martedì 10 gennaio 2012

l’Unità 10.1.121
Intervista a Giuliano Amato
«Capitalismo in crisi. Dovranno salvarlo le sinistre europee»
L’ex premier che nel ’92 affrontò un altro passaggio drammatico: «Non solo battersi per l’equità. Bisogna anche pensare al futuro e a un nuovo patto sociale»
di Federica Fantozzi


Nel settembre del 1992 l’Italia era in una crisi drammatica. Giuliano Amato, da presidente del Consiglio, varò una manovra di entità tale 90 mila miliardi di lire da permetterci il primo avvicinamento ai parametri di Maastricht, e dunque di avviare il percorso per l’ingresso nell’euro. Scoppiarono polemiche furiose, a cominciare da quella sul prelievo forzoso sui conti correnti. Si capì però che l’Italia era salva. Lo è rimasta per vent’anni ma ora vive un altro momento critico.
Che differenze vede tra la crisi di allora e quella di oggi?
«Dal punto di vista del riaggiustamento finanziario interno, quando c’è un debito pubblico troppo alto e ci sono titoli di Stato senza compratori le esigenze di pareggio dei conti si somigliano tutte. Ma questa crisi va molto al di là dell’Italia. Presenta variabili più grandi di noi». Affrontabili in qualche modo?
«Con un linguaggio vecchio direi: dove sta andando il capitalismo? Cosa gli succede? Sembra aver perso la bussola del funzionamento, le sue dinamiche vengono messe in discussione. Le diseguaglianze gigantesche che crea lo privano della legittimazione sociale che gli è necessaria».
Da tempo si dibatte sui difetti del capitalismo, ma non si è mai trovata un’alternativa valida.
«Questa non è la prima crisi a porre simili interrogativi: successe anche negli anni ’20. E infatti io non credo che cadrà il capitalismo, ma che si impongano esigenze di profondo rinnovamento proprio come negli anni ’30. Qualcuno ha scritto che il capitalismo, vivendo di profondi squilibri, ogni qualche decennio esce di carreggiata e servono dei correttivi».
Quali correttivi vedrebbe in questo inizio di millennio?
«Secondo me dobbiamo prima chiederci se siamo pronti a misurarci con questo problema. È un fatto che uno storico come Giuseppe Berta chiede su Il Mulino alla sinistra italiana ed europea se stia cercando risposte a questo cruciale interrogativo».
Significa che la sinistra italiana e quella europea non hanno la percezione che l’Italia e l’Europa, se non il mondo, stanno andando a sbattere?
«Significa che si muove su un orizzonte più basso di quello. È attenta a tutelare gli interessi che rappresenta, agli ammortizzatori sociali, all’equità dei sacrifici chiesti. Cose essenziali, sia chiaro. Ma rimettere in carreggiata la macchina esige una riflessione di più alto livello che spero cominci. Fra l’altro i partiti socialisti e di centrosinistra sono forse attesi alla prova di governo in Francia, in Germania e in Italia».
Le sinistre si attardano su pensioni, articolo 18, cassa integrazione, mentre il mondo si capovolge?
«Non dico che difendano troppo il passato, ma che non sanno vedere il futuro. E questa impossibilità le induce a un atteggiamento difensivo. Forse tornare a Marx è troppo, ma fermarsi agli ammortizzatori sociali è troppo poco».
Qualche suggerimento?
«Disponiamo di cervelli e di una accumulazione culturale sufficienti per elevare il livello dell’analisi. Sul merito, mi limito a ricordare che il capitalismo ha ripreso a funzionare quando è riuscito a ristabilire insieme capacità di sviluppo e di coesione sociale». Insomma, i tempi sono maturi per un nuovo patto sociale? Nuove forme di distribuzione del reddito?
«Sì, serve un diverso patto sociale, che peraltro non si può più stipulare entro i confini nazionali. E questo è parte cospicua del nuovo problema che abbiamo di fronte».
Siamo alla vigilia di un nuovo Trattato europeo. È l’ultima chiamata per l’Ue? Che prospettive vede?
«È possibile che da questo tormentato lavorio esca un’Europa più forte e integrata con un Regno Unito più distanziato dall’eurozona. La difesa della stabilità dell’euro in crisi ha reso ineludibile una maggiore integrazione fiscale. È questo l’accordo intergovernativo di cui si discute. Ma l’integrazione fiscale è a sua volta insostenibile senza un’adeguata integrazione politica. È il percorso che si intravede».
Integrazione fiscale e politica con Londra solo moderatamente euroscettica. Non è troppo ottimista?
«La questione che pesa sulle nostre teste come un macigno riguarda i tempi. L’Europa storicamente si muove a passo di mesi se non anni, ma questa crisi non ce lo consente. Tutti abbiamo in testa una domanda: ce la faremo? Ebbene, il sì dipende dai tempi che ci metteremo».
L’euro ce la farà?
«La moneta unica e il suo futuro dipendono dalla nostra tempestività. Io sono abbastanza fiducioso. Siamo vicini all’accordo sulla disciplina fiscale a cui tiene tanto la Merkel. A quel punto saremo in condizione di chiedere alla Germania, che non potrà rifiutare, un impegno solidale comune per la crescita dell’eurozona». Lei è un sostenitore storico della Tobin Tax. Ma se Sarkozy la applica e Cameron no?
«Monti è consapevole delle difficoltà. Se Cameron dice no si crea un bel problema. Merkel e Sarkozy ritengono che si convincerà. Ma io non ne sono affatto convinto».
La manovra del governo Monti è alle spalle ma gli effetti stanno arrivando. Il rigore c’è. L’equità sociale?
«Ho detto ai miei amici nel governo che avrei cominciato subito toccando in modo significativo redditi e pensioni alte. Fui il primo a introdurre il contributo solidale sulle pensioni alte: ora era giusto ripristinarlo e accentuarlo. L’abbrivio della manovra aveva suscitato molte critiche, poi alzando la soglia delle pensioni non indicizzate, si è raddrizzata la rotta».
Nessun altra critica?
«C’è stata una reazione negativa per l’aumento delle accise, benzina in particolare. Monti con signorilità se lo è accollato. Ma bisogna dire la verità: è stata una richiesta delle Regioni per finanziare il trasporto locale».
Il blitz del fisco a Cortina: demagogia o choc salutare per il Paese?
«Trovo giusta l’operazione in sé. Se ci vai quando non c’è nessuno sprechi solo tempo. Ma è stato opportuno non rendere pubblici casi singoli. È giusto perseguire chi danneggia il bene comune, ma bisogna evitare la sensazione che siamo tornati all’uso della gogna, di cui c’è gran voglia in questi tempi inquieti, ma che non appartiene ai metodi democratici». Secondo lei, la cosiddetta Seconda Repubblica è giunta alla fine? E sarebbe opportuno intervenire durante la fase Monti per ridisegnare un ordine istituzionale?
«A mio avviso è essenziale cambiare la legge elettorale a prescindere dal responso della Corte Costituzionale. Mentre lavorare sul ruolo del capo dello Stato perché ampliato in una fase di crisi sarebbe sbagliato e dimostrerebbe scarsa comprensione delle dinamiche del governo parlamentare in tempo di crisi».
Insomma, non c’è un presidenzialismo strisciante?
«È una lettura sbagliata. Ne ho viste tante in questo periodo».

Corriere della Sera 10.1.12
Le malattie del capitalismo tra eccessi e disillusioni
Il nuovo malessere verso il capitalismo Sotto accusa divario dei redditi e impoverimento del ceto medio
di Massimo Gaggi


C'era una volta la contrapposizione tra capitalismo anglosassone, basato sulla forza del mercato, poco generoso verso i perdenti ma anche capace di premiare i meritevoli e di produrre ricchezza, e il «modello renano» franco-tedesco: un capitalismo «corretto» da molte tutele sociali e dall'intervento pubblico in economia. Oggi, mentre l'Europa deve rivedere Welfare, ruolo e spesa dello Stato, anche il modello anglosassone, afflitto da pesanti squilibri, finisce nel mirino.
Un dibattito sempre più intenso sul suo futuro si sviluppa — tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti — tra leader delle forze produttive e della finanza, mondo politico, organismi sociali, accademici e analisti dei grandi media.
Il malessere nei confronti del capitalismo è ormai diffuso anche negli Usa: i sondaggi indicano che anche nel Paese storicamente più liberista, a fronte di un 50 per cento di cittadini a favore del mercato, c'è un 40 per cento di delusi (soprattutto giovani e minoranze etniche). Un clima che ha spinto anche grandi testate come il Financial Times, l'Atlantic, riviste politiche come Foreign Affairs e Foreign Policy a interrogarsi sul futuro del modello economico occidentale. Si passano al microscopio gli effetti di cambiamenti ormai consolidati come la globalizzazione e riforme fiscali che, soprattutto in America, hanno favorito una «polarizzazione» dei redditi e il progressivo impoverimento del ceto medio.
E si ragiona, come ha fatto ieri John Plender aprendo una grande inchiesta del quotidiano finanziario britannico, sugli eccessi del sistema finanziario che ha portato l'intero sistema creditizio sull'orlo del «meltdown» e ha innescato meccanismi spropositati di arricchimento e distorsioni del sistema retributivo che divengono sempre più inaccettabili man mano che le società occidentali subiscono il morso del loro progressivo impoverimento.
Patologie cresciute all'ombra di un'interpretazione troppo radicale del liberismo e di una «deregulation» che ha azzerato anche i controlli necessari, oltre a quelli puramente burocratici. Queste riflessioni trovano in Inghilterra molte voci favorevoli a una «rifondazione» del capitalismo, mentre negli Stati Uniti, con accenti diversi tra progressisti e conservatori, la tendenza è a proporre correttivi che non mettano, comunque, in discussione l'impianto generale.
Sempre sul Financial Times Larry Summers, docente di Harvard ex ministro del Tesoro di Bill Clinton e consigliere economico di Obama parla di un sistema da riformare ma senza rimetterne in discussione i cardini. Mentre i liberali britannici dell'Economist usano addirittura il termine «fatwa» per descrivere l'intransigenza degli slogan coi quali i candidati repubblicani alla Casa Bianca ripropongono un modello economico ultraliberista, basato sulla «deregulation» reaganiana.
Problemi del capitalismo e dell'impatto politico del cambiamento della distribuzione della ricchezza non certo nuovi (l'autore di questo articolo scrive da almeno sei anni di fine del ceto medio come conseguenza anche della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica) ma che sono diventati oggetto di discussioni «incendiarie» all'indomani del crollo della Lehman Brothers, nell'autunno del 2008. E che, dopo una pausa, sono riemerse nelle ultime settimane quando la tempesta ha travolto i Paesi dell'euro. Una vera crisi di sistema, se non proprio una crisi terminale, che ha portato molti a sottolineare i rischi per tutti i Paesi dell'Occidente di un drammatico divorzio tra capitalismo e democrazia, se non si riformano i meccanismi del mercato dando luogo a una sorta di «nuovo inizio» con meno eccessi della finanza, meno avidità e una distribuzione meno squilibrata dei redditi.
Sono discussioni difficili da sviluppare, negli Usa, in un periodo di confronto elettorale esasperato, in cui ognuno si trincera dietro le sue bandiere, con le accuse di usare un linguaggio classista venato di marxismo che non vengono rivolte solo dai repubblicani ad Obama, ma che rimbalzano anche all'interno del mondo politico conservatore: alla vigilia del voto in New Hampshire, ad esempio, per cercare di arrestare la corsa di Mitt Romney, Rick Santorum non ha trovato di meglio che accusare l'ex governatore del Massachusetts di criptosocialismo per aver usato l'espressione «classe media», a suo avviso imbevuta di cultura marxista.
Ma dopo le elezioni verrà il momento di riflettere seriamente sulla sostenibilità di molti meccanismi e il loro adeguamento a una realtà che è cambiata. Intanto nei «think tank» l'elaborazione è già iniziata, alimentata anche da analisi molto approfondite come l'indagine sulle radici ideologiche del sistema economico-sociale nel quale viviamo condotta dalla rivista americana Foreign Affairs.
Niente di nuovo, sostiene il Financial Times, ricordando come anche nell'Ottocento, dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, vennero le denunce degli squilibri e delle sofferenze sociali di scrittori come Charles Dickens, il marxismo e le riforme che corressero le durezze del capitalismo selvaggio. Oggi, forse, è tutto più complesso perché alle distorsioni del sistema economico si aggiungono due fenomeni nuovi e inediti come la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie digitali che — a differenza di quelle meccaniche ed elettriche dei secoli scorsi — anziché produrre più posti di lavoro, favoriscono un calo degli occupati.

l’Unità 10.1.121
Contratto prevalente
e tutele ai neoassunti Definita la proposta Pd
Definita la proposta del Pd sulla riforma del mercato del lavoro: contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18. Bersani: «Malinconico dia spiegazioni sulla vicenda delle vacanze pagate da altri».
di Simone Collini


Un contratto prevalente che preveda un periodo formativo di massimo tre anni al termine del quale siano garantite tutte le tutele, articolo 18 compreso, indennizzo monetario per chi venisse licenziato nella fase d’ingresso, riduzione degli oneri contributivi per le aziende che stabilizzano. Anche le ultime limature sono state fatte e dopodomani Stefano Fassina illustrerà ai membri del forum Lavoro riuniti nella sala Berlinguer di Montecitorio la proposta con cui il Pd andrà al confronto col governo. Pier Luigi Bersani ha chiesto ai dirigenti del partito di evitare di entrare nel dibattito, ora che la partita sul mercato del lavoro è tutta giocata tra esecutivo e parti sociali. Ma al tempo stesso ha dato mandato al dipartimento Lavoro, guidato da Fassina, di mettere a punto un testo che tenga conto di quanto deciso all’Assemblea nazionale del maggio 2010 e alla Conferenza nazionale sul lavoro dell’estate scorsa.
L’ARTICOLO 18 NON SI TOCCA
Il responsabile Economia del Pd ha lavorato sul materiale approvato in quei due appuntamenti e sui contenuti delle proposte di legge presentate al Senato da Paolo Nerozzi (ispirata dalle teorie degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e fortemente sostenuta da Franco Marini) e alla Camera da Cesare Damiano e da Marianna Madia. Nella bozza finale che verrà illustrata dopodomani ai parlamentari Pd membri delle commissioni Lavoro di Camera e Senato (ma sono stati invitati alla discussione anche il professore di economia alla Cattolica di Milano Carlo Dell’Aringa e altri docenti universitari) non vengono invece riprese le proposte di Pietro Ichino, primo firmatario di un progetto di legge che prevede un superamento dell’articolo 18 (quelli economici, tecnici e organizzativi vengono fatti rientrare tra i motivi per giusta causa per i licenziamenti individuali).
Il giuslavorista resta convinto che il modello della “flexsecurity” sia preferibile a quello centrato sul contratto prevalente d’ingresso, e la discussione non mancherà. Nel Pd si sta però lavorando per arrivare a un confronto senza aspre tensioni, e il fatto che Ichino abbia giudicato un «ottimo compromesso» la proposta di legge Nerozzi-Marini se la sua si rivelasse «non politicamente praticabile», fa ben sperare Bersani, che vuole chiudere l’Assemblea nazionale di Roma del 20 e 21 con un voto unitario sulla posizione del Pd sulla riforma del mercato del lavoro.
CAMBIAMENTO E COESIONE, INSIEME
Bersani, che ha fissato per i prossimi giorni un incontro col presidente del Consiglio Monti, valuta intanto positivamente che nel fronte sindacale tutti condividano la necessità di un confronto unitario. Per il leader del Pd «cambiamento e coesione devono andare insieme», cioè l’Italia può uscire dalla crisi solo se saranno approvate le riforme necessarie a garantire la crescita senza provocare lacerazioni nel tessuto sociale. Contratti tra il partito e le organizzazioni sindacali sono continui, in questi giorni. Così come tra partito e governo e anche con le altre forze che sostengono l’esecutivo in Parlamento, alle quali Bersani propone una piattaforma comune italiana da sostenere in Europa.
La riforma del mercato del lavoro è troppo delicata per non essere il più possibile condivisa. Così come altre riforme necessarie all’Italia per superare questo brutto momento. Bersani dice nel corso della puntata di “8 e mezzo” che quello Monti non lo giudica un governo tecnico, e che anzi un esecutivo come quello attuale «è preferibile a uno fatto col manuale Cencelli». Il leader del Pd sottolinea però durante la trasmissione televisiva anche se è vero che non tutta la politica è «sporca» è anche vero che ora bisogna «ripristinare un rapporto decente tra cittadini e istituzioni».
Bersani, intervistato da Lilli Gruber, lancia anche altri messaggi all’indirizzo del governo: in generale ad accelerare sulle liberlalizzazioni, a Monti ad avere «coraggio» e al sottosegretario Carlo Malinconico a dare spiegazioni sulla vicenda delle vacanze che gli sarebbero state pagate da imprenditori della “cricca” dei grandi appalti del G8: «Non so se il fatto sia vero o no ma l’idea della trasparenza è una esigenza dichiarata e conclamata. Dovrebbe dare spiegazioni»

l’Unità 10.1.121
La famiglia secondo Monti
Il Pd non deve tacere sui diritti civili
di Aurelio Mancuso


T ra le tante crisi che stiamo vivendo, sicuramente, ce n’è una che dalla classe dirigente italiana non è considerata degna di attenzione, e che invece contribuisce all’attuale fase di enorme difficoltà. Si tratta della scomparsa dal dibattito pubblico dei diritti civili e delle libertà individuali. In Italia le sinistre politiche, intellettuali e sociali non ritengono questo tema decisivo per il cambiamento, anzi come sappiamo, si giudica fastidioso, fonte di divisione da rimandare a tempi migliori (che non arrivano mai).
Nel Pd, è stata istituita molti mesi fa una commissione ad hoc presieduta da Rosy Bindi e nulla trapela sulla discussione in atto e i tempi per l’elaborazione di una proposta. Per fortuna almeno su una questione, i diritti delle persone migranti, il Pd ha preso posizione con chiarezza, impegnandosi fuori e dentro il Parlamento affinché sul voto e la cittadinanza, si facciano passi in avanti. Assai positiva anche la recente battaglia sull’abolizione della tassa per il rinnovo dei permessi di soggiorno, che è un balzello apertamente razzista e che colpisce chi è in difficoltà. Le sinistre, che siano riformiste o antagoniste, però non riescono a poco più di un anno dalla data fissata per le elezioni politiche, a occuparsi del fatto che fuoriuscire dalle crisi, significa occuparsi della modernizzazione della legislazione che riguarda l’organizzazione sociale, le relazioni familiari, la salvaguardia dei diritti dei minori, dei giovani e delle donne.
Stupisce che Monti, che di Europa dovrebbe intendersi, abbia per ora fornito risposte di retroguardia, conservative di visioni ideologiche che non hanno alcuna rispondenza nella realtà. Aver per esempio introdotto una sorta di quoziente familiare nella nuova Imu, è un fatto grave, tanto più che i gruppi parlamentari del Pd, avrebbero dovuto riflettere sul fatto che fare sconti alle famiglie sulla base del numero di figli senza agganciarli al reddito, si prefigura come una vera e propria ingiustizia. Vedremo quali proposte avanzerà il neo ministro alla famiglia (purtroppo declinata al singolare), certo è che avergli attribuito questa delega e quella sulle attività antidiscriminatorie togliendole alle Pari Opportunità e al Welfare, è un messaggio preciso: diritti civili e diritti sociali devono rimanere separati, perché non si devono intrecciare in un progetto complessivo di riforma. Perché il Pd, ma nemmeno le altre sinistre dentro e fuori il Parlamento, hanno taciuto? Illudersi che la questione dei diritti umani e civili potrà essere in quest’anno elusa, per poi poterla trattare con insufficienza nei programmi elettorali, significa perdere sempre più contatto con la società italiana.

l’Unità 10.1.121
Un governo dignitoso? Rispetto al precedente,,,
di Enzo Costa


Vi riporto qui di seguito, testualmente, una conversazione che ascolto da qualche settimana, sempre uguale, avente per oggetto la politica italiana, i suoi protagonisti passati e presenti, il loro incidere nella nostra vita quotidiana, nel nostro futuro, nella nostra percezione delle cose. È un colloquio anche acceso, ma sempre civile e soprattutto illuminante, che avviene fra me e me: come dialogo è lievemente asimmetrico, quanto a parole pronunciate, ma al di là della differente capacità di sintesi entrambi gli interlocutori, a mio avviso, posseggono una certa eloquenza. Dice una parte minoritaria di me: «Ma è possibile? Ma è possibile che tu ti accontenti del governo Monti anche solo da un punto di vista estetico-stilistico? Ma è possibile che tu prenda già come manna dal Cielo il fatto che adesso, dopo tanta vergogna, non ci vergogniamo più, avendo un Premier affidabile e presentabile, che parla un ottimo italiano ed un buon inglese, che essendo dotato di un raffinato senso dell’umorismo non racconta barzellette terrificanti, che non considera la politica come la prosecuzione del bunga bunga con altri mezzi e qualche vestito, che viene accolto in Europa con stima e considerazione, e non con risatine di scherno? Ma è possibile che tu trovi motivi di conforto anche soltanto dal fatto di avere ministri seri, competenti e preparati, al posto di macchiette da talk-show, esecutori di pernacchie e santanché, a prescindere da quello che questi nuovi ministri hanno fatto, stanno facendo e si accingono a fare? Ma è possibile che ti sia sufficiente la certezza di essere uscito dal tunnel dei neutrini per scorgere davanti a te una luce calda, forte e rassicurante, quando in realtà stiamo attraversando tutti quanti il buio di una crisi sempre più nera? Ma è possibile che ti basti questo per reggere provvedimenti economici pesanti, non sempre equi, che uno di sinistra come te avrebbe di sicuro voluto meno onerosi per i ceti più deboli, un po’ più duri nei confronti di quelli più agiati, e molto, molto, molto più duri verso furbi, furbetti ed evasori? Ma è possibile che tu arrivi al punto di digerire misure indigeribili, di sopportare tagli insopportabili, di accettare rinvii inaccettabili, di tollerare prudenze intollerabili, soltanto perché tutto ciò proviene da un governo finalmente composto da persone antropologicamente, prima ancora che politicamente, dignitose?». La parte maggioritaria di me, che è più laconica, incalzata da questa travolgente filippica in forma di impietose domande, valuta con attenzione gli argomenti ascoltati, ci pensa su, ci ripensa ancora un po’, e poi, infine, risponde: «Sì, è possibile».

Repubblica 10.1.12
I partiti alla ricerca della fiducia perduta
di Guido Crainz


Doveva cacciarlo senza aspettare che montasse la vergogna e sarebbe stata alta politica se Mario Monti l´avesse licenziato in diretta tv.
Anacronistici da tempo, e resi sempre più intollerabili dalla crisi che l´Italia attraversa e dai costi altissimi che è costretta a pagare (costretta, in primo luogo, dalla irresponsabilità del ceto politico che ha governato). Resi intollerabili, anche, dall´improntitudine con cui alcuni parlamentari hanno persino negato la realtà, presentandosi come i meno pagati d´Europa: spesso sono gli stessi pronti a scendere in campo in difesa dei "poveri ricchi" e a bollare un normale e doveroso controllo come ingiusta vessazione e nefanda lotta di classe.
Mi colpì dolorosamente molti anni fa un rapporto del prefetto di Belluno conservato negli archivi dello Stato e scritto subito dopo il Capodanno del 1964. Segnalava il "vasto malumore, specie nel Cadore" per i blocchi stradali "effettuati dai superstiti del Vajont": avevano disturbato coloro che si recavano a festeggiare il nuovo anno a Cortina. Che persone indelicate, quegli abitanti di Erto, Casso e Longarone: chissà cosa ne avrebbero detto Daniela Santanchè e Fabrizio Cicchitto.
Colpisce l´arroganza esibita nel difendere privilegi e immunità che nacquero per opposte ragioni. Nell´Italia liberale l´elezione al Parlamento tutelò i dirigenti dei Fasci siciliani ingiustamente incarcerati o i socialisti e i democratici colpiti dalla repressione del 1898: quella, per capirci, iniziata con le cannonate del generale Bava Beccaris. Che c´entrano, di grazia, i Cosentino e i Papa con Nicola Barbato e Filippo Turati?
Colpisce ancor di più la pervicacia con cui un "sistema dei partiti senza partiti" sta impedendo una riduzione dei propri costi immediata e radicale come i sacrifici imposti ai cittadini. Sono cecità che abbiamo già visto in passato, assieme alle loro devastanti conseguenze.
È esemplare la storia del finanziamento pubblico, varato nel 1974 per moralizzare la politica – si disse – dopo che le "tangenti petrolifere" avevano mostrato una corruzione diffusa e metodica, con percentuali fisse. Fu zittito chi chiedeva controlli rigorosi, e già quattro anni dopo un referendum portò alla luce le inaspettate dimensioni del disagio e la montante protesta dei cittadini. Quella legge fu poi generosamente rifinanziata ma l´inesistenza di controlli reali fu confermata e alimentò anch´essa il crescere della corruzione. E il discredito della politica, nella totale cecità dei partiti: ancora nel 1991 Craxi pensava che quel discredito fosse largamente sopravvalutato (lo ha testimoniato Luigi Covatta in un bel libro, Menscevichi). Quel ceto politico ostentò una immobilità statuaria, come fu detto, di fronte alle voragini che si stavano aprendo: e fu poi travolto dal crollo. Dilagò così un´antipolitica che aveva in realtà al suo interno tutti i peggiori guasti della "prima Repubblica".
La stessa immobilità statuaria si ripropone oggi, e di nuovo i partiti sembrano del tutto inconsapevoli delle conseguenze disastrose del suo prolungarsi: a prescindere anche dagli ulteriori scampoli di indecenza offerti dal Pdl e dalle sue sparse propaggini.
Anche oggi, infine, tutto ciò avviene nella sostanziale assenza di alternative. Allora il Pci-Pds pagò a carissimo prezzo non solo il proprio coinvolgimento, sia pur parziale, nella corruzione ma anche la sua incapacità di proporre modalità diverse della politica: lasciò così campo libero all´esito peggiore di quella crisi.
Questo stesso nodo si ripropone oggi ed è decisivo per tutti che la spirale si inverta, che si inneschi davvero un processo di ricostruzione. Fa malissimo il Partito democratico a sottovalutare il logoramento crescente della sua stessa credibilità: cioè la credibilità dell´unica forza che può realizzare il cambiamento. E ha fatto un gravissimo errore a perdere sin qui tutte le occasioni possibili. A non dare segnali forti. A non avanzare proposte radicali su questo terreno. È un banco di prova urgentissimo, forse l´ultima possibilità di riaprire il dialogo con i cittadini: solo il 4% di essi, secondo l´indagine Demos-la Repubblica pubblicata ieri, ha ancora fiducia nei partiti. E quasi un italiano su due pensa che la democrazia possa funzionare senza di essi. Anche al di là di questa indagine, del resto, sono sempre più numerosi gli elettori del Partito democratico che vincolano il proprio voto futuro a scelte nette, e nettamente alternative all´esistente. Scelte che contribuiscano a far cessare, anche, l´occupazione partitica dello Stato e degli enti pubblici, e da questo punto di vista la Rai è uno snodo essenziale: non a caso il Pdl è insorto in forze appena Monti ha espresso la sacrosanta e benemerita intenzione di affrontare anche questa materia.
Qualche mese fa Mario Pirani propose al centrosinistra di presentare progetti chiari contro i costi della politica e di rafforzarli con scelte unilaterali, concrete e simboliche al tempo stesso: ivi compresa la riduzione dei compensi dei propri parlamentari, consiglieri regionali e così via, impegnando il denaro rimanente in forme di solidarietà sociale (Gli stipendi da dimezzare, "la Repubblica", 20 luglio 2011).
Tutte le ragioni sottese a quella proposta sono state drammaticamente confermate in questi mesi: in primo luogo l´estrema gravità della situazione economica e la pericolosità delle derive che essa può alimentare. Il bisogno assoluto, quindi, di una proposta politica credibile, limpida nelle sue modalità e nei soggetti che la propongono.

La Stampa 10.1.12
I “senza speranza” in Europa sono 8 milioni: uno su tre è italiano
L’impietoso quadro del rapporto Eurostat vede l’Italia all’ultimo posto nella Ue
di Rosaria Talarico


La differenza col nostro paese è data anche dai sussidi a chi si iscrive nelle liste di disoccupati
11,3%" Solo in Italia La percentuale degli italiani che hanno rinunciato a trovarlo
2,7 Milioni di rassegnati Il totale delle persone che in Italia hanno perso la speranza di lavorare
"1,3% Così in Germania Nel paese più virtuoso solo l’1,3 per cento ha smesso di cercare lavoro
3,5% La media nella Ue a 27 La percentuale rispetto al totale della forza lavoro in Europa"
1,1% Gli arresi in Francia Buon risultato anche per la Francia dove solo l’1,1% non lo cerca più
8,3% La percentuale della Bulgaria Coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro,meno che in Italia
In Germania è molto alto il part-time che da noi si traduce spesso in lavoro sommerso

L’esercito degli sfiduciati italiani è il più numeroso d'Europa. Nel nostro Paese il numero di «scoraggiati» (come l'Istat definisce coloro i quali non hanno un lavoro né lo cercano più) è pari alla metà europea. A dirlo è un nuovo rapporto Eurostat. Nell' Europa a 27 ammontano a 8 milioni 250 mila coloro che non cercano un impiego, ma sono disponibili a lavorare (3,5% della forza lavoro). E l'Italia è il Paese con il più alto numero: ne conta ben 2,7 milioni (l'11,1% della forza lavoro). Vuol dire che è italiana quasi una persona su tre senza più speranza di trovare impiego. Se poi si restringe lo sguardo ai soli paesi dell'area euro, il numero di chi è disponibile a lavorare ma non cerca più è di 5,5 milioni e uno su due è italiano.
Tra i Paesi con le percentuali più alte di «senza speranza» ci sono Bulgaria (8,3%) e Lettonia (8,0%). Mentre Stati come Belgio (0,7%), Francia (1,1%) e Germania (1,3%) vantano le quote minime, che evidenziano come, nonostante la crisi, in questi Paesi il mercato del lavoro è ancora in grado di dare speranza a chi è senza occupazione. Prova a dare una spiegazione tecnica l'economista Irene Tinagli: «In molti paesi europei esistono sussidi alla disoccupazione che prevedono che si abbia un ruolo attivo nella ricerca del lavoro e obbligano ad essere iscritti nelle liste. Quindi è fisiologico che le quote siano più basse. In Italia non è così ed anche per questo abbiamo più sfiduciati e meno disoccupati, a differenza della Spagna ad esempio».
Bruno Manghi, sociologo ed ex sindacalista della Cisl, invita invece a considerare come questo sia un effetto della crisi che «morde dove c'è operosità. È scontato che la quota di scoraggiati sia a Catanzaro, meno che sia a Varese o Novara. L'aggressività della crisi si vede proprio dal fatto che tocca i posti dove un tempo le imprese si contendevano i lavoratori». Manghi invita anche a usare cautela verso «queste fotografie statistiche che sono valide in un dato momento. Quel che non sappiamo è la cronicizzazione. Se chi è scoraggiato resta in questa situazione più di un anno siamo di fronte a un problema sociale molto grave, se invece c'è una rotazione è diverso. Quel che conta nella disoccupazione è la lunga durata». Per Manghi, però, «la condizione materiale tra noi e l'Europa non è così dissimile. In paesi virtuosi come la Germania c'è un numero straordinario di part-time a basso reddito (400 euro al mese) che fa emergere una quota che da noi va invece verso il sommerso. È quella la differenza sostanziale, l'arrangiarsi non regolare». Sulla stessa linea l'economista Stefano Zamagni: «L'economia sommersa in Italia vale 270 miliardi l'anno, una cifra enorme. Oltre questo problema, bisogna pensare a cambiare il modello di organizzazione delle imprese. Il taylorismo è finito. Oggi non basta più un capo che pensa, ma devono farlo tutti. E ciò è possibile solo se i lavoratori sono trattati come persone e non come merci. Bisogna recuperare la lezione dell'economista inglese Alfred Marshall: «L'impresa deve essere un luogo di formazione del carattere umano».
Per quanto riguarda gli scoraggiati la spiegazione di Zamagni è da economista puro: «Cercare lavoro comporta delle spese, il cosiddetto costo di transazione, che razionalmente si decide di non sostenere più nel momento in cui la probabilità di avere un lavoro è molto bassa».

La Stampa 10.1.12
Il “riscatto” dei partiti passa per la legge elettorale
di Marcello Sorgi


La ripresa politica dopo la parentesi delle festività trova i partiti, e non solo quelli della larga maggioranza che sostiene il governo, in difficoltà. Nessuno lo ammetterà mai esplicitamente, ma è evidente che si sta allargando la distanza tra il presidente del consiglio proiettato a negoziare in Europa con Francia, Germania e Inghilterra le strategie anticrisi, e le forze politiche italiane, da destra a sinistra, impegnate a misurarsi sui contenuti della fase due del governo, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, per cercare di contenerne gli effetti sul proprio elettorato.
Nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente di una sorta di «resa» della politica al «ciclone» Monti, e dopo le prime, deboli reazioni di domenica sera, l'intervista del premier a Fabio Fazio su Rai 3 è stata letta come l'annuncio di una nuova serie di iniziative del governo sulle quali ai partiti resterà ben poco da dire. E che il Parlamento non potrà che approvare sollecitamente, sotto la spinta, sia dei mercati, sia di tutti gli indicatori di crisi che continuano ad essere allarmanti rispetto all'Italia.
Nell'immediato i due banchi di prova su cui la politica potrebbe cercare riscatto sono la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Sulla prima si comincia a vedere qualcosa di più di segnali di fumo tra centrodestra e centrosinistra, e la decisione della Corte costituzionale sui referendum, attesa per domani, non potrà che funzionare da acceleratore di un confronto fin qui pigro, specie se la sentenza che uscirà dal Palazzo della Consulta sarà a favore dell'ammissibilità delle consultazioni. Accanto alle due ipotesi prevalenti di sistemi più proporzionali, copiati da quello tedesco o da quello spagnolo, comincia a circolare un'ipotesi, ufficiosa, a maturata tra i promotori dei referendum, di una specie di Mattarellum diluito, metà maggioritario con collegi uninominali e metà (non più un quarto, com'era fino al 2001) proporzionale: un tentativo di aggirare le resistenze del Terzo polo, che vedono nel ritorno alla vecchia legge, che potrebbe uscire dalle urne referendarie, un modo di riobbligarlo a dichiarare le proprie alleanze prima del voto.
Quanto al lavoro, il Pd sembra vicino all'uscita dal lungo travaglio che lo ha tormentato in queste settimane e al parto di una proposta unitaria sulla flessibilità che dovrebbe essere sottoposta al governo. Una svolta destinata ad influire anche sul confronto tra la ministra del lavoro Fornero e i sindacati, che fin qui ha segnato il passo.

La Stampa 10.1.12
Monti osservato speciale sabato in visita dal Papa
Poi vedrà Bertone e Bagnasco: sul piatto questioni ardue come l’Imu alla Chiesa
di Ugo Magri


Se vorrà una benedizione speciale del Santo Padre (e solo lui sa quanto ne avrebbe bisogno), Mario Monti dovrà meritarsela. Ne ha l’occasione: il presidente del Consiglio sabato sarà ricevuto Oltretevere. In sé, nulla di clamoroso. Fa parte della consuetudine che ogni nuovo capo del governo domandi di vedere il Papa (Monti aveva inoltrato di persona la richiesta profittando del saluto a Ratzinger in partenza per il Benin). Ed è nella prassi che l’appuntamento venga concesso con garbata sollecitudine. Monti è lì da due mesi, quindi siamo nei tempi. Il Papa e il presidente del Consiglio si vedranno a quattr’occhi. Seguirà un saluto ai familiari nonché ai principali collaboratori del premier. Gli unici due «strappi» alla consuetudine vennero fatti per D’Alema, quando il primo presidente del Consiglio ex-Pci venne ricevuto solennemente da Wojtyla (che nella caduta del Muro aveva avuto un ruolo), e poi per Berlusconi. Al suo colloquio privato venne ammesso eccezionalmente Letta in quanto Gentiluomo di Sua Santità, sebbene siano in molti a sospettare che partecipò perché Benedetto XVI gradiva un testimone.
La conversazione con Monti si snoderà lungo i binari che di qui a sabato verranno fissati d’intesa col segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, e con il presidente della Cei, Bagnasco. Mentre con il Numero Uno il discorso volerà alto, su temi generalissimi e forse un filino accademici trattandosi in fondo di due professori, con Bertone e con Bagnasco il premier si confronterà su questioni concrete. Non solo l’applicazione dell’Imu ai beni ecclesiastici, dove si registrano passi avanti però tanta strada resta da fare; ma anche il sostegno alle scuole paritarie in tempi di crisi; i pagamenti agli ospedali e alle cliniche religiose che le Regioni pospongono all’infinito; gli aiuti alle famiglie, da garantire meglio attraverso la prospettata riforma degli ammortizzatori sociali. E poi i giovani, le opere di carità, i nodi della bioetica su cui il Parlamento non ha ancora cavato un ragno dal buco...
C’è tutto un mondo politico che attende i tre colloqui con un mix di speranza e di apprensione. Si tratta della variegata platea post-Dc, la quale punta sul governo Monti come ultimo salvagente dell’Italia, e giacché c’è pure come terreno d’incontro tra le varie anime cattoliche in vista di nuovi equilibri: quelli discussi al convegno di Todi appena tre mesi fa. Un buon esito della visita sarebbe di grande incoraggiamento. Il presidente del Consiglio per certi versi l’ha propiziato con due gesti di devozione: la Messa a Sant’Ivo della Sapienza alla vigilia dell’incarico, e l’omaggio alla tomba di Wojtyla con Donna Elsa la mattina di Capodanno. Ma il mondo vaticano è solcato da diffidenze millenarie. Per esempio, nei Sacri Palazzi avrebbero gradito interlocutori più fidati nei ministeri di indirizzo e di spesa, dove ai tempi del Cavaliere bastava una telefonata per risolvere situazioni rognose. Proprio ieri Benedetto XVI ha rievocato, con accenti alla Jemolo, gli alti e bassi delle relazioni StatoChiesa, auspicando che «l’Italia continui a promuovere un rapporto equilibrato, costituendo così un esempio». Parole cortesi ma circospette perché, appunto, la «raccomandazione» lassù molto in alto Monti se la dovrà guadagnare.

Corriere della Sera 10.1.12
Pablo Neruda, d'amore e di politica
La dittatura di Pinochet vedeva in lui un nemico Le sue parole sono più forti di qualsiasi ambiguità
di Antonio Moscato


Pablo Neruda non è mai stato dimenticato, anche negli anni più duri della dittatura di Pinochet. Al suo funerale, mentre ancora carceri e stadi traboccavano di detenuti, sfilarono tremila coraggiosi. A distanza di quasi quarant'anni il Partito comunista cileno ha chiesto la riesumazione del suo corpo per accertare con l'autopsia se a ucciderlo fu il cancro alla prostata con cui conviveva da qualche tempo o un'iniezione di veleno. Una richiesta che comunque non può aggiungere molto a quello che si sa: il Messico aveva inviato un aereo per portare in salvo il poeta, e proprio il giorno prima della partenza era avvenuto l'improvviso e imprevisto aggravamento che lo aveva stroncato in poche ore.
La giunta militare guidata da Pinochet (che oggi in Cile secondo il ministro dell'Educazione di Piñera non si dovrebbe più chiamare «dittatura») continuava a braccare i militanti della sinistra anche all'estero, uccidendoli a volte senza processo, e ha continuato a farlo per anni. Per Augusto Pinochet, Pablo Neruda era certamente un problema non facile. Il poeta era ammirato all'estero (nel 1971 aveva ottenuto il Premio Nobel per la letteratura), ma era soprattutto popolarissimo in patria, per i suoi versi e anche per i resoconti degli avventurosi viaggi giovanili, da Rangoon a Singapore a Batavia (Giacarta). In Estremo Oriente aveva cominciato prestissimo la sua carriera diplomatica, che si era poi spostata in Europa. Con brevi interruzioni dovute a governi ultraconservatori, era durata fino a poco prima della morte.
Pablo Neruda (che in realtà si chiamava Neftalí Ricardo Reyes Basoalto, e aveva scelto quello pseudonimo per le sue pubblicazioni già nel 1920, quando aveva solo sedici anni), aveva partecipato attivamente a molte campagne elettorali, ed era stato più volte eletto senatore. Nel 1938, dopo la vittoria del primo governo di Fronte popolare guidato da don Pedro Aguirre, era stato nominato console a Parigi con l'incarico di mettere in salvo il maggior numero di repubblicani spagnoli. Nel 1948 era stato destituito da senatore dal regime conservatore di Gabriel González Videla che aveva messo fuori legge il Partito comunista: Neruda era stato braccato per un anno e, prima che riuscisse la sua fuga in Argentina, in tutto il mondo era stato creduto morto. D'altra parte in molti Paesi, compresa l'Italia, aveva subito spesso molestie e vessazioni poliziesche. Nel 1970, quando fu eletto presidente Salvador Allende, era stato nominato ambasciatore nella sua amata Francia, e aveva così mantenuto intatta la sua popolarità, evitando di prendere posizione nella turbolenta vita interna della coalizione di Unidad Popular.
Logico quindi che già il giorno della sua morte si fossero diffusi sospetti su una possibile causa dolosa, accresciuti dalla barbara distruzione della sua casa e dal saccheggio dei cimeli raccolti in una vita di viaggi. L'autopsia, richiesta recentemente sull'onda di quella ottenuta per Salvador Allende (che ha confermato che si uccise per non cadere nelle mani dei militari), non è ancora conclusa, ma cambierà poco: non c'è dubbio che in Neruda la giunta militare vedesse non il poeta, ma un uomo che poteva diventare dal Messico un punto di riferimento credibile per la resistenza. In ogni caso era un simbolo di tutto quello che il golpe voleva distruggere.
La popolarità di Pablo Neruda era indiscussa, ma la sua figura non era priva di contraddizioni. Le convinzioni politiche di Neruda hanno risentito fortemente del clima in cui si erano formate. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, (edizione italiana SugarCo, 1979), dice che «anche se la tessera l'ho ricevuta molto più tardi in Cile, quando entrai ufficialmente nel partito, credo di essermi definito di fronte a me stesso come comunista durante la guerra di Spagna».
La guerra di Spagna lo aveva sorpreso a Madrid, dove era arrivato in qualità di console, dopo esserlo stato anche a Barcellona. Subito dopo il Levantamiento di Franco, Neruda fu privato dell'incarico di console dal presidente Arturo Alessandri (un cognome che ritorna spesso nella storia del Cile). Anche come semplice cittadino, Neruda ebbe però subito un ruolo importante nella mobilitazione europea e delle Americhe in difesa del legittimo governo spagnolo. Ma mentre denunciava appassionatamente le atrocità franchiste, tanto più quando tra le vittime c'erano amici carissimi come Federico García Lorca o Miguel Hernández, la sua inesperienza politica lo portava a non vedere l'altro aspetto della guerra, la repressione di anarchici e trotskisti, veri o presunti, da parte degli uomini di Stalin.
Non era solo la sua ingenuità di neofita a determinare il rapporto ambiguo con lo stalinismo, ma la fedeltà cieca al Partito comunista cileno, che manterrà fino alla morte. Dice di aver avuto amici anarchici ma nelle sue memorie, finite pochi giorni prima della scomparsa, continua a ripetere le denigrazioni staliniane su di loro. E paradossalmente finisce per estendere le stesse accuse a tutta la tendenza guevarista in America Latina, sostenendo che mentre nel Partito comunista cileno, che era «di origine strettamente proletaria», erano difficili le infiltrazioni della Cia, le organizzazioni guerriglieriste «hanno spalancato le porte a ogni tipo di spia», inondando il continente di tesi che screditavano i vecchi gloriosi partiti. Salva soltanto la persona di Guevara, perché era stato colpito profondamente (tanto che ne parla più volte nelle sue memorie) dall'ammirazione per la sua poesia manifestata dal Che, che anche nell'ultima impresa boliviana si era portato nello zaino il suo Canto general. Neruda ha navigato senza problemi e senza dubbi nel mondo staliniano, al punto che di Stalin traccia (nel 1973!) un quadro abbastanza grottesco: il dittatore georgiano sarebbe stato un «uomo di principi e bonaccione, sobrio come un anacoreta, titanico difensore della rivoluzione russa».
È poco noto invece un episodio che aveva molto turbato Neruda: nel 1966 un gruppo di intellettuali cubani, tra cui Roberto Fernández Retamar, raccolsero migliaia di firme anche in altri Paesi su un appello che denunciava il poeta cileno come complice dell'imperialismo per aver accettato un invito a tenere conferenze negli Stati Uniti. Senza tener conto che a New York Neruda parlava in difesa della rivoluzione cubana! Era un pretesto per attaccare indirettamente il suo partito, allora in polemica con quello cubano. Ma a Neruda non appare chiaro. Nelle sue memorie si consola dicendo che col tempo «ogni ombra è stata eliminata» e «tra i due partiti comunisti più importanti dell'America Latina esiste un'intesa chiara e un rapporto fraterno». Gli sfugge che l'intesa era stata resa possibile dalla svolta filosovietica di Cuba dopo la morte di Guevara. Insomma, un'ennesima conferma che a un poeta va chiesto solo di essere un buon poeta, senza pretendere che possa essere anche una guida politica.

Repubblica 10.1.12
Alcuni esperimenti mostrano che agiscono anche nei bambini
Nessuno spenga i neuroni specchio
Funzionano fin da piccoli, ma possono venire inibiti dall´ambiente circostante
di Massimo Ammaniti


La scoperta dei neuroni specchio prima nel cervello delle scimmie e poi nell´uomo ha aperto un nuovo capitolo per studiare i meccanismi di apprendimento sociale e di condivisione affettiva fra le persone. I due libri di Rizzolatti e Sinigaglia So quel che fai (Cortina) e di Marco Iacoboni I neuroni specchio (Bollati Boringhieri) hanno ampiamente divulgato anche fra il pubblico non specializzato l´importanza dei neuroni specchio nella vita relazionale di ogni giorno, in cui costantemente cerchiamo di interpretare in modo inconsapevole le intenzioni e gli stati d´animo delle altre persone in modo da prevedere ciò che può avvenire e comportarci di conseguenza.
Sono molti gli interrogativi che emergono da queste ricerche: che ruolo hanno i neuroni specchio nella vita sociale di ogni giorno? Perché verso alcune persone si prova simpatia e condivisione, mentre per altre si avverte distacco o estraniazione se non addirittura rifiuto? Perché alcune persone hanno maggiori capacità empatiche di altre?
Ancora non si è risposto a molti di questi interrogativi ma si può ipotizzare, sulla base di queste ricerche sul cervello, che nell´incontro con altre persone si attivi il meccanismo di simulazione incarnata. In altre parole se si incontra una persona che prova gioia, dolore oppure tristezza si avverte una risonanza affettiva sostenuta dall´attivazione di aree cerebrali corrispondenti. E´ una specie di "appaiamento", come scrive Husserl nel linguaggio fenomenologico, una corrispondenza che fa assimilare l´altro a noi stessi.
Un analogo processo era stato descritto da Freud a proposito dell´identificazione che comporta l´introiezione delle caratteristiche dei genitori, filtrate dall´elaborazione personale. Ma mentre per Freud l´identificazione rappresenta una relazione molto selettiva con le figure più significative, la risonanza affettiva legata ai neuroni specchio è estesa anche a scambi più ampi.
Ma quando cominciano ad attivarsi i neuroni specchio? In alcuni classici studi sui neonati si era visto che fin dalle prime ore di vita un neonato è in grado di imitare le espressioni facciali di un adulto, stabilendo un´equivalenza con un´altra persona. Sulla base di queste osservazioni si è ipotizzato che questa imitazione precoce sia legata al sistema dei neuroni specchio, che farebbero parte della dotazione biologica dei mammiferi.
La ricerca neurobiologica sta cercando di confermare questa ipotesi, anche se in campo umano si pongono problemi complessi. Un gruppo di ricercatori, fra cui Pierfrancesco Ferrari del Dipartimento di Parma, ha registrato l´attività cerebrale nei macachi fin dal primo giorno di vita mentre osservavano ed imitavano le espressioni facciali di una persona, quando apriva e chiudeva la bocca oppure faceva le boccacce. Le registrazioni cerebrali hanno confermato che nei macachi neonati vengono attivate le aree dei neuroni specchio fin dalla nascita.
Come già era avvenuto con le prime scoperte il trasferimento in campo umano è il passo successivo, quasi inevitabile. Ancora non ci sono dati sul sistema dei neuroni specchio nei primi giorni di vita, anche se sono stati messi in luce alla fine del primo anno. E´ indubbio che l´evoluzione umana ha provveduto a fornire ai neonati questo sistema cerebrale che ha molti vantaggi. In primo luogo l´imitazione facilita la comunicazione, basta vedere la madre e il bambino nei primi mesi dopo la nascita.
Il bambino guarda la madre ed imita le sue espressioni e la madre a sua volta imita il figlio quasi per gioco confermando che fra loro c´è un´intesa e una comprensione. E poi attraverso l´imitazione si accelera l´apprendimento, perché guardando come un´altra persona risolve un compito si saltano le tappe senza dover necessariamente trovare da soli la soluzione. In questo modo le conoscenze accumulate vengono trasmesse alle generazioni successive. Vi è un altro aspetto rilevante, con l´imitazione e la risonanza si riduce la distanza nei confronti degli altri e si crea un senso di condivisione e di familiarità. Ma a volte l´incontro con l´altro può fallire e l´altro diventa allora una presenza distante, estranea se non addirittura minacciosa. L´intolleranza e il razzismo ne sono un esempio.
A livello cerebrale, come esistono meccanismi di attivazione, ugualmente si verificano disattivazioni e si può ritenere che il sistema dei neuroni specchio possa essere bloccato in alcune circostanze. La paura e l´allarme verso gli altri rende ciechi e distanti, ma sicuramente anche il contesto in cui si cresce, se ad esempio favorisce l´apertura verso il mondo oppure suscita diffidenze e chiusure soprattutto per quanti sono semplicemente diversi. Pertanto se la natura ci ha fornito i neuroni specchio per interagire con gli altri è fondamentale il clima in cui si viene educati che può rinforzare le potenzialità individuali oppure scoraggiarle fino ad inibirle.

Repubblica 10.1.12
Relazioni digitali
"Amici e nuovi legami, Internet aumenta il capitale sociale"

Intervista a Antonio Casilli

"Lo spazio virtuale è una teoria nata dalla letteratura, invece viviamo in una realtà mista"
"Le rivoluzioni non le fanno Twitter e Facebook, ma le persone che vanno in piazza"
Intervista allo studioso Antonio Casilli, che ha pubblicato in Francia un saggio dove smentisce molti luoghi comuni sull´universo informatico

PARIGI Trasformando la nostra percezione dello spazio, del corpo e delle relazioni sociali, l´universo delle nuove tecnologie digitali ci costringe a riflettere criticamente sulla natura profonda della realtà in cui viviamo. Una riflessione a cui si dedica proficuamente Antonio Casilli, specialista delle culture digitali che da diversi anni si è trasferito in Francia, dove le sue analisi sulle nuove forme di socialità della rete sono molto apprezzate e discusse. Nel suo ultimo saggio, Les liaisons numériques (Seuil, pagg. 331, euro 20), lo studioso critica radicalmente i falsi miti che hanno accompagnato lo sviluppo delle nuove tecnologie, a cominciare da quello relativo alle minacce dello spazio virtuale: «La teoria della smaterializzazione del reale prodotta dalle nuove tecnologie digitali è una teoria figlia della letteratura degli anni Ottanta», spiega Casilli, che dopo aver lavorato all´École des Haute Etudes en Sciences Sociales, oggi insegna a Telecom Paris Tech. «Più che nella dicotomia tra spazio reale e spazio virtuale, noi tutti oggi viviamo in una realtà mista, che potremmo definire una realtà aumentata, dove il reale è aumentato, amplificato, trasformato dal virtuale. La nostra vita quotidiana si svolge in una continua sovrapposizione di spazi reali e spazi cognitivi digitali. Ad esempio, mentre siamo in auto o in treno, ci spostiamo fisicamente nello spazio ma contemporaneamente, grazie agli smartphone, ci muoviamo anche in un´altra dimensione virtuale».
La nostra relazione con la spazio ne risulta modificata?
«Lo spazio diventa ibrido e noi lo percepiamo come tale, riconfigurandolo di continuo. Ne è un esempio la separazione tra spazio privato e spazio pubblico che è in continuo movimento. Prima di Internet, la frontiera era abbastanza definita, ora invece i media sociali consentono di proiettare lo spazio privato in rete, vale a dire in un contesto pubblico. Facebook o Twitter rimettono costantemente in discussione le nostre categorie di privato, il quale certo non si dissolve ma si riconfigura.»
La privacy non è più quella di una volta?
«Oggi la privacy non è più "il diritto di essere da soli", come diceva Louis Brandeis. La definizione della privacy è mobile e va rinegoziata di continuo a seconda delle persone e delle situazioni. Twitter ci obbliga a interrogarci continuamente sul confine tra pubblico e privato. Questa ginnastica mentale è molto faticosa. Per reimparare da adulti cosa condividere e cosa no, si spendono molte energie e si rischiano errori che poi si pagano. In fondo, tutti noi oggi stiamo facendo un apprendistato collettivo dei nuovi media sociali. E naturalmente non è facile trovare la giusta misura».
In questa evoluzione il corpo diventa un´interfaccia tra noi e il mondo digitale...
«Lo spazio digitale invita il corpo a mettersi in scena nella realtà virtuale. Anche i blog sono una maniera di mettersi in scena, confrontandosi con gli altri, il che implica sempre una ridefinizione della percezione del nostro corpo sulla scorta dell´immagine rinviata dagli altri. Nei media sociali gli altri intervengono a convalidare la rappresentazione di noi stessi. Così, il corpo, che era progetto di sé, diventa progetto di noi, per usare la terminologia di Michel Foucault. Naturalmente, se questa è un´opportunità che consente di arricchire costantemente la nostra personalità, è anche vero che tale situazione può produrre una crisi d´identità.»
A proposito delle relazioni tra corpo e mondo digitale, c´è chi mette in guardia contro i rischi cognitivi della nostra dipendenza dalle nuove tecnologie. Lei che ne pensa?
«L´informatica è un prolungamento delle mnemotecniche del passato, le quali naturalmente non erano votate a svuotare il nostro cervello ma a renderlo più efficace. I computer vanno quindi considerati come un´estensione della memoria e non come una minaccia per le capacità cognitive. L´universo informatico è per noi una sorta di prolunga cognitiva, nonché sociale che ci consente un maggior numero di relazioni. L´agenda del telefonino o la lista di amici su Facebook ampliano la cerchia delle conoscenze con cui restiamo in contatto».
Internet però è spesso accusato di desocializzare gli individui...
«È un falso mito. In realtà Internet produce nuove forme di socialità che ci consentono di modulare meglio l´equilibrio tra legami forti e legami deboli, vale a dire quei legami potenziali che sollecitiamo in modo discontinuo. Su Facebook, se all´inizio prevalgono i contatti con le persone che per noi sono più importanti, in seguito, diventando amici di amici, allarghiamo la cerchia dei legami deboli, facendoli durare nel tempo. Alla fine, la proporzione tra legami forti e deboli è molto diversa da quella presente nella vita reale. Di conseguenza, i media sociali offrono una socialità più ricca, che ci consente di entrare in contatto con ambienti che in precedenza ci erano preclusi. Prima di Internet vivevamo in una società di piccole scatole – la famiglia, il paese, il lavoro, ecc. – al cui interno eravamo uniti agli altri da legami forti. Con Internet, queste piccole scatole continuano ad esistere, ma inoltre disponiamo di passerelle verso molte altre scatole, vale a dire altre realtà sociali, con le quali magari conserviamo solo legami deboli. Insomma, ci troviamo al centro di reti glocali, nel senso che sono globali e locali allo stesso tempo».
Cosa cambia per l´individuo?
«I vantaggi sono molteplici, soprattutto in termini di capitale sociale, vale a dire l´insieme delle risorse sociali che ogni individuo ha a disposizione per realizzarsi sul piano personale, professionale, sociale, culturale, ecc. I media sociali, ci consentono d´incrementare e modulare meglio il capitale sociale. Gli amici in rete sono una risorsa sociale».
Ciò ci obbliga a ripensare la concezione dell´amicizia?
«In effetti, per secoli abbiamo privilegiato la definizione umanistica dell´amicizia. Basandoci su Cicerone, Seneca o Montaigne, abbiamo pensato l´amicizia come un legame disinteressato, privato e caratterizzato da una cooperazione forte. In rete, all´amicizia tradizionale, che comunque continua ad esistere, si sovrappone un altro tipo di legame che può essere anche utilitaristico. Questo legame, oltre ad essere pubblico e registrato in un database, può dar luogo a una cooperazione non simmetrica. Nell´amicizia classica infatti la relazione è sempre reciproca, non si può esser amici di qualcuno che non ci è amico. Su Twitter possiamo seguire qualcuno che non ci segue».
Modificando le relazioni tra le persone, Internet trasforma anche le modalità dell´azione politica?
«I più ottimisti sottolineano le virtù democratiche della rete, ricordando ad esempio che la primavera araba sarebbe il tipico prolungamento di questo spirito democratico. Io però penso che Internet sia soprattutto uno stile politico, che può essere adottato da realtà ideologiche molto diverse tra loro. Lo si vede in America, dove sia i Tea Party che Occupy Wall Street sfruttano a fondo i media sociali, dando luogo a un´organizzazione orizzontale senza gerarchia e a geometria variabile. Questa struttura può essere molto efficace, ma non bisogna farsi eccessive illusioni. Le rivoluzioni non le fanno Twitter o Facebook. Le fanno sempre le persone reali scendendo in piazza. I media sociali possono solo coordinare, scambiare e amplificare le ricadute del reale. Ma senza mai sostituirsi ad esso».

il Riformista 10.1.12
“La chiave di Sara” La Shoah come indagine familiare
Kristin Scott-Thomas è la protagonista del film di Gilles PaquetBrenner, nelle sale italiane questo venerdì. Una giornalista alle prese con un’inchiesta sul rastrellamento ordinato da Pétain nel 1942, che finirà per riguardare la sua stessa vita
di Michele Anselmi


«Perché lo fai?» chiede preoccupata la sorella da New York. «Perché è giusto» taglia corto al telefono Julia Jarmond, ovvero Kristin Scott-Thomas. La giornalista americana vive da vent’anni a Parigi, ha sposato un architetto francese, sta per traslocare in una bella casa del centro storico, ma di colpo si ritrova a fare i conti con una scelta personale da far tremare e le vene e i polsi.
La chiave di Sara è uno dei tanti, troppi, bei film d’autore che escono nelle sale italiane venerdì prossimo, con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. Il consiglio è di andarlo a vedere subito, per poi orientarsi su Shame e La Talpa. Non si ride in nessuno dei tre, e forse è giusto così: di commedie insulse e generazionali se ne fanno a iosa in Italia.
Il dilemma morale con cui deve confrontarsi Julia è presto detto. Lavorando a un’inchiesta su quella che i francesi chiamano “la rafle”, la giornalista incappa in un segreto imbarazzante, diciamo una vergogna infamante. Tutto risale al 15 luglio 1942, quando, con atto abominevole e atroce, il governo collaborazionista del maresciallo Pétain mise in pratica, dopo accurata e burocratica preparazione, il rastrellamento di 13 mila ebrei parigini. I comandi tedeschi avevano suggerito il 14, giorno della presa della Bastiglia, ma sembrò troppo. Così si fecero passare altre 48 ore e, all’alba di quella calda giornata d’estate, la polizia francese legata al regime di Vichy irruppe nel quartiere di
Montmartre e sequestrò uomini, donne, bambini, vecchi. Dovevano essere ancora di più, 24 mila, ma molti israeliti riuscirono a nascondersi, in quelle ore concitate, grazie all’aiuto dei parigini.
Gli sventurati vennero rinchiusi nel Vélodrome d’Hiver, in condizioni igieniche spaventose, senza acqua, cibo, medicine, e già lì cominciarono a morire o a suicidarsi. Appena cinque giorni dopo sarebbero stati avviati in vari campi di concentramento, quasi tutti in quello tristemente noto di Beaune-La-Rolande. Prossima tappa: le camere a gas in Polonia. Solo 25, di quei 13 mila, tornarono a casa alla fine della guerra, nessuno dei bambini.
Il romanzo di Tatiana de Rosnay (Mondadori), da cui il film di Gilles Paquet-Brenner è tratto, immagina invece che uno di quei bambini, appunto la Sara Starzynski del titolo, riesca a scappare dal lager francese prima di finire nelle camere a gas di Hitler. Per tornare, grazie all’aiuto di una coppia di contadini, nell’appartamento lasciato precipitosamente quella mattina di luglio, dopo aver nascosto il fratellino in un armadio a muro, conservando la chiave per tutto il tempo. Troverà una terribile, doppia verità: il ragazzino è morto da mesi e nessuno se n’è accorto, nonostante il fetore che traspirava dalle pareti; la casa è occupata da una famiglia francese, che l’ha avuta praticamente gratis, essendo stata requisita agli ebrei.
Esattamente sessant’anni dopo Sara diventa un’ossessione per Julia. Che fine ha fatto? È viva, è morta, ha avuto dei figli? Abita ancora in Francia? L’inchiesta giornalistica si trasforma lentamente in una sorta di j’accuse morale nei confronti di quella verità nascosta, rimossa, sotterrata, e la trafittura si farà più acuta, per la donna sospesa tra radici americane e vita europea, quando Julia scoprirà che la casa ristrutturata nella quale sta per trasferirsi col marito è proprio quella di Sara.
Il tema della “rafle” non è inedito nel cinema francese. Giusto un anno fa uscì da noi Vento di primavera della regista Rose Bosch, didascalico e bruttarello, ma deciso a riaprire senza tanti complimenti quella ferita mai rimarginata. Una macchia nera per certi versi incancellabile. Perché furono migliaia, a partire dai 9mila poliziotti che operarono materialmente il rastrellamento, i francesi coinvolti nella deportazione degli ebrei, in un crescendo di odio razziale e atti meschini, umiliazioni inflitte e ruberie legalizzate. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac chiese ufficialmente scusa, parlando di «ore buie che macchieranno per sempre la nostra storia, un insulto al passato e alle nostre tradizioni». Il minimo che potesse fare.
Ma La chiave di Sara va oltre la ricostruzione dell’abominio collaborazionista, e anzi la forza del film, più che nel resoconto dell’inferno patito dagli sventurati ebrei francesi nel 1942, sta nello sguardo impietoso della giornalista-detective. Donna non più giovane alle prese con una maternità complicata che il marito rifiuta, Julia scardina la congiura del silenzio, costringe la famiglia acquisita a misurarsi con quel passato che ritorna, infine si mette alla ricerca di Sara, forse emigrata negli Stati Uniti.
Il film è toccante ma non piagnone, classico ma non prevedibile, romanzesco ma non divagante. L’andirivieni temporale serve a ricordare l’orrore razzista di ieri e a mostrare l’ipocrisia borghese di oggi. E intanto Julia, incarnata con dolente fierezza dall’attrice inglese stabilitasi da anni a Parigi (che bello sentirla parlare in francese nella versione originale), diventa la voce di Sara, che mai guarì davvero dalla tragica esperienza.
Difficile non pensare al gran saggio autobiografico di Primo Levi I sommersi e i salvati. Per tante ragioni. E una coincidenza cruciale.