sabato 7 gennaio 2012

l’Unità 7.1.12
Bersani punta su Forum lavoro e Assemblea nazionale per mettere in chiaro la posizione del partito
Convergenza tra le proposte Nerozzi, Damiano e Madia. Ichino: «È meglio la flexsecurity»
Pd, sì al contratto prevalente Ma non si tocca l’articolo 18
Contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18: è la posizione del Pd, che Bersani vuol far emergere con chiarezza dalla riunione del Forum lavoro e dall’Assemblea nazionale di fine mese.
di Simone Collini


Disboscare la giungla di tipologie contrattuali oggi esistenti dando vita a un contratto d’inserimento che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni, senza toccare l’articolo 18. È con questa proposta che il Pd andrà al confronto con il governo, quando la discussione sulla riforma del mercato del lavoro entrerà nel vivo.
Pier Luigi Bersani segue con attenzione la partita che si è aperta tra ministero del Welfare e parti sociali. Il leader dei Democratici evita di commentare le indiscrezioni giornalistiche su ipotesi governative di riforma che nascono e muoiono nell’arco di ventiquattr’ore e ha chiesto ai dirigenti del suo partito di fare altrettanto. Però ha pianificato una road map ben precisa per rendere chiaro qual è “la” posizione del Pd, che a tempo debito verrà sostenuta in Parlamento. Il primo passo è la convocazione del Forum lavoro, che giovedì si riunisce nella sala Berlinguer di Montecitorio. Il secondo è l’Assemblea nazionale del 20 e 21, che discuterà di mercato del lavoro e non solo, e che si chiuderà con un voto teso a precisare una volta per tutte qual è la linea del Pd: intoccabilità dell’articolo 18 e possibilità di inserire un contratto prevalente d’ingresso, no al modello flexsecurity.
LA POSIZIONE DEL PD
Di fatto, come spiega il responsabile Lavoro del partito Stefano Fassina, «non c’è niente da decidere, visto che il Pd una posizione chiara già l’ha presa all’Assemblea nazionale di Roma del maggio 2010 e poi alla Conferenza sul lavoro di Genova del giugno 2011». In entrambi gli appuntamenti sono approvati dei documenti favorevoli a riunificare il mercato del lavoro oggi diversificato in una miriade di tipologie contrattuali (un recente studio della Cgil ha individuate 46 differenti modalità di assunzione) con un contratto di apprendistato sostanzialmente unico «a garanzie crescenti» e una riduzione degli oneri contributivi per le imprese che stabilizzano.
Si tratta di un’impostazione contenuta in diverse proposte di legge presentate dal Pd, in quella depositata un anno e mezzo fa al Senato a prima firma Paolo Nerozzi (ricalca la riforma ipotizzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi ed è sostenuta anche da Franco Marini, oltre che da esponenti di tutte le anime del Pd) e in quelle presentate alla Camera a prima firma Cesare Damiano e Marianna Madia. In esse viene previsto un contratto d’inserimento tendenzialmente unico (sarebbero esclusi settori specifici che hanno reali esigenze di flessibilità come turismo e dell’agricoltura) che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni. Durante tale periodo, come hanno spiegato nei giorni scorsi su “l’Unità” Damiano e Tiziano Treu, il lavoratore sarebbe licenziabile «ma al termine della prova va agevolata l’assunzione a tempo indeterminato, compresa la tutela dell’articolo 18».
Ichino, che pure ha firmato la proposta di legge Nerozzi e oggi rivela che diede «anche un contributo forse non secondario alla sua stesura tecnica», vede però in questo progetto «due difetti» (riguardanti la soglia dei tre anni e gli ammortizzatori sociali) risolti, scrive su “Europa”, dal suo progetto di flexsecurity. Nella proposta del senatore Pd il quale ora dice che se la soluzione da lui proposta si rivelasse «non politicamente praticabile» sarebbe «un ottimo compromesso» il progetto Boeri-Garibaldi se accompagnato dalla «sperimentazione» della flexsecurity sulla base di accordi aziendali, regionali o provinciali c’è un contratto unico per i neoassunti e un parziale superamento dell’articolo 18 (tra le giuste cause per i licenziamenti rientrerebbero i motivi economici, tecnici ed organizzativi). Il modello riceve consensi nella minoranza del Pd (dai Modem Morando e Tonini a Marino), ma è duramente contrastata dalla segreteria e dalla stragrande maggioranza del partito. Come Bersani vuol far emergere dai prossimi appuntamenti in cui si discuterà la questione.

l’Unità 7.1.12
Giovani democratici, niente personalismi
Sarà il primo congresso vero, non roviniamolo con i tecnicismi e le carte bollate. Parliamo dei problemi veri, della precarietà, dell’accesso
al mondo del lavoro, della crisi europea, del rilancio della ricerca
di Donato Mondibello
, coordinatore segreteria GD

Dobbiamo darci una mossa. La realtà sta strozzando sogni e prospettive e noi Giovani Democratici ne siamo ben consapevoli. Conosciamo, come ogni ventenne o trentenne italiano, i problemi di questo Paese e abbiamo ben chiare anche le possibili soluzioni: rivitalizzare e adeguare il sistema politico al dinamismo della società e dare risposte concrete alle difficoltà e alle aspettative dei giovani di questo Paese.
Così, come Giovani Democratici abbiamo deciso, tutti insieme e con regole unanimemente concordate, dopo tre anni di costruzione e radicamento dell’organizzazione, di svolgere il nostro primo vero congresso.
Vogliamo partire dai problemi, dalla precarietà, dalle poche prospettive post laurea, dallo sfruttamento mascherato in stage e tirocini, dalla difficoltà di uscire di casa e di arrivare alla fine del mese. Dalla realtà, della crisi, dunque e dalla costruzione di un orizzonte che ci porti fuori da questi anni bui, che per noi si chiama società della conoscenza.
In questo primo congresso, parleremo di politica, di come investire sul sapere e di come renderlo accessibile a tutti. Lo facciamo per rilanciare il paese attraverso l’innovazione e la ricerca, riformando il mondo del lavoro e garantendo un accesso sicuro ai giovani. Parleremo di costruire quell’Europa politica, economica e sociale che oggi non c’è.
Senza dimenticare la riforma degli assetti istituzionali, fondamentale per aumentarne la rappresentatività e la partecipazione. Dobbiamo ridare alla politica quell’autorevolezza e quella forza per ritornare ad essere una guida seria ed affidabile e buttarci finalmente alle spalle decenni di governo scriteriato e offensivo della dignità dell’Italia.
Purtroppo, in questi giorni, la discussione rischia di allontanarsi da questi obiettivi e di spostarsi su personalismi, tecnicismi e carte bollate, rappresentando i Giovani Democratici come una gelida burocrazia sconnessa dalla realtà e mettendo a rischio il lavoro che tutti abbiamo fatto in questi tre anni. E’ un vecchio modo di fare politica e non ci appartiene.
In questi tre anni abbiamo fatto cose importanti: siamo stati a Torre del lago, per affermare che un paese civile parte dal riconoscimento dei diritti per tutti, a L’Aquila, a parlare di lavoro e futuro, abbiamo provato ad immaginare a Bologna il futuro del nostro sistema politico fuori dalla seconda repubblica, siamo stati in prima linea nelle scuole e nelle università italiane, nelle piazze con i precari e sempre a difesa del lavoro, abbiamo sostenuto e vinto insieme a migliaia di giovani italiani le battaglie referendarie sui beni comuni, eletto migliaia di giovani amministratori. Non c’è stato grande dibattito nel quale non siamo intervenuti. Abbiamo sempre provato a rappresentare la nostra generazione e dare un contributo alla crescita del Pd che più volte ci è stato riconosciuto: eravamo un tavolo di trentacinque persone e in tre anni siamo diventati la prima organizzazione giovanile d’Italia.
Noi abbiamo fatto politica e continueremo a parlare di politica: ci appassiona poco la burocrazia e di più le discussioni aperte su temi reali e che toccano la pelle delle persone. I problemi regolamentari non ci riguardano ed avremmo preferito sapere su quali grandi questioni ci sono punti di vista diversi, ma non sono ancora emerse.
È per questo che, non essendo emerse fin ora evidenti distinzioni politiche, è importante svolgere un congresso veramente aperto e plurale in grado di parlare fuori da noi, che permetta a ogni giovane italiano che studia, che lavora o sta cercando un lavoro, che vive ogni giorno le difficoltà dei giovani di questo Paese, di sentire che abbiamo a cuore la sua vita più delle nostre questioni interne. Vogliamo fare un congresso aperto, dopo cui pubblicare il nostro libro bianco di proposte, alla cui stesura potranno partecipare gli iscritti e i non iscritti ai Gd. Vogliamo le primarie, ma quelle delle idee. In questo modo parleremo di proposte e di progetti concreti, mettendo alla porta i votifici e i personalismi che hanno ingessato la discussione politica italiana negli ultimi anni. Ritengo che sia importante quello che Brando Benifei, un nostro dirigente nazionale, ha scritto su L’Unità di qualche giorno fa, quando afferma che “il mio progetto politico può rimanere in piedi – così come la mia candidatura – anche all’interno di un congresso per tesi.” Questo è senza dubbio un passo in avanti. Infatti, in questi giorni sembrava che il congresso a tesi non permettesse più di un candidato. Ora per fortuna si dice e si riconosce una cosa che doveva essere già chiara: il congresso a tesi non solo permette a ciascuno di modificare la linea politica dell’organizzazione, ma permette a chiunque abbia un minimo di consenso di candidarsi a segretario nazionale.
Quali che siano le deliberazioni sulle questioni regolamentari non verrà mai meno la nostra difesa del pluralismo, della nostra autonomia, che non permettiamo a nessuno di mettere in discussione, e della nostra voglia di fare politica. Crediamo che si possa cambiare passo.

l’Unità 7.1.12
Intervista a Fabio Mini
«Per le Forze armate è necessaria una riforma profonda e strutturale»
L’ex comandante Kfor «Non siamo americani né russi né cinesi, e se continuiamo così, neanche europei. Non possiamo certo prendere a modello chi ha mire globali»
di Umberto De Giovannangeli


Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi possibili e indispensabili, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura di Difesa attuale a quella ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere». A sostenerlo è il generale Fabio Mini, ex Capo di Stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo nel periodo 2002-2003.
Generale Mini, avverte il rischio, paventato nell’intervista a l’Unità dall’ex Capo di Stato Maggiore, generale Vincenzo Camporini, che le nostre Forze Armate si trasformino in uno «stipendificio»?
«Stipendificio è una espressione denigratoria che non tiene conto della realtà economica e sociale del Paese . Allora, “stipendificio” sarebbe anche mantenere in piedi un apparato di polizia che è il più numeroso al mondo in termini di rapporto cittadini/forze di sicurezza. Allora, sarebbe “stipendificio” anche la Cassa integrazione guadagni che va a beneficio di lavoratori che non dipendono dalla Pubblica amministrazione. Mi sembra anche disonesto intellettualmente affrontare questo argomento come se il personale fosse responsabile dei debiti e gli armamenti fossero più importanti del personale, e come se i tagli sulla sopravvivenza e la dignità delle persone dovessero compensare i lussi della tecnologia».
Ma allora, a suo avviso, che cosa è davvero necessario fare per ridisegnare complessivamente, in termini di assetti, costi, funzioni, la Difesa italiana?
«Innanzitutto, occorre cercare di far cassa sui programmi che non incidono sugli equilibri sociali. E qui bisogna vedere quali sono i programmi di armamento non indispensabili nella qualità e nella quantità. In secondo luogo, è fondamentale ridisegnare completamente al Difesa con una riforma strutturale profonda, che deve, a mio avviso, avere le sue basi concettuali da alcune considerazioni strategiche...».
Quali?
«Essenzialmente tre: 1) La minaccia militare alla sopravvivenza dell’Italia non esiste e quand’anche si manifestasse, sarebbe affrontabile anche con poco; 2) Non siamo soli nella difesa e nella gestione della sicurezza. Dobbiamo chiedere e dobbiamo dare un equo contributo alla sicurezza comune. Equo vuole dire non solo sostenibile dal punto di vista finanziario, ma soprattutto come impegno politico nella difesa. In terza istanza, noi non siamo né americani, né russi, né cinesi, e se continuiamo così, rischiamo di non essere più nemmeno europei. Non possiamo, non dobbiamo prendere i modelli altrui che hanno mire globali, per imitare maldestramente i grandi. Finora abbiamo contribuito alla sicurezza internazionale partecipando con una quota assolutamente non equa rispetto agli impegni degli altri. Ci siamo fatti grandi di essere il terzo Paese contributore di forze militari alle missioni internazionali, credendo che questo, di per sé, ci consentisse di essere anche terzi nella considerazione mondiale. Una illusione. Perché in realtà abbiamo visto che questo non è vero, e i nostri sforzi militari, per quanto encomiabili, sono stati vanificati da atteggiamenti politici velleitari e non pari alla dignità dello sforzo della sicurezza. Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi a cui ho fatto riferimento, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura attuale a quella, ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere».
Ma quanto può durare questa transizione?
«Per gli armamenti non c’è problema. Si può cominciare da subito a individuare i mezzi che saranno necessari da qui ai prossimi dieci anni. Per il personale, la transizione durerà per il periodo minimo indispensabile a fare in modo che gli esuberi vengano assorbiti senza penalizzare il personale, e che le nuove immissioni da subito siano calibrate alla struttura del futuro. Se la crisi continua per due, tre anni, si potrà parlare della fine della transizione tra otto-dieci anni. Ma allora non avremo lo stesso strumento di oggi, diventato ancora più inefficiente, ma avremo uno strumento piccolo che ci darà la possibilità di esprimere con dignità la nostra posizione politica sullo scenario internazionale».
Resta il fatto che il dibattito e le polemiche di questi giorni si sono concentrate sul programma di acquisto di 131 F35. Qual è in proposito la sua opinione?
«Sugli F35 non contesto la scelta tecnica. Si tratta certo di un aereo migliore di quelli che abbiamo, e ci mancherebbe altro visto quanto ci costano...È però, l’F35, un aereo che è già meno sofisticato di quelli che stanno uscendo adesso e per i fanatici della tecnologia, sarà vecchio quando entrerà in servizio da noi. Quello che è ormai insostenibile, è la base concettuale sulla quale è stato fatto il programma: era velleitaria la pretesa italiana di volersi dotare di aerei che nemmeno gli Usa avevano in quel momento; era velleitario il programma numerico che nessuno in Europa si poteva permettere. Ed era velleitario, alla fine, perché non si capiva, e non si continua a capire, contro chi quel programma doveva essere impiegato».
Il presidente Obama ha annunciato per i prossimi anni un taglio di 450 miliardi di dollari al bilancio del Pentagono. È un esempio da seguire?
«È da seguire ma dobbiamo stare molto attenti perché, probabilmente, le lobby americane faranno pressioni sulla Nato affinché gli europei non solo mantengano gli impegni presi ma ne assumano altri per compensare nel nome di una condivisione dei sacrifici le riduzioni Usa».

l’Unità 7.1.12
Senza totem né tabù: così si cambia la difesa
di Federica Mogherini


Come per la gestione della crisi, anche per il settore della difesa quelli del governo Berlusconi sono stati anni persi. Dietro la retorica costosa della mini-naja e la cecità dei tagli lineari, non si è affrontato nessuno dei nodi strutturali del modello di difesa. Ora il velo è stato impietosamente alzato, e l’insostenibilità dello strumento militare è diventata evidente. Perché costa più di quanto possiamo spendere, e perché manca un’analisi degli scenari di minaccia alla nostra sicurezza, e di conseguenza degli strumenti necessari per farvi fronte. A dieci anni dall'abolizione della leva, è ora di fare una valutazione di quanto il nostro modello di difesa sia funzionale agli obiettivi che gli scenari internazionali richiedono. A partire da quest’analisi ha senso ragionare di cosa e come tagliare, avendo chiaro il contesto internazionale. Va rilanciato il faticoso processo di integrazione europea, frenato da protezionismi nazionali e solitarie fughe in avanti di singoli paesi, e va risolta la crisi d’identità della Nato, in una fase di passaggio non solo per i tagli ai bilanci della difesa, ma perché la natura dell'Alleanza è sempre meno tradizionalmente difensiva e sempre più chiamata dall’Onu a fare i conti con minacce asimmetriche e crisi regionali che mettono in pericolo la stabilità globale e non sempre è attrezzata per affrontare efficacemente queste sfide, come la vicenda afghana dimostra, e come l'inedita formula dell'intervento in Libia ci ricorda.
Siamo in una fase di «crisi» nel senso originario del termine (opportunità, cambiamento), di ripensamento del ruolo degli assetti militari. E di certo, dopo mezzo secolo di guerra fredda e un decennio di scontro di civiltà, questi anni di crisi economica ci portano a rivalutare diplomazia e soft power. L’Italia ha quindi l'opportunità di fare di necessità virtù: investendo nella prevenzione dei conflitti e nella
cooperazione; ridimensionando e ridistribuendo le risorse della difesa tra le voci di bilancio (a cosa serve avere piloti e aerei che non si hanno poi le risorse per far volare?); favorendo il rinnovamento delle forze armate, appesantite da una quantità anomala di ufficiali e sottufficiali, e penalizzate dalla precarizzazione dei meccanismi di ingresso dei giovani; revisionando i programmi di acquisto per capire quali sono funzionali a esigenze reali e quali invece possono essere ridotti, sostituiti, sospesi o cancellati. Anche il dibattito sugli F35 va inserito in quest'ottica, senza farne né un totem né un tabù, ma l’oggetto di una scelta razionale. Il programma ha subito una lievitazione dei costi, un moltiplicarsi di criticità tecniche, un rallentamento notevole nei tempi; tutti i partner del progetto, Usa compresi, ne stanno ridimensionando la portata; il modello di cui l'Italia ha più bisogno la versione a decollo verticale, compatibile con la portaerei Cavour è quella che presenta maggiori problemi tecnici e minori acquirenti, tanto che la sua produzione non è affatto certa. Anche solo queste valutazioni, al netto delle difficoltà di bilancio, dovrebbero indurre a considerare un congelamento della nostra partecipazione al programma, almeno fino a quando non sarà chiaro cosa verrà prodotto, in quali tempi e con quali costi. È necessario che il livello di trasparenza e di democraticità di questo processo di revisione sia il massimo possibile. Questo governo ha la possibilità di capire e gestire la complessità delle scelte da compiere, e l’interesse a fare del Parlamento il luogo di una profonda revisione del modello di difesa. Ci vuole trasparenza, coraggio, realismo, e consapevolezza del mondo. Si può, si deve fare.
*Deputata e responsabile globalizzazione Pd

l’Unità 7.1.12
Città senza guida e senza progetto
Roma volti pagina
di David Sassoli


Anche il sindaco di Roma, per la ferocia che si è scatenata a Torpignattara, ha scoperto che in città vi sono una violenza organizzata che fa girare armi e droga e una violenza diffusa disseminata in un territorio non controllato che mette a rischio il diritto dei cittadini alla vita. L’escalation è impressionante e i morti ammazzati nel 2011 lo dimostrano. In città girano “troppe armi e troppa droga”, ha detto il sindaco Alemanno, scaricando sulle forze dell’ordine la responsabilità della mancata sicurezza. Armi e droga nella disponibilità di potenti organizzazioni criminali. La mancata vigilanza del sindaco è ormai cosa nota. Per Giorgio Magliocca, sindaco di Pignataro Maggiore e collaboratore di Alemanno arrestato per camorra, il tribunale di Napoli ha chiesto 7 anni di carcere e la sentenza è attesa per febbraio. La sottovalutazione del fenomeno criminale, d’altronde, è stata per lungo tempo una costante dell’amministrazione capitolina, tanto che i risultati che porta in dote sono sotto gli occhi di tutti: in città ci sono violenza e paura. E sono sentimenti diffusi, che colpiscono i quartieri più diversi e gli ambienti più distanti. In periferia certo, il morbo è soffocante perché vaste aree sono abbandonate e invitate a fare tutto da sole. Pochi sanno che vi sono zone dove non arrivano beni primari come l’acqua e l’elettricità e quartieri dormitorio edificati anche di recente senza servizi, dove non arrivano neppure gli autobus. Roma è una città senza governo perché è senza progetto, ed è per questo che perde la sua anima, come ha detto bene l’ex sindaco Veltroni. Ed è una città faticosa, dove tutto è difficile a differenza delle grandi città europee. A Roma sono i cittadini a dover andare a
cercare l’amministrazione; altrove è l’amministrazione ad andare incontro ai cittadini. C’è bisogno di voltare pagina rapidamente e un anno e mezzo è un tempo davvero troppo lungo. Lo sanno bene i commercianti, gli imprenditori, gli artigiani. Crescevamo al ritmo del 7 per cento l’anno – più della media nazionale – e sono bastate poche stagioni per precipitare nella depressione economica e morale. Eppure le risorse ci sono. Se non le possiede Roma quale città ne possiede altrettante in Italia e in Europa? E invece, siamo diventati una fabbrica di disoccupazione ed esclusione. Una città paurosa ed egoista, governata da un ceto politico autoreferenziale e clientelare. Mancano progetti per la città del futuro, per la città che lasceremo ai nostri figli. Sconfiggere la rassegnazione è oggi una priorità. Perché, anche in controtendenza rispetto alla grave crisi economica, Roma ha possibilità di crescita e capitale umano in grado di invertire ogni tendenza negativa. In questi anni è stato sfregiato anche il volto spirituale della Capitale, tanto da far dire al cardinale Agostino Vallini che Roma deve ritrovare “quel sussulto morale che le permetta di tornare ad essere una comunità accogliente, solidale, rispettosa della dignità e della vita di ogni essere umano”. Quando si usano queste parole vuol dire che tanto è stato perduto e tanto c’è da recuperare. Far tornare le persone a vivere la città è il tema di questa stagione. Un tempo che si presenta opaco e doloroso, ma allo stesso modo carico di energie inespresse che solo un forte rinnovamento della classe politica può valorizzare per cercare di ricomporre il puzzle di una comunità dispersa.
*Presidente delegazione Pd al Parlamento europeo


Repubblica 7.1.12
La rabbia di Chinatown "Italiani sempre più razzisti oggi odiamo questo paese"
di Attilio Bolzoni

ROMA - Ore 18, all´Esquilino la Befana splende solo di luci cinesi. È tutta loro questa città di insegne con dragoni e polli fritti, cianfrusaglie, orologi taroccati, pentole e fiori di plastica, sale massaggi sempre piene e botteghe di vestiti sempre vuote. Stasera c´è anche l´odore della paura, qui all´Esquilino.
Sono asserragliati dietro le loro vetrine scintillanti, in una Chinatown romana che ha una rabbia sorda, soffocata. Qualcuno sta andando in piazza Vittorio per fare una colletta, vuole assumere guardie del corpo per difendere i commercianti. Non ne possono più di scippi e rapine. E oggi c´è anche il morto. Uno di loro.
Parla Wang Chi: «A me dicono "cinese di merda" almeno una volta al giorno e ne conosco almeno venti di miei connazionali che sono stati derubati negli ultimi tre mesi». È commesso in un negozio di via Napoleone III e adesso è seduto in un ristorante deserto al civico 16 di via Foscolo. Lui lo conosceva Zhou Zheng, il cinese ammazzato con la sua piccola a Tor Pignattara. Ricorda Wang: «Da dieci anni che ci incontravamo ma non ho mai avuto molto a che fare con lui, solo saluti veloci. Non sappiamo ancora perché l´hanno ucciso. Qui, a Roma, per noi sta diventando davvero difficile sopravvivere. Gli italiani stanno diventando molto razzisti».
In cucina ci sono sette ragazzi e una ragazza, tagliano tranci di un grosso pesce, carne scura, quasi nera, sembra un tonno imbalsamato. Sistemano piatti di riso alla cantonese dietro il bancone, ripetono in coro: «Razzisti, sì, italiani razzisti». Tutti sanno di quel che è accaduto sulla Casilina, tutti però ne parlano malvolentieri. Ti guardano con quella faccia imperturbabile, sussurrano due parole e poi si chiudono in un silenzio cupo.
Dietro piazza Vittorio, su per via di San Vito non c´è più un esercizio commerciale di proprietà o gestito da un romano. Da un po´ di anni i cinesi hanno buttato fuori anche i magrebini. Cinese è anche la ragazza del bar all´angolo, "Il Piccolo Caffè" che vende panini a 1,50 euro: «Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, qui in Italia ci detestano, ci trattano male tutti». Odia l´Italia? «Forse sì, forse stasera odio l´Italia», risponde lei. «Odio l´Italia», lo dice anche una vicina di casa del povero Zhou, una dei 20 o 30mila cinesi che abitano nella capitale italiana. Il numero esatto non lo conosce nessuno. Però tremano tutti nella Roma "gialla".
Qualche mese fa, i commercianti dell´Esquilino si sono già tassati una prima volta. Hanno assunto guardaspalle, sei, quattro italiani di un´agenzia di sicurezza e due di loro che gli fanno da traduttori. «Il problema della criminalità nella nostra comunità è gravissimo», spiega Hu Lanbo, una signora cinese di cinquantadue anni e che da ventidue, dopo aver sposato un italiano, vive a Roma. Hu dirige un mensile bilingue – "Cina in Italia" – dove in ogni numero scrive del disagio e delle paure degli emigranti di Pechino. «La situazione è peggiorata moltissimo nelle ultime settimane, ma mai avremmo immaginato che potesse accadere qualcosa di così crudele». Secondo lei c´è davvero odio per gli italiani, come in queste ore dice qualche cinese in preda all´emozione? «No, non credo che ci sia odio per l´Italia e per gli italiani, c´è odio per gli assassini».
Via Carlo Alberto, un´altra delle strade solo cinesi di Roma. Su un neon c´è scritto Xin Shin, dentro sono in due, fratello e sorella che vendono niente a nessuno. Il locale è pieno di borse, di scarponi, piatti, giocattoli, televisori. Lei al computer e lui è sprofondato in una poltrona. Lei alza gli occhi e racconta: «Noi abbiamo paura, per strada ci insultano, ci trattano male, l´altra settimana hanno fatto uno scippo a una mia amica: così, solo perché era cinese». Lui non apre bocca. Poi si alza e bisbiglia: «Io non voglio parlare di queste cose, io non so niente, non so nulla di quello morto sulla Casilina». Poco più su c´è la parrucchiera Xin Chao. È piena di donne. Shampoo e piega 8 euro. Shampoo, piega e taglio 10 euro. Donne sospettosisime. Dice una: «Chissà perché l´hanno ucciso in quel modo». Dice un´altra: «Non c´è lavoro, noi stranieri siamo troppi e molti italiani si arrangiano, diventano criminali. Magari li prenderanno e diranno che sono sbandati, drogati..».
Via Rattazzi, via di Sant´Antonio all´Esquilino, via Emanuele Filiberto. I nomi dei negozi sono mischiati come i caratteri. Vita bella. Piccola Cina. Lago Azzurro. Ruye Sciarpe. È una linea continua di insegne, di money transfer, di internet cafè. Una folla che va e viene in ogni angolo tranne che nei grandi magazzini di abbigliamento. Lì dentro non vola una mosca. Mai un cliente. Mai una vendita al dettaglio. E sui marciapiedi davanti alle vetrine i Suv dei padroni , Bmw, Mercedes, Volvo. Suzuki. È l´altra faccia della Chinatown romana. Quella più nascosta che poi è anche quella più visibile. Sono lì in bella mostra automobili da 80 mila e da 100 mila euro e non un´anima viva fra i manichini spogli. Sembrano intoccabili questi signori delle griffe fasulle. Altri misteri di una Chinatown che sta scivolando nel terrore.

il Riformista 7.1.12
La questione cinese a Roma per il sindaco dell’insicurezza
I due morti della comunità orientale segnano il fallimento del primo cittadino eletto all’insegna della “tolleranza zero”. Interviene la ministra Cancellieri: da oggi 130 carabinieri e agenti in più in strada
di Sonia Oranges


«Libereremo Roma da paura, degrado e povertà»: parola di Gianni Alemanno, sindaco della Capitale dove mercoledì notte due rapinatori hanno sparato in faccia a Joy, una bambina di appena sei mesi, che era in braccio al padre, Zhou Zeng, commerciante cinese di 31 anni che rincasava insieme con la moglie a Torpignattara. Peccato che la perentoria promessa del primO cittadino sia stata pronunciata a febbraio del 2008, all’indomani della sua candidatura al Campidoglio, conquistata proprio cavalcando il tema della sicurezza e della tolleranza zero. Da allora, però, Roma è stata imbrattata da una lunga e sempre più densa scia di sangue, fino al maledetto proiettile dell’altra notte che ha ucciso la bambina e il padre, e ferito la madre. Mentre i due assassini sono scappati a mani vuote, senza neppure portar via l’incasso della giornata, che le vittime avevano con sé. «La pazienza è finita, inadeguate le misure adottate fino a oggi. Ci sono troppa droga e troppe armi nei quartieri a rischio. Le belve criminali vanno fermate»: Alemanno ieri è tornato a mostrare i muscoli, con parole roboanti e vocabolario da duro, arrivando a chiedere «misure emergenziali per riprendere il controllo del territorio, debellando un tessuto criminale che in questi mesi è cresciuto oltre ogni misura». Ma quella bimba uccisa da due disgraziati, racconta che mentre il Campidoglio si occupava di allestire dei ghetti in cui rinchiudere rom e immigrati, nel tessuto sociale qualcosa si rompeva, si stemperavano i contorni di quel confine tra il lecito e l’illecito persino nella mentalità criminale. Un confine oltre il quale è stato possibile puntare un revolver contro una neonata, e urlare: «Vi ammazzo come cani!». A pronunciare queste parole, però, non sono stati i tanto te-
muti immigrati rumeni, ma due romani. Probabilmente frequentatori abituali del quartiere, che conoscevano il bar delle vittime. Rapinatori per caso, per noia o per disperazione, di certo non professionisti vista la disorganizzazione. Forse tossicodipendenti. Forse arrabbiati con quegli “stranieri” che si guadagnavano da vivere e abitavano in un quartiere popolare, uno di quelli destinati a trasformarsi come il vicino Pigneto, ma ancora territorio che le vecchie categorie sociali avrebbero definito proletario.
Se, però, è ancora troppo presto per addentrarsi nelle ragioni del delitto, il duplice assassino ha aperto un varco nella comunità cinese, una delle più numerose ma anche la più chiusa. E da anni accusata di colonizzare città e centri storici, importando, non sempre legalmente, un modello di lavoro in cui i diritti non sono previsti. Ora, però, i cinesi d’Italia propongono un’altra versione del loro mondo imprenditoriale. «Non c’è sicurezza per nessuno, non soltanto per i cinesi, ma noi siamo più indifesi spiegava ieri il presidente dell’Associazione commercianti cinesi di Roma, Lin Jian Zhong C’è un problema di lingua, spesso molti di noi rinunciano a fare denuncia per questo; invece altri rinunciano perché hanno paura di ritorsioni». Già, perché secondo quanto denunciato dal presidente onorario di Associna, Marco Wong, diversi negozianti avrebbero ricevute telefonate di minaccia di dalle prime ore di ieri mattina: «Se non paghi, ti faccio fare la fine di quello lì». Tanto che l’ambasciata cinese ha sollecitato formalmente l’Italia «a prendere tutte le misure idonee a tutelare la sicurezza personale e patrimoniale dei cittadini cinesi».
La questione, però, oltrepassa i confini della comunità cinese e riguarda una criminalità che sembra diffondersi a macchia d’olio. «Sappiamo che ogni giorno a Roma sono rubate in media tre pistole, tutto materiale rimesso in circolo nel mercato illegale», segnalava ieri il delegato della sicurezza del Campidoglio Giorgio Ciardi. D’altra parte, i 12 agguati e le 33 vittime dello scorso anno, parlano da sé. E se il vicesindaco Sveva Belviso, al termione di un vertice ad hoc svoltosi al Viminale, ha annunciato che «da domani 130, tra carabinieri e polizia, saranno in servizio per potenziare la sicurezza di Roma», in campo è scesa anche la ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri: «Lo Stato è presente e lo dimostrerà».

l’Unità 7.1.12
Se Auschwitz diventa un’agenzia pubblicitaria
di Moni Ovadia


Alcuni esponenti del governo ultrareazionario in carica in Israele tra i quali il ministro della difesa Ehud Barak hanno espresso indignazione e costernazione per la manifestazione indetta da frange estremiste di
haredim, quelli che vengono genericamente definiti ultraortodossi, che nel corso della protesta hanno messo in scena una grottesca rappresentazione «travestendosi» da vittime della Shoà.
Per conferire drammaticità alla loro miserabile mascherata, hanno cucito la stella di David gialla sugli abiti dei loro bimbi, mentre gli adulti hanno indossato la divisa a strisce bianche e blu degli internati dei lager nazisti mimando da ultimo, davanti ai poliziotti israeliani, i gesti di resa degli ebrei nel Ghetto di Varsavia di fronte ai mitra spianati delle SS.
Lo scopo della sceneggiata, detto in sintesi, è quello di instaurare progressivamente nello stato di Israele, una sorta di shaaria biblica basata su un'interpretazione perversa e fanatica della Torah condita, fra le altre cose, di furore sessuofobico.
Qualcosa di molto simile alla shaaria intesa nell'accezione fanatica dell'estremismo islamico wahabita o salafita. Ma perché stupirsi dell'esito naturale di una politica perseguita con determinazione dalla destra israeliana, ovvero il ricatto degli ultraortodossi in cambio del potere? Quanto alla strumentalizzazione della Shoà, continuamente usata come una clava propagandistica da Bibi & Co, con gli haredim, i più titolati, raggiunge come era ovvio l'apice.
In fondo la parodia di se stessi è sempre efficace. Non rimane che attendere l'apertura a Gerusalemme di un’agenzia pubblicitaria di nome Auschwitz.

l’Unità 7.1.12
Sbarcati nell’isola dopo le rivolte di febbraio di loro si sono perse le tracce. Li cerca un’associazione
Versioni disparate: fuggiti verso la penisola, tornati in patria, morti in mare durante il ritorno
Il mistero dei tunisini: in 200 a Lampedusa scomparsi nel nulla
Arrivarono a Lampedusa quando la Tunisia era infiammata, nell’inverno scorso. Ma duecento di loro sono poi spariti nel nulla. Che fine hanno fatto? Un quotidiano tunisino ha acceso la miccia.
di Luigi Manconi, Valentina Brinis Valentina Calderoni


Questo è «il misterioso caso dei tunisini scomparsi». Che, poi, dietro ci sia una indecifrabile bizzarria della cronaca o una strage efferata, un imbroglio amministrativo o una scelta consapevole, una storia di estrema marginalità sociale o una complicata macchinazione diplomatica o, infine, una suggestiva leggenda metropolitana: tutto ciò è ancora da accertare. Ma il dato di partenza è incontestabile: da mesi un numero rilevante di tunisini, sbarcati a Lampedusa nei giorni successivi alle rivolte popolari del febbraio del 2011, si è come volatilizzato
nel nostro paese, non ha più dato notizie di sé, non è stato più segnalato e identificato, non ha più rapporti con i familiari rimasti in patria.
Dove sono finiti, quei tunisini?
Una domanda a cui vuole dare una risposta Rebecca Kraiem. La donna, rifugiata in Italia da 23 anni e dirigente dell’associazione tunisina “Giuseppe Verdi”, è alla ricerca dei suoi connazionali dallo scorso marzo. Gira l’Italia in lungo e in largo, dal Consolato di Palermo all’Ambasciata di Roma fino ad alcuni centri di identificazione e di espulsione. Ma questo suo lungo girovagare non ha prodotto ancora risultati significativi, non avendo trovato alcun supporto presso gli organismi di rappresentanza del governo tunisino in Italia.
VERSIONI DA PROVARE
Ma in Tunisia di questa vicenda si parla e non solo all’interno delle mura domestiche o nelle sedi politiche. Il 29 dicembre il giornale Assabah ha pubblicato un articolo che riporta i nomi di cento cittadini di cui non si ha più notizia; e una ricostruzione assai vaga della presunta dinamica che avrebbe portato gli scomparsi, dopo aver toccato il suolo italiano, a essere respinti e, infine, messi a morte nel tratto di mare tra l’Italia e l’Africa. Questo articolo, pur privo di riscontri oggettivi, ha avuto un effetto devastante sui familiari che continuano ad attendere invano informazioni capaci di smentire una versione così tragica del destino dei loro cari.
Ed è qui il cuore nero di questa vicenda. L’assoluta assenza di informazioni, da parte delle istituzioni italiane e, ancor prima e ancor più, da parte di quelle tunisine.
PROBLEMI INTERNI
In quel paese, dopo le rivolte dei mesi scorsi, l’assetto politico è mutato e si è insediata l’Assemblea Costituente. Ma, all’interno delle ambasciate e dei consolati, non si è realizzato un corrispondente cambiamento ed è rimasta pressoché inalterata a tutti i livelli la composizione del personale, costituito da sostenitori del precedente regime.
Questi ultimi restano attivamente ostili sia a quanti hanno partecipato alle manifestazioni di piazza, sia a quanti dalla Tunisia sono fuggiti. In un primo momento il Governo Italiano ha concesso una protezione temporanea ai tunisini sbarcati in Italia entro il 5 aprile 2011, rinnovandola dopo sei mesi. Ma tutti coloro che sono arrivati dopo quella data hanno validi motivi per temere il rimpatrio. Infatti la Tunisia non è più considerata un paese dove vengono conculcati i diritti umani e, dunque, dal quale si possa fuggire per ottenere altrove protezione. Tutto ciò potrebbe avvalorare l’ipotesi che i tunisini “spariti” siano trattenuti in alcuni Cie in Italia ma, dal momento che potrebbero aver fornito generalità fittizie (per paura di essere identificati come tunisini e quindi rimpatriati), rintracciarli è diventata un’impresa davvero ardua. Questa ipotesi ha trovato riscontro, seppure parziale, nell’ultimo viaggio di Rebecca Kraiem a Torino.
Qui, all’interno del Cie di Corso Brunelleschi, due tunisini hanno riconosciuto, in una foto mostrata loro, un connazionale scomparso che, circa cinque mesi fa, sarebbe passato per quel centro e, poi, sarebbe stato trasferito a Palermo. Sarà pure una traccia minima, ma vale la pena approfondirla: è in gioco la sorte di decine e decine di esseri umani. Chi scrive ha provveduto a informare dettagliatamente il ministro dell’Interno di questa vicenda così inquietante e, insieme, così evanescente. Non è affare che riguardi solo la Tunisia.

l’Unità 7.1.12
L’Ungheria nella bufera
«Siamo pronti a tutto per un accordo con l’Ue»
«È spazzatura»: Fitch declassa il rating di Budapest. Riunione d’emergenza nell’ufficio del premier: «Subito il prestito Fmi». L’Europa incalza sui diritti civili
di Roberto Brunelli


Spazzatura. Sarà un caso, ma la svolta è arrivata poco prima che il rating dell’Ungheria venisse degradato al livello di junk, spazzatura. Da BB+ a BBB-, con i cordiali saluti dell’agenzia Fitch. E sarà pure una coincidenza che il vertice d’emergenza convocato ieri di prima mattina dal premier ungherese Viktor Orban per piegarsi a ben più miti consigli nei confronti dell’Unione europea si concludesse mentre a Bruxelles si stava decidendo di aprire una procedura d’infrazione nei confronti di cinque Paesi europei che ancora non hanno formato le «prove necessarie» atte a dimostrare che stanno prendendo le misure atte a correggere drasticamente i loro deficit, prima di tutti, l’Ungheria. A seguire, Belgio, Cipro, Malta e Polonia, accomunati dall’avere un deficit superiore al tetto del 3 per cento del Pil.
Mai come in questo caso, in Europa si intrecciano la discussione sui valori democratici fondanti del Vecchio continente e le implicazioni della violenta tempesta economica che sta sconvolgendo l’Eurozona. «Cercheremo un accordo al più presto con il Fondo monetario e l’Ue», ha dichiarato un Orban quanto mai compito ieri alla conclusione del suo inedito «gabinetto di crisi», dopo che giovedì i mercati erano tracollati in buona parte proprio sulla scia della fuga dai titoli stato magiari ed il capitombolo del fiorino. Una situazione tale da far gridare i più compassati analisti al «panico» di fronte alla tutt’altro che remota prospettiva di bancarotta dell’Ungheria.
E così, eccoli qua, tutti intorno ad un tavolo: insieme al premier c’erano il ministro dell’economia e delle finanze Gyorgy Matolcsy, l’inviso (da Orban) governatore della Banca centrale Andras Simor, il negoziatore con il Fmi Tamas Fellegi ed il ministro della presidenza del consiglio Mihaly Varga. In ballo c’è ovviamente la richiesta di prestito (15-20 miliardi di euro) a Fmi e Ue, che fino a pochissimi giorni fa il premier snobbava vistosamente, «congelato» sulla scia della nuova Costituzione ungherese di stampo marcatamente ultra-nazionalista e antidemocratica, a cominciare dall’assoggettamento governativo della Banca centrale, per finire con un pesantissimo giro di vite sulla libera informazione e sui diritti civili. È la stessa Fitch, nelle motivazioni del suo downgrading, a mettere insieme i due elementi: la decisione sul rating, afferma l’agenzia, riflette ovviamente «l’ulteriore deterioramento della posizione di bilancio del Paese, delle sue condizioni di rifinanziamento e delle prospettive economiche», ma questo anche a causa di politiche «non ortodosse» che «stanno minando la fiducia degli investitori internazionali e compromettendo la possibilità» di un nuovo pacchetto di aiuti.
Com’è, come non è, guarda caso, Budapest inizia ad innestare una vistosissima inversione di marcia. «Siamo pronti ad una collaborazione stretta fra governo e Banca centrale», ha detto Orban, che fino a ieri l’altro ha cercato ogni mezzo per esautorare il governatore Andras Simor, ora fieramente presente al suo fianco. E ancora. «Siamo d’accordo sul fatto che l’interesse del Paese sia un’intesa al più presto possibile con il Fondo monetario. Faremo di tutto per un accordo. Il negoziatore Fellegi partirà domani stesso per Washington». Et voilà.
Un altro passo volto a rassenerare i mercati annunciato ieri a Budapest è la concertazione permanente fra il governatore e il ministero dell’economia in termini di un continuo monitoraggio dei fondamentali economici, e soprattutto la disponibilità, messa più o meno esplicitamente sul tavolo, di modificare la legge sulla Banca centrale, la cui indipendenza, secondo Fmi e Ue, risulta gravemente minata. Tanto per intendersi, per Bruxelles è proprio la modifica di questa legge il «prerequisito indispensabile» per ogni negoziato. Orban, secondo il quale ancora tre giorni fa un mancato accordo «non sarebbe stato una tragedia», ora sembra essersene accorto.
Sennonché, la tenaglia intorno al primo ministro si fa sempre più stretta. Anche sul fronte interno. La sinistra chiede esplicitamente le «dimissioni pacifiche» di Orban, «per evitare la catastrofe economica». Il settimanale Heti Világgazdaság pubblica una lettera di nientemeno che Vivian Reding, commissario europeo per i diritti fondamentali: Bruxelles, minaccia la Reding, utilizzerà «tutti i mezzi necessari» per garantire i diritti fondamentali e i valori europei in Ungheria. Ora il panico non regna più solo sui mercati, ma anche a casa Orban.

il Fatto 7.1.12
Revisionismo cileno
Piñera riscrive i libri di storia: Pinochet? Non era dittatura
di Maurizio Chierici


In Cile la parola “dittatura” è sparita dai libri della scuola dell’obbligo. E i governi Pinochet diventano innocenti governi militari. Ritocco annunciato. Piñera, primo presidente della destra dalla caduta del generale, è cresciuto in una famiglia al servizio della dittatura. Fratello ministro dell’Economia addottorato alla scuola di Chicago’s Boys il cui liberismo selvaggio ha pietrificato la Santiago del dopo Allende. È rimasto fedele al generale fino al penultimo giorno proprio come il ministro della Cultura detronizzato l’estate scorsa dalla rivolta degli studenti guidati da una bella ragazza dagli occhi verdi: Camila Vallejo. Per due anni ha occupato le piazze contro la privatrizzazione dell’insegnamento disegnata da Joaquín Lavín, consigliere economico di Pinochet, già sindaco della Santiago dei notabili con l’orgoglio dell’appartenenza all’Opus Dei. Non accettava che il suo generale tanto amato e i parenti e gli amici in divisa fossero finiti negli zoo dei dittatori. Ecco il lungo avvicinamento alle parole da sfumare.
La generazione che Piñera e il suo governo sconsolatamente definiscono perduta, ha invece studiato la storia sui testi rinnovati dal presidente Lagos dieci anni fa. Sa bene cosa è successo e ha imparato a non fidarsi dei potenti impegnati ad addormentare le future generazioni così come Pinochet aveva addormentato le generazioni prima. Nei 27 anni segnati dalla sua autorità, la Storia del Cile, testo per le scuole primarie, edizione Zig Zag dell’Università Cattolica ha accompagnato con 37 edizioni, un milione di copie, gli allievi sui banchi fino a 14 anni.
L’AUTORE Salterio Millar scrive con tono amabile che “ogni avvenimento viene evidenziato” in modo “da far discendere un insegnamento morale”. Per capire quale morale: ecco come ricorda la morte di Allende: “La sua gestione politica aveva portato il paese a una grave crisi istituzionale. La maggior parte della gente e della stampa chiedeva al governo di tornare a casa per impedire l’avvento di una società socialista. Disordine e violenze avevano superato limiti accettabili. Questa era la situazione quando l’11 settembre 1973 le forze armate e i carabinieri per impedire gli scontri sanguinosi di una possibile guerra civile, hanno deciso di assumere il governo del Paese chiedendo al presidente Allende di andarsene. Allende non si è fidato delle garanzie personali che gli erano state offerte. Ha preferito suicidarsi nel palazzo della Moneda”. Fino al 2004 era il testo sul quale i ragazzi continuavano a preparare gli esami fino a quando il governo Lagos (primo socialista dopo Allende a tornare alla Moneda) ha distribuito una “storia” meno reticente e con tutte le verità. Più coltivata nelle analisi e confortata da numeri e statistiche, era la Nuova storia del Cile, manuale universitario sempre pubblicato dall’Università Cattolica, la più importante del paese dopo che Pinochet aveva disgregato ogni istituto pubblico. Il testo per nuovi laureati faceva capire con quali idee la classe dirigente veniva preparata ad affrontare la vita. 574 pagine, fitte, fitte, allargavano le stesse parole del testo dedicato ai ragazzi. Rottura sociale e fallimento politico del governo Allende. La chiesa prova a mediare ma non ce la fa. Presidente Allende che si toglie la vita e giunta militare che “assume il potere per rimettere in vigore le libertà istituzionali, far funzionare una giustizia corretta e salvare la popolazione dal totalitarismo marxista-leninista”. Poi Pinochet diventa presidente e “viene autorizzato a concentrare provvisoriamente un certo numero di poteri. Ma a differenza dei regimi totalitari di carattere fascista e comunista, i militari seguivano un impegno molto chiaro: eliminare le cause che avevano contribuito alla decadenza e alla disgregazione sociale”. È la sola volta che viene usato il verbo “eliminare”, parlando di cause che volevano dire migliaia di persone.
È LA CULTURA sulla quale si è formata la nuova classe dirigente. Ma l’arresto di Pinochet e l’invasione televisiva di Cnn, Cbs e altre catene americane con programmi in lingua spagnola, hanno riscritto la storia. I giovani cileni scoprono le realtà nascoste e ne sono disorientati. Ma 8 anni di informazioni corrette crescono una società dalle idee chiare, ragazzi guidati da una leader che scuote le piazze contro ogni ipocrisia. L’altro ieri le agenzie che misurano la popolarità dei protagonisti abbassano Piñera al 34%, mai tanto male un presidente negli ultimi 10 anni. Meglio Michelle Bachelet, ex capo dello Stato, di centrosinistra: 50; ma la sorpresa è Camila Vallejo: 44, la ragazza più amata del Paese (anche se ha perduto la guida degli studenti). L’impressione è che dopo le prossime elezioni la parola “dittatura” ritornerà ad accompagnare Pinochet sui libri di scuola.

il Fatto 7.1.12
La strana maledizione dei Navy Seals
Stress post-traumatico e incidenti
L’amaro destino dei Rambo anti-Bin Laden
di Giampiero Gramaglia


Fra i militari di ritorno dal fronte, i “rambo” super-addestrati delle squadre speciali sono quelli che più soffrono di Ptsd, la sigla che in italiano sta per disturbo post-traumatico da stress: una “malattia” già studiata dopo la Grande Guerra e la WW2, ma cui il Vietnam – a partire dall’intenso Tornando a casa di Hal Ashby, con Jon Voight e Jane Fonda – e l’Iraq hanno conferito dignità letteraria e cinematografica. Garry B. Trudeau vi dedica alcune delle strisce più amare del suo Doonesbury.
I Navy Seals sono gli uomini delle squadre speciali della U. S. Navy: sono stati loro, il 1 maggio 2011, a scovare e uccidere, nel suo covo di Abbottabad, in Pakistan, Osama bin Laden, il fondatore e il capo della rete terroristica al Qaida. Spesso eroi nelle cronache di guerra; e talora disadattati nelle cronache dopo il ritorno a casa: inclini alla violenza, in difficoltà nel ritrovare gli affetti “di prima” e la vita “normale”.
Qualche volta, sono tragedie vere: famiglie in frantumi, comportamenti asociali, sparatorie. Altre, sono episodi minori: più smargiassate da capitan Fracassa, che fanno dubitare della qualità dell’addestramento, che drammi, anche se poi lo diventano. È il caso del militare di 22 anni rimasto anonimo che lotta contro la morte in un letto d’ospedale nei pressi di San Diego, dopo essersi “accidentalmente” sparato alla testa con la sua pistola per fare colpo (letteralmente, ci è riuscito) su una ragazza appena conosciuta in un bar. I due avevano bevuto, lui decisamente troppo. Portatosi a casa la ragazza, il soldato non ha trovato di meglio che mostrarle le sue armi: lei, più lucida, s’è spaventata e gli ha chiesto di metterle via. E lui, per mostrarle che non c’era pericolo, s’è puntato alla testa la pistola, che credeva scarica, e ha premuto il grilletto: il colpo era in canna ed è partito. Pochi giorni or sono, i giornalisti americani avevano scelto l’uccisione di Osama come “top story” del 2011, davanti al terremoto in Giappone, alla Primavera araba e alla crisi del debito in Europa (messa prima delle difficoltà economiche degli Stati Uniti). Ed è nel pieno la polemica su una fuga di notizie – presunta – gestita dalla Casa Bianca per alimentare con un film sul raid di Abbottabad l’immagine vincente del presidente Obama (la pellicola uscirà durante la campagna elettorale).
Gli uomini delle squadre speciali non sono solo protagonisti di storie cruente, come in agosto, quando 22 Navy Seals morirono nello schianto in Afghanistan di un elicottero Chinook, forse abbattuto dai talebani: molti facevano parte del Team 6, quello dell’azione contro Osama, anche se nessuno vi aveva preso parte. A volte sono coinvolti in storie strappalacrime: commosse l’America la foto di Hawkeye, occhio di falco, il cane di uno dei seals deceduti su quel Chinook, immobile e prostrato sulla bara del padrone avvolta nella bandiera a stelle e strisce. “Era lui il suo figliolo”, commentò una cugina del soldato morto, più a suo agio con gli animali che con le persone.

il Fatto 7.1.12
“Conosco la mente di Dio, ma il mistero sono le donne”
Conversazione con l’astrofisico Stephen Hawking,
il più grande scienziato vivente che domani compirà 70 anni
di Donna Bowater


È nato l’8 gennaio 1942 il più grande scienziato vivente, l’astrofisico e cosmologo Stephen Hawking. Da circa mezzo secolo vive su una sedia a rotelle con il corpo devastato da una malattia che non gli consente più né di parlare né di muoversi. Le conseguenze della malattia sono evidenti, ma non suscitano compassione; stupore piuttosto. Nel 1963, l’ambizioso e brillante studente di Cambridge, fu colpito da una forma di Sla. Gli dettero due anni di vita, “non di più”. Servendosi di un computer che sintetizza la sua voce, a partire da impercettibili movimenti che fa con le guance, risponde: “Da 49 anni convivo con la morte, con l’idea di una morte prematura. Non ho paura di morire, ma non ho nemmeno fretta. Ho ancora un mucchio di cose da fare”. L’università di Cambridge si prepara a festeggiarlo con gli onori riservati a uno dei suoi allievi e professori più illustri. Alla conferenza organizzata dalla prestigiosa università interverranno 27 relatori che parleranno di buchi neri, cosmologia e fisica. Hawking ha visitato con la sua mente l’intero universo e ha sconfitto le leggi della medicina per poter riscrivere quelle della fisica. È stanco, non ha molta voglia di parlare, ma fa sempre sfoggio del suo leggendario senso dell’umorismo. Sulle pareti della sua stanza un po’ della sua vita: una lettera di Michelle Obama, immagini di un suo viaggio nell’isola di Pasqua e in Cina e una bella foto di Marilyn Monroe. “Quella è una mia ex fiamma”, dice Hawking e sembra di vederlo sorridere.
MA COME ha tenuto duro per così tanti anni? “Inizialmente – racconta – mi ha aiutato molto la musica di Wagner che ascoltavo per ore e ore. Non è affatto vero che alzassi il gomito per farmi coraggio. Lo hanno scritto molte volte, ma non è vero. Un bella spinta me la diede l’incontro con una studentessa di lingue, Jane Wilde, che divenne mia moglie nel 1965, la prima moglie per essere precisi”. In campo scientifico Stephen Hawking ha raggiunto la notorietà con la scoperta dei buchi neri e da anni insegue il sogno di fondere in un’unica teoria il molto grande (la relatività generale) con il molto piccolo (la meccanica quantistica) per dare vita alla cosiddetta gravità quantistica. Quale è stato il suo maggiore errore? “Per molto tempo ho pensato che all’interno dei buchi neri andassero distrutte tutte le informazioni. Poi ho cambiato idea. Ed è stato questo il mio maggiore errore, per lo meno in campo scientifico”. Quale scoperta rivoluzionerebbe più di ogni altra la nostra concezione dell’universo? “Probabilmente la scoperta delle particelle supersimmetriche che potrebbe esserci regalata dal Large Hadron Collider di Ginevra”. Quella di Hawking è stata una vita di successi in campo scientifico, ma non priva di cambiamenti sul versante personale. Da Jane ebbe tre figli – Lucy, Robert e Tim – ma si separarono nel 1991. Perché? “A ripensarci oggi, in parte per motivi religiosi. Una delle conseguenze della cosmologia quantistica è che la creazione e l’evoluzione dell’universo si possono spiegare semplicemente con le leggi della scienza senza ricorrere a un creatore”.

La Stampa 7.1.12
Intervista
“L’uomo è religioso dai tempi dell’australopiteco Lucy”
Il neo-cardinale Ries: “Il cristiano comprenda le altre culture”


L’uomo è stato fin dalla sua origine uomo religioso». Il sacerdote belga Julien Ries, 92 anni, a lungo docente all’università cattolica di Lovanio, è il fondatore di un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. Fautore del dialogo tra le religioni, Ries sarà creato cardinale il prossimo 18 febbraio. La sua esistenza è stata dedicata agli studi sul sacro nelle diverse culture: ha una bibliografia immensa e la sua opera omnia viene pubblicata in italiano dall’Editoriale Jaca Book.
Lei arriva alla porpora dopo una vita di ricerca: è stato tra i primi a insistere sulla dimensione religiosa come originaria nell’uomo. Il senso religioso è davvero connaturato?
«Sono molto d’accordo con il paleoantropologo Yves Coppens, lo scopritore di Lucy, il quale da anni ripete che l’uomo è da subito uomo religioso».
Come si documenta questa affermazione?
«Consideriamo questo uomo religioso quale lo conosciamo attraverso i fatti e i gesti della storia: se analizziamo le sue pitture ritrovate in centinaia di grotte, sinora scoperte, le sue migliaia di incisioni rupestri, se esaminiamo il suo comportamento riguardo ai defunti, se cerchiamo di interpretare i gesti della sue mani levate verso la volta celeste – il “Ka” degli antichi egizi – siamo obbligati a pensare a un’esperienza di relazione vissuta in maniera cosciente dall’uomo arcaico con la realtà misteriosa e ultra terrena».
Qual è il ruolo dei testi sacri delle varie religioni?
«I libri sacri dell’umanità costituiscono un prodigioso patrimonio che storici e altri specialisti tentano di analizzare per comprendere il discorso con cui l’uomo religioso e simbolico ha tradotto la propria esperienza. L’insieme di questo discorso è coerente dal Paleolitico fino ai nostri giorni. Cosa che ci porta a pensare a un’unità dell’esperienza spirituale dell’umanità».
Oggi certi simboli religiosi sembrano dividere piuttosto che unire. È possibile la convivenza tra religioni differenti nelle nostre società?
«Il cristiano è tenuto a comprendere e a beneficiare dell’apporto delle altre culture. I padri della Chiesa avevano già compreso questo. Da ciò la ricchezza dell’epoca ellenistica per la cultura cristiana dei primi secoli e la grande importanza del Rinascimento. La sua domanda sottintende l’obiezione di Claude Levis Strauss che ha tentato di determinare il funzionamento dello spirito umano rifiutando però di cercare nei miti un senso che sarebbe rivelatore delle aspirazioni dell’umanità. Per lui i miti non dicono nulla sulle origini dell’uomo e sul suo destino. La sua ricerca sfocia in una visione completamente materialistica della cultura. Siamo così in presenza di un vero pessimismo».
Che novità ha portato il cristianesimo nella storia religiosa dell’umanità?
«Nel suo discorso costruito sotto forma di parabole, Gesù riprende in parte il simbolismo cosmico e lo pone al servizio dell’annuncio del Vangelo. Vi aggiunge allegorie tratte dalla vita quotidiana. È una teofania nel senso pieno del termine. E questa stessa esistenza è la più grande rivoluzione religiosa della storia. Cristo, dopo avere inviato lo Spirito sugli apostoli, mediante il suo corpo che è la Chiesa continua ad essere presente nella storia».
Quale considera essere la sua scoperta scientifica più importante?
«L’aver individuato la possibilità di costruire un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. La prima sperimentazione di questa costruzione è stata organizzare su richiesta del mio editore Jaca Book, il Trattato di antropologia del sacro a cui hanno collaborato un centinaio di studiosi e in cui si documenta che il concetto di homo religiosus è operativo e fondamentale per la ricerca sulle religioni e sulle culture. Un lavoro che mette in evidenza l’uomo religioso e la sua esperienza del sacro basandosi sulle tre costanti dell’esperienza stessa: il simbolo, il mito e il rito. L’antropologia fondamentale affronta tutto questo e ci apre nuovi orizzonti sull’uomo anche in tempi di crisi come il nostro».
Che effetto le fa essere nominato cardinale a 92 anni?
«La nomina a cardinale mi riempie di gioia. Non mi riempie di gioia, invece, avere l’età che ho! ».

La Stampa 7.1.12
Il concistoro

Se la Curia piglia tutto
di Andrea Tornilli

Il quarto Concistoro del pontificato di Benedetto XVI si terrà il prossimo febbraio con la creazione di 22 nuovi cardinali. Diciotto dei 22 nuovi cardinali hanno meno di 80 anni e dunque sono votanti in caso di conclave. La decisione del Papa conferma una tendenza che si è manifestata negli ultimi anni: aumenta il peso della Curia romana e in particolare dell’Italia.
Nella lista che il Papa ha letto ieri, infatti, ben dieci porporati con diritto di voto appartengono alla Curia, cinque di questi sono ex nunzi apostolici. Gli italiani contenuti nell’elenco sono sette, uno soltanto dei quali, Giuseppe Betori, è arcivescovo di una città del nostro Paese. Tutti gli altri ricoprono incarichi nei dicasteri e negli uffici vaticani. In caso di conclave, gli italiani elettori del nuovo Papa sarebbero trenta su 125.
A fronte di questa massiccia presenza curiale – nessuno di coloro che Oltretevere attendevano la berretta rossa è stato deluso – balzano agli occhi delle assenze quanto mai significative: quello del prossimo febbraio sarà un Concistoro senza neanche un cardinale africano, nonostante il successo del viaggio del Papa in Benin e la vitalità dimostrata dalle Chiese del Continente nero. Neanche una berretta rossa va ai vescovi residenziali dell’America Latina, in quello che in altri tempi fu definito «Continente della speranza», dove risiede più della metà dei cattolici del mondo, dove il Papa si recherà tra qualche mese e dove è già in programma la Giornata mondiale della Gioventù del 2013. Nessun vescovo del Medio Oriente diventa cardinale.
A parlare sono le cifre. Dopo il Concistoro i cardinali votanti europei saranno 67, che aggiunti ai nordamericani e a quelli dell’Oceania portano a ben 83 gli elettori del Papa appartenenti al Nord del mondo. America Latina, Africa e Asia messe insieme arrivano ad appena 41 elettori.
Notevolissimo, in questi equilibri, il peso della Curia: dopo il 18 febbraio, ben 44 dei 125 cardinali elettori, cioè più di un terzo, lavora o ha appena terminato di lavorare nei dicasteri e negli uffici romani.
Il quarto Concistoro di Benedetto XVI segna anche il culmine dell’influenza del suo Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, che ha ottenuto la nomina e la designazione cardinalizia di prelati a lui molto vicini. Per giustificare una tale preponderanza di curiali, è stata applicata la regola non scritta – adottata di volta in volta in modo ferreo o con eccezioni a seconda delle circostanze – che prevede di non dare la porpora agli arcivescovi di diocesi cardinalizie che abbiano il predecessore pensionato con meno di ottant’anni e dunque ancora votante in conclave. Così facendo si sono lasciati senza berretta i pastori di grandi diocesi come Rio de Janeiro, Santiago del Cile, Bogotá, Filadelfia, Los Angeles, Manila, Bruxelles. In base alla stessa regola è stato escluso anche l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia. Non esistono regole non scritte, invece, per chi sta in Curia: anche capi dicastero nominati da qualche mese o da poche ore in ruoli curiali cardinalizi hanno ottenuto immediatamente la porpora.

Corriere della Sera 7.1.12
Teatro «eretico», la mobilitazione dei cattolici

di Paola D'Amico

MILANO — La protesta contro il «teatro blasfemo» del regista Romeo Castellucci corre sul web da giorni. La prima della pièce «Sul concetto di volto nel Figlio di Dio» è in cartellone al Teatro Franco Parenti il 24 gennaio. E per quel giorno si annuncia una mobilitazione massiccia di cattolici da tutta Italia. Gli stessi che da giorni inondano di lettere la regista Andrée Ruth Shammah, direttrice del Parenti, chiedendole di togliere dalla programmazione lo spettacolo, contro cui lo scorso autunno, a Parigi, si erano già mobilitati 8 mila cattolici. Ieri, una lettera appello è stata inviata al cardinale Angelo Scola. Che viene chiamato in causa anche da Roberto de Mattei, il discusso storico del Concilio, spesso censurato per le sue idee e per la sua militanza cattolica, vincitore del prestigioso premio Acqui: «Sant'Ambrogio passò alla storia per aver sfidato l'Imperatore Teodosio, perché il cardinale Scola non dovrebbe sfidare il nuovo impero, quello dei media, pronto a scatenarsi contro chiunque alzi la voce contro la blasfemia».
Non nasconde disagio la Shammah, attenta a non cadere nella trappola di chi vorrebbe da questo caso aprire un dibattito sulla libertà di espressione. «L'ultima delle mie intenzioni è nascondermi dietro la libertà di parola. Non voglio offendere nessuno — spiega —. Il Teatro Franco Parenti ha una storia di attenzione alle voci più tormentate e complesse della nostra cultura contemporanea: da Testori a Pasolini, fino a un prossimo lavoro su Giobbe, attualmente in preparazione. Ogni pensiero, ogni identità, ogni espressione viene trattata con il massimo rispetto, nella convinzione che la libertà di espressione non debba mai prevalere sulla inderogabile necessità di non ledere le sensibilità, le storie, le fedi. La diffusa preoccupazione potrebbe facilmente dipendere dalla circolazione di informazioni incomplete o non corrette. L'edizione di "Sul concetto del volto del Figlio di Dio", che sarà presentata a Milano — aggiunge la regista —, non può in alcun modo essere considerata blasfema. La scena più discussa, nella quale bambini scagliano finte granate (erroneamente interpretate come escrementi) in direzione del ritratto di Cristo di Antonello da Messina, è stata tagliata, già due anni fa, in occasione degli accordi per l'adattamento legato all'ospitalità del teatro. Da Roma, però, si organizzano i cattolici di Militia Christi, i movimenti per la vita, Italia Cristiana, Ora et Labora, con veglie di preghiera, processioni, messe di riparazione «in forma straordinaria». Don Pier Paolo Petrucci, prossimo Superiore del distretto italiano della Fraternità San Pio X, è determinato: «Se al posto di Gesù ci fosse Maometto ci sarebbe un'insurrezione generale. Noi vorremmo cercare di suscitare la reazione di quel che resta dei cattolici in Italia. Non si può accettare passivamente che si insultino così i simboli della nostra fede sotto la scusa della cultura».
Il dibattito nel mondo cattolico è già aperto: «Io ho visto lo spettacolo — scrive Caterina Spadaro —. Castellucci qui non usa blasfemia del testo, né del gesto. Quel gesto teatrale di lancio contro il volto del dipinto di Antonello da Messina li turba? Sapessero quanto ne verrebbero toccati profondamente, li ispirerebbe». Ma dal fronte dei tradizionalisti la risposta non lascia aperture: «Le reazioni e le proteste contro lo spettacolo non venivano sempre da persone sprovvedute anche sul lato dottrinale e dogmatico — chiarisce Alessandro Galvanetti —. In Francia, tra le persone che hanno protestato si contano diversi vescovi».

Repubblica 7.1.12
Nostalgia di Foucault
Follia e potere, così tutti lo citano senza conoscerlo
Cinquant´anni fa usciva uno dei libri più importanti e più pubblicati del pensatore francese Eppure ancora oggi, nonostante gli studi, le sue lezioni non sono state capite fino in fondo
di Pier Aldo Rovatti


Il rapporto con lui spesso si è limitato ai convegni e agli omaggi evitando di affrontare i nodi del suo pensiero

Il 1961, poco più di cinquant´anni fa, fu un´annata eccezionale. Esce Folie et déraison di Michel Foucault (ovvero la Storia della follia nell´età classica), il primo dei suoi grandi libri, il capolavoro. Ma escono anche altri libri epocali come I dannati della terra di Frantz Fanon e Asylums di Erving Goffman. Tutto sembra girare attorno alla condizione del malato mentale e alla critica delle istituzioni psichiatriche, e bisognerebbe ricordare anche che nello stesso 1961 Franco Basaglia inizia a Gorizia quella straordinaria avventura che porterà alla chiusura del manicomio di Trieste e alla "legge 180". Ma c´è molto di più, qualcosa come un cambiamento di passo nella consapevolezza culturale, proprio grazie a una riflessione radicale sugli internati e sugli esclusi.
La Storia della follia di Foucault venne subito tradotta in italiano, non scomparve mai dalle librerie, e adesso disponiamo anche (e finalmente) di un´edizione completa, senza tagli né omissioni (sempre per i tipi Bur Rizzoli, a cura di Mario Galzigna). Tuttavia, quest´opera così importante è rimasta marginale, spesso svalutata, perfino dimenticata: non è mai entrata davvero nel dibattito teorico, come se su di essa fosse subito calato una specie di interdetto, che poi si è perpetuato negli anni, al punto che c´è da chiedersi se ancora oggi - quando ormai Foucault è diventato per tutti un "classico" - non ne resti un´ombra consistente.
Gli storici hanno storto il naso. I filosofi hanno il più delle volte fatto spallucce, domandandosi quale fosse il succo teoretico di quelle 500 pur affascinanti pagine. Storia di un "silenzio" (il silenzio sulla follia)? Racconto di come dal "grande internamento" del xvii secolo nasce la moderna psichiatria? Elogio postromantico di alcuni grandi folli (da Hölderlin a Van Gogh ad Artaud), intesi come voci che gridano nel deserto? Non erano cose per palati filosofici né per quegli intellettuali impegnati che avevano da fare con il marxismo umanistico. Neppure nel ´68 la Storia della follia venne presa davvero sul serio. La leggevano soltanto alcuni operatori intelligenti immersi nelle loro pratiche specifiche, e non erano neanche tanti.
Foucault, con il quale Sartre polemizzava, rimase a lungo lo "strutturalista" Foucault, quel provocatore che aveva sentenziato, nelle ultime righe di Le parole e le cose (1966), la "morte dell´uomo". Lentamente, in seguito, cominciarono a circolare le sue parole chiave: archeologia, genealogia, pratiche discorsive. Intanto lui era entrato nel prestigioso Collège de France, e di lì a poco avrebbe fatto capire anche ai sordi che il suo programma teorico aveva di mira essenzialmente il "potere" e l´obiettivo di costruire una inedita "microfisica del potere". L´etichetta di strutturalista sbiadiva così, ridicolmente, dinnanzi a libri come Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, per non parlare degli ultimi corsi dedicati alla biopolitica e al "governo di sé e degli altri" (fino all´ultimissimo del 1984 sul Coraggio della verità, appena tradotto).
Foucault è oggi noto e apprezzato in tutto il mondo, ha fornito strumenti di lavoro a una moltitudine di ricercatori. Eppure l´interdetto non sembra del tutto caduto. Ogni volta, all´inizio dei suoi corsi, Foucault ha ricordato, con incredibile chiarezza espositiva, le tappe del proprio itinerario, una linea di ricerca senza salti che va dalla follia alle prigioni, alla sessualità, attraverso un´indagine paziente dei dispositivi sociali, delle pratiche che le fanno funzionare piuttosto che sulle filosofie generali con cui pretendiamo di afferrarne dall´alto le ragioni.
Ecco dove, a mio parere, si è annidato il sospetto. Perché Foucault non ci dice cos´è la follia (cos´è il potere, cos´è la sessualità)? Che bisogno c´è di occuparsi del fatto che il folle sia stato trasformato in un malato mentale? Il malato mentale non è forse una realtà per noi acquisita? E perché mai - qui sta l´essenza del sospetto - la malattia mentale dovrebbe agire come un indicatore così importante da trasformarsi in una posta teorica e politica valida per l´intera società?
Mi dispiace affermarlo con tanta nettezza, ma porsi domande come queste, rivolgerle a Foucault, vuol dire rifiutarsi di entrare nel suo discorso e nel suo stile di pensiero. Significa non mettersi in sintonia neppure con una riga delle migliaia e migliaia che ha scritto, nonostante tutti ormai gli rendano omaggio, nonostante gli innumerevoli commenti e i prestigiosi convegni a lui consacrati. Se ragioniamo con attenzione sulla mancata ricezione della Storia della follia (come in parte ha tentato di fare l´ultimo fascicolo della rivista aut aut, dedicato specificamente a questo nodo), vediamo bene che non ha tutti i torti chi dice che non abbiamo ancora cominciato a "leggere" Foucault.

Repubblica 7.1.12
La verità e l’esempio di Socrate
di Maurizio Ferraris


Nel 1984 Michel Foucault tiene il suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità, mentre è entrato nello stato terminale dell´Aids che lo porterà via dopo pochi mesi. La trascrizione delle lezioni fissate esce ora in traduzione italiana a cura di Mario Galzigna (per Feltrinelli). Foucault è stanco ma vuole portare a termine il compito che si era assegnato l´anno prima: svolgere una storia della parresia, il dire la verità a costo della vita, dalla sua nascita in Grecia ai suoi sviluppi nel Medio Evo (la predica e l´università) sino ai moderni, dove il parresiaste sembra trasformarsi nella figura del rivoluzionario.
Per chi aveva legato il suo nome alla dottrina del potere-sapere, all´idea che si deve guardare con sospetto il sapere, perché è veicolo di potere, questo progetto è il segno di un´inversione di rotta. Sin dalla prima lezione Foucault precisa che interpretare le sue ricerche come "tentativo di ridurre il sapere al potere non può essere che una pura e semplice caricatura". Eppure, proprio il drammatico intreccio tra potere e sapere era stato il nocciolo del pensiero foucaultiano, come viene ribadito in L´ordine del discorso. E come leggiamo nella sintesi della Microfisica del potere: "l´esercizio del potere crea perpetuamente sapere e viceversa il sapere porta con sé effetti di potere".
Nella teoria del potere-sapere c´era una reincarnazione della Genealogia della morale, e si stabiliva un paradosso che sta al cuore del pensiero di Foucault così come di Nietzsche: si critica la verità non per gusto della mistificazione ma per il motivo contrario, per un amor di verità che vuole smascherare tutto, compresa la verità. Un gioco pericoloso, perché vedere nella verità un effetto di potere significa delegittimare la tradizione, che culmina con l´Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù. Per Nietzsche, l´esito era stato il mito, l´idea che la verità deve cedere il posto all´illusione e al dispiegarsi della potenza. Per Foucault l´esito è antitetico. Infatti, non è un caso che, accanto a questa apologia della verità come critica e come contrasto del potere, Foucault, qui, si impegni anche in una apologia dell´Illuminismo, come accade proprio in una lezione al Collège de France dell´anno prima.
Un percorso che si completa nelle ultime lezioni di Foucault, dove l´eroe terminale è proprio Socrate morente, ossia l´antieroe di Nietzsche, che ci vedeva quello che, morendo, aveva imposto la falsa equazione tra sapere, virtù e felicità. Per Foucault, invece, Socrate è il parresiaste per eccellenza. Socrate vuol dire la verità, in pubblico e a costo della vita. Il punto culminante è la lezione dedicata alla morte di Socrate, che si conclude così: "Come professore di filosofia, bisogna aver tenuto, almeno una volta nella propria vita, un corso su Socrate e sulla sua morte. L´ho fatto. Salvate animam meam". Salvate l´anima mia. L´invocazione è ironica, come sempre in Foucault, ma il tema non lo è affatto. Perché Socrate, per Foucault, rappresenta ora la quintessenza del rischio di una verità che rende liberi e non schiavi.

La Stampa TuttoLibri 7.1.12
Vita e amore
Con Goethe «più luce»
di Anacleto Verrecchia


Di tanto in tanto gli dei si degnano di mandare qualche Mercurio sulla Terra, affinché ne diradi le tenebre e cerchi di illuminare la testa degli uomini, ma nessuno lo ascolta ed e già molto se non ci rimette la pelle e riesce a farla franca. Anche Goethe fu uno dei codesti Mercuri e anche lui e rimasto inascoltato, nonostante che su di lui si siano scritte montagne di libri. Scrivere un ennesimo libro su Goethe è un po’ come accendere un’altra candela sull’altare del miracolante Padre Pio o su quello della madonna di Lourdes. Eppure John Armstrong l’ha fatto ( Come essere felici in un mondo imperfetto. La vita e l’amore secondo Goethe Guanda, pp. 476, 23) e bisogna subito dire che la sua candela, tanto per non uscire di metafora, getta nuova luce su nuovi aspetti della vita del grande poeta. Il libro, infatti, è essenzialmente una biografia, genere letterario in cui gli inglesi sono maestri. L’autore comincia con una spassosa nota sulla pronuncia del nome Goethe, che «è un bel problema» Gli inglesi non se la cavano meglio degli italiani, dalla cui bocca escono incomprensibili «Ghéte» o «Goète». Solo a Torino, grazie alle vocali galliche, io lo sento pronunciare ben. Ma parliamo del libro. Più si va avanti nella letteura e più essa diventa appassionante. Ciò riguarda soprattutto la prima parte, più strettamente biografica e quindi più ricca di dati. Dove invece l’autore esprime il contenuto delle opere di Goethe ci può scappare, nonostante la bravura analitica, qualche lungagnata e quindi qualche sbadiglio. Ma nel complesso si tratta di un bel libro, ben pensato e ben scritto. La natura e il destino furono decisamente liberali con Goethe, che ebbe sempre la fortuna sulla visiera della berretta. Al suo battesimo c’erano Minerva per la testa e Mammona per le tasche. E c’era anche Venere, perché Goethe, oltre a tutto il resto, era anche un bell’uomo. «Più luce»: così avrebbe detto Goethe sul punto di morte. No, Sommo, Poeta, quando muore un uomo come te la luce si spegne!

La Stampa TuttoLibri 7.1.12
Roma capoccia anche nel Medioevo
di Alessandro Barbero

La scoperta Maire Vigueur riscrive la storia della città dopo i barbari: popolosa e vitale, tutt’altro che decaduta
San Gregorio in processione, miniatura da «Les Très Riches Heures du Duc de Berry» (XV secolo)
Jean-Claude Maire Vigueur L'ALTRA ROMA. UNA STORIA DEI ROMANI ALL'EPOCA DEI COMUNI (SECOLI XII-XIV) Einaudi, pp. 487, € 38

Quando si pensa alla storia di Roma, si procede di solito contrapponendo fasi di grandezza e fasi di decadenza: lo splendore imperiale dell’Antichità, poi la rovina e lo spopolamento seguiti alle invasioni barbariche, infine la Roma rinascimentale e soprattutto barocca, coi grandi investimenti edilizi che avrebbero riscattato la città da una decadenza millenaria dandole il volto che ancora conosciamo. Ebbene, come molte cose che credevamo di sapere, anche questa è falsa: quello che Jean-Claude Maire Vigueur chiama «l’uragano barocco» non ha ridato vita a un deserto di rovine, ma ha cancellato - non senza il concorso degli sventramenti sabaudi e mussoliniani - una grande città medievale, di straordinaria vivacità edilizia ed artistica.
Alla distruzione fisica della Roma medievale si è accompagnato l’oblio dell’importanza politica ed economica che la città ebbe nell’Italia dei comuni. L’archivio del comune romano è scomparso nel Sacco del 1527, e fino a poco tempo fa la storiografia sull’età comunale ha quasi del tutto ignorato Roma. Maire Vigueur, che da molti anni vive e insegna in Italia ed è uno dei massimi studiosi delle città medievali italiane, amplia e consolida nel suo nuovo libro le scoperte della ricerca più recente, che sconvolgono i luoghi comuni tradizionali. La Roma del Due e del Trecento era una città popolosa e vitale, con un’aristocrazia di imprenditori impegnati a far fruttare la terra in modi altrettanto moderni dei loro omologhi lombardi o toscani, e compagnie bancarie attive sul mercato internazionale. E il comune di Roma non vegetò stentatamente all’ombra del papato: ebbe una vita politica vigorosa quanto quella di qualunque comune del Centro-Nord. Quando alla fine si arrese e cedette i suoi poteri al papa rientrato da Avignone, nel 1398, comuni orgogliosi come Milano erano caduti già da un secolo sotto il dominio dei tiranni.
Ma al di là di questa interpretazione forte del passato, e dunque dell’identità stessa di Roma, Maire Vigueur ha scritto un libro straordinario per la sua capacità di evocare in modo vivido una città che non esiste più, e di cui molti non sanno neppure che è esistita. La città che appariva al viaggiatore o al pellegrino da Monte Mario, con l’immensa cerchia delle mura aureliane, che racchiudevano ben 1400 ettari di superficie; con le case addensate nell’ansa del Tevere, l’unica zona rimasta interamente urbanizzata, sormontate dalla foresta delle torri nobiliari fitte, dicono i testimoni dell’epoca, come le spighe in un campo di grano; e poi la vastissima distesa dei vigneti all’interno delle mura, punteggiati, qua e là, dai resti degli edifici antichi, da chiese e monasteri. La città delle basiliche costantiniane, due delle quali, San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano, ospitavano il potere papale in imponenti complessi di chiese, palazzi e giardini, descritti da Maire Vigueur con una precisione tale da farci dimenticare che gli edifici rinascimentali e barocchi hanno cancellato quelli del Medioevo senza lasciarne quasi più traccia.
La città che respirava attorno al grande mercato del sabato davanti al Campidoglio, quando tutte le botteghe erano chiuse per legge e tutti i commercianti e gli artigiani mettevano lì i loro banchi; lì circolavano notizie e rumori e lì cominciavano tutti i subbugli. La città dove i baroni avevano fortificato i monumenti antichi, come il Colosseo, il teatro di Marcello e il mausoleo di Augusto, e regnavano su interi quartieri dai loro poderosi complessi di case e torri; dove una ricca aristocrazia d’imprenditori gestiva la favolosa produzione di grano e gli allevamenti di greggi della Campagna romana, spopolata sì, ma tutt’altro che improduttiva; dove macellai e pescivendoli abili negli affari, boss dei grandi mercati quotidiani come quello del pesce a Sant’Angelo in Pescheria, potevano ammassare fortune colossali e far sposare i loro figli alle ragazze degli Orsini; dove il popolo organizzato in corporazioni di mestiere e in compagnie armate rionali vegliava gelosamente a difendere i diritti e i privilegi della città che dopo tutto continuava a vantarsi di incoronare gli imperatori. La Roma dei grandi riti collettivi che mobilitavano l’intera popolazione, come la processione dell’Assunta o i pazzeschi giochi del Testaccio, quando mandrie di tori e di maiali venivano precipitate giù dal colle, e gli animali pazzi di rabbia e di terrore erano inseguiti e uccisi a piedi e a cavallo da chi voleva provare «d’esser figlio di buona mamma». Una città ricca, violenta, brutale, dinamica, tutt’altro che domata e asservita al potere soporifico della Chiesa: una Roma ben diversa dalle altre che conosciamo, e che merita di riprendere il suo posto nella storia accanto a quella dei Cesari, a quella dei papi, e a quella d’oggi. "Non vegetò all’ombra del papato, c’erano imprenditori e banche come nei comuni del Centro-Nord Un mondo ricco e violento con torri fortificate, vigneti, campi di grano E un grande mercato al sabato in Campidoglio"

Corriere della Sera 7.1.12
Quello che le statistiche non dicono della nostra testa
di Eoardo Boncinelli


Il cervello, si sa, è uno degli organi prediletti dall'uomo e ogni novità che lo riguarda viene avidamente cercata e prontamente accolta anche se ben poco corrispondente alla realtà delle cose. Qualche anno fa un neurobiologo italoamericano fece un elenco delle idee sbagliate a carico di tale organo, dal fatto che ogni giorno morirebbe una quota fissa e rilevante delle cellule nervose che lo compongono, a quello che noi utilizziamo solo una piccola frazione del cervello stesso, a quello infine che l'emisfero sinistro sarebbe più discorsivo e logico e quello destro più artistico e immaginativo. Negli ultimi tempi siamo stati bombardati dalle «vere» differenze fra il cervello del maschio e della femmina, da quanto la dieta incida sull'attività e l'agilità dello stesso e dall'elenco degli «esercizi» che lo manterrebbero giovane. Ora è la volta di un imponente studio statistico che mostrerebbe che le nostre facoltà mentali declinano già a partire dai 45 anni, ma se si legge l'articolo si scopre poi che questo declino, misurato con enorme difficoltà, è appena del 3,6% nei primi anni dopo i 45. Seguono poi una serie di raccomandazioni per preservare il cervello da questo supposto invecchiamento precoce.
La notizia presenta due lati diversi, che come tali vanno considerati. Il primo, sacrosanto, è quello che un cervello sufficientemente ossigenato funziona meglio. Noi riteniamo usualmente di avere nella testa un organo superiore, capace dei voli più arditi e quasi sottratto alle miserie del corpo, ma si deve poi ammettere che tutta questa eccezionalità è strettamente legata alla sua integrità e quindi al suo rapporto con il resto del corpo. Il cervello rappresenta il 2% della massa del corpo, ma consuma il 20% dell'energia quotidiana che circola nello stesso. Ha quindi continuamente bisogno di essere nutrito e ripulito, di essere cioè attraversato da un costante e vivace flusso sanguigno. Pena la riduzione del funzionamento. Si sa da tempo che molte di quelle che un tempo venivano definite defaillance mentali precoci, o peggio, sono imputabili dovute a ridotta ossigenazione, dovuta alle cause più diverse. Occorre quindi andare da un dottore se la situazione si presenta critica e fare del sano moto in ogni caso, a ogni età, allo scopo di far «girare» il sangue.
Sul fatto poi che il cervello invecchi a questa o quella età, bisogna intendersi. Il cervello, come tutto il corpo, è al massimo intorno all'età riproduttiva, l'unica che la selezione naturale, come dire la Natura, riesca a «vedere», cioè a prendere in considerazione. Dopo comincia a declinare, anche se molto lentamente e non per tutti alla stessa velocità. Questa o quella facoltà e questa o quella prestazione cominciano a risentire del passare del tempo, con cinetiche molto diverse da individuo a individuo e da prestazione a prestazione. Si tratta ovviamente di differenze sottilissime, ma per certi aspetti rilevanti. Se si parla di uomini di scienza di creatività e rilevanza eccezionali si osserva un fenomeno ancora inspiegato. Un matematico ventenne è già abbondantemente in pista e a trenta anni comincia a perdere smalto; un fisico dà il suo meglio fra i venticinque e i trent'anni, creando edifici di pensiero imponenti e smaglianti, poi la sua creatività ritorna più «normale»; il biologo di punta è invece un po' meno precoce e più longevo: dà il suo massimo a trentacinque-quarant'anni. Perché? Non si sa, ma si può supporre che la punta di diamante dell'intelligenza più tagliente sia al suo massimo molto presto e dopo un po' sia meno «arrotata». Di poco, di pochissimo, si intende, ma non senza effetto. Conclusioni per i normali mortali? Non preoccuparsi degli altri, pensare a sé e alle proprie doti personali, che comunque sempre esistono e vanno continuamente esercitate, e fare scorrere il più possibile il sangue nelle proprie vene. Il resto sono chiacchiere.

Corriere della Sera 7.1.12
Saramago divorzia da Granada per il buffet di nozze
di Luca Mastrantonio


È finito il viaggio di nozze tra José Saramago e Castril, il paesino spagnolo in provincia di Granada di cui è originaria la famiglia della giornalista e traduttrice Pilar Del Río, sposata dal premio Nobel portoghese nel 1988 a Lisbona, con rito civile. Ribadito nel 2007, proprio a Castril, per tener fede alla promessa fatta alla madre di Pilar, in coincidenza con l'inaugurazione della cattedra dedicata a Saramago dall'Università di Granada. Grazie a Saramago, Castril è diventato un centro culturale molto attivo, con il Festival Siete Soles Siete Lunes e la fondazione a lui intitolata (nata nel 2003). Nel parco «Le piccole memorie», dedicato alla passione di Saramago per gli alberi, in particolare quelli da frutta, l'autore — che morirà nel 2010 — piantò un ciliegio.
Ora, però, la luna di miele è finita con la brutalità burocratica con cui terminano certi matrimoni d'interesse: a carte bollate. A fine dicembre del 2011, Pilar del Río ha chiesto di ritirare il nome di José Saramago dalla fondazione al presidente della provincia di Granada, Sebastián Pérez (del Partito popolare) e al nuovo sindaco Miguel Pérez Jiménez (popolare anche lui). La lettera è stata scritta da suo fratello Jesus, membro del Patronato della fondazione (dove c'è anche l'Università di Granada) ed è arrivata sui giornali spagnoli ieri. Il caso è letto come il primo regolamento di conti nella provincia in mano al Partito popolare.
La rottura era nell'aria, la scintilla è scattata quando un deputato provinciale popolare, denunciando pubblicamente presunte irregolarità della precedente giunta socialista nella gestione dei fondi pubblici della fondazione, ha parlato di una fattura di 9 mila euro con cui il Comune avrebbe pagato il buffet per Saramago e Pilar.
La vedova, a Los Angeles per il tour del documentario José e Pilar che, tra l'altro, mostra anche la cerimonia di Castril, non entra nel merito «fiscale» (alla replica ci ha pensato la sorella, Carmen del Río, su Twitter, @ClaresParaules, sostenendo che il rinfresco poi fu pagato dal sindaco). Critica il metodo: diffondendo una notizia senza verificarne la fondatezza, è stato «infangato il nome di José Saramago». Dunque la fondazione non merita quel nome. A Castril, ricorda Pilar, il patronato di Saramago fu concesso per «facilitare l'assegnazione delle sovvenzioni», ma la vera fondazione è a Lisbona. Di cui Pilar, peraltro, è presidentessa. Anzi, presidenta, come pretende d'esser chiamata.