della Terza Repubblica, il top della popolarità l’ha sempre raggiunto in seno all’arcipelago della destra estrema, dall'Action française protagonista, a inizio secolo scorso, di una violenta diatriba con un famoso professore di liceo, Amédée Thalamas, «reo» di avere sollevato alcuni dubbi storiografici sulla vulgata che circondava l'eroina al regime collaborazionista di Vichy, dai monarchici ai cattolici tradizionalisti.
La storia, si sa, è terreno di scontro ideologico da sempre, ma l'«affaire Giovanna d'Arco» di questi giorni sembra confermare una tendenza peculiare di questa nostra temperie postmoderna, ovvero la predilezione della politica a dividersi su personaggi ed eventi del Medioevo. In diversi (da ultimo il bel libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante, edito da Einaudi) ci hanno spiegato come l'Evo di mezzo sia massicciamente entrato nell’immaginario collettivo degli ultimi decenni, senza risparmiare quella dimensione dell’identità che una parte della politica, vedova (consolabilissima) di sistemi di pensiero e idee forti, ha pensato bene di proiettare su una galleria di figure eroiche collocate in epoche assai lontane e con il vantaggio di essere spesso circonfuse di una sorta di aura leggendaria. Un fenomeno che spiega molto bene il ritorno prepotente dei nomi e dei simboli di cavalieri e condottieri medievali sui tremendi campi di battaglia delle guerre etniche dell'ex Jugoslavia, per nobilitare la rinnovata volontà di potenza della Russia di Vladimir Putin o per puntellare il governo nazionalista e xenofobo nella triste Ungheria di Viktor Orbán. Altrettante reinvenzioni della tradizione per scopo politico. Come quella, per rimanere nei prati di casa nostra, che la Lega Nord ha operato a proposito di Alberto da Giussano, il mitico condottiero del XII secolo grazie al quale i Comuni italiani sbaragliarono le armate imperiali di Federico Barbarossa (tanto da meritarsi, secoli dopo, un costoso kolossal cinematografico sotto l’ultimo governo Berlusconi). Mitico o, forse, assai più verosimilmente «mitologico», come ritiene la gran parte della comunità storiografica internazionale, per la quale dell’esistenza del comandante militare della Lega Lombarda non esistono nei documenti tracce attendibili (da leggere, per rendersene conto, il libro del medievista Paolo Grillo, Legnano 1176, Laterza). Insomma, un falso pluricentenario.
Corriere della Sera 8.1.12
Se i musei chiudono per ragioni «etniche»
di Pierluigi Panza
Alcune tra le più antiche istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina stanno chiudendo per una mancanza di finanziamenti causata dalle controversie in atto tra i politici dei suoi tre diversi gruppi etnici. Nel 2011 ben sette istituzioni, tra le quali il Museo Nazionale (la cui collezione comprende il famoso manoscritto ebraico conosciuto come la «Haggadah» di Sarajevo) non hanno praticamente ricevuto finanziamenti. Di conseguenza, la Biblioteca Nazionale e il Museo Storico hanno chiuso nelle scorse settimane; la Galleria Nazionale la scorsa estate mentre il Museo Nazionale prevede di chiudere nelle prossime settimane perché non è più in grado di pagare le bollette della luce. «Ci siamo trovati nel mezzo di una battaglia politica e siamo diventati un problema», ha dichiarato Adnan Busuladzic, direttore del Museo.
Una delle ragioni profonde delle chiusure è l'assenza di una memoria condivisa tra i leader politici serbi, croati erzegovini e musulmani del Paese e il conseguente disaccordo su come gestire il patrimonio culturale. Sarajevo e la Bosnia, sono l'esito di un sovrapporsi di identità e culture, e ciò costituisce il vero e proprio genius loci da conservare. Ma questo è difficile da accettare per chi esce da conflitti sanguinosi. Così sui musei bosniaci si è aperto uno scontro sul modello di governance da adottare che è il riflesso di uno scontro ideologico: i serbi si oppongono al controllo del governo centrale sui siti culturali perché ritengono che ciascuno di essi abbia una propria identità; i bosniaci, invece, vedono nella governance centrale un modo per formare una storia della Bosnia. Il ministro della cultura, Salmir Kaplan ha dichiarato che il governo pagherà le bollette. Quello che manca è la volontà di accettare una pluralità di tradizioni.
Corriere della Sera La Lettura 8.1.12
Umori illiberali sotto la barba di Marx
Ma Ciliberto lo riscopre e lo elogia come profeta della democrazia
di Gaetano Pecora
qui
http://www.scribd.com/doc/77525416
Repubblica 8.1.12
Karl Marx, arrivano gli inediti "So solo che non sono marxista"
Migliaia di pagine ancora da catalogare Centinaia di volumi ancora da pubblicare Analisi e profezie ancora da studiare Nell'anno della crisi, viaggio (con sorpresa) negli archivi del padre del comunismo
di Andrea Tarquini
BERLINO. Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali.
Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore critico sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali e alle nuove tecnologie. Credeva nella democrazia e nella libertà di parola molto più di quanto non si pensi, le riteneva irrinunciabili. E la crisi odierna del capitalismo attuale lui l´aveva a suo modo prevista, molto più di come ce lo tramandarono le dittature totalitarie realsocialiste. Riemerge dal passato come un moderno newlabourista, un progressista tedesco o un liberal americano dai suoi scritti di migliaia di pagine ingiallite ma spolverate con cura in un bel palazzo neoclassico qui a Berlino, al numero 22/23 della Jaegerstrasse.
Qui nella splendida Mitte a un passo da Gendarmenmarkt, la piazza delle cerimonie prussiane e del Kaiser, forse la più bella della capitale. Eccoci al quarto piano della Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, l´Accademia delle scienze che rivede la sua opera e un volume dopo l´altro ne prepara la pubblicazione completa: 114 tomi, di qui al 2020 e chi sa come allora sarà il mondo. «Certo lui lo aveva studiato e previsto molto meglio di come ci fu detto dai poteri che lo usarono post mortem», spiega il dottor Gerald Hubmann, responsabile a fianco del professor Manfred Neuhaus del grande lavoro. Ma insomma, di chi stiamo parlando? Di Karl Marx, proprio lui. Qui i suoi scritti, volumi, appunti, epistolari, vengono studiati, riletti in modo critico e pubblicati passo dopo passo. E lui, «il vecchio barbone» come lo chiamarono affettuosi e riverenti generazioni di militanti di sinistra, insieme a Friedrich Engels torna attuale in un´altra luce.
È un tuffo nella storia, quello in Jaegerstrasse 22/23. Un tuffo sereno nella doccia fredda inquietante della crisi del mondo globale. I volumi, rieditati in versione critica e scientifica, uno dopo l´altro si accatastano nelle stanze degli accademici. Mega, come "grande" in greco antico, si chiama il progetto dell´opera completa di Marx ed Engels rivista in modo critico. Mega in tedesco è una sigla: Marx-Engels GesamtAusgabe. Frugando nelle carte consunte dal tempo si scoprono cose che i contemporanei di Marx vollero ignorare, e che il marxismo-leninismo ufficiale preferì censurare. Le Tesi su Feuerbach, spiega Hubmann, non furono all´inizio parte de L´ideologia tedesca. Vi furono inserite solo dopo, e il tutto, secondo Marx, era solo una collezione di appunti «destinata ai topi». Appunti di agitazione politica consegnati ai manoscritti suoi dell´epoca, tutti a penna con correzioni e cancellature, i disegnini di volti spesso femminili magari schizzati da Engels accanto. Slogan politici trasformati in ortodossia nell´Urss. Insomma: la teoria secondo cui l´esistenza materiale determina la coscienza, base del materialismo storico, spiega Hubmann, era un´idea in cui Marx non credeva. Guardi qui, dice mostrando un volume riedito, Marx disse: «Tutto quello che so è che non sono un marxista».
«Un volume dopo l´altro», spiega ancora Hubmann, «noi curatori di Mega scopriamo un altro Marx. Non un "cane morto", non un ideologo del passato, bensì un politologo e scienziato attuale. Un uomo che continuò a ricercare con curiosità fino alla vecchiaia e seppe vedere e prevedere le radici della crisi di oggi. Studiò nei suoi tardi anni l´evoluzione del capitalismo, da capitalismo industriale a sistema sempre più basato sul credito e sulla finanza e quindi esposto alle sue oscillazioni e alle sue incertezze», a crisi ingovernabili a danno di tutti. La svolta, la sua fase dopo Il Capitale, cominciò con lo studio dell´economia americana: i grandi spazi, l´esigenza di costruire in fretta ferrovie e altre infrastrutture, la crescente fame di materie prime, il boom dell´agricoltura, spiegano gli accademici, imposero la crescente dipendenza dell´economia reale dal credito: serviva sempre più denaro. Mega, II/13: ecco le analisi di Marx anziano sui nuovi processi di circolazione del capitale, sul suo sviluppo col turbo come sistema sempre più finanziario. Sembra di leggere pagine sulla crisi dei nostri giorni, invece sono vecchie di un secolo e mezzo. È un caso, un accidente della storia, se il progetto Mega ha potuto vedere la luce. Opere, carteggi, epistolario e appunti di Marx ed Engels erano in mano all´archivio della Spd. Dopo la rivoluzione bolscevica, nacque un fitto lavoro comune di scienziati socialdemocratici tedeschi e del Pcus per sistematizzarle. Parte del materiale fu portata a Mosca, altra parte restò nella vivace Berlino della fragile Repubblica di Weimar. Furono le radici dell´opera completa, ma i drammi di quegli anni le seccarono. La ricerca di quegli scienziati e filosofi cadde troppo presto sotto l´occhio sospettoso della Nkvd, la polizia segreta di Stalin. Al dittatore, racconta Hubmann, non piacque scoprire certe pagine critiche, certi appunti sull´esigenza della libertà di parola e del libero confronto tra forze politiche e sociali. Meno che mai gli piacque scoprire che Marx ed Engels avevano scritto molto più di Lenin e non teorizzavano un totalitarismo né tantomeno i gulag. Con la brutale svolta autoritaria in Urss gli scienziati marxisti finirono male. A cominciare dal loro capo David Rjazanov, giustiziato per tradimento nel 1938, poco prima del patto Hitler-Stalin. Altri finirono sorvegliati e solo la grande fama li salvò dal plotone d´esecuzione. Fu il caso di György Lukács, il padre ungherese del marxismo critico.
Ma se Mosca piangeva, Berlino non rideva. Venne il ´33, la democrazia di Weimar fu rovesciata da Hitler. Gli archivi della Spd si salvarono per caso: i socialdemocratici, sfidando la Gestapo, li portarono da amici accademici olandesi. «Chi sa perché, ma anni dopo narra Hubmann nell´Olanda occupata, Gestapo e polizia collaborazionista non pensarono mai di frugare nei sotterranei dell´accademia di Amsterdam, non scoprirono mai quanto avrebbero volentieri distrutto». Venne il 1945, la disfatta dell´Asse e la Guerra fredda con la Germania divisa. Urss e Ddr ripresero il lavoro di edizione completa dopo la morte di Stalin, ma Breznev lo bloccò: troppi manoscritti critici, troppe pericolose idee di invito al dubbio. Il lavoro fu congelato fino all´89 della caduta del Muro di Berlino. «E per quanto possa sembrare strano», notano i professori di Jaegerstrasse, «se lavoriamo liberi e con rigore scientifico al Mega lo dobbiamo anche a Helmut Kohl, certo non sospetto di simpatie marxiste. Il cancelliere della riunificazione che amava la storia, decise che, magari sottotono, la ricerca su quelle tonnellate di manoscritti che la Ddr aveva chiuso in cantina avrebbe dovuto riprendere nella Germania unita».
Sono passati più di vent´anni da quell´ennesima svolta in cui i manoscritti ingialliti dei due barbuti riuscirono a sopravvivere. Adesso il lavoro continua, diviso tra Berlino, Amsterdam e Mosca. Con l´interesse crescente dei preparatissimi scienziati ufficiali cinesi, che forse vi cercano nuove idee per la futura prima potenza mondiale. Scoprono anche loro un altro Marx. L´uomo che perseguitato quasi ovunque in Europa si guadagnò da vivere come corrispondente del New York Daily Tribune. Rivediamo quelle pagine: narrava come un grande inviato le scosse politiche e sociali o le crisi economiche dell´Europa di allora, persino i primi movimenti operai in Italia o Spagna. Non c´erano le comunicazioni moderne: Marx ed Engels inviavano gli articoli a New York col piroscafo, dovevano scriverli pensando a non farli invecchiare. Jenny Marx, l´amata moglie, teneva la contabilità d´ogni spedizione. Cominciò anche a conservare i più curiosi, incredibili scritti del marito anziano. Karl aveva rinunciato alla politica, annotava la sua fiducia nel libero dibattito e confronto tra idee e forze politiche. E prese a studiare le scienze: ecco appunti e schizzi perfetti sulla geologia, sulla fisica, sui primi passi della scienza nucleare.
Ed ecco, infine ma non ultimo, la scoperta forse più affascinante. Marx ed Engels, nell´Europa del capitalismo senza internet né jet di linea, crearono una rete di scambi epistolari internazionali. Con leader operai, con politici, con scienziati, gente d´ogni corrente di pensiero o tendenza: a suo modo, dicono soddisfatti gli accademici di Jaegerstrasse, fu il primo social network. Funzionò per anni. Bentornato, caro vecchio Marx, e scusaci: troppi opposti estremismi del Ventesimo secolo ti avevano tramandato male. Arrivederci al 2020. Forse ci servirai quando chi sa che volto avrà il capitalismo.
Repubblica 8.1.12
Mercato senza sviluppo la causa della crisi
di Karl Marx
L´enorme quantità e la varietà delle merci disponibili sul mercato non dipendono soltanto dalla quantità e dalla varietà dei prodotti, ma sono in parte determinate dall´entità della parte di prodotti prodotti come merci, che dovranno dunque essere immessi nel mercato per la vendita in qualità di merci. La grandezza di questa parte delle merci dipenderà, a sua volta, dal grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico che produce i propri prodotti solo come merci e dal grado in cui tale modo di produzione domina in tutte le sfere della produzione. Deriva da qui un grande squilibrio nello scambio tra paesi capitalistici sviluppati, come l´Inghilterra, per esempio, e paesi come l´India o la Cina. Questo squilibrio è una delle cause delle crisi.
Causa totalmente trascurata dagli asini che si accontentano di studiare la fase dello scambio di un prodotto con un altro prodotto e che scordano che il prodotto non è pertanto in alcun caso merce scambiabile in quanto tale.Questo costituisce anche la spina nel fianco che spinge gli inglesi, tra gli altri, a voler stravolgere il modo di produzione tradizionale esistente in Cina, in India eccetera, per trasformarlo in una produzione di merci e, in particolare, in una produzione basata sulla divisione internazionale del lavoro (vale a dire, nella forma di produzione capitalistica). Riescono in parte in questo intento, per esempio, quando danneggiano i filatori della lana o del cotone svendendo i loro prodotti o rovinando il loro modo di produzione tradizionale, che non è in grado di competere con il modo di produzione capitalistico o con il modo capitalistico di immettere le merci sul mercato. Anche se il capitale produttivo, per sua stessa natura, è disponibile sul mercato, vale a dire è offerto in vendita, il capitalista può (per un periodo di tempo lungo o breve, secondo la natura della merce) tenerlo lontano dal mercato se le condizioni non gli sono favorevoli o al fine di speculare o altro. Il capitalista può sottrarre il capitale produttivo al mercato delle merci, ma in un momento successivo sarà costretto a riimmetterlo. Ciò non ha effetti al fine della definizione del concetto, ma è importante nell´osservazione della concorrenza.
La sfera della circolazione delle merci, il mercato, è in quanto tale distinta anche fisicamente dalla sfera della produzione, esattamente come sono distinti temporalmente il processo di circolazione e l´effettivo processo di produzione. Le merci ora pronte restano depositate nei magazzini e nei depositi dei capitalisti che le hanno prodotte (eccetto il caso in cui siano vendute direttamente) quasi sempre solo in modo passeggero prima di essere spedite verso altri mercati. Per le merci si tratta di una stazione di preparazione dalla quale saranno immesse nell´effettiva sfera di circolazione, esattamente come i fattori della produzione disponibili restano in attesa, in una fase preparatoria, prima di essere convogliati nell´effettivo processo di produzione.
La distanza fisica tra i mercati (considerati dal punto di vista della loro localizzazione) e il luogo del processo di produzione delle merci all´interno di uno stesso paese, e successivamente fuori da esso, costituisce un elemento importante, perché è proprio la produzione capitalistica a far sì che per una buona parte dei suoi prodotti il mercato sia costituito dal mercato mondiale. (Le merci possono essere anche acquistate per essere ritirate immediatamente dal mercato, ma questo elemento dovrebbe essere esaminato altrove, così come la menzione precedente alle merci che i produttori tengono lontane dal mercato).
Conseguentemente, occorre che il mercato si espanda in continuazione. Inoltre, in ogni singola sfera della produzione, ogni capitalista produce secondo il capitale che gli è offerto, indipendentemente da ciò che fanno gli altri capitalisti. Tuttavia, non sarà il suo prodotto, bensì il prodotto totale del capitale investito in quella particolare sfera di produzione a costituire il capitale produttivo, il quale offre in vendita questa e ogni singola altra sfera di produzione. È un dato di fatto empirico che nonostante la dilatazione della produzione capitalistica porti a un incremento, a una moltiplicazione del numero delle sfere di produzione, ovvero delle sfere di investimento del capitale, nei paesi a produzione capitalistica avanzata, questa variazione non tenga mai il passo con l´accumulo del capitale stesso.
Traduzione di Guiomar Parada
La Stampa 8.1.12
La Patria, un’idea di sinistra
di Carlo Bertini
Nel 1936, pochi mesi prima di essere assassinato in Francia con il fratello Nello, Carlo Rosselli si scaglia contro l’appoggio dell’Italia fascista ai franchisti spagnoli usando questo argomento: «Noi siamo nati nazione in nome della libertà e della autodeterminazione dei popoli. I nostri profeti si chiamano Garibaldi e Mazzini... sangue italiano ha bagnato tutte le giovani patrie rinascenti». Ecco, in questo passaggio del libro Patria , scritto dal senatore del Pd Roberto Della Seta e dallo storico del diritto Emanuele Conte (Garzanti, pagine 173, euro 14,60), è racchiusa la fotografia di una querelle che ha tenuti impegnati intellettuali e pensatori delle più varie radici culturali. Perché così come gli azionisti fecero del «patriottismo democratico» una virtù dotata di intrinseca nobiltà, la destra ha per anni brandito il patriottismo come sinonimo di nazionalismo, mentre la sinistra l’ha snobbato come una sorta di brodo di coltura dei peggiori istinti imperialisti di antica memoria.
Gli autori di questo saggio sostengono piuttosto che Patria sia un’idea di sinistra connaturata ai valori di socialità e di solidarietà, che necessita solo di esser depurata dai germi del nazionalismo che l’hanno infettata per decenni. La nostra storia, quella recente e anche preunitaria, è ricca di fili comuni che hanno fatto degli italiani un popolo: grandi progetti dai Comuni medievali al Rinascimento, dal Risorgimento alla Resistenza, e poi due caratteri collettivi squisitamente italiani, la tradizione civica e la vocazione conviviale. Se queste impronte vaste non si sono tradotte in un senso condiviso di appartenenza patriottica, la ragione sta nell’estraneità delle classi dirigenti, soprattutto nell’Italia repubblicana e soprattutto a sinistra, all’idea di patria. Della Seta e Conte citano come manifesto emblematico di questo «scetticismo patriottico» delle nostre élite la rivendicata militanza «anti-italiana» di tanti intellettuali, da Flaiano a Longanesi, da Bocca a Pasolini, da Montanelli a Prezzolini. E se oggi siamo un Paese diviso tra Nord e sud, segnato da una spaccatura tra cittadini e rappresentanza politica, esposto alle scosse della globalizzazione e ai colpi della crisi economica, è anche perché non ci sentiamo una comunità.
il Riformista 8.1.12
Il vento dell’ateismo spira lontano
Con il supporto di un imponente massa di dati (raccolte in 3.160 interviste personali domiciliari, rappresentative dell’intero universo della popolazione), Franco Garelli, docente all’Università di Torino, presenta una “fotografia” dell’anima religiosa dell’Italia contempo-
ranea, un’eccezione nel panorama europeo. Nonostante la secolarizzazione stia proseguendo anche nel nostro Paese (crisi delle vocazioni, diminuzione dei praticanti, minor seguito della Chiesa in campo etico, attenuazione della religiosità popolare), infatti, siamo ancora uno dei paesi occidentali in cui il sentimento religioso è più diffuso (circa l’80% crede in Dio, contro, ad esempio, il 53% dei francesi). Da noi l’insieme dei “non credenti” e dei “senza religione” si mantiene costante rispetto al passato, non risentendo del vento dell’ateismo che da anni spira con forza in altre nazione europee. Sebbene la ricerca sul campo segnali un’area d’insofferenza contro alcune prese di posizione della Chiesa sui temi della bioetica, il bisogno di spiritualità da un lato e il prevalere di un sentimento di insicurezza e di paura del futuro dall’altro, favoriscono la persistenza dell’ancoraggio alla lunga tradizione di cultura e di socializzazione religiosa tipicamente italiana. La maggioranza degli italiani continua così ad essere favorevole alla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, all’ 8x1.000 e all’ora di religione nella scuola, sebbene emergano critiche per l’eccessivo protagonismo delle gerarchie nelle vicende politiche.
RELIGIONE ALL’ITALIANA di Franco Garelli Il Mulino, pp. 254, euro 17,00
il Riformista 8.1.12
Il comunismo che si liquefa
Il ventesimo anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) è passato quasi inosservato. In contro tendenza, Marcello Flores, docente di storia contemporanea all’Università di Siena, nel suo libro “Fine del comunismo” si cimenta nell’impresa di le tappe essenziali di un evento che non soltanto ripercorrere e analizzare
ha segnato il Novecento, ma ha ridisegnato la mappa culturale e geopolitica del mondo contemporaneo. In aperto disaccordo con le interpretazioni prevalenti che considerano il crollo del comunismo come la sorte inevitabile di un regime autoritario e immobile, Flores sottolinea l’importanza dell’elezione a segretario generale del Pcus di Michail Gorbacëv (1985) e il suo ruolo fondamentale nel favorire le trasformazioni che si diffonderanno a macchia d’olio negli anni successivi. La perestroika, infatti, non si limiterà a produrre effetti a Mosca, ma favorirà e alimenterà le istanze di cambiamento in tutta l’Europa dell’Est, la legalizzazione di Solidarnosc in Polonia per tutti. «Ciò che è accaduto nel mondo comunista dell’Est scrive Flores è stato un vero e proprio evento storico, uno di quei momenti che accelerano e trasformano il corso della storia e lo sviluppo della società nel suo insieme». Non bisogna dimenticare, infatti, che se nei regimi dell’Europa orientale la pressione popolare è stata determinante per il crollo finale, altrettanto non avviene in Urss dove il comunismo si liquefa senza che si manifesti una esplicita volontà della maggioranza dei cittadini.
LA FINE DEL COMUNISMO di Marcello Flores Bruno Mondadori, pp. 190, euro 18,00
il Riformista 8.1.12
La natura implosiva della caduta dell’Urss
di Sergio Bertolissi
Qual è il motivo (o i motivi) che ha spinto Cervetti (Ragioni, 18 dicembre) a impostare il suo articolo sul ventennale della caduta dell’Unione Sovietica sulla differente datazione che essa avrebbe configurato nella realtà? Egli, infatti, distingue tra un primo momento: il «sistema sociopolitico del cosiddetto “socialismo reale” termina di esistere nei giorni dell’ agosto 1991 immediatamente successivi al famoso golpe organizzato dalla parte più conservatrice e retriva della dirigenza comunista», e un secondo, quando l’Unione Sovietica «cessa di esistere nel dicembre dello stesso anno, con la dichiarazione dei presidenti di Russia, Bielorussia, Ucraina (..) e con le successive dimissioni di Gorbaciov da presidente dell’Urss».
Immediatamente di seguito, Cervetti indica il nodo politico, e storico, che portò a quel crollo: «Non c’è dubbio che il carattere fondamentale del sistema sociopolitico sovietico è consistito in quell’insieme di rapporti economici(proprietà collettiva, pianificazione,etc.) che per una scelta politico-ideologica e per loro consolidata natura, hanno garantito per un certo periodo, lo sviluppo delle forze produttive e forme di modernizzazione, trasformandosi poi in inefficienza e in stagnazione». E allora?
A me sembra che il nodo storico della caduta dell’Unione Sovietica, risieda nel suo carattere implosivo e non esplosivo (come arditamente preannunciato da Hélène Carrère d’Encausse nel lontano 1979), il che a mio avviso significa, naturalmente, che le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura, così come si è venuta costituendo dalla rivoluzione d‘Ottobre alla sua fine, basata sulla forza del partito unico, e sullo strumento dell’economia pianificata. L’esistenza dell’Unione Sovietica, come insieme di 15 repubbliche associate per un fine ideologico, è in realtà eredità dell’Impero zarista ed elemento fondante il nuovo Impero e la sua politica di grande potenza, si è dissolta senza colpo ferire, per buona sorte, ed ognuna di quelle realtà diverse tra loro da sempre, ha preso una sua strada distinta.
I tentativi di costituire una qualche forma di unione tra pari, la Comunità degli stati indipendenti ad esempio, si sono rilevati effimeri, venuto meno qualsiasi terreno di incontro, dopo più di 70 anni di coabitazione più o meno forzata, e rimangono ora singoli accordi sul piano della collaborazione nel settore petrolifero. L’Unione Sovietica, costruita sul ruolo del partito comunista, costituzionalizzato addirittura (nel 1977) come ricorda Cervetti è caduta con esso, senza ulteriori distinzioni possibili.
La risposta
Si può effettivamente condividere l’affermazione di Bertolissi, attento e intelligente studioso di cose sovietiche, secondo la quale «le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura». E ciò anche se un così perentorio tutte indica a ritenere il sistema in oggetto immune da ogni influenza altrui e impermeabile a qualsiasi forza ed eventi esterni, il che è difficile da sostenere soprattutto nelle condizioni del mondo moderno. È, invece, non proprio accettabile e condivisibile – almeno da parte mia – l’idea secondo cui la natura anche di un sistema compatto (partito unico, pianificazione centralizzata, ecc) come il sovietico sia presentata e considerata sotto specie di entità data una volta per sempre e che fino dall’inizio (rivoluzione d’Ottobre) contiene la sua fine.
Ma, si dirà, la fine è stata quella e non altra. E allora? Allora, così concludendo, si cade – sempre a mio modesto parere – nel determinismo che, si sa, non lascia spazio all’intervento di individui singoli o associati e che, inoltre, permette allo storico di capovolgere il senso del famoso detto shakespeariano per giungere a pensare, lo storico, che esistono più cose nella propria “filosofia” di quante se ne contino “in cielo e in terra”. (Gianni Cervetti)