lunedì 9 gennaio 2012

La Stampa 9.1.12
Intervista
Bersani: “Ora i partiti siano coinvolti di più”
Il leader Pd al premier: nuovo metodo con chi sostiene il governo
di Federico Geremicca


Ha detto
La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione Da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe La gamba italiana il suo lo sta facendo Il problema è ideologico Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni Occorre anche una battaglia politica Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, abbiamo già fatto alcuni incontri C’è moltissimo da fare ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive

ROMA Ex ministro Pierluigi Bersani, segretario del Pd, auspica che «si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi» La consulta A prescindere dall’esito del referendum, Bersani auspica una nuova legge elettorale
È chiaro che con l’anno che comincia bisogna darsi un metodo... ». Un metodo, dice Pier Luigi Bersani: che semplifichi il lavoro del governo nel suo confronto con i partiti e renda più trasparente il rapporto tra i partiti e tra loro e il Parlamento. Il tutto, naturalmente, per lavorare meglio e di più. Così, chi temeva (o sperava) di trovare alla ripresa un Bersani dubbioso circa le scelte fatte - e magari tentato da un qualche disimpegno ora sa come stanno le cose. Si va avanti ventre a terra, perché il Paese ne ha bisogno e soluzioni migliori all’orizzonte per ora non ce ne sono.
Naturalmente, bisogna cambiar passo. Prima di tutto in Europa, ma anche qui da noi: bisogna accelerare sul versante della crescita e correggere qualcosa di quanto fatto (sulle pensioni, per esempio). Ma sono soprattutto certi veti europei a preoccupare il leader del Pd, che dice: «Veti ideologici... La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno difenda se stesso. Bene, per quanto mi riguarda non può essere così».
E’ un po’ che lei sembra più preoccupato da certe dinamiche europee che da quanto accade qui da noi.
«Non è precisamente così, ma è importante ricordare come da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe. La gamba italiana il suo lo sta facendo, è ora che si muova quella europea».
Che è ferma, invece.
«L’universo degli economisti, degli osservatori e del mondo politico conviene sul fatto che non siamo su una strada corretta. In Europa ancora non facciamo gesti inequivocabili che dicano: difenderemo l’euro, di qui non si passa. Questo messaggio non è arrivato: anzi, non è neanche partito. Ora abbiamo un po’ di tempo per farlo: con gesti che non possono essere solo il pur importante bricolage di rafforzamento della disciplina dei bilanci».
E cosa pensa?
«A tre questioni. La prima: accelerare sul fondo salvastati, rendendolo credibile e dotandolo di risorse. Finché non saremo lì bisogna consentire maggiore possibilità di intervento alla Bce. La seconda: teniamola pure sullo sfondo, ma la partita degli eurobond deve essere avviata (un’anticipazione potrebbe essere, come chiede Monti, una emissione europea dedicata agli investimenti). La terza: nonostante quel che dicono gli inglesi, sempre tanto preoccupati per la city - ma noi non possiamo mangiare pane e city, perché alla fine non ci sarà più neanche il pane -, è ora che la finanza paghi qualcosa di quel che ha provocato. Insomma, una tassa sulle transazioni finanziarie va allestita».
Non chiede poco.
«Qualcosa di questo deve essere messo in moto. E senza che il giorno dopo, con una intervista o della Merkel o di Sarkozy, si dica: abbiamo scherzato. Perché è così che è andata fino a oggi, anche se tutti sanno che senza una qualche mossa di questo genere finiamo nei guai. Tutti: Germania compresa. Allora: perché non si fanno queste cose? ».
Già, perché non si fanno?
«Lo dico da due anni: il problema è ideologico. Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni. Forse sono morte quelle vecchie... Ma con la frusta della globalizzazione, sull’Europa è calata una nuova ideologia, interpretata dalla destra e subita troppo passivamente dalla sinistra. Una ideologia di ripiegamento, difensiva, corporativa, che dice: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno faccia gli affari suoi».
E quindi?
«Quindi occorre anche una battaglia politica. Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, e su questo abbiamo già fatto molti incontri. E’ già fissato un appuntamento a marzo, in Francia, per avviare un’offensiva su questo tema. E’ ora che qualcuno dica alle opinioni pubbliche europee che da solo non si salva nessuno».
E l’Italia?
«Le forze che sostengono Monti - che dovrebbe andare in Europa a dire che c’è un Parlamento anche qui e non solo in Germania - possono affermare: abbiamo il 5% di avanzo primario e faremo il pareggio di bilancio nel 2013, cosa che non fa nessuno. Insomma, noi abbiamo dato: e a questo punto o c’è un altro passo europeo o non è che possono pensare di trattarci come la Grecia... ».
Vuol forse dire che in Italia non c’è altro da fare?
«C’è moltissimo da fare. Ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive. Possono sollecitarci ad andare avanti in un processo di riforme, cioè di messa in efficienza del sistema. Politiche di crescita, insomma. E qui, è chiaro, abbiamo un campo enorme di cose da fare».
Crede che la politica, cioè il rapporto tra i partiti e il governo, lo permetterà? Insomma, quanto si può continuare così, con distinguo più o meno quotidiani?
«Adesso che si imposta il lavoro di un anno, bisogna stabilire un metodo. Che secondo me è fatto di tre punti. Sulle questioni europee e internazionali, Monti può trovare un rapporto diretto con i segretari dei partiti che gli consenta di rappresentare posizioni unitarie e nazionali su punti strategici; poi, occorre un modo ordinario e ordinato di avere una sede tra governo e gruppi parlamentari che consenta di costruire l’agenda di lavoro e renderla effettiva; infine, bisogna prendere una iniziativa - e io farò la mia parte - per definire un’agenda per riforme istituzionali e costituzionali: per altro, sulla modifica dei regolamenti parlamentari, sul bicameralismo e la riduzione dei membri di Camera e Senato c’è un lavoro sedimentato. Anche sulla legge elettorale si è cominciato a lavorare. E’ chiaro, inoltre, che questa terza questione accentuerebbe la stabilità del governo. Insomma: penso che sia ora che i leader dei partiti dicano esplicitamente e pubblicamente se sono disposti a convenire su un’agenda da affidare, poi, ai gruppi parlamentari».
Un’ultima domanda sulla Consulta e sul referendum. Che decisione auspica? E pensa anche lei che un sì al voto destabilizzerebbe il governo?
«Quel che auspico è che, referendum o non referendum, si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi. Anche un ritorno al “mattarellum” sarebbe meglio, ma l’esperienza ha dimostrato che quel sistema non è perfetto. Quanto a eventuali crisi, dico solo questo: penso che finché non saremo messi su binari solidi, abbiamo bisogno di non prendere la responsabilità di destabilizzare il Paese in un momento così. Non sarebbe capito da nessuno, né qui né in giro per il mondo... ».

Repubblica 9.1.12
XIV Rapporto Demos-Repubblica
Dal 14° sondaggio Demos & PI emerge un Paese in declino ma determinato a rialzarsi. Affidandosi più al pubblico che al privato
È ora di restituire lo Stato ai cittadini
di Ilvo Diamanti


Perdono credibilità le banche, le organizzazioni internazionali e persino i magistrati
I servizi privati non sono più preferiti ai pubblici. I giovani sono i più attivi nel cercare un riscatto
Crolla la fiducia nei politici ma per la prima volta anche nell´Europa. Si salvano solo Napolitano e le forze armate Il 14° sondaggio Demos & PI per "Repubblica" descrive un´Italia ancora piegata dalla crisi anche se finalmente pronta a reagire Soprattutto grazie a un rinnovato e forte desiderio di partecipazione

Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell´indagine di Demos-la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un´immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un "fatto" indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell´ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la "scuola", che però perde credito rispetto a dieci anni fa). 2) In particolare, colpisce il livello - davvero basso - raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini.Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.
3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge - e travolge - gli organismi del sistema economico e finanziario.
Per prime le banche, verso cui manifesta "stima" il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta - intorno al 20% - risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.
Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.
4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La "Magistratura", soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell´ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il "consenso" verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il "dissenso" verso Berlusconi.
5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All´indomani dell´introduzione dell´euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.
6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che - da sempre - non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento ("presidiato" dai partiti). Ma oggi diffida - molto - anche dell´Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch´essa, molto raffreddata, rispetto al passato.
7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le "forze dell´ordine", che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto - negli ultimi dieci anni - il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch´egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell´insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si "scarica", in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.
8) D´altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.
Tutto ciò ripropone l´immagine del "declino" che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell´identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l´Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.
L´indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell´insieme, cala dal 35% al 26%.
Più che di declino, forse, converrebbe parlare di "recessione".
9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all´affermarsi del mito del mercato, del privato, dell´individuo, della concorrenza, dell´imprenditore. Oggi, al contrario, l´insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi - scuola e sanità - si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è "declinato", ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.
Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.
10) Da ciò l´immagine di una "società senza Stato", (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal "Mulino"). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La "sfiducia" - ma anche la "protesta" e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla "privatizzazione" dei servizi, all´individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all´affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l´isolamento.
Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent´anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro - e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel "civismo" - attraverso la centralità "mediatica" attribuita alla lotta all´evasione fiscale - appare una risposta poco "tecnica" e, invece, molto "politica" al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.

Repubblica 9.1.12
Sempre meno stimati. E un italiano su due pensa al loro superamento
Se la democrazia fa a meno dei partiti
di Fabio Bordignon


Può funzionare una democrazia "senza partiti"? Quasi uno su due, tra gli italiani, è convinto di sì (48%). E tale opinione mette d´accordo un numero crescente di cittadini. Questo indicatore, rilevato dal rapporto annuale su Gli italiani e lo Stato, ha fatto segnare una crescita di dieci punti dal 2008 ad oggi.
L´anno che ci lasciamo alle spalle ha reso ancora più profonda la frattura tra cittadini e politica. Quasi otto persone su dieci pensano che le cose siano ulteriormente peggiorate, nel corso del 2011, sotto il cielo della politica, e l´insofferenza si indirizza, ancor più che in passato, nei confronti del Parlamento e dei partiti. È necessario interpellare più di venticinque persone, oggi, per trovarne una disposta a dare credito ai partiti (4%). Il loro già ridottissimo punteggio, in termini di fiducia, in dodici mesi si è addirittura dimezzato (spingendoli sempre più in fondo alla graduatoria delle istituzioni). Sembra prendere progressivamente corpo, così, l´idea che si possa "fare a meno" di essi. Tale orientamento, che sotto i 45 anni supera la soglia del 50%, suggerisce, in questa fase, almeno due chiavi di lettura.
1) Da un lato, il deficit di rappresentanza dei partiti ha allargato le istanze di coinvolgimento dei cittadini. Nel momento in cui i partiti non sono più in grado di garantire il governo per il popolo, si rafforza la domanda di governo del popolo. Questa spinta si è concretizzata, negli ultimi anni, in una crescita della partecipazione, nella nascita di nuovi movimenti, in una riscoperta della democrazia diretta. Il moltiplicarsi della mobilitazione su specifiche questioni e il successo dei quattro referendum tenutisi la scorsa primavera hanno sottolineato, parallelamente, come questa onda partecipativa abbia in larga misura scavalcato i canali più tradizionali (spiazzando gli stessi partiti).
2) Dall´altro lato, la crisi politica ed economica ha reso evidente l´incapacità dei partiti di individuare soluzioni nell´interesse del popolo, favorendo soggetti ritenuti in grado di affrontare le emergenze che gravano sull´Italia. Non a caso, i cittadini sembrano affidarsi, in questa fase, soprattutto ad attori a-partitici: tecnici e istituzionali. Soprattutto, guardano con fiducia il Capo dello Stato, che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo determinante nel gestire il cambio di governo, consegnando il timone del paese ad un esecutivo di esperti.
Queste due prospettive mettono l´accento sulle criticità (e le contraddizioni) che caratterizzano, oggi, l´evoluzione della democrazia (italiana e non solo). Esse tracciano, infatti, percorsi che superano i confini della democrazia rappresentativa, e tra loro difficilmente conciliabili. La stessa esperienza del governo Monti presenta, secondo molti, tratti di "eccezionalità democratica". Ciò nondimeno, la sua sopravvivenza appare costantemente nelle mani delle (eterogenee) forze che lo sostengono.
Gli attuali partiti, in sintesi, risultano allo stesso tempo troppo forti e troppo deboli: al centro di un sistema che però faticano a governare. In questo senso, le aperture ad una democrazia "senza partiti" richiamano la necessità di contrastare l´indebolimento della stessa democrazia: un sistema che più di due italiani su tre continuano a giudicare come unica alternativa politica (sebbene nell´ultimo periodo siano cresciuti i sentimenti di indifferenza).
Dunque, se la democrazia (rappresentativa) appare ancora "impensabile senza i partiti", il problema è mettere a punto dei correttivi che garantiscano il suo funzionamento e la sua legittimazione: perché andare "oltre i partiti" non significhi andare "oltre la democrazia".

La Stampa 9.1.12
La pressione cinese per avere risposte subito Domani la fiaccolata
di Guido Ruotolo


ATTESI IN DIECIMILA Sta crescendo la rabbia dei connazionali delle vittime I timori per la manifestazione

ROMA Domenica nervosa, per gli investigatori romani che speravano, evidentemente, di aver già risolto il caso. E invece la sua soluzione sembra che si allontani, anche se speriamo di poche ore. Dal comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina non si fa mistero del disappunto, della contrarietà per la fuga di notizie che avrebbe compromesso la soluzione del duplice omicidio in tempi ravvicinati.
La morte della piccola Joy e del suo papà Zhou non ha scosso soltanto la comunità cinese, è Roma e l’opinione pubblica nazionale che si sono sentite offese e umiliate da questa violenza crudele e bestiale. La pressione dei cittadini perché sia fatta giustizia legittimamente si fa sentire.
Ma gli investigatori avvertono anche le aspettative cinesi. È una indagine, questa, la cui soluzione avrà oggettivamente delle ripercussioni nelle relazioni tra l’Italia e la Cina. Il protagonismo dell’ambasciatore cinese a Roma, Ding Wei, l’annunciata fiaccolata romana di domani con presenze di almeno diecimila cinesi provenienti da tutta Europa, sono una conferma che Pechino guarda a Roma con severa attenzione.
Anche il sindaco della capitale, Gianni Alemanno, ha avvertito di aver sottovalutato - o di aver affrontato con uno schema antico e insufficiente - la vicenda della strage di Joy e di Zhou e ieri si è recato in via Giovannoli per deporre un mazzo di dodici rose bianche sul luogo dell’eccidio.
È comprensibile, dunque, l’attesa e la domanda di informazione su questo duplice omicidio.
Il fatto che siano stati già individuati i (presunti) colpevoli è un segnale dell’alta professionalità del Nucleo operativo e del Ros dei carabinieri di Roma. I rapinatori balordi diventati assassini hanno lasciato come Pollicino troppe tracce per non essere individuati. E, dunque, hanno le ore contate. Il comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina aveva chiesto un silenzio stampa di 48 ore, evidentemente violato dai giornali e dai mass media. Per esempio, aver rivelato che sono state ritrovate le due borse con il cellulare e 16.000 euro, ha di fatto vanificato la possibilità che i due rapinatori assassini tornassero nel casolare diroccato di via Ettore Fieramosca e quindi venissero arrestati.
Una circostanza, va anche detto, che non necessariamente si sarebbe verificata in un regime di silenzio stampa. I due assassini evidentemente sono in fuga e catturarli impegnerà gli investigatori in un’attività di monitoraggio molto estesa.
Non sono italiani, gli assassini. E questo non può essere una magra consolazione per una città, Roma, in cui la soluzione dei conflitti sembra affidata all’uso della forza, alle gambizzazioni o agli omicidi.
Non è un caso che la città, silenziosa, attenda che la giustizia faccia il suo corso. Nessuna manifestazione di isteria collettiva, di pulsioni forcaiole o di guerra contro gli stranieri. È un buon segnale.
Non è la prima volta che si consuma un cortocircuito tra opinione pubblica e investigatori. Quando è in gioco la civiltà e la tenuta democratica di una città, che è la nostra capitale, non si può non essere intransigenti. E sperare che per gli assassini non ci sia scampo. [G. RU. ]

l’Unità 9.1.12
Corre la spesa militare soprattutto in Cina
L’America resta in testa
La corsa al riarmo di Pechino in dieci anni è pari al 189% Sale la spesa di altre potenze emergenti: Brasile e Sudafrica Ma al primo posto in questa graduatoria restano gli Usa
di U.D.G.


Uno sguardo sul mondo «militarizzato». Le spese militari nel 2010: è il rapporto più aggiornato, realizzato dall’Archivio Disarmo. La spesa militare mondiale per l’anno 2010 è risultata pari a 1.630 miliardi di dollari: ciò rappresenta un incremento dell’1.3% in termini reali rispetto all’anno 2009 e un incremento del 50% rispetto al 2001. La spesa militare globale costituisce il 2.6% del Pil mondiale, il che equivale a 236 dollari pro capite. Tale crescita è dovuta, quasi interamente, agli Stati Uniti: infatti, la spesa militare nel resto del mondo è aumentata solo dello 0.1%. Inoltre nel periodo 2001-2010 la spesa militare americana è cresciuta dell’81%, mentre quella del resto del mondo è aumentata del 32%. Tuttavia il trend della spesa militare varia considerevolmente da regione a regione: nel 2010, aumenti significativi si sono registrati in Sud America (5.8%) e in Africa (5.2%), mentre in Nord America (2.8%), in Medio Oriente (2.5%) e in Asia e Oceania (1.4%) gli aumenti sono stati inferiori rispetto agli anni precedenti. In Europa invece (per la prima volta dal 1998) si è registrato un calo (pari al 2,8%) della spesa militare.
In molti casi la diminuzione, o l’aumento più lento, della spesa militare rappresenta una reazione alla crisi economica mondiale che ha avuto inizio nel 2008. Tra i Paesi che hanno incrementato maggiormente le spese militari c’è la Cina. Ufficialmente la Cina presenta un budget per la difesa pari a 78 miliardi di dollari: tuttavia il Sipri valuta che la spesa militare totale cinese, per l’anno 2010, ammonti a circa 119 miliardi di dollari con un incremento del 3.8% in termini reali rispetto all’anno precedente. Tale percentuale, essendo inferiore al tasso di crescita medio annuo (pari al 12%) calcolato per il periodo 2001-2010, rappresenta un rallentamento nella crescita della spesa militare e riflette la minore crescita economica dell’anno 2009 causata dalla recessione mondiale. Tra gli anni 2001 e 2010 la spesa militare cinese è aumentata del 189% in termini reali e tale rapida crescita rinvia all’altrettanto rapida crescita economica che il Paese ha registrato negli ultimi anni e che lo ha condotto al secondo posto tra le economie mondiali.
Altro Paese in crescita quanto a spese militari è il Brasile. Nel 2010 la spesa militare del Brasile ammonta a 33.5 miliardi di dollari, il 9.3% in più, in termini reali, rispetto all’anno 2009. Tra il 2001 e il 2009 la spesa militare è cresciuta del 30%, con una media annuale del 2.9%. Significativo, in un quadro geopolitico, è anche il dato del Sudafrica. Il livello della spesa militare del Sudafrica risulta essere il più alto di tutta l’Africa sub-sahariana. Nel 2010, la spesa militare sudafricana ammonta a circa 4.5 miliardi di dollari, pari all’1.2% del Pil del Paese; rispetto al 2009 c’è stata una diminuzione del 20%, ma rispetto al 2001 c’è stato un aumento del 22%. Quanto alla Russia, la sua spesa militare, per l’anno 2010, è stata di 58.7 miliardi di dollari; si tratta dell’1.4% in meno rispetto al 2009, ma dell’82% in più rispetto al 2001.
Al primo posto del podio militarizzato restano gli Usa. Il tasso di crescita della spesa militare degli Usa ha subito un rallentamento nel corso dell’anno 2010: rispetto al decennio precedente, infatti, in cui si è registrato un tasso medio di crescita pari al 7.4%, nel 2010 la spesa militare è aumentata, solo, del 2.8%2. Tuttavia gli Stati Uniti, con una spesa militare pari a 689 miliardi di dollari, confermano il loro primato nel settore, che non sembra in discussione neanche alla luce del piano di riduzione del budget del Pentagono annunciato nei giorni da Barack Obama.

La Stampa 9.1.12
Viaggio nella Londra razzista dove i neri non trovano giustizia
La capitale è sempre più multietnica ma le differenze sociali sono più profonde
di Andrea Malaguti


Stephen Lawrence aveva 19 anni e studiava architettura Il 22 novembre 1993 una banda di minorenni lo bloccò alla fermata dell’autobus e lo accoltellò al grido di «Fottiti, sporco negro»La lapide in marmo di Stephen Lawrence, ucciso il 22 novembre 1993, è stata più volte bruciata sporcata graffiata e la famiglia l’ha sempre riparata. Ora la polizia ha montato delle telecamere di sorveglianza
LA DEPUTATA DI COLORE «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco»

Eltham, Sud di Londra. È qui che diciotto anni fa hanno ammazzato Stephen Lawrence, dove adesso c’è una distesa di fiori freschi che, da quando hanno condannato due dei suoi assassini tre giorni fa, la gente del quartiere continua a portare senza sosta. Una banda di cinque minorenni bianchi incontrò il ragazzo alla fermata dell’autobus e gli aprì il polmone destro con un coltello. Senza motivo. «Fottiti, sporco negro». Stephen aveva 19 anni e studiava architettura. Quelle furono le ultime parole che gli rimbalzarono in testa. Fece di corsa Well Hall Road, poi si accasciò come un pupazzo. Senza sangue, senza vita. Adesso, in questo pomeriggio con il cielo che sembra un tappeto sporco, la sua mamma, Doreen, è piegata sulla lapide nera che ricorda l’ultimo istante di vita di suo figlio. «In memoria di Stephen Lawrence, 13 settembre 1974-22 novembre 1993».
Attorno a lei un gruppo di persone le fa da cordone per permetterle di pregare. Gente di questo sobborgo diventato il simbolo dell’Inghilterra sbagliata. Una donna con un cappello azzurro, i capelli molto chiari, si avvicina a Doreen e l’abbraccia. Le dice: «Qui a Eltham siamo in tanti a essere fieri della sua battaglia». Lei abbozza quel che resta di un sorriso che un tempo deve avere avuto. «Aspetto ancora le altre condanne. Magari il Paese è cambiato. Ecco, forse la morte di Stephen è servita a fare aprire gli occhi alla gente». Altre mani, altri abbracci. Quasi tutte donne. Dall’altra parte della strada un van della polizia controlla la scena.
È una ruota che gira con una lentezza esasperante, quella che dovrebbe portare verso l’uguaglianza, ma da quel 22 novembre 1993 in effetti qualcosa è cambiato. Anche se nella Gran Bretagna del terzo millennio, in cui le minoranze etniche rappresentano il 9% della popolazione contro il 5% di allora, il colore della pelle continua a fare la differenza. «Il multiculturalismo è fallito», spiegò pochi mesi fa David Cameron. Aveva torto? Secondo i dati del Rapprto nazionale sul Sistema Giudiziario e le Statistiche sulla Razza, un ragazzo nero guadagna, a parità di lavoro, il 20% in meno di un collega bianco e ha il quadruplo di possibilità di morire ammazzato e il quintuplo di essere fermato dalla polizia. Identiche le percentuali all’interno dei tribunali dove, all’alta Corte di Giustizia, i giudici neri sono solo due, 1,6% del totale. Comunque due di più rispetto al 1993.
Anche la lunghezza delle pene varia a seconda dei colori. Un nero accusato di violenza sessuale sconta mediamente cinque anni di prigione. Un bianco quattro. L’attivista per i diritti umani Gubrux Singh sostiene che «è vero che la ruota gira, ma la recessione potrebbe riportarla indietro. Le rivolte di agosto a Tottenham lo dimostrano. Le differenze di razza saranno sostituite da quelle di classe. E di casta». Anche la politica fa passi avanti. Nel 1993 le minoranze etniche in Parlamento rappresentavano l’1% degli eletti (6 contro 645), oggi sono il 4% (28 contro 622). La prima donna di colore a essere eletta a Westminster fu la parlamentare laburista, tuttora in carica, Diane Abbott, che giusto 48 ore fa è stata costretta a scusarsi con il Paese per un tweet imbarazzante. Diceva: «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco». I bianchi. Ed Miliband, il leader del suo partito, le ha chiesto di ritrattare. Lei si è adeguata, ma è ovvio che il problema rimane. Ed è trasversale, come dimostra anche la Premier League, dove solo due allenatori sono neri e dove venerdì scorso Tom Adeyemi, terzino dell’Oldham, ha lasciato il campo del Liverpool in lacrime dopo essere stato inondato dagli insulti razzisti del pubblico.
Prima di abbandonare Well Hall Road, Doreen Lawrence si ferma con Elaine Cob e Gordon Newton. Sono due negozianti del Kent. Vendono lapidi. E sono loro che si prendono cura di quella che ricorda Stephen. Pochi giorni dopo che era stata fissata sul marciapiede qualcuno passò con un martello e la distrusse. Elaine e Gordon videro la scena in tv e telefonarono a Doreen: «D’ora in poi almeno questo non sarà più un tuo problema. Ci pensiamo noi». La lapide è stata bruciata, verniciata, graffiata. Loro sono sempre intervenuti. Finché la polizia ha deciso di montare delle telecamere per sorvegliarla 24 ore su 24. Il simbolo fisico di una sconfitta.

l’Unità 9.1.12
Il ritorno di Freud scrittore
Le storie cliniche del papà della psicoanalisi raccolte in un nuovo volume «Racconti analitici», pubblicato da Einaudi. Dove si evidenzia la rivoluzione estetica che aveva messo in crisi i canoni narrativi correnti del Novecento
di Albero Luchetti


È forse noto che la prima delle pazienti grazie alle quali si costruì la psicoanalisi freudiana, la famosa «Anna O.», con un termine inglese definì talking cure, «cura parlata», quella strana terapia cui si stava sottoponendo centotrenta anni fa e che affidava alla «magia lenta» della parola la possibilità di liberare dagli affetti collegati ad eventi traumatici rimossi. Meno noto è forse il fatto che la psicoanalisi sia però nata, almeno nella stessa misura, come writing cure, come «cura scritta»: la scrittura fu infatti il vero e proprio «mezzo», nel senso biologico della sostanza o ambiente in cui avviene un fenomeno, in cui germogliò e poi fiorì la nuova disciplina. Freud scrisse instancabilmente giorno e notte: non solo le migliaia di pagine dei suoi numerosissimi saggi e libri, ma migliaia di lettere a colleghi, amici e familiari (oltre novecento solo alla fidanzata). La sua stessa «autoanalisi» procedette per iscritto, diligentemente annotando quasi ogni giorno i propri sogni, i propri lapsus e dimenticanze e le libere associazioni ad essi. Peraltro, già da adolescente Freud, accanito lettore, per un decennio aveva scritto lettere all’amico Silberstein con cui aveva fondato una scherzosa «Accademia spagnola» ispirandosi a Cervantes, e inoltre aveva composto racconti, poesie ed altri tipi di composizione.
LEGAME CON LA LETTERATURA
Fin dall’origine, questo stretto legame della psicoanalisi con la scrittura si articolò con un altrettanto forte legame con la letteratura, in cui Freud ritrovava intuizioni che brillantemente avevano anticipato scoperte che solo con fatica il metodo psicoanalitico riusciva a corroborare scientificamente. Da opere letterarie classiche (Shakespeare, Schiller, Goethe, Heine, per citare solo alcuni autori) sono tratte non solo le innumerevoli citazioni che accompagnano i testi scientifici freudiani, ma altresì quei personaggi che diverranno figure emblematiche della stessa teoria psicoanalitica: uno per tutti, Edipo. Cosicché è comprensibile che, come racconta l’aneddoto, un fisico abbia potuto definire la psicoanalisi come la più scientifica delle discipline umanistiche ed un letterato come la più umanistica delle scienze, e che la sua opera valse a Freud, se non il premio Nobel, almeno l’altrettanto ambito «premio Goethe».
Il nodo che unisce psicoanalisi, scrittura e letteratura peraltro non è affatto formale né estrinseco, bensì intimo e sostanziale, giacché la psicoanalisi mira a fare scienza proprio di quell’inconscio che nell’essere umano è alla base tanto del suo funzionamento psichico e corporeo quanto delle sue creazioni più astratte e sublimi. Inevitabile però che tutto ciò gli procurasse l’accusa di raccontare «favole» inizialmente mossagli dal grande psichiatra dell’epoca Emil Kräpelin, e periodicamente riproposta dal demolitore di turno, nonostante lo stesso Freud subito ammettesse onestamente la propria sorpresa ed imbarazzo per il fatto che le storie cliniche che riferiva si leggessero «come novelle». Quell’accusa e questo imbarazzo egli finì però col ribaltarli in una ricerca narrativa altrettanto innovativa dell’impresa scientifica che aveva intrapreso, come ci mostra efficacemente il volume Racconti analitici recentemente pubblicato da Einaudi, progettato e introdotto da Mario Lavagetto, che raccoglie la maggior parte delle storie cliniche freudiane, tutte in una nuova traduzione di Giovanna Agabio, con note di Anna Buia e illustrazioni di Lorenzo Mattotti.
La tesi del libro, indicata nella esauriente e avvincente introduzione di Mario Lavagetto, è illustrare come Freud si sia trovato «preterintenzionalmente in sintonia con gli esiti di quella rivoluzione estetica che aveva messo in crisi la possibilità di organizzare le storie in base al sistema della verosimiglianza, al gioco di cause ed effetti, all’alternarsi di aspettative, sorprese, riconoscimenti e scioglimenti». Il contrasto tra i paradigmi acquisiti con la sua formazione nella Vienna della seconda metà dell’Ottocento e la necessità di mettere a punto una nuova forma narrativa si trasferirà all’interno della forma di racconto utilizzata per i suoi casi clinici. Storie che, come giustamente nota Lavagetto, «sarà sempre meno possibile leggere “come novelle” o almeno come novelle conformi a un prototipo collaudato».
Non c’è dunque da stupirsi se alla fine Freud stesso si trovasse «davanti la propria opera come qualcosa di “indipendente, perfino di estraneo”», come parallelamente capita in fondo a ogni persona che si affidi alla psicoanalisi per scrivere o riscrivere la propria storia e cercare di ridisegnare la propria vita, allorché le riscopre come qualcosa di altro da sé, nella misura in cui rivelano l’alterità che abita la stessa possibilità di dire «io». E nemmeno meraviglia che la letteratura scaturita dalla rivoluzione estetica a lui contemporanea possa scorgere nell’opera di Freud un sintomo del progressivo e inesorabile dissolversi delle forme classiche della narrazione, riconoscendolo come uno dei padri del pensiero novecentesco non solo in quanto scienziato dell’apparato dell’anima dell’essere umano, ma anche come scrittore.

La Stampa 9.1.12
Joyce, le tre epifanie che sconvolsero il ’900
Una nuova biografia mette in rapporto la vita dell’autore irlandese con il suo mondo letterario
di Richard Newbury


AGOSTO 1898 A 16 anni, una sera viene sedotto da una prostituta: e l’oscurità diventa una fonte di eccitazione
16 GIUGNO 1904 Nella Nassau Street di Dublino l’incontro fatale con Nora, la musa che ispirerà l’Ulisse
17 APRILE 1932 Dopo una crisi della figlia i temi della personalità disturbata entrano nella Veglia di Finnegan

Londra. Una biografia è un romanzo che promette di dire la verità; i romanzi di solito sono autobiografie inaffidabili, avvalorate dal credo aristotelico che la poesia è più vera della storia. Per Gordon Bowker - l’autore di James Joyce - A Biography, da poco uscito a Londra -, «i racconti di Joyce sono fortemente autobiografici e perciò hanno dato forma a ciò che lui si prefiggeva scrivendo e presentandosi al mondo come artista». Gente di Dublino ebbe effettivamente molte difficoltà a trovare un editore a causa delle minacciate denunce di diffamazione, ma introdusse la sua rivoluzionaria tecnica narrativa. Il Ritratto dell’artista da giovane è un’ampia confessione fatta da Joyce, che rigettò violentemente il cattolicesimo ma non l’educazione gesuitica che aveva ricevuto. Ulisse porta il lettore in un giro di 24 ore attraverso i monologhi interiori di Stephen/James e dell’ebreo Leopold Bloom, l’uomo qualunque, per le strade di Dublino il 16 giugno 1904 - il fatidico giorno in cui Joyce/Dante incontrò Nora/Beatrice. La veglia di Finnegan è un’onda travolgente di giochi di prestigio verbali, che parte da vecchi miti per crearne di nuovi, e sibillini. Come disse lo stesso Joyce, « Ulisse tratta di un giorno e una notte di mente consapevole; La veglia di Finnegan invece della mente inconsapevole, del sonno di un’unica notte di un personaggio polimorfo».
Bowker ha cercato di spiegare al lettore questi complessi alter ego con il contesto biografico di un uomo pieno di contraddizioni nei confronti dei suoi genitori e dell’Irlanda, di cui aborriva la romantizzazione. Un uomo cresciuto nel culto del nazionalismo irlandese che però odiava l’Irlanda folkloristica clericale che esso aveva creato; un uomo che adorava la lingua inglese ma la sovvertì e la reinventò; un uomo ambivalente anche nei confronti della Gran Bretagna, dove si recò, a differenza dell’Irlanda dopo il 1912, e di cui rimase cittadino.
Bowker mette a confronto Yeats e Joyce: «Yeats è figlio dell’influenza protestante, affascinato dall’aristocrazia e dalla superstizione contadina. Joyce proviene dalla piccola borghesia cattolica ed è incuriosito dal demi-monde dublinese; Yeats abbraccia la bellezza della natura, Joyce è attirato dalla bruttezza della città; Yeats vede Omero come l’autentica espressione della grande arte, Joyce preferisce Dante e il viaggio all’inferno andata/ritorno. Erano due forme diverse di intelligenza creativa - l’originalità di Yeats modellata da considerazioni di forma poetica, Joyce sempre voglioso di traboccare in forme oltre la forma. Yeats era devoto al nazionalismo culturale, che invece Joyce considerava un tradimento del genio poetico».
Bowker illumina tre nuovi aspetti di Joyce. Vivendo a Trieste, Joyce vede delle analogie tra la situazione difficile di Dublino e quella di Trieste, città italiana in mezzo a un impero austro-ungarico che le è estraneo, mentre i suoi tanti amici e studenti ebrei non praticanti, come Italo Svevo - cui si ispirò per Harold Blooom - sono simili agli irlandesi sradicati che hanno dimenticato la loro cultura.
Bowker vede anche nella sua vita tre di quelle che Joyce chiamava «epifanie». Nell’agosto 1898, quando era un pio gesuita sedicenne con una forte vocazione religiosa, si era eccitato giocando e tornando a casa era stato sedotto da una prostituta. Da quel momento l’oscurità non fu più il covo dei malvagi ma qualcosa di eccitante oltre ogni immaginazione e la vocazione artistica soppiantò quella sacerdotale.
Il 16 giugno 1904, nella Nassau Street, a Dublino, calamitato da una lussureggiante testa di capelli rossi, si levò il cappello da marinaio e convinse la scaltra incantatrice a incontrarlo di nuovo. Il maestro era appena inciampato nella sua musa irlandese, e il corso della letteratura del XX secolo era cambiato.
Domenica 17 aprile 1932, sui binari per Calais della Gare du Nord di Parigi, una ragazzina all’improvviso si mette a strillare e urlare in modo incontenibile. Anziché partire per Londra, padre madre e figlia restano a Parigi. Dopo questa scenata fatta dalla figlia Lucia, mentalmente instabile - che poi sarà respinta dal segretario del padre, Samuel Beckett - il lavoro di Joyce intorno alla Veglia di Finnegan rallenta fin quasi a fermarsi. «Quando riprese», scrive Bowker, «i temi della personalità disturbata avrebbero cominciato a intrecciarsi nel testo, lasciando Joyce aperto all’oscurità e ai sospetti pruriginosi».
A chi gli chiese, dopo la Rivolta di Pasqua del 1916, se aspettasse con ansia una Irlanda indipendente, Joyce rispose: «Sì, in modo da potermi dichiarare il suo primo nemico». Dopo il 1922 si rifiutò di appoggiare lo Stato libero d’Irlanda o di entrare nell’Accademia irlandese delle Lettere. Di fatto, se fosse tornato alla realtà della sua fantasticata Irlanda, sarebbe stato arrestato per oscenità. E quando la moglie Dora, sul letto di morte a Zurigo nel 1941, offrì di rimpatriare il corpo del più grande scrittore irlandese - nonostante i Nobel G. B. Shaw, W. B. Yeats, Samuel Beckett e Seamus Heaney - il governo clerical-nazionalista del primo ministro De Valera rifiutò l’offerta. Odio puro, che Joyce avrebbe gustato!
Traduzione di Marina Verna

«Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito»
Corriere della Sera 9.1.12
«La mia Irlanda, terra irriconoscibile»
Lo scrittore Colm Tóibín torna per esplorare il suo Paese «La crisi, gli scandali. Qui anche il cattolicesimo è finito»
di Ranieri Polese


«All'apice del boom, in questo strano, piccolo Paese, i prezzi si alzarono quasi fossero Icaro, che ignorò l'avvertimento del padre e le cui ali furono sciolte dal calore del sole splendente». Lo strano, piccolo Paese è l'Irlanda di questi ultimi anni, coinvolta da una frenesia finanziaria che poi la crisi ha fatto crollare. Chi lo descrive così è Colm Tóibín, giornalista scrittore docente di letteratura nato 57 anni fa a Enniscorthy, nella contea di Wexford, nel Sudest dell'Irlanda. Con i suoi romanzi e racconti (The Master, Madri e figli, Brooklyn) ha raccolto molti premi. Ha insegnato letteratura in varie università americane, fra cui Austin, Texas e Princeton, tiene corsi di scrittura creativa all'Università di Manchester.
Ora esce da Bompiani la traduzione della sua seconda raccolta di racconti, La famiglia vuota, e la citazione è presa proprio dal racconto che dà il titolo al volume. Alcuni dei protagonisti di queste storie, irlandesi che tornano a casa, non si ritrovano più: le strade di Dublino sono cambiate, ci sono nuovi edifici tirati su nel breve periodo della ricchezza facile. Poi, però, la parentesi dell'euforia si è chiusa, «oggi il Paese si sta riprendendo, ma la vita è difficile».
Lui, Tóibín, da quel piccolo, strano Paese, se n'era andato via molti anni prima: chi era giovane, nell'Irlanda «grigia e povera» degli anni Settanta, non poteva fare altrimenti dice al telefono da Dublino. «Io partii la prima volta nel '75, destinazione Barcellona. Ci sono rimasto tre anni, lavoravo come insegnante d'inglese». Da quel soggiorno sono nati un romanzo, Sud e ora il racconto Barcellona, 1975. Giovane, gay, in cerca di una vita non più condizionata dai pregiudizi del piccolo Paese, Tóibín arriva durante la interminabile agonia di Francisco Franco e lì vive i primi anni della ritrovata libertà dove niente è più proibito e nel sesso non ci sono tabù. Seguiranno anni di lavoro giornalistico, di viaggi («Mi interessavano i Paesi cattolici, dal Sud America ai Paesi dell'Est: volevo scoprire i tratti comuni e le differenze con l'Irlanda»), di reportage, i primi incarichi di insegnamento. Negli ultimi anni è stato ospite, più volte, della Fondazione Santa Maddalena, vicino a Firenze, dove la vedova di Gregor von Rezzori, Beatrice Monti della Corte («È la migliore ambasciatrice dell'Italia» dice), raduna ogni anno scrittori di tutto il mondo. Oggi Tóibín vive una parte dell'anno in Irlanda, l'altra in America, dove insegna, e in Spagna: «Mi sono comprato una casa, sui Pirenei, tutti i posti di mare sono stati distrutti dal turismo».
Perché decise di partire?
«Andando via, volevo un distacco netto dal mio passato emotivo e sentimentale. Così ho finito per vivere molto all'estero, ma con in mente sempre un qualcosa che chiamavo casa. Qualche anno fa sono tornato a Enniscorthy, mi sono preso una casa da cui si gode la stessa vista che vedevo cinquant'anni fa. Eppure so che non è più la stessa. Quello che chiamavo casa non significa più niente. Ecco, nei racconti di questo libro c'è il senso di un qualcosa che una volta c'era e che ormai non c'è più. È la realtà delle emozioni che conta, è quella che cambia. Non c'è disperazione in quello che scrivo, c'è una sorta di malinconia, in termini musicali si chiama tonalità minore. Parlo di una delusione, non di una tragedia».
Un tempo, per molto tempo, l'Irlanda è stato un Paese di emigranti.
«È la nostra storia, ma prima si andava via per necessità, per fuggire dalla miseria, in cerca di una vita più tollerabile. I personaggi dei miei racconti non partono più spinti dalla povertà».
Si potrebbe dire che sono emigranti esistenziali.
«Sì, non possono restare dove sono nati. Poi, quando sono lontani, non riescono a cancellare i ricordi di casa, e quando tornano non ritrovano più niente di quello che nel passato aveva contato per loro. I luoghi appaiono diversi, gli amori di un tempo non sono più raggiungibili».
Alcuni dei racconti di «La famiglia vuota» sembrano autobiografici.
«Sì, tre di questi lo sono».
Oltre a «Barcellona, 1975», quali sono gli altri due?
«"Uno meno uno" e "La famiglia vuota"».
Nel primo c'è un insegnante irlandese ad Austin, Texas, che ricorda la morte di sua madre, avvenuta sei anni prima: era tornato a casa appena in tempo per vederla spirare, e al funerale, ricorda, aveva rivisto il suo ex compagno che ora vorrebbe di nuovo accanto a sé. Anche ne «La famiglia vuota» c'è un ritorno a casa, nella contea di Wexford, quella dov'è nato Tóibín: l'Irlanda è cambiata, la nostalgia per un antico amore provoca una strana melanconia. E il protagonista non sa se restare o ripartire.
Lo scandalo dei preti pedofili, che ha occupato per anni le cronache irlandesi, compare solo in uno di questi racconti. È «I pescatori di perle» (un ricordo lontano degli anni di scuola, quando i ragazzi furono portati a teatro, alle prove dell'opera di Bizet) che parla di un prete che ha abusato di una studentessa sedicenne. Lei, una volta, ha detto in un'intervista di non aver mai subito molestie o violenze sessuali nelle scuole dei preti, anche se trovava alcuni di loro particolarmente attraenti.
«È vero, nessun prete ha mai abusato di me. Certo, la questione della pedofilia è stata ed è ancora molto viva e dolorosa. Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito. Tant'è che circa due mesi fa, con grande risentimento di Roma, il governo ha ritirato la rappresentanza diplomatica in Vaticano».
Nella raccolta di saggi «Amore in un tempo oscuro» pubblicata alcuni anni fa, lei ha dedicato una decina di ritratti a scrittori e artisti omosessuali, da Oscar Wilde a Pedro Almodovar, passando per Thomas Mann, Francis Bacon, James Baldwin.
«Per la maggior parte di loro, l'omosessualità doveva restare segreta e vivevano la loro condizione dolorosamente, come un dramma. Molti appartenevano a tempi in cui quell'amore era proibito. Oggi le cose sono in parte cambiate, c'è maggiore libertà. Ma come per il cattolicesimo, ci sono tante diverse forme di vita omosessuale, a seconda dei Paesi».
In questa raccolta, c'è «Silenzio», in cui viene rielaborato un episodio della vita di Lady Gregory, una delle animatrici della rinascita letteraria irlandese. Sposata a un uomo di 35 anni più vecchio di lei, da cui ha avuto un figlio, incontra un giovane poeta e s'innamora di lui appassionatamente. Inizia una relazione fatta di incontri clandestini, resi ancora più intensi dalla paura della donna di venire scoperta. Poi, quando la storia finisce, lei consegnerà all'ex amante dei sonetti scritti da lei, sul loro amore, chiedendogli di pubblicarli nel suo prossimo libro di poesie. Anni dopo, ormai vedova, a una cena siede accanto a Henry James, uno scrittore che ammira. Vorrebbe confidare a lui il suo segreto (se nessun altro lo conosce, pensa, è come se non fosse successo niente), ma invece gli racconta una storia diversa, di un ecclesiastico che scopre che la giovane che ha appena sposato aveva un amante.
Il segreto, il bisogno di raccontarlo a qualcuno e insieme la paura di venire giudicati per ciò che si confida, è un tema ricorrente nei suoi racconti.
«La letteratura attinge dalla vita, ma la reinventa, cambia, introduce variazioni. Una cosa è la confidenza, un'altra il romanzo. C'è la necessità, è vero, di raccontare a qualcuno i propri segreti, anch'io la provo, ma per scrivere un racconto, un romanzo, questo non basta. Si deve reinventare la storia. È questa la natura della letteratura. Per questo, quando prima dicevo che alcuni di questi racconti sono autobiografici, devo precisare: piu o meno autobiografici. Traggono spunto da esperienze vissute, poi diventano qualcosa d'altro. È come se acquistassero una vita propria».

Corriere della Sera 9.1.12
Le due destre nell’età di Vichy
di Giovanni Belardelli


Il crollo della Francia nel giugno del 1940, con l'esodo di milioni di civili da Nordest a Sudovest (quella specie di 8 settembre d'Oltralpe descritto da Irène Némirovsky in Suite francese), ebbe la sua causa anche in correnti profonde della cultura del Paese, anzitutto in un sentimento di disaffezione per la democrazia che s'era diffuso negli anni precedenti. È anche di questo che tratta un libro importante di Maurizio Serra (La Francia di Vichy. Una cultura dell'autorità, Le Lettere, pp. 292, € 28), che analizza appunto le radici culturali della sconfitta e i caratteri del progetto autoritario formulato a Vichy dal maresciallo Pétain, capo del governo nella Francia rimasta formalmente indipendente. Ma il volume studia — ed è la parte più interessante — quel fenomeno cupo e inquietante che fu il collaborazionismo degli intellettuali nella Parigi occupata dai tedeschi.
Pétain apparve ai francesi come colui che, garantendo l'indipendenza di una parte almeno del Paese, aveva salvato la Francia una seconda volta (la prima era stata, nel 1916, a Verdun). Il consenso estesissimo del quale godeva lo indusse a formulare un ambizioso progetto di «rivoluzione nazionale» che riformasse la società francese alla luce del trinomio «lavoro, famiglia, patria». Progetto che riprendeva le tradizionali critiche dell'estrema destra al regime democratico e alla rivoluzione francese, irrealistico vista la debolezza di uno Stato che di fatto dipendeva dai tedeschi.
Dal libro di Serra emerge bene la differenza tra questo progetto autoritario e reazionario e le posizioni di una nuova destra intellettuale che si coagulò in quegli stessi anni a Parigi, nella zona occupata dai tedeschi (ma dal novembre 1942 l'occupazione si sarebbe estesa anche alla Francia di Vichy), in un clima per molti aspetti ambiguo e paradossale. La Parigi controllata dai nazisti è una città ricca di fermenti culturali e artistici: vi si pubblicano libri importanti, da Antigone di Anouilh a Lo straniero di Camus; vi si rappresentano opere teatrali di rilievo; nel solo 1942 vengono girati ben 72 film. Ma è anche la città che subisce la razzia di molte opere d'arte e dove, nel maggio 1943, vengono distrutti migliaia di quadri di pittori «degenerati», come i nazisti definivano gli artisti appartenenti alle correnti di avanguardia e perciò soggetti al «morbo giudaico».
È lì che alcuni intellettuali francesi sposano la causa del nazismo, visto come l'occasione per un'estrema sfida alla società borghese, lo strumento per distinguersi — in una scelta politica ed estetica — dalle masse e dagli uomini comuni. Scriverà Drieu La Rochelle nel diario: «Sono stato tra gli happy few, tra quei pochi ragazzi che nel collaborazionismo non c'erano per collaborare, ma per non essere altrove, nel gregge che sudava paura e odio». Se i collaborazionisti militanti furono pochi, nota Serra, molti di più furono i fiancheggiatori o simpatizzanti. Più che una corrente vera e propria, gli intellettuali collaborazionisti impersonarono un insieme di aspirazioni, fobie, atteggiamenti fondati sul rifiuto di ogni posizione intellettualmente coerente, sulla critica dell'Occidente materialistico e della «contaminazione ebraica», sul richiamo alla «sana violenza giovanile», senza più alcuna nostalgia per l'esaltazione nazionalistica di ciò che è tradizionalmente francese. Un'esaltazione che trovava posto invece nell'ideologia ufficiale di Vichy.
Erano posizioni che rifiutavano la distinzione tra destra e sinistra, affiancando alla simpatia per Hitler quella per Stalin, all'apprezzamento per il fascismo quello per il comunismo, entrambi definiti da Robert Brasillach «la poesia stessa del XX secolo». Tutto questo in un'atmosfera di esaltato nichilismo, di fascinazione per la rovina e la morte. E con la morte si concluse nel 1945 l'esistenza sia di Drieu sia di Brasillach, i due scrittori forse più rappresentativi del collaborazionismo parigino: suicida il primo, giustiziato il secondo, nonostante un appello in suo favore firmato anche da intellettuali che avevano partecipato alla Resistenza. Per una singolare coincidenza nei loro ultimi giorni entrambi, come ricorda Serra, si erano dedicati alla lettura di Shakespeare.

l’Unità 9.1.12
Particelle, la caccia continua
Anche se gli esperimenti sul «bosone di Higgs» hanno fatto grossi passi avanti la fisica ha bisogno di nuove scoperte perché i conti tornino
di Pietro Greco


La caccia non è finita. Che Lhc abbia trovato o meno il «bosone di Higgs», occorrerà che in ogni caso continui il suo lavoro e trovi nuove particelle se vuol fare tornare i conti della fisica. A sostenerlo, su Nature, è John Ellis, fisico teorico del King’s College di Londra e da anni collaboratore del Cern di Ginevra. Naturalmente Ellis non è il solo a pensarlo. Ha semplicemente messo in chiaro cosa c’è da fare ora che l’acceleratore Lhc ha trovato forti indizi (ma non la prova definitiva)
dell’esistenza del bosone di Higgs (la cossidetta particella di Dio) in una regione di energia di compresa tra 124 e 126 GeV.
In realtà dopo il 13 dicembre – data dell’annuncio della probabile scoperta del bosone di Higgs da parte di Fabiola Gianotti e Guido Tonelli, leader di Atlas e Cms, due tra i principali esperimenti condotti con Lhc – nuove particelle il grande acceleratore le ha già trovate: un gruppo di fisici inglesi studiando proprio i dati di Atlas, ha reso noto a fine anno di aver individuato la particella Chi-b(3P). Si tratta di un mesone e, come tutti i mesoni, è composta da un quark (in questo caso il quark beauty) e dalla sua antiparticella. Ma Ellis non si riferiva a Chi-b(3P). O, almeno, non solo a quela. Ma a particelle cruciali, capaci di tenere in piedi il Modello Standard delle Alte Energie e di andare oltre questa teoria. Ellis prospetta diversi scenari. Nel primo e, a questo punto, nel più probabile, Lhc conferma la scoperta del bosone di Higgs intorno a 125 GeV. Proprio come previsto dal Modello Standard. Se è così siamo in un bel guaio. Perché se il bosone di Higgs è così leggero, allora calcoli teorici considerati affidabili dicono che il nostro universo si trova in uno stato energetico altamente instabile. E che – in un tempo indefinito – potrebbe collassare su se stesso, alla ricerca di uno stato energetico più stabile.
CATASTROFE COSMICA
Lo scenario della catastrofe cosmica – che finora non si è verificata e che lascia scettici molti colleghi di Ellis – può essere evitato solo se Lhc continua la sua caccia e trova, appunto, nuove particelle. Incrociamo dunque le dita, perché il destino dell’universo è nella mani di Susy (la teoria supersimmetrica). Tra qualche mese sapremo se Atlas e Cms si sono sbagliati o no. Se il bosone di Higgs esiste ed è leggero, come sembra. Nel caso, ormai improbabile ma non nullo, che si sia sbagliato, le possibilità sono tre. 1) Il bosone esiste, ma nella regione di energia superiore a 600 GeV, come previsto da alcune varianti del Modello Standard. In questo caso occorrerebbe che: Lhc trovi il bosone in questa regione; che trovi tracce di nuove interazione tra particelle note; che, infine, trovi «nuova fisica» in grado di discernere tra le infinite interazioni possibili di cui sarebbe responsabile un bosone di Higgs così pesante.
2) Il bosone esiste, in una regione compresa tra 130 e 600 GeV. I dati raccolti da Lhc escludono questo scenario. Ma se il bosone esiste in questa regione di energia, allora occorrerebbe trovare le prove o di nuove forme di decadimento, non previste dal Modello Standard, della particella che regala la massa a molte altre; oppure di diversi tempi di decadimento.
3) Lo scenario forse per i fisici più allettante. Il bosone di Higgs non esiste affatto e, dunque, non sarà trovato. Allora bisognerà trovare nuovi modi, che vanno ben oltre il Modello Standard, di spiegare perché alcune particelle elementari hanno una massa e altre no. In ogni caso, qualsiasi sia lo scenario che emergerà ci sarà lavoro per i fisici. Sia per i «cacciatori di particelle», gli sperimentali che dovranno catturare nuove, minuscole prede; sia per i teorici che dovranno illuminare nuove zone di quella grande cattedrale che è la teoria fisica delle alte energie.

Repubblica 9.1.12
La fine della reputazione
Così l´identità è diventata un brand pubblicitario
di Stefano Bartezzaghi


L´identità di ognuno ha una faccia interiore e una esteriore, la privacy e la pubblicità. I due poli opposti, uno centripeto e l´altro centrifugo, trovano un punto di contatto nell´area di ciò da cui la privacy viene difesa e su cui la pubblicità compie un´opera di costruzione: la reputazione.
È un buon periodo per parlare di reputazione. «It´s not about the money»: la battuta di Wall Street 2 è stata ripresa dalla filosofa Gloria Origgi in un articolo (il Fatto quotidiano) in cui ha mostrato come le poste reali del gioco finanziario siano affidabilità, credibilità, credito e quindi reputazione. Fra gli arbitri di tale gioco grande peso ha un´agenzia il cui nome, «Moody´s», per una coincidenza a modo suo illuminante,allude all´essere umorale e lunatico.
«Le imprese si governano con la riputazione»: non a imprese commerciali, industriali o finanziarie, allude il proverbio, né alle imprese amorose a cui si potrebbe pensare sapendo che ne è stato autore Pietro Aretino (che in realtà parlava di Giovanni dalle Bande Nere e di imprese guerresche). Si vede come già nel 1526 il termine aveva assunto il significato odierno. In origine, il reputare latino significava «fare i conti per bene» o anche «mettere in conto a qualcuno». Ma il suo significato neutro di «opinione condivisa nei riguardi di una persona» sembra il più delle volte specializzarsi nel senso di «opinione condivisa e favorevole». Lo stesso succede ad alcuni suoi parasinonimi, come stima, nome, considerazione o a una parola come fortuna. Sono nomi che stanno per una categoria (buona e cattiva reputazione; buona e cattiva sorte) ma sono anche i termini non marcati della categoria, ovvero i significati di default. La «reputazione» (come la fortuna) è quella buona, altrimenti viene specificato (il contrario avviene con la nomea, che di default è negativa). Lo si vede per esempio da tre versi di Lorenzo de´ Medici, proprio a proposito di privacy e reputazione: «Chi regge imperio e in capo tien corona / sanza reputazion non par che imperi / ne puossi dir sia privata persona».
Il concetto di reputazione, però, non pare godere (o aver goduto) proprio sempre della medesima reputazione. Non sempre, cioè, la reputazione positiva ha a sua volta una reputazione positiva. Nel principio di pubblicità e visibilità, per esempio, è implicito il famigerato «bene o male, basta che se ne parli», che rende positive espressioni come «chiacchierato» o l´inglese «the talk of the town». Addirittura è la reputazione negativa ad avere una reputazione positiva nei casi di «adorabile mascalzone», a cui si ispirano tutti i maledetti, gli antibuonisti e i cultori del politically uncorrect il cui decalogo si riassume nel comandamento «La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca» (da Sgarbi in poi, ce n´è un intero star system, il mainstream della trasgressione).
La cosa più interessante è però il rovescio: non quando la reputazione cattiva ha una reputazione buona, ma quando è la reputazione, anche buona, ad averne una cattiva. Altro che essere chiacchierato! Nelle famiglie aristocratiche si diceva che sui giornali ci si deve andare due volte: alla nascita e alla morte. A Voltaire si attribuisce la battuta con cui, a chi gli parlava di una certa Accademia di provincia «figlia dell´Académie Française», rispose: «Deve essere una figlia molto virtuosa, perché non ha mai fatto parlare di sé». L´inappariscenza e l´indistinzione, la vita appartata, quel «Per favore mi lasci nell´ombra» con cui Carlo Emilio Gadda si appellava invano all´intervistatore avevano la loro controparte nell´esistenza, oggi impensabile nel mondo del commercio, delle «società anonime».
Nel primo capitolo dei Promessi Sposi, don Abbondio ricorda di quando in passato aveva difeso la «riputazione» di don Rodrigo: per puro timore, non conoscendolo affatto. Esiste dunque la possibilità di una reputazione teorica, astratta quando non assolutamente immaginaria. È il tipo di reputazione che, negli stessi anni di Pietro Aretino, veniva studiata da Niccolò Machiavelli come strumento di dominio dell´opinione pubblica: «El fine suo non è quello adquisto o quella victoria, ma è darsi reputazione ne´ popoli sua e tenerli sospesi con la multiplicità delle faccende». Mostrarsi affaccendato, più che fare; «il fare» come sostantivo ed etichetta vuota anziché come verbo e azione effettiva e il «fatto!» come opinione autocelebrativa. Come anche la politica contemporanea dimostra (né possiamo illuderci di avere al proposito voltato pagina definitivamente) la reputazione perde il suo sostrato (quell´identità immateriale ma concreta e comprovabile, verificabile perché falsificabile, fatta di storia personale e memoria collettiva) e assume l´evanescenza dell´immagine. Brand, costruzione puramente comunicativa, ectoplasma di un´entità inconsistente e semi-fantasma, l´immagine (o reputazione immaginaria) cerca di divenire icona e di mettere così al riparo da ogni revisione storica. Nel mondo contemporaneo, chi è stato proclamato brutto, efficiente, spiritoso, scaltro, maldestro, saggio tende a rimanerlo. Sostituire l´articolato e mutevole dispiegarsi della reputazione al pregiudizio marmoreo dell´icona non è facile né gradito, perché è proporre le virtù della Cosa, opaca, ruvida e spigolosa, contro la trasparenza artificiale ma avvolgente del Mito. Nel mondo d´oggi, è come sostenere le virtù della pioggia contro quelle del solleone. O, a proposito di caldo e siccità, come predicare nel deserto.

Repubblica 9.1.12
La lingua come strumento di libertà nel pamphlet di Marramao
Quella letteratura contro il potere
Le opere di Kafka, Canetti e Müller al centro della disputa ingaggiata dal filosofo
di Nadia Fusini


L´ultimo libro del filosofo Giacomo Marramao (Contro il potere, Bompiani) si presenta col taglio agile del pamphlet – una forma espressiva dagli intenti polemici, che nel Settecento usò in maniera sublime uno scrittore sofisticato come Jonathan Swift. Esemplare la sua modesta proposta di risolvere la miseria dei nullatenenti irlandesi cattolici, ricchi però di figli, vendendo le loro creature, a tale scopo opportunamente ingrassate, ai proprietari anglo-irlandesi, perché se ne cibassero… E aggiungeva anche deliziose ricette. C´è poco da ridere, ci fu chi disse. In realtà, in tempi estremi, di fronte a mali estremi, la ragione non può che procedere per paradossi. Non a caso, negli ultimi tempi, il pamphlet, in quanto forma, ha ripreso vigore.
Secondo questa nuova tonalità, Marramao oggi riprende temi, su cui altre volte in modo più propriamente filosofico s´era soffermato: il potere, la politica, la potenza, il desiderio. Un´urgenza nuova sembra spingerlo a quelle stesse domande, applicandosi all´ascolto di scrittori-pensatori, che di fronte all´aporia della ragione si sono affidati alla "scrittura".
La scrittura e la differenza intitolava Jacques Derrida un testo giustamente famoso della fine degli anni ´60, dove per l´appunto si dimostrava come la filosofia non fosse un "genere" chiuso, ma costitutivamente aperto a contaminazioni feconde con la letteratura. Sì che, via via leggendo, la congiunzione paratattica del titolo del libro apriva a un´altra figura, quella retorica dell´endiadi, dove due termini esprimono un unico concetto. Allo stesso modo, nel libro di Marramao il potere e l´identità si stringono. Diventano la stessa cosa.
A questa conoscenza il filosofo – è lui a riconoscere il debito – arriva grazie alla frequentazione di Elias Canetti, che allena la sua mente a cogliere il dispostivo anti-metamorfico del potere; e alla lettura dei racconti di Franz Kafka, dove registra una nuova specie di critica dell´esperienza, quasi che il potere lo si conoscesse davvero solo così, nella violenza del contatto sensibile. Non c´è più grande esperto del potere di Kafka, afferma Marramao. Mentre l´incontro con Herta Müller, la scrittrice tedesca nata in Romania, esule nella sua propria lingua, accende nel filosofo italiano l´intuizione di come la disappropriazione dal proprio sé sia, pur nella sventura, una via d´accesso privilegiata alla verità dell´essere. Cui da sempre la filosofia ambisce. Il potere in rapporto alla verità è invece in difetto. Addirittura, alla verità dell´essere il potere si dimostra antagonista per la sua innata vocazione a contrastare il dinamismo, la molteplicità, la pluralità che appartengono al divenire. All´essere in potenza.
Mi è piaciuto questo libro, perché restituisce alla letteratura il prestigio di una speciale intimità con il senso dell´esistenza. Non a caso la polemica, nel senso di controversia e disputa, che Marramao ingaggia "contro il potere" prende avvio dalla figura dello "scrittore" – custode di un´idea della creatura umana in quanto essere in potenza; in potenza, non di potere. Potenza di cui dà testimonianza nella sua esaltazione della capacità di metamorfosi della lingua, nella lingua. È proprio nel linguaggio, che l´uomo si conosce capace di flessibilità; proprio perché gioca con la lingua si ritrova libero, in potenza, di potere congedarsi dalle vette del concetto per celebrare l´esperienza.
Nelle pagine finali la polemica stringe il fuoco sull´epoca nostra chiamando in scena, guarda caso, un linguista, Raffaele Simone. Si disegna qui la figura che sostiene tutto il libro: quella di una vera e propria Auseinandersetzung, un dibattimento in cui l´uno e l´altro si confrontano soprattutto sul bisogno reciproco – a ribadire che il pensiero vivo è di necessità dramma.