venerdì 6 gennaio 2012

l’Unità 6.1.12
Intervista a Nicola Zingaretti
«Paghiamo gli errori di una destra in cerca di capri espiatori»
Il presidente della Provincia: «Il sindaco sbagliò a usare una tragedia nella polemica politica
Così ha segnato uno spartiacque negativo per la città»
di Jolanda Bufalini


Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti è appena uscito dal vertice al Viminale convocato dopo l’efferato delitto di Tor Pignattara, con il ministro Annamaria Cancellieri e il capo della polizia Manganelli. Alemanno non c’è, è in viaggio di ritorno dalla Patagonia. Lo sostituisce la vicesindaco Belviso. Nicola Zingaretti nega la necessità di adottare misure straordinarie: «Non si può cambiare strategia ogni 15 giorni. Bisogna solo attuare, ognuno per la sua parte, ciò che si è deciso» ma, soprattutto, considera un errore politico la logica dei «capri espiatori» portata avanti dal governo di centrodestra: «La sicurezza si conquista sconfiggendo la paura e facendo vivere le città».
Presidente, in questi anni le priorità in tema di sicurezza a Roma sono stati i clandestini, le lucciole, i rom. I fatti efferati di Tor Pignattara indicano altre priorità?
«Io ho un ruolo istituzionale e non faccio opposizione, ma proprio nello svolgimento di questo ruolo ho denunciato un approccio alla sicurezza come è stato con l’ex ministro dell’Interno Maroni ridicolo quando si fonda sulle ronde. Le ronde più che garantire i cittadini alimentano la voglia di farsi giustizia da sé, per fortuna i cittadini si sono mostrati migliori di chi li ha governati».
L’impressione è che in questo caso ci troviamo di fronte a dei balordi, ma ci sono stati 35 omicidi in pochi mesi. A cosa si deve la recrudescenza di fatti di sangue a Roma?
«Non è ancora chiaro quale sia stata la dinamica dei fatti a Tor Pignattara. Roma fronteggia due problemi diversi. Il primo (che non mi pare riguardi questo caso) è che Roma è diventata teatro di interventi della criminalità organizzata, che investe denaro proveniente da attività criminose di mafie e camorra. Il secondo problema ha a che vedere con la frammentazione, la perdita di valori che rende il terreno propizio al radicamento delle bande criminali. Paghiamo questo doppio effetto».
I tagli lineari non hanno colpito soltanto la benzina per le volanti, hanno tolto mezzi ai servizi con cui gli enti locali intervengono nelle situazioni di disagio sociale.
«Non ha certo aiutato la scomparsa in un triennio di 14 miliardi di trasferimenti agli enti locali, si è colpita una rete civile e sociale già fragile. In questa situazione il commissariato è come un castello isolato. Né possiamo sottovalutare la tensione sociale: negli ultimi anni a Roma è raddoppiata la disoccupazione ed è molto aumentato il ricorso alla cassa integrazione. La miscela di impoverimento e di crescita delle bande criminali è esplosiva».
Cosa bisogna fare?
«Bisogna capire che non tutta la spesa pubblica è un costo, ciò che serve a creare un tessuto vivibile dà anche più sicurezza. Roma paga anni di crisi che hanno avuto un effetto devastante dal punto di vista del degrado. Periferia non è solo una nozione urbanistica, servono più sport, più cultura, più aggregazione e socialità, anche un parco giochi aiuta a dare maggiore sicurezza».
Ci vuole una maggiore presenza delle forze dell’ordine per il controllo del territorio?
«Sicuramente ed è positivo che il nuovo piano per la sicurezza abbia confermato l’invio di 400 uomini in più. Ma c’è anche una battaglia valoriale da fare, per sconfiggere la paura delle differenze che viene scaricata su capri espiatori. Noi stiamo pagando un prezzo alto per questo sbaglio»
Lei ha dichiarato che è stato un errore catapultare il tema della sicurezza nell’agone politico. Si riferisce alla campagna elettorale di Alemanno di tre anni fa?
«Immettere una tragedia violenta nel confronto politico è stato uno spartiacque che ha prodotto una ferita nella civiltà politica e nel tessuto urbano di Roma».
Tolleranza zero?
«L’errore politico della destra è stato quest’idea gladatoria della sicurezza è stato quest’idea gladatoria della sicurezza, è stato dare priorità al problema dei “vu cumprà”, mentre c’erano le bande criminali che si organizzavano. Puntare tutto sul controllo militare del territorio, come ha fatto Maroni, si è rivelato inefficacie, tanto più che poi mancano i soldi per i commissariati. Anche l’utilizzo dell’esercito non ha dato frutti, perché ci sarà sempre un angolo di città che rimane scoperto. Il patto firmato a dicembre con il ministro Cancellieri ha avuto un’evoluzione positiva da questo punto di vista. Ma, soprattutto, accanto alla volante ci vuole la vita e la socialità. Come presidente della Provincia, che però è al confronto del Campidoglio una piccola istituzione, ho contrapposto alla tolleranza zero di Alemanno “Prevenzione mille”, che ha significato finanziare 101 associazioni laiche e religiose la cui attività si rivela di straordinaria importanza per la vivibilità». Ma la situazione di crisi economica è tuttora grave, incide sulla sicurezza?
I tagli al welfare comportano dei rischi perché hanno prodotto e producono solitudine e la solitudine è brodo di coltura sia per la paura che per la delinquenza».
Cosa avete deciso nel vertice al Viminale
«Non c'è stata nessuna misura speciale se non l'attuazione del patto per Roma sicura siglato alcuni giorni fa, del resto sarebbe sbagliato cambiare strategia a pochi giorni di distanza dalla firma del Patto».

il Fatto 6.1.12
L’accusa dell’ex prefetto Achille Serra
“Il Campidoglio fa solo annunci”
di Luca De Carolis


Servono prevenzione, uomini e idee. Non servivano le promesse in campagna elettorale di Alemanno”. Achille Serra, prefetto di Roma dal 2003 al 2007 con Walter Veltroni in Campidoglio, ora senatore dell’Udc, sintetizza così la sua ricetta per fermare l’emorragia di omicidi e crimini nella capitale.
Senatore, siamo al punto zero dell’emergenza criminalità a Roma. Perché?
Le cause del terribile 2011, e di quanto accaduto a Tor Pignattara, sono tante. Innanzitutto, l’offensiva degli ultimi anni di ’ndrangheta e camorra, che stanno tentando di mettere le mani sulla città. Le bande locali hanno reagito. E sono arrivati i morti.
Qual è la posta in palio?
Principalmente, il traffico di droga. Ma per la malavita organizzata è primario anche riciclare denaro in esercizi commerciali. Un fenomeno ormai diffuso, non solo nel centro di Roma.
Ma non c’è solo la malavita...
Certo, gli omicidi hanno tante cause. Ci sono anche quelli passionali, o per liti. Ma il fenomeno della criminalità che si espande è centrale. Soprattutto, e qui veniamo a un altro nodo enorme, se non hai mezzi e strumenti sufficienti per contrastarlo.
Qualche dato?
I governi negli ultimi anni hanno tagliato ferocemente sulla sicurezza. Aveva iniziato il secondo governo Prodi, ma i tagli di gran lunga peggiori li ha fatti l’ultimo esecutivo Berlusconi. Di fatto, a polizia e carabinieri mancano circa 14mila uomini. Poi c’è lo stato deprecabile degli strumenti di lavoro, a cominciare dalle auto: spesso vecchie e malmesse. Numeri che ricascano sulla capitale.
Quali sono le responsabilità di Alemanno?
Il suo principale sbaglio è stata la campagna elettorale, in cui ha millantato poteri sulla sicurezza che un sindaco non può avere. Il buon sindaco deve battere i pugni sul tavolo nel Comitato per l’ordine e la sicurezza. Ma non ha poteri diretti sul tema. Invece lui fece annunci in serie. Promesse a vuoto.
Veltroni batteva i pugni?
Lui mi garantì una collaborazione totale, agivamo come una sola persona. Quando ero prefetto, lavorammo molto sulla prevenzione. Avevamo pattuglie sempre in strada, e anche il servizio di vigilanza urbana dava un grande contributo. Un’altra priorità era dare buona illiminazione a tutti i quartieri. In una piazza ben illuminata, lo spacciatore non c’è.
Ora cosa si potrebbe fare?
Innanzitutto, creare una centrale operativa unica per tutte le forze dell’ordine, magari in prefettura. Renderebbe più efficaci i controlli e consentirebbe di risparmiare uomini. E poi vanno aumentati gli organici. Ai tempi in cui ero prefetto a Roma c’erano tremila agenti impegnati nelle scorte. Con mille di loro, avremmo 15 pattuglie in più nelle strade.

il Fatto 6.1.12
Violenza Capitale
Quattro anni dopo la sceneggiata di Alemanno a Tor di Quinto, la città è un romanzo criminale
di Luca Telese


C’è una nemesi spietata nella fenomenologia da Romanzo criminale che in queste ore sta sgretolando come un biscotto l’immagine della Roma legge-e-ordine vagheggiata da Gianni Alemanno. E c’è un contrappasso nel destino di chi aveva cavalcato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, e ora si ritrova immerso in un western metropolitano livido e feroce: sparatorie, regolamenti di conti, taglieggiatori dal grilletto facile, rapinatori strafatti di coca che uccidono bambini. Nel 2008 il futuro sindaco Alemanno fu bravissimo nell’accreditare l’idea che i due delitti di quella campagna elettorale – il drammatico martirio di Giovanna Reggiani, alla stazione di Tor di Quinto, e lo stupro della ragazza del Lesotho alla Storta – fossero figli del lassismo della sinistra, un sottoprodotto malato del rinascimento veltroniano, male oscuro di una città sfavillante e solare, in cui i festival cinematografici duellavano con Venezia e le notti bianche illuminavano gli incassi dei commercianti.
ALEMANNO riuscì abilmente a dipingere questa suggestione, a imporre il tema della sicurezza a Francesco Rutelli (che per recuperare propose la delirante idea di un braccialetto anticrimine per tutte le donne romane!). Ma era vero il contrario: se si accetta l’idea che le amministrazioni di sinistra avessero indirettamente propiziato quei delitti, vorrebbe dire che ora è la nuova giunta capitolina a battezzare la contabilità macabra dei 35 omicidi del 2011. E se, invece, si ipotizza che il sindaco conti poco o nulla nella gestione della sicurezza naufraga il primo punto di forza della comunicazione politica del centrodestra. Per questo ieri Walter Veltroni si è tolto un sassolino dalle scarpe: “In quell’occasione – ha detto al Tg3 – Alemanno fece uno dei gesti politici più orrendi che io ricordo in questi anni, andando sul luogo dove era morta una persona a fare campagna elettorale”. Ma se, invece, oltre che a contarli si prova a pesarli, questi delitti, si scopre che la politica c’entra meno, oppure moltissimo, ma in modo indiretto. Intanto non si muore perché c’è poca fermezza, ma perché le periferie, abbandonate, si spengono. La giunta Veltroni ebbe il merito innegabile di fare di tutto per animarle: aprirono centinaia di negozi, librerie, pub, ristoranti, esercizi tipici, tutti fuori dal centro storico. Il primo gesto che fece clamore nel tempo della giunta Alemanno, la famosa aggressione all’alimentari di via Macerata (dopo deliranti sospetti su fantomatiche bande naziste rivendicò un coatto che aveva tatuato Che Guevara), non documentava tanto un clima d’odio etnico e razziale, ma era piuttosto un campanello di allarme: i quartieri popolari, poco illuminati, trascurati, degradati, trasformati da vetrine in piazze di spaccio, diventano zone di guerra tra poveri. Ma se si prova a pesare l’alfabeto dei delitti di questo lungo e spietato anno, ci si rende conto che spesso sono il segnale di una guerra di egemonia fra bande per il controllo dei quartieri. Molti atti di violenza, non solo delitti, ma anche gambizzazioni, si verificano nel quadrante sud-est della città, in quella porzione di periferie che ha il suo cuore intorno a Torbellamonaca, e nel cuneo che dal raccordo si infila nel centro correndo fra Tuscolana e Casilina. Se si guardano le fedine penali dei responsabili accertati, per esempio, si scopre che spesso anche le vittime delle aggressioni sono coinvolte in una guerra territoriale: pregiudicati, recidivi, gente appena uscita di galera. In questo scenario si manifestano personaggi che paiono saltati fuori dai romanzi di Massimo De Cataldo: maschere allucinate come quella di Andrea Vella, ex guardia giurata, killer sieropositivo, già omicida del suo fidanzato trans, fermato dai carabinieri con una beretta armata e 15 colpi in canna proprio a Torbellamonaca.
Anche il duplice omicidio di Ostia, è stato letto dagli inquirenti come un regolamento di conti: due imprenditori, appena tornati dall’Egitto, proprietari di alberghi, imprese, società. E che dire di Massimiliano Cogliano, pugile, buttafuori, atteso in strada per una esecuzione brutale? Aveva forse, senza saperlo, sbarrato la strada al figlio di qualche capetto? A preoccupare chi indaga non è tanto il numero degli omicidi, ma la qualità: aumentano gli agguati, le sparatorie, le esecuzioni. Alcuni delitti, come quello del gioielliere Flavio Simmi, freddato con nov ecolpi calibro 9 in via Grazioli Lante, nel cuore di Prati, il 5 luglio scorso, erano stati addirittura annunciati da una gambizzazione a gennaio e rivelano uno scenario più grande. E Simmi, figlio di “Robbertone” – un nome legato alla Banda della Magliana finito in carcere nel 1993, con l’accusa di usura, da cui poi fu scagionato – era così terrorizzato da chiedere protezione in ambienti malavitosi. Delitti come questo sono il segnale di una battaglia per l’egemonia in cui il potere (esattamente come negli anni ’80) si conquista con la calibro 9. Le guerre criminali aumentano la circolazione delle armi, rendono pericolosi anche i due rapinatori tossicopdipendenti che ieri hanno freddato il barista cinese e la sua bimba.
Ecco perché appare profetica, riletta oggi, l’intervista con cui il segretario del Sap, Francesco Paolo Russo, lanciava un allarme disperato sul Corriere della Sera (solo due mesi fa!): “A Roma mancano 1.500 poliziotti. C’è solo un agente ogni 980 abitanti, al Casi-lino ci sono soltanto due auto, per coprire una superficie di 113 chilometri quadrati, pari a quella del comune di Napoli”. E deve far riflettere anche l’intervista agghiacciante del Tg5 a Luigi Onofri, padre di Stefano, detto “il gigante buono”, ragazzone ucciso da colpi di mazza da baseball, con una tecnica che aveva fatto evocare l’efferatezza di Bastardi senza gloria di Tarantino: “Io non voglio vendette – ha denunciato papà Luigi – ma come è possibile che dopo un anno, uno dei tre condannati torni a casa ai domiciliari”. In questa Roma criminale e pulp, l’ultima beffa è questa: i poliziotti di quartiere restano una favola amena da campagna elettorale e chi spara sa che prima o poi può uscire. Il primo pericolo sono i pregiudicati che nell’Italia dei processi brevi (o lunghi) dribblano le condanne.

La Stampa 6.1.12
Un’immensa favela dove si spara come nel Far West
Quasi tutti i crimini commessi da connazionali, anzi da romani
L’allarme del Viminale: siamo a una soglia sproporzionata di violenza diffusa
di Guido Ruotolo


Non c’è più tempo per interrogarsi, per indignarsi sulle ragioni di questa violenza così assurda. Un’offesa per Roma città eterna, che sembra diventata una immensa favelas dove la violenza la fa da padrone. Non solo nelle sue periferie, ma anche nel centro, nel cuore della capitale. A Prati, due morti e sette gambizzazioni nel 2011.
Che impressione soffermarsi su quei dati nudi e crudi della città: 32 omicidi, 37 gambizzazioni, 140 furti di armi. In un anno, Roma sembra sfigurata e addirittura fuori controllo.
E’ vero, i numeri in sé sono ben poca cosa rispetto alla città, ai suoi quasi quattro milioni di abitanti. E però colpiscono lo stesso. La fotografia che ci consegna uno dei vertici delle forze di polizia che ha partecipato all’incontro di ieri al Viminale è allarmante: «Siamo a una soglia sproporzionata di violenza diffusa».
Sparano balordi per una rapina che finisce in omicidio; si sparano tra di loro per una partita di droga da spacciare in territori occupati da altri; sparano per risolvere regolamenti di conti, per futili motivi personali.
Sotto traccia, quello che è accaduto nel 2011 potrebbe in parte anche confermare l’esistenza di un conflitto criminale dovuto a presenze organizzate che sgomitano. Gli omicidi per lo spaccio, in alcuni casi con identiche modalità di intervento - la moto e i due killer con caschi integrali per non farsi riconoscere e stesso calibro utilizzato - potrebbero volere confermare la sensazione che siano maturati all’interno di una logica di guerra di mafia.
E gli investigatori della capitale fanno capire che su 32 omicidi registrati l’anno scorso, almeno cinque potrebbero essere omicidi di criminalità organizzata. Una piccola percentuale comunque, anche perché nella capitale la grande mafia c’è, ed è impegnata nel reinvestimento dei propri capitali, come dimostra la vicenda del Cafè de Paris, lo storico locale della «dolce vita» di via Veneto, sequestrato agli Alvaro di Sinipoli, una potente famiglia di ‘ndrangheta. E, dunque, la mafia ha bisogno di tranquillità, di non dare nell’occhio, di potersi muovere senza controlli.
Eppure spiegare Roma con i numeri soltanto è complicato. Perché i numeri e le percentuali danno atto che l’attività di prevenzione e di repressione delle forze di polizia non è da buttare. Risultati positivi, con le percentuali degli arresti per rapina, per furto, per traffico di stupefacenti, per usura, per estorsione che crescono del dieci, venti, trenta per cento in più rispetto all’anno precedente. Meno esaltanti, invece, sono le percentuali delle denunce, con picchi dell’80% in meno di denunce per usura o del 20% per ricettazione.
Si sono registrati più omicidi rispetto all’anno precedente ma meno dei 50 di media dell’ultimo decennio.
E allora Roma violenta colpisce intanto perché i suoi territori non hanno confini. I balordi o i violenti dilagano dalla periferia al centro. E non risparmiano i bambini. Come purtroppo dimostra Joy, nove mesi, uccisa l’altra sera con il padre, ma in un altro caso di rapina è rimasta ferita anche una bambina di dieci anni.
Le armi che uccidono, poi, non sembrano provenire dai grandi traffici di armi gestiti dalle mafie transnazionali (dei Balcani, per esempio). Piuttosto, essendo pistole o revolver, sembrano essere quelle provenienti dai furti nelle abitazioni. Gli investigatori concordano tutti nel sottolineare la presenza diffusa di armi sul territorio.
Roma città violenta colpisce soprattutto perché la nazionalità di questi criminali è tutta italiana, anzi romana. Il sindaco Gianni Alemanno conquistò il Campidoglio all’indomani dello stupro, della violenza e dell’omicidio di una donna da parte di un rumeno. Rumeni e albanesi erano sul banco degli imputati, in quella stagione. Con la Romania si aprì un braccio di ferro per far rimpatriare i rom, popolo diventato parafulmine delle paure e delle deviazioni razziste. Oggi è come se Roma si sia liberata di quel livore ideologico scoprendoche il nemico è al suo interno.
E forse è il caso di rivedere politiche sociali e culturali, di formazione e di prevenzione. Sostenere che il problema sia il controllo del territorio è vero solo in parte. L’altra sera, poco prima della tragedia di Torpignattara, una gazzella dei carabinieri ha sventato una rapina in un negozio di detersivi e cosmetici a Tor Sapienza, arrestando i due rapinatori.

Corriere della Sera 6.1.12
Piccoli boss e gang di quartiere così Roma è diventata violenta
Territorio, soldi e rispetto. Mafie su economia e finanza


ROMA — Nemmeno tre mesi fa, davanti alla commissione parlamentare antimafia, l'allora procuratore Giovanni Ferrara, oggi sottosegretario all'Interno, fu piuttosto esplicito: «A Roma ci sono piccole bande criminali molto violente. La violenza, anche quella spicciola, è diventata eccessiva e incontrollabile. Le cause non risiedono forse nella criminalità organizzata, ma nel modo di vivere, nella multietnicità e nel fatto che molta gente non ha di che vivere e ricorre, ad esempio, alle rapine per strada».
Il suo vice Giancarlo Capaldo, responsabile della Direzione distrettuale antimafia oggi reggente dell'intera Procura, puntò l'attenzione sulle cosiddette «gambizzazioni», spiegando che «sono numerose e molto più pericolose degli stessi omicidi, che per la quasi totalità hanno una motivazione diversa dalla criminalità organizzata; le gambizzazioni invece, per la quasi totalità si verificano nell'ambito di gruppi criminali contrapposti».
Il prefetto Giuseppe Pecoraro partì dalla crisi economica generale che, disse, «ha avuto ripercussioni negative anche sul tessuto di Roma e provincia, che in tale contesto presenta notevoli possibilità per la commissione di attività delittuose altamente remunerative quali, anzitutto, il traffico di sostanze stupefacenti, quindi le estorsioni, l'usura, il riciclaggio e altri reati connessi».
Sono passati tre mesi, ma la situazione non è cambiata. E questi tre punti di vista sulla situazione della criminalità nella capitale d'Italia s'intersecano e danno un quadro generale complesso ma abbastanza attendibile: a Roma si spara forse più che in passato ma questo non segna lo sbarco delle grandi organizzazioni; quelle c'erano e ci sono ancora, ma si fanno sentire il meno possibile. Sono aumentati i regolamenti di conti violenti, le rapine a mano armata, le sparatorie per piccole questioni. Non c'è tanto una crescita, quanto un imbarbarimento della malavita. Che continua a dividersi fra quella locale, di grande, medio e piccolo calibro, e quella d'importazione.
Il controllo delle zone
Se la criminalità diffusa spara più di prima, spiegano gli investigatori, è perché con la crisi c'è meno denaro in circolazione e dunque i pagamenti vanno fatti in fretta, non si aspetta come in passato e chi sgarra dev'essere convinto a saldare in fretta. Com'è successo, probabilmente, alla vigilia di Natale a Tor Bella Monaca, quando un pregiudicato cinquantenne è stato ferito da un sicario al quale s'è inceppata la pistola dopo un paio di colpi. Delinquenza di basso livello, che imita quella di rango maggiore, per emulazione e per necessità.
Si spara anche per mantenere il rispetto dovuto a chi si considera un capo, e se ritiene che qualcuno se l'è scordato si sente in dovere di punirlo. È successo a settembre nel quartiere del Trullo, dove il boss locale ha tentato di uccidere chi s'era permesso di ingaggiare una lite, impugnando addirittura un paio di forbici. Gli investigatori della squadra mobile l'hanno arrestato dieci giorni più tardi, mentre mangiava il pesce con tre amici in un ristorante in provincia di Cosenza.
Omicidi e «gambizzazioni» s'intrecciano tra affari illeciti grandi e piccoli. I morti ammazzati sono aumentati rispetto al 2010, trentasei contro venticinque, ma diminuiti rispetto ai quarantadue del 2009 e i trentanove del 2008. E i ferimenti galleggiano intorno a quelle cifre, nell'anno appena passato trentasette. Provocati a volte da piccoli screzi e a volte da battaglie ingaggiate per contendersi le piazze di droga e altri commerci illegali. Rimaste scoperte dopo che i due gruppi tradizionalmente dediti agli stupefacenti — quelli di Michele Senese (legato alla camorra napoletana, arrestato nel 2008) a sud e del clan Fasciani sul litorale — hanno subito colpi abbastanza pesanti dalle forze dell'ordine.
La guerra tra le bande organizzate
Messe le mani su Senese, i carabinieri hanno proseguito le indagini e a maggio hanno arrestato altre trentotto persone che avevano occupato (o tentato di farlo) gli spazi lasciati vuoti dall'uscita di scena del boss. Entrando a loro volta in conflitto tra loro, con un omicidio e cinque ferimenti. Durante quell'inchiesta è stata intercettata la voce di un indagato che copiava una delle battute più frequenti di Romanzo criminale: «Pijamose tutta Roma, semo come la mafia!».

La Stampa 6.1.12
Marco Wong
“Nei nostri confronti crescono la ferocia e gli atti di razzismo”
Presidente di Associna, ente impegnato nell’integrazione dei cinesi in Italia


«In una borgata romana un 40enne aspettava l’autobus sotto la pensilina, sono scesi quattro ragazzi da un’automobile e lo hanno bastonato a sangue», racconta Marco Wong, presidente onorario di Associna, associazione impegnata nell’integrazione dei cinesi in Italia. Wong sgrana un rosario xenofobo da «Arancia meccanica»: «Accoltellamenti, rapine sfociate in esplosioni di violenza e casi divenuti così di routine che neppure vengono più denunciati».
È il momento peggiore?
«Mai vista tanta efferatezza e ferocia. È l’anello più atroce di una catena di episodi crudeli. Dopo il duplice omicidio, stanno arrivando ai negozianti cinesi di Roma telefonate minatorie a fini estorsivi: “Se non paghi ti faccio fare la fine di quello lì”. Conosco bene la zona di Torpignattara: c’è una forte presenza di cinesi, molti gestiscono bar. Crescono paura e insicurezza. Quando ci si incontra tra noi si discute di rapine come prima si parlava del tempo. Per strada a Prato hanno massacrato di botte e derubato un passante, poi gli sono passati sopra con la macchina».
Si aspettava questa escalation?
«All’Esquilino, la Chinatown della capitale, si sono autotassati per la vigilanza a protezione dei negozi. Da attività con un flusso di denaro (tabaccherie, money transfer come l’ultima vittima) le rapine si estendono a negozi di oggettistica dove il denaro è poco e il margine di guadagno non consente di assicurarsi contro i furti. A chi denuncia capita poi che venga fatto il terzo grado su permessi di soggiorno e intoppi burocratici come se fosse il colpevole».
Il movente è anche il razzismo?
«Spesso sì. Violenze di matrice razziale non vengono denunciate dai cinesi e perciò il numero dei casi sembra più basso rispetto a quello di altre nazionalità. L’intolleranza è un sentimento che fa da sfondo anche a reati che non sembrano legati a fattori razziali. Di solito il rapinatore prende i soldi e scappa, il fatto che la rapina si concluda con un pestaggio o con un omicidio deriva dalla percezione che la vittima sia un “diverso” da umiliare. Bisogna denunciare, per cercare di fermare la spirale di degrado. Sarebbe utile per l’intera comunità».

La Stampa 6.1.12
Minaccia strage di ebrei Indagato il prof nazista
Insegna in un liceo nel torinese: da anni al centro di polemiche
di Massimo Di Numa


LA PSICOSI È convinto di essere spiato da americani e sionisti e minaccia vendetta
AMMIRATORE DI TIRANNI Tra i suoi preferiti Hitler Mussolini e Stalin ma anche Ceausescu

La Cia o qualche altra entità misteriosa da tempo operava sul suo amato profilo (pubblico) di Facebook. Gli cancellava i post, le sue invettive anti-semite, contro «i negri che spacciano». Lui è il professore di filosofia, di liceo, Renato Pallavidini, ora in malattia. Almeno sino a marzo, precisano i responsabili della scuola dove insegna da qualche anno. Ieri la Procura di Torino lo ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di «istigazione all’odio razziale». Gli agenti della Digos hanno perquisito la casa del professore, sequestrato due pc, una pen-drive e altri documenti. Nessuna reazione, nessun commento.
Bonvidini appare in uno stato assai confuso. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’incursione della solita entità misteriosa («È in California! », scrive il professore negazionista) sulla bacheca di Fb. Tra le immagini inserite nel suo fb-album c’è un campionario di dittatori dei totalitarismi più assoluti e criminali: Stalin, Lenin, persino il Conducator della Romania, Ceausescu, oltre all’amato Adolfo Hitler. Tra i personaggi storico che lo «ispirano», oltre a Stalin e Castro, anche Juan Domingo Peron. Poi una serie di sfilate militari nella Piazza Rossa ai tempi dell’Urss.
Citazioni preferite: «Meglio vivere un giorno da Leone che cent’anni da pecora», di Benito Mussolini, e la classica «Fora dai bal», di Umberto Bossi. Tifa per l’Inter, tesi di laurea «sul giovane Hegel, 110 lode e dignità di stampa», precisa. Ama Wagner e la «musica classica in genere». In passato aveva negato l’esistenza dei lager, aderendo alle contestate teorie «negazioniste».
Le frasi che hanno allarmato gli investigatori (dopo quanto è accaduto in Norvegia con la strage di studenti e più recentemente a Firenze, con l’uccisione di due senegalesi da parte di un fanatico di estrema destra, non si può trascurare nulla) sono queste: «Americani e servi di Sion che mi state controllando dalla California! E che cancellate ogni mio scritto sulla bacheca! Arriverà anche per voi il momento di pagare con il sangue il vostro essere! ». Poi: «Avviso ai luridi bastardi ebrei che ci controllano in quella terra di m.... e di f... chiamata California: se mi togliete questa foto (con Hitler e Mussolini), vado con la mia pistola alla sinagoga vicinissima a casa mia e stendo un po’ di parassiti ebrei che la frequentano. Vi conviene stuzzicare il can che dorme? ». Pochi giorni prima di Natale aveva lanciato una serie di appelli-proclama, sempre dalla rete. Cercava persone «disponibili a fare il tiro a segno contro i “negroni” spacciatori di droga», da «troppo tempo padroni», proprio sotto casa sua. In occasione dei cortei delle donne «se non ora quando», i commenti non sono stati teneri. In sintesi: «femministe frustrate». Il professore detesta anche i disabili e auspicava di adottare, per eliminarli, i metodi del dottor Joseph Mengele, l’uomo che nei campi di sterminio nazisti compì atroci esperimenti «medici» su migliaia di prigionieri per dimostrare la validità del predominio della razza ariana. Ha scritto anche al sindaco Fassino di «non voler pagare l’Ici per non finanziare l’assistenza a negri e zingari». Tra deliri e minacce. L’immagine dell’home page di Facebook è un gattino sdraiato su una coperta rosa.
Unanime la condanna, ma anche la preoccupazione. I parlamentari del Pd Emanuele Fiano e Roberto Della Seta e il deputato leghista Davide Cavallotto hanno annunciato interrogazioni urgenti al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica di Torino, Beppe Segre, chiedono che Pallavidini sia processato: «Esprimere con forza la condanna e il biasimo degli ebrei torinesi e italiani è quasi pleonastico tanta è l’infamia, l’aggressività e la violenza verbale vomitata nella rete da questo presunto “maestro di vita”. L’auspicio è che tale individuo, oltre a subire un processo, sia messo in condizione di non poter più nuocere ai giovani, nè all’interno di una qualsiasi aula italiana». Sulla stessa linea Lisa Palmeri-Billig e David A. Harris, dell’American Jewish Committee: «È inammissibile che un simile individuo sia lasciato libero di condizionare le menti dei giovani e di continuare a diffondere il suo odio omofobo, razzista e antisemita».

Repubblica 6.1.12
Marco Revelli, docente, storico e sociologo
"L´antisemitismo sul web evoca l´odio degli anni 30"


ROMA - Marco Revelli, docente di scienza della politica presso l´Università degli studi del Piemonte Orientale, è preoccupato. Legge le deliranti affermazioni fatte da Renato Pallavidini e pensa alla strage di Firenze e all´incendio del campo Rom di Torino.
Nell´atteggiamento di questo professore vede possibili analogie storiche con quanto avvenne durante il tragico periodo del nazismo?
«Qualche parallelo c´è. L´odio nei confronti di una figura sociale mi ricorda la Germania degli anni Trenta, quella dell´impoverimento di massa, quando il sentimento antisemita, la ricerca di un capro espiatorio, divennero comportamento collettivo e forma di stato».
Pallavidini è pericoloso?
«Sì, anche solo per il linguaggio che usa e che comunica sentimenti nefasti. Parole che, in un tessuto sociale fortemente provato, non trovano anticorpi».
A oggi il docente è ancora titolare di cattedra.
«Un fatto scandaloso. Fenomeni del genere vanno presi sul serio. È chiaro che siamo di fronte a un caso psichiatrico. Difficile considerarlo un educatore».
(m.p.)

La Stampa 6.1.12
Lavoro. L’allarme
Un giovane su tre è disoccupato
Il tasso è al 30,1%, in aumento di 0,9 punti rispetto a ottobre e di 1,8 sul 2010
di Rosaria Talarico


ROMA L'anno nuovo non porta nessuna novità sul fronte dell'occupazione. Gli ultimi dati forniti dall'Istat mostrano che da aprile 2008 a novembre 2011 gli occupati in meno sono stati 670 mila. Ancora peggiori i numeri relativi alla disoccupazione giovanile che arriva alla cifra record del 30%, che vuol dire un under 25 su tre senza lavoro. È quanto rileva l'Istat, parlando di «un vuoto dell'occupazione che rimane ampio». Le persone in cerca di lavoro sono oltre due milioni e, tra queste la quota di donne fa registrare gli aumenti più alti. Brutte notizie come al solito per i residenti al Sud, dove i livelli di disoccupazione sono a dir poco critici.
Il tasso di disoccupazione certificato nel terzo trimestre del 2011 è salito al 7,6% (dato non destagionalizzato), quota che per i giovani è al 26,5%, con un picco per le ragazze del Sud (39%). A saltare agli occhi è l'allungamento dei tempi per trovare un impiego, con la disoccupazione di lunga durata (almeno un anno) che raggiunge il livello massimo dal 1993. Altro dato indicativo del mancato ricambio generazionale e delle ultime riforme pensionistiche è quello che mostra l'aumento degli over 54 costretti a restare più a lungo a lavoro (+168 mila occupati in un anno), mentre gli under 34 sono praticamente bloccati all'ingresso (-157 mila unità). E chi sgomitando riesce a strappare un contratto si confronta con le angustie della precarietà e delle assunzioni con scadenza da yogurt.
L'unica nota positiva dell' ultimo rapporto Istat è il calo, seppur lieve, degli inattivi cioè degli scoraggiati che un lavoro non lo cercano neanche più. Anche se lo scoraggiamento è la prima causa che fa desistere nella ricerca di una sistemazione (+6,5%).
La Cgil parla di «situazione drammatica» e, in vista del confronto con il governo, chiede «un piano di tutele di emergenza per il 2012 coerente con una prospettiva organica di riforma degli ammortizzatori sociali» e «un vero piano per il lavoro che sappia indirizzare lo sviluppo verso i settori più innovativi e la tutela dell'ambiente». Anche per la Cisl la situazione della disoccupazione giovanile è di «emergenza sociale». Per il segretario generale aggiunto Giorgio Santini «questo quadro mostra che il primo intervento necessario per il lavoro riguarda un piano di sviluppo produttivo e di incentivi alla crescita. In particolare sono assolutamente urgenti la cantierizzazione di piccole e grandi opere annunciata dal ministero dello Sviluppo». La Uilm, tramite il suo segretario generale, Rocco Palombella, chiede che il problema venga affrontato a partire già dalla scuola «applicando norme ancor più semplificate rispetto a quelle previste dalla riforma Biagi relative alle istituzioni formative che intendano aiutare gli studenti in cerca di lavoro». Sul fronte politico interviene l’ex minsitro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd): «Si conferma la gravità e la durata della crisi con un rischio di shock occupazionale per il 2012 al quale occorre rapidamente porre rimedio. Il problema ora nonè facilitare i licenziamenti ma tutelare chi perde il lavoro e favorire lo sviluppo».

l’Unità 6.1.12
Non solo F-35
Le spese improduttive delle Forze armate
Abbiamo più soldati di Germania e Inghilterra, abbiamo già pagato 13 miliardi per gli Eurofighter e contiamo di spenderne altri 9 per sommergibili e navi
Ecco i conti della nostra Difesa (che dovrebbe puntare all’integrazione europea)
di Umberto De Giovannangeli


Informare, non «demonizzare». Con una duplice avvertenza. dietro i numeri, in eccesso, vi sono persone, storie, percorsi di vita che meritano rispetto. Seconda avvertenza: ridurre le spese militari non significa smantellare uno dei pilastri della politica di un Paese, la Difesa, ma orientare, selezionare, gli investimenti in funzione del ruolo che s’intende avere sullo scenario internazionale. Un ripensamento da collocare in una chiave europea, sviluppando, ad esempio, una politica di Difesa integrata euromediterranea, «modello Unifil», la missione Onu in Sud Libano che si regge essenzialmente sul contributo di Italia, Spagna e Francia.
Un serio ripensamento va incardinato su dati. A partire dal dossiersistemi d’arma. F35 e non solo. Di seguito, quelli più onerosi: CACCIA F-35. L’Italia ha una commessa di 15 miliardi di euro per l’acquisto dagli Stati Uniti d’America di 135 caccia F-35 (costo unitario 124 milioni di euro).
EUROFIGHTER. L’ultima trance del programma (già spesi 13 miliardi di euro) per il caccia Eurofighter costerà all’Italia 5 miliardi di euro.
AEREI SENZA PILOTI: Il nostro governo intende acquistarne 8. Costo complessivo 1,3 miliardi di euro.
ELICOTTERI. L’Italia sta acquistando 100 nuovi elicotteri militari NH-90: costo complessivo 4 miliardi di euro.
NAVI DA GUERRA. L’Italia ha acquistato 10 fregate «Fremm» costo complessivo 5 miliardi di euro.
SOMMERGIBILI. Il nostro Paese sta acquistando 2 sommergibili militari: costo 1 miliardo di euro.
SISTEMI DIGITALI PER L’ESERCITO: Il progetto «Forza Nec» serve a dotare le forze di terra e da sbarco di un sistema di digitalizzazione. Solo la progettazione in atto costa 650 milioni. La stima di spesa complessiva è intorno a 12 miliardi di euro. Nel 2013, nel 2013 acquisteremo 249 blindati «Freccia per 1,6 miliardi. Nel 2015, 2 fregate antiaeree «Orizzonte» per altri 1,4 miliardi. Nel 2016 finiremo di pagare la portaerei Cavour e 4 sommergibili U-212 saldando i restanti 3,2 miliardi del finanziamento. Sul bilancio dello Stato, al momento, gravano 71 rogrammi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d'arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. Alcune domande sono d’obbligo: sono tutte acquisizioni necessarie? E in rapporto a quale modello di Difesa e su quale visione del ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale?
Altra «anomalia» è la spesa per il personale: 2/3 del bilancio della Difesa. C’è il rischio, ha sostenuto in una intervista a l’Unità, l’ex capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, generale Vincenzo Camporini, che l’Esercito si trasformi in uno «stipendificio». Alcuni dati. L’organico attuale delle nostre Forze Armate conta 511 tra generali e ammiragli (69 sono i generali di Corpo d'armata: ossia più del doppio dei corpi d'armata attualmente operativi in Italia; Ce ne sono 50 tra Esercito, Aeronautica e Marina, 10 nell'Arma dei Carabinieri e 9 nella Guardia di Finanza); 2600 sono i colonnelli; 22.992 gli ufficiali; 71.837 i sottufficiali (di cui 55.974 marescialli, 15.858 i sertgenti) : un numero spropositato rispetto ai «comandati»: la Truppa volontari conta 83.421 unità (di cui in servizio permanente 48.173; 35.248, in ferma prefissata). Ne risulta un organico con una età anagrafica molto avanzata e quindi poco incline all’operatività. «Tra un po’ avremo tutti generali e nemmeno un corpo d’armata.
Mandare a casa tenenti, colonnelli e marescialli lontani dall’età della pensione per assumere sergenti, come vorrebbe qualcuno, significa buttare via i soldi», rimarca il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo. Il paradosso emerge dalle missioni all’estero, che impegnano circa 7.435 tra uomini e donne, con evidente difficoltà a rispondere positivamente all’ipotesi di altre missioni.
Le spese per il personale si assestano sulla cifra di 9,4 miliardi euro (+0,9 rispetto 2010), quelle per l'addestramento segnano un -18% rispetto al 2010 (pari a fondi inferiori di 320 milioni euro rispetto al 2010) mentre quelle per gli investimenti si fermano a 3,4 miliardi euro. Se noi volessimo rappresentare su un diagramma a torta l'andamento del bilancio funzione difesa italiano per l'anno 2011 vedremmo come le tre voci «personale», «addestramento» ed «investimenti» invece di avere un equilibrio ottimale del 40% per il personale e del 30% per le altre due voci, si rivela ancora squilibrato alla voce spese per il personale (65,8% del bilancio) lasciando uno scarso 10% per l’addestramento e il 24% per gli investimenti. Quanto a spesa, l’Italia, è (dati Sipri) la decima potenza militare al mondo su 153 Paesi monitorati. Spendiamo, in termini complessivi, per l’apparato militare più dell’India, del Brasile, del Canada, d’Israele...(dati dello Stockholm International Peace Research Institute, Sipri). Quanto alla dimensione quantitativa delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), con 178.600 unità, l’Italia ha più militari della Gran Bretagna (177.00), della Germania (152.00), della Spagna (135.000).
Significativa è anche l’analisi della spesa pro capite (spesa militare/popolazione) dell’Italia in rapporto ad altri Paesi economicamente più «solidi» del nostro. La nostra spesa pro capite è di 478 dollari, mentre quella del Giappone è di 332 dollari, quella della Germania di 411 dollari. Questo è il quadro della situazione. Il dibattito è aperto. La sfida è conciliare riduzione di spesa e maggiore funzionalità.

l’Unità 6.1.12
Ungheria. Chiesta l’applicazione dell’art. 7 del Trattato di Lisbona, che congela il diritto di voto
I leader Swoboda e Verhofstadt: «Dobbiamo proteggere i diritti, no a pericolosi precedenti»
Socialisti e liberali europei: «Orban deve essere fermato»
Per Bruxelles è «l’extrema ratio»: ma i socialisti e i liberali chiedono che si applichi l’articolo 7. Vi si ricorre in caso di violazioni dei principi fondanti della Ue. Sarebbe la prima volta nella sua storia.
di Roberto Brunelli


L’Ungheria danza in cima ad un vulcano pronto ad una doppia esplosione. Gli indicatori economici stanno precipitando di ora in ora, e il Vecchio continente continua ad aumentare la sua pressione. Ieri è stata la volta dei socialisti e liberali del Parlamento europeo, che hanno chiesto sanzioni politiche molto dure nei confronti del Paese dopo la svolta ultra-nazionalisti imposta dal governo guidato da Viktor Orban con la nuova Costituzione. E non si tratta di bruscolini: il vicepresidente del gruppo, l’austriaco Hannes Swoboda, ed il leader dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa, il belga Guy Verhofstadt, propongono l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, cui si ricorre in caso di violazioni di principi fondanti della Ue in tema di democrazia, libertà fondamentali e diritti dell’uomo. Politicamente, un
macigno: l’articolo 7 prevede, tra le altre cose, la sospensione del diritto di voto in Consiglio. Per avere nozione della gravità della cosa, mai nella sua storia l’Unione europea ha fatto ricorso all’articolo 7, che lo considera un’extrema ratio. «Non siamo ancora a questo punto», si fa sapere dalla Commissione: ma il solo fatto che se ne parli viene considerato di per sé emblematico.
Swoboda è molto netto. «Siamo dalla parte del popolo ungherese, che viene sempre più messo sotto pressione dal governo Orban. L’applicazione dell’articolo 7 deve essere seriamente presa in considerazione se il premier ungherese continua a sfidare deliberatamente le leggi ed i valori europei». L’esponente socialdemocratico austriaco sfida anche il Ppe sul «dossier ungherese», proponendo che il premier magiaro venga sospeso dal ruolo di vicepresidente del partito. Anche Verhofstadt si esprime in modo da non lasciar adito a dubbi, forse anche per accrescere la pressione sulla presidenza della Commissione: «Non è più tempo per scambiare lettere: a questo punto è degenerata la situazione in Ungheria. È arrivato il momento di avviare sanzioni legali e politiche sulla base dell’articolo 7. Che va applicato per proteggere la democrazia ed i diritti fondamentali in Ungheria e nella Ue, ma anche per evitare di stabilire un pericoloso precedente e dare un cattivo esempio ai Paesi che aspirano ad entrare nell’Unione».
La partita è grossa, insomma, ed investe in pieno «l’anima» della grande casa europea. La quale, per i critici, è talmente alle prese con la crisi di Eurolandia da scordarsi i suoi principi fondanti. Crisi che, per intanto, attanaglia pesantemente la stessa Ungheria. L’esecutivo di «Orban il Viktator» è al centro di una bufera selvaggia, ma fa finta di non accorgersene: ieri l’altro gli interessi sui titoli sovrani sono saliti al 10,9 per cento, un punto e mezzo in più rispetto al giorno precedente. A detta degli analisti, un tasso così alto significa che l’Ungheria non potrà più permettersi di ripagare il suo indebitamento. In bilico tra stagnazione e recessione, le prospettive economiche del Paese vengono inabissate ad un debito pubblico all’82,6 per cento del prodotto interno lordo. Nelle grandi capitali finanziarie si evocano giù da tempo scenari di bancarotta imminente (entro un mese, per intendersi), con ricaschi facilmente immaginabili su tutta l’Eurozona.
LA BEFFA DELL’AMNISTIA
Ecco che l’ineffabile Orban comunque si decide di battere un colpo, nel tentativo di allentare la tenaglia sul suo governo. Che ha annunciato ieri la proposta al Parlamento di un’amnistia per 43 manifestanti arrestati lo scorso 23 dicembre. Fra questi, 15 deputati socialisti e verdi, nonché l’ex premier anche lui socialista Ferenc Gyurcsany, accusati di aver ostacolato il traffico per essersi incatenati davanti al parlamento di Budapest. Anche loro protestavano contro la nuova Costituzione, poi entrata in vigore il 1. gennaio. Peraltro, anche se gli arrestati sono stati tutti rilasciati ieri, la procedura penale nei loro confronti va avanti comunque. Non sorprendentemente, però, Gyuarcsany e gli altri rifiutano l’amnistia, chiedendo anzi la cancellazione della procedura con la formula «il reato non sussiste».
Tra coloro che il 23 dicembre si sono incatenati davanti alla sede del Parlamento, c’era anche la deputata del partito ecologico Lmp, Virag Kaufer. Ebbene, per protesta contro la nuova Costituzione liberticida (riassumiamo: forti limitazioni alla libertà d’informazione, all’autonomia della Banca centrale e ai diritti civili), e per lanciare l’allarme per un Parlamento de facto esautorato, la signora Kaufer si è dimessa. Per la precisione, l’esponente ecologista ha dichiarato ieri all’agenzia Mti che intende organizzare un movimento di resistenza nella società alla politica autoritaria del governo. «Il Parlamento ungherese ormai è ridotto a un teatro di marionette di Orban, dove l’opposizione non ha nessun ruolo, e dove manca un reale confronto politico», ha detto Kaufer. Lei, insieme agli altri centomila manifestanti che lunedì gridavano la propria rabbia davanti al Teatro dell’Opera, chiedeva aiuto all’Europa. I primi colpi sono stati battuti.

Corriere della Sera 6.1.12
Anticomunisti liberali o autoritari quella differenza tra Havel e Orban
di Pierluigi Battista


Quando gli organismi europei decideranno come rispondere alla svolta autoritaria dell'Ungheria, non si macchieranno di un'«intrusione» negli affari interni di uno Stato sovrano, ma si occuperanno della nostra «casa» comune. A meno che, come è comprensibile temere, l'Europa sia interessata solo alla moneta e non alla democrazia, al default degli Stati e non al collasso dei diritti di libertà in una delle sue Nazioni. Altro che intrusione, sarebbe autodifesa democratica.
Nella casa europea, in Ungheria, stanno vivendo la più radicale regressione democratica dai tempi della caduta del comunismo. Viktor Orban esibisce come una medaglia il suo passato di anticomunista. Ma non tutti gli anticomunisti sono uguali (come del resto gli antifascisti). C'è l'anticomunismo liberale e democratico di Vaclav Havel e quello illiberale e antidemocratico di Orban, così come in Polonia c'era l'anticomunismo trasparente di Bronislaw Geremek e quello, meno attento all'integrità dei diritti civili e politici, dei fratelli Kaczynsky. All'anticomunista Havel non sarebbe mai venuto in mente di costituzionalizzare una legge liberticida sulla stampa in cui sono esplicitamente e severamente puniti i servizi giornalistici «lesivi dell'interesse pubblico» e addirittura «politicamente non equilibrati». E mai un liberale memore delle nefandezze della dittatura comunista avrebbe firmato una legge fondamentale dello Stato, come sta avvenendo a Budapest, in cui un'agenzia governativa viene chiamata a far rispettare una norma secondo la quale un telegiornale non può dedicare più del 20 per cento alla cronaca nera. Sembrerebbe una follia: e invece è la logica consueta delle dittature che non consentono di dire che nel cuore di una nazione pura esistano ancora i delinquenti e i ladri, come prescrivevano le veline durante il fascismo.
In Ungheria, forti di una maggioranza parlamentare schiacciante, stanno costruendo un regime autoritario. Criticando la «mobilitazione sospetta» («sospetta» di che, per l'esattezza?) contro il colpo di mano costituzionale di Budapest, Giuliano Ferrara sul Foglio ammette che «il governo eletto in Ungheria intende cambiare regime». Anche prendendo la parola «regime» in senso lato, come mi sembra faccia Ferrara, resta il fatto che il compito di un governo democratico non è di «cambiare regime». Senza contare che la natura del nuovo «regime» appare inquietante, intriso di cultura illiberale, intollerante.
La nuova Costituzione non invoca solo la benedizione di Dio (anche negli Stati Uniti è così, non c'è scandalo), ma stabilisce per legge, nella carta fondamentale dello Stato, che il cristianesimo è una religione superiore alle altre, che pure vengono tollerate e disciplinate secondo specifici atti amministrativi. In questo modo un cristiano ungherese si sentirà un vero ungherese, un ebreo ungherese si sentirà un ungherese semplicemente tollerato. È giusto che un europeo abbia la facoltà di eccepire su questo stravolgimento dell'idea di eguaglianza delle religioni di fronte alla legge che si sta consumando in Ungheria? Penso che ne abbia tutto il diritto, senza che il suo intervento suoni come un'intrusione. C'è intrusione negli affari degli altri. La violazione di alcuni princìpi fondamentali di un Paese europeo è invece affare nostro. Oppure è affare nostro solo la disciplina del mercato del lavoro e il sistema pensionistico, e non lo sono la democrazia, la libertà, la tutela dei diritti e delle minoranze politiche e religiose?
È stupefacente che chi concorda nel dire che l'Europa è una creatura fredda, non riscaldata da valori comuni e da una comune appartenenza culturale, non consideri di conseguenza grave il silenzio dell'Europa sulla libertà di stampa messa in mora in uno dei Paesi membri dell'Ue, sul conferimento costituzionale di poteri eccezionali alle agenzie governative che in Ungheria, consacrate dalla Legge fondamentale dello Stato, dovranno controllare strettamente la stampa, la magistratura e la banca centrale. Interferire su una degenerazione così palese dei criteri liberaldemocratici che reggono un Paese europeo è un atto legittimo di ingerenza democratica, come pure il sospetto che la deriva etnico-nazionalista della carta costituzionale ungherese costituisca un cambio di regime troppo radicale per essere considerato ordinaria amministrazione. Il default democratico: ecco una violazione dei parametri europei meritevole di essere sanzionata.

La Stampa 6.1.12
Cina, il lager diventa romanzo per sfuggire alla censura
Esce anche in Italia La donna di Shanghai di Yang Xianhui. L’autore racconta un campo di rieducazione, ma usando la fiction non critica direttamente Mao e il Partito
di Ilaria Maria Sala


A trenta cinque anni dalla morte del Grande Timoniere le immagini di Mao Tze Tung costellano ancora la Cina di oggi ma gli errori commessi sotto il suo governo sono stati rimossi e non vengono criticati
Yang Xianhui è nato a Lanzhou nel 1946 e vive a Tianjin Membro dell’Associazione Cinese degli Scrittori, ha lavorato in un collettivo agricolo a regime militare per 16 anni prima di dedicarsi alla scrittura

Più di trent’anni dopo la morte di Mao, liberarsene, per la Cina, resta impossibile: imbalsamato in un mausoleo in piazza Tiananmen, a Pechino, appeso nell’enorme ritratto alla porta della Città Proibita, poco lontano, ancora intento a indicare la via da seguire con il braccio teso in innumerevoli statue in varie piazze nazionali, e presente su quasi tutte le banconote in circolazione, il «Grande Timoniere» resta una presenza imprescindibile. L’ingombro non è solo fisico: il Partito che Mao ha contribuito a fondare, guidandolo fino alla morte, resta al potere, e i suoi leader odierni non possono ancora scaricare la pesante eredità. Morto Mao, la Cina era allo stremo, milioni di persone avevano subito persecuzioni atroci, e nel «riabilitarle» bisognava anche vedersela con gli errori commessi dall’ex-Presidente. Così, fu stabilito che il 70 per cento dell’operato di Mao era giusto, e il 30 per cento, sbagliato, cercando di archiviare la questione.
La Campagna contro gli Elementi di destra (1957), il Grande Salto in Avanti (1958) che portò alla morte per fame decine di milioni di persone, e la Grande Rivoluzione Culturale (1966), di nuovo con i suoi milioni di vittime, sono state tutte comprese nel misero 30 percento — così come le purghe omicide iniziate fin dai primi anni della storia del Partito. Il campo della morte di Jiabiangou, di cui la maggior parte di noi, in Cina come all’estero, rimane all’oscuro, è solo una delle pagine più crudeli del regno del «Grande Timoniere», salvata dall’oscurità dell’oblio dallo scrittore Yang Xianhui, con il suo impressionante La donna di Shanghai, ora proposto anche in edizione italiana per la collana Amatea dalla Logo Fausto Lupetti.
Oggi, infatti, nelle librerie cinesi, di fianco ai volumi per capire la finanza o diventare astuti collezionisti di antichità, si trovano molte opere appartenenti al filone della «nostalgia rossa», che idealizzano gli Anni 50 e 60, quando si era, per così dire, più poveri e più puri (o forse semplicemente più giovani) e che consigliano itinerari per viaggi nei luoghi rivoluzionari del Paese. In mezzo a tutto ciò esiste anche un esiguo numero di opere che vogliono invece salvare dall’oblio parte del passato. L’operazione è tutt’ora rischiosa: se negli Anni Ottanta era frequente un giornalismo d’inchiesta chiamato «baogao wenxue», spesso un po’ romanzato, oggi, malgrado l’apparente apertura, solo pochi riescono a sfidare il timore e la censura e pubblicare saggi che riescano a sollevare la spessa cortina di silenzio che regna sul passato.
Yang Xianhui, scrittore di Tianjin cresciuto nella regione semi-desertica del Gansu, decise qualche anno fa di cercare di affrontare alcuni dei temi tabù, e lo fece proprio con lo stratagemma della «baogao wenxue», romanzando fortemente le terribili vicende che avvennero nel suo Gansu dal 1957 al 1969, quando più di tremila «elementi di destra» vennero spediti a riformarsi al campo di lavoro di Jiabiangou. Le condizioni qui erano talmente orrende che solo un decimo di loro ne uscì vivo: la durezza dei lavori forzati, la spietatezza delle guardie, e la violenza della carestia che colpì la Cina con il Grande Balzo in avanti fecero morire tutti gli altri, tramutando Jiabiangou in un campo di sterminio. In alcuni casi, la disperazione della fame fu tale da far registrare casi di cannibalismo.
La Campagna contro gli elementi di destra era stata lanciata dallo stesso Mao dopo la breve campagna «dei Cento Fiori», nel corso della quale tutti erano stati incoraggiati a criticare il Partito, per essere poi puniti se commettevano l’errore di farlo. I funzionari presto ebbero quote di «elementi di destra» da rieducare, dato il via alla pratica di sbarazzarsi di rivali, nemici personali, coniugi di donne o uomini desiderati, incolpandoli di azioni o pensieri revisionisti e «controrivoluzionari», con cui vennero riempiti i campi di rieducazione.
Yang Xianhui dopo aver sentito parlare di Jiabiangou e degli orrori che vi erano avvenuti, decise di andare a cercare i sopravvissuti per farsi raccontare le loro esperienze, ascoltandone per tre anni le dolorose testimonianze. Poi, per difenderne le identità e in parte per non subire intoppi nella pubblicazione, Yang ha raccolto il materiale in una serie di racconti, mescolando episodi, cambiando nomi e rendendo irriconoscibili i protagonisti. Il risultato è una narrazione con moltissimi elementi di verità di sicuro valore letterario e documentario ma che evita però di essere un’opera del dissenso politico. Non che ciò risparmi molto il lettore: gli effetti fisici e psicologici della straziante carestia imposta dalle politiche scellerate del tempo sono lì, sulla pagina, e non danno tregua.
L’impatto del lavoro di Yang, così romanzato, è stato importante in Cina, dove il regista Wang Bing lo ha fatto diventare un film dal titolo Il fossato, presentato al Festival di Venezia 2010, ottenendo i plausi della critica. La donna di Shanghai dunque non ha dovuto subire un percorso di censura, anche perché l’autore evita di criticare in modo diretto le autorità centrali, o il Partito. Modo avvisato per aggirare le severe forbici dei censori, ma si tratta anche di atteggiamento comune a diversi intellettuali cinesi, che malgrado tutto quello che hanno subito sotto le campagne politiche indette dal Partito e dal suo fondatore, ancora non vogliono estraniarsene criticandone l’impalcatura.

Repubblica 6.1.12
La primavera e il corpo delle donne
di Renzo Guolo


Come spesso accade nel mondo islamico, il corpo femminile è il sensibilissimo sensore del mutamento politico e culturale di quelle società. Dopo aver concesso loro il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni amministrative, il regime saudita fa un´altra concessione alle donne. D´ora in poi il personale dei negozi di intimo sarà femminile. Lo stesso accadrà, tra pochi mesi, alle profumerie. Questa scelta apparentemente impolitica, che potrebbe sembrare una nuova forma di segregazione sessuale, è stata accolta con favore dalle donne che da tempo chiedevano una decisione in tal senso. Non solo perché sarà più naturale per loro entrare in simili negozi attendendosi complicità o voluta indifferenza, senza esporsi così a sguardi o commenti di venditori maschi; ma anche perché quell´ingombrante presenza dietro al bancone le obbligava a essere accompagnate da un maschio di famiglia che faceva da tutore.
Acquisti resi più complicati dal fatto che, nel rigido contesto saudita non esistono nemmeno camerini, spogliarsi in un luogo aperto al pubblico sarebbe comunque ritenuto blasfemo e, dunque, la descrizione della tipologia delle merce dev´essere necessariamente più accurata. Con tutti gli imbarazzi che possono derivarne in simili casi in un contesto che ha eretto la pudicizia e l´occultamento del corpo femminile a dogma.
La decisione di re Abdullah si inscrive in quel processo di progressiva considerazione della libertà femminile mirato a far diminuire la possibile massa critica di opposizione al regime in un momento in cui il vento caldo della primavera araba potrebbe mettersi a soffiare con forza anche sul Paese-chiave del Golfo. Un passaggio comunque delicato, vista la dichiarata opposizione degli ulema, i veri detentori della legittimità religiosa del regime. Teologi e giuristi wahabiti ritengono, infatti, che la mescolanza si sposterà ora dietro al bancone, mettendo a contatto, ben più pericolosamente, gestori maschi e personale femminile oltretutto obbligato a maneggiare denaro, altra mansione proibita. Tre anni fa gli esperti religiosi erano riusciti a bloccare queste stesse misure, emettendo una fatwa che proibiva alle donne di lavorare come cassiere, anche se la decisione non era stata del tutto rispettata dalle direzioni dei supermercati. Ma allora la primavera araba era solo un mugugnante inverno dello scontento e la monarchia saudita aveva frenato. Ora il prudente riformatore Abdullah ha deciso di forzare la mano. A costo di entrare in rotta di collisione con gli ulema. Una vicenda destinata a ridimensionare il peso dei religiosi e a rinfocolare l´intransigenza misogina.

il Fatto 6.1.12
Schiene dritte
L’eretico Martinetti, italiano per caso
Fu uno dei dodici professori che non giurarono al fascismo. E allo studente Lelio Basso disse: “Qui il maestro è Lei”
di Raffaele Liucci


PIERO MARTINETTI (1872-1943) fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli), da Guido Morpurgo-Tagliabue a Eugenio Colorni. Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Cultore della filosofia come forma suprema dell’ascesi religiosa, non accettò mai la prepotenza della Chiesa, «la quale, sotto il pretesto del rispetto alla religione, mira a rendere impossibile qualunque altro pensiero». Convinto, sulla scia del prediletto Schopenhauer, che uomini e animali fossero uniti da una parentela universale, elaborò i primi barlumi di un pensiero animalista ante litteram, assai critico verso la vivisezione. Estraneo alle «scuole», alle conventicole e alle mode storicistiche di casa nostra, spesso ripeteva agli amici: «Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia».
Per cogliere la tempra del suo carattere, basti un aneddoto. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».
Il suo epistolario, ora disponibile grazie alle amorevoli cure di Pier Giorgio Zunino, ci proietta nella cittadella interiore di un alieno, rispetto alla melassa italiota. Prendiamo il giuramento imposto dal regime agli accademici. Fior di antifascisti, da Marchesi a Calamandrei, si adeguarono. Lo abbiamo fatto, si giustificheranno nel dopoguerra, per impedire che a educare le nuove generazioni fossero soltanto gli scalzacani del duce. Può essere. Ma quale differenza con le scarne parole indirizzate da Martinetti al ministro della pubblica istruzione Balbino Giuliano: «Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me ugualmente sacre». Lo splendore dell’intransigenza.
Non a caso, sono soprattutto due i «chiarissimi professori» che escono ammaccati da questo carteggio. Il primo è padre Agostino Gemelli, il teorico della «riconquista cattolica» all’ombra dei labari littori, un ragno velenoso che farà di tutto per imprigionare nella propria tela il pensiero eretico di Martinetti. Il secondo è Giovanni Gentile, archetipo dell’accademico arrampicatore e manovriero, «servo a tutti», rovesciando un celebre motto di Kant. Rifulge, invece, Ernesto Buonaiuti, straordinaria figura di sacerdote modernista, perseguitato senza tregua dai pretastri in camicia nera.
Le pagine più affascinanti del carteggio sono forse quelle dell’ultimo decennio, dal ’32 in poi, quando Martinetti, costretto ad abbandonare l’università, si ritirò nel suo eremo piemontese di Castellamonte. Una vita solitaria e spartana, ma operosissima, mentre i suoi libri erano sequestrati dalla prefettura e messi all’indice dal Sant’Ufficio. Pochi i corrispondenti epistolari, fra i quali spicca Nina Ruffini, nipote del giurista Francesco, un altro dei professori che non giurarono. Nel crepuscolo della sua vita, Martinetti verga alcuni delle più perspicue riflessioni sulla natura del potere totalitario sviluppate in quegli anni. Un’analisi che non lascia scampo. Un mondo in cui le vittime amano «le dittature, l’ordine dispotico, l’uguaglianza nel servaggio». L’Italia ridotta a un «branco di schiavi», cosicché i «pochi spiriti isolati appariscono come dei nemici del bene pubblico». E tuttavia, anche se «le tenebre prevalgono sempre, la luce non si spegne mai completamente». Per questo pubblicare libri resta «l’unica forma di bene che oggi sia lecito fare».
Morì il 23 marzo del ’43, senza fare in tempo a gioire per il crollo del regime.
Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), a cura di Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti, Olschki, pagg. LXXXI-264, • 36,00

l’Unità 6.1.12
La rinascita delle biblioteche?
È farne cuori pulsanti della lettura
L’appello di studiosi e cittadini per rendere questi luoghi fondamentali per l’accesso alla conoscenza La risposta del presidente Aib all’articolo di Chiara Valerio uscito mercoledì sulle nostre pagine
di Stefano Parise, presidente AIB


Let it be potrebbe essere la colonna sonora che accompagna la crisi delle biblioteche, l'agonia delle librerie indipendenti, l'incertezza degli editori alle prese con la metamorfosi del libro digitale.
Mentre gli addetti ai lavori si prodigano in appelli, denunce, interventi, nel Paese dove un italiano su due non legge nemmeno un libro all' anno e poco più del 10% della popolazione frequenta una biblioteca, nulla sembra smuovere il disinteresse istituzionale nei confronti del libro e della lettura.
E allora vai con i Fab Four, mentre le librerie indipendenti continuano a chiudere i battenti, il mercato del libro perde colpi (0,7%, pari a 7 milioni di euro sfumati) e le biblioteche stentano fra tagli ai bilanci (dal 30% in su), impossibilità di rigenerare gli organici e incapacità degli enti titolari di utilizzare la leva organizzativa per migliorare i servizi.
Sullo sfondo, la rivoluzione lenta dell'e-book, entrato in punta di piedi nel mercato italiano (lo 0,04% nel 2010, che pare diventerà l'1% quest'anno), la diffusione del self publishing, la battaglia campale delle vendite online, l'avanzata di internet a insidiare ogni ruolo di intermediazione informativa, editoriale e commerciale, la nascita di editori «digitali nativi» e di reti bibliotecarie che offrono accesso a una vasta gamma di contenuti in formato elettronico ai propri utenti.
Un quadro di ricchezza e complessità inedite, del quale non dovrebbero occuparsi solo i professionisti del settore perché in gioco non c'è soltanto la sopravvivenza di una filiera produttiva e commerciale ma il modo in cui una nazione favorisce la circolazione delle idee. Invece nulla, si procede in ordine sparso.
IL RUOLO DEGLI EDITORI
Così Stefano Mauri ha recentemente riaffermato (su «Repubblica», 11 dicembre) il ruolo insostituibile degli editori nel garantire la qualità dei libri e un contesto competitivo che garantisca opportunità agli autori e libertà di scelta ai lettori; l'Associazione Italiana Biblioteche ha lanciato un appello pubblico («La notte delle biblioteche», sottoscritto da intellettuali e da oltre 12.000 cittadini) per chiedere che anche nel nostro Paese il sistema delle biblioteche sia considerato una infrastruttura essenziale per l'accesso alla conoscenza e ai prodotti della creatività e dell'ingegno; i librai, che non avevano ancora finito di festeggiare l'entrata in vigore della legge che regola lo sconto sui libri, si sono trovati a doverla difendere dal fuoco amico dei best sellers messi in promozione ancor prima di debuttare in libreria.
Esorcismi buoni per farsi coraggio ma di relativa utilità se non raccordati in un quadro d'insieme che sappia coniugare la necessità di un cambiamento (nei modelli di business per gli editori, negli approcci commerciali per i librai, nelle prospettive e nei contenuti di servizio per i bibliotecari) con la presa di coscienza che la miglior polizza sulla vita per tutti gli attori della filiera del libro, attuali e futuri, è rappresentata dall'ampliamento della base sociale dei lettori.
Attraverso la lettura si assimilano competenze e si elabora conoscenza, si filtra informazione e si formano le opinioni. In Italia, dove il 71 per cento della popolazione non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà (De Mauro sul «Corriere della Sera», 28 novembre 2011), questa dovrebbe essere una priorità nazionale, da affrontare con politiche di lungo respiro e investimenti adeguati, che sappiano ridare prestigio a una pratica fra le più svalutate e avvicinare ad essa il maggior numero possibile di italiani, giovani e non.
Non è un problema da affrontare (solo) in chiave tecnologica: quand'anche Internet arrivasse a contenere, come l'Aleph borgesiano, tutti i saperi e tutte le prospettive, se anche riempissimo le scuole di lavagne multimediali e dotassimo ogni studente di un iPad, senza la capacità di fare un uso consapevole e competente dell'informazione resteremmo prigionieri della nostra inadeguatezza al cospetto della complessità che ci circonda (e a dispetto dei molteplici gadget tecnologici di cui tutti ormai siamo dotati).
IMPARARE A LEGGERE
È a questo progetto di alfabetizzazione che le biblioteche possono dare un contributo significativo, come volano per la promozione della lettura e come ambiente esperto di apprendimento anche avanzato, specialistico, per lettori di tutte le età, in una prospettiva di continuità con il lavoro svolto dalla scuola e dall'università. Cittadini competenti e capaci di scegliere sono i migliori clienti possibili per editori e librai interessati a lavorare sulla qualità e sulla pluralità delle proposte.
Ma chi deve raccordare le visioni particolari orientandole in un quadro complessivo? Chi deve coinvolgere tutti i soggetti interessati in una discussione che abbia come unico obiettivo quello di produrre un quadro di riferimento coerente che metta ordine all'attuale babele di competenze per indicare chi, come con quali mezzi consolidare la lettura in Italia?
Le istituzioni finora sono state latitanti o hanno affrontato singoli aspetti del problema. È giunto il momento di aggredire complessivamente il tema della promozione del libro e della lettura con provvedimenti legislativi adeguati. A Matera, durante l'ultimo forum del libro, bibliotecari, editori e librai hanno discusso di una legge di iniziativa popolare per la promozione del libro e della lettura. Lodevole ma insufficiente, perché la definizione di una politica per la lettura richiede un sostegno istituzionale forte. Politica, se ci sei batti un colpo.

il Fatto 6.1.12
Il Cairo
Duecentomila libri perduti
Tanti sono i testi andati in fumo tra cui l’Enciclopedia napoleonica
di Francesca Cicardi


il Cairo. La dottoressa Suheir Hawas osserva tristemente la sede dell’Istituto d’Egitto – fondato alla fine del XVIII secolo da Napoleone Bonaparte – ormai carbonizzato e sull’orlo del collasso. Le fiamme hanno divorato la struttura e i circa 200 mila volumi di incalcolabile valore custoditi all’interno dell’edificio, che si è ritrovato nel bel mezzo del fuoco incrociato di manifestanti e forze dell’ordine, nel cuore del Cairo durante l’ultimo episodio di violenza a piazza Tahrir. Era il 17 di dicembre e gli scontri continuarono per diverse ore intorno all’Istituto d’Egitto, con il lancio di pietre e bombe molotov, senza che nessuno intervenisse. I tetti e i pavimenti sono crollati, i pompieri arrivati troppo tardi e l’acqua comunque ha annegato i libri e rischia di far crollare quel poco che rimane in piedi dello storico palazzo. “Abbiamo perso 200 anni di storia”, dice Suheir, dell’Organizzazione nazionale per l’armonia urbanistica, con una macchina fotografica in una mano e una pagina di un libro bruciato nell’altra, mentre le pietre volano ancora sopra la sua testa. Piú di due settimane dopo, da sotto le macerie ogni giorno si ritrovano ancora libri: molti in pessime condizioni, non saranno più recuperabili, spiega Mohamed Sabry Al Dali, direttore del centro ricerche dell’Archivio nazionale egiziano. È in questo stabilimento che si stanno raccogliendo tutti i volumi: bruciati, inzuppati d’acqua, rovinati dalla manipolazione da parte di persone non esperte. All’incirca il 95 per cento sono stati estratti dall’Istituto d’Egitto, informa Al Dali, ma non è ancora iniziato il lavoro di catalogazione, meno ancora quello di restauro: “Ci vorranno anni! ”, assicura il direttore, il quale non osa stimare quanti libri potranno essere salvati e quanti sono andati persi per sempre.
IMPOSSIBILE quindi calcolare le perdite, così come il tempo e le risorse necessarie per riparare i danni, alcuni irrimediabili: una copia originale della Descrizione D’Egitto è andata distrutta quasi completamente. L’enciclopedia scritta durante la campagna napoleonica dal 1789 al 1801 è considerata la raccolta più completa e dettagliata di tutti gli aspetti del Paese fino a quel momento: 20 volumi redatti da più di 150 scienziati per oltre 20 anni. Fortunatamente, in Egitto si trovano altre tre copie manoscritte della prima edizione della Descrizione d’Egitto, oltre a quella che era custodita all’Istituto, e la Biblioteca Alessandrina l’aveva digitalizzata qualche hanno fa.
Mariam, una giovane attivista, accorse la sera del 17 dicembre per aiutare a salvare i libri, dopo aver visto l’Sos lanciato su Face-book e Twitter, e vide coi suoi stessi occhi come la Descrizione d’Egitto veniva estratta dall’Istituto ormai carbonizzata. Più di dieci anni prima aveva avuto la fortuna di sfogliarla intatta. Quella sera, insieme a lei altri volontari sono accorsi per salvare i libri. Quasi duecento persone lavorano ininterrottamente per recuperare questo patrimonio, non apprezzato e riconosciuto fino a quando è andato perso. Un team di specialisti della Biblioteca di manoscritti e libri rari dell’Università americana del Cairo sta dando il proprio contributo: il direttore Philip Croom evita di quantificare i danni: “È ancora presto per farlo”, ma ricorda l’importanza di conservare adeguatamente i documenti originali, di digitalizzarli, perchè “non si sa mai quando potrà accadere un’altra tragedia del genere”.
Per la dottoressa Soheir, è un dramma anche la perdita dell’edificio in sé, che dovrà essere demolito e poi ricostruito. “Bisogna salvare almeno la facciata, per conservare la memoria, il valore e l’immagine di questo palazzo”, 200 metri a sud di piazza Tahrir, dice adesso, afflitta come il giorno in cui osservava incredula quello che ne era rimasto. Questa volta è stato il turno dell’Istituto, la prossima potrebbe essere quella del Museo Egizio, all’entrata nord di Tahrir, e già messo a rischio in numerose occasioni durante i mesi di battaglie nella piazza e dintorni. Egittologi e organizzazioni di tutto il mondo si sono mostrati molto preoccupati per i tesori del Paese, soprattutto per il Museo, che fu colpito all’inizio della rivoluzione, quando diversi pezzi di gran valore furono smarriti, rubati e distrutti, perfino alcune mummie millenarie. Per gli attivisti, ovviamente le perdite umane pesano di più che quelle materiali: oltre 15 manifestanti morirono a metà dicembre negli scontri durante i quali l’Istituto fu bruciato.
ANCHE ALTRI edifici pubblici furono incendiati, ma alla fine salvati: l’Istituto era l’unico che non aveva un sistema antincendio. Le autorità diedero la colpa ai manifestanti “teppisti”, i quali avrebbero avuto un piano ben preciso per bruciare il Paese, letteralmente, secondo i militari che governano l’Egitto e che fino a oggi non hanno adottato alcuna misura di sicurezza. I rivoluzionari da parte loro rifiutano le accuse e dicono di aver sempre protetto il loro patrimonio storico, che negli scorsi mesi hanno sacrificato diverse volte mentre facevano la Storia.

il Fatto Saturno 6.1.12
Mito e psiche
I sudici dèi di Freud
di Giorgio Ieranò


SULLA SCRIVANIA di marmo è schierato un esercito di demoni. Divinità egizie, etrusche, greche: Amon-Ra con la testa di ariete, Iside con il figlio Horus in braccio, Atena che esibisce, ormai vuota, la mano che un tempo reggeva la lancia. Erano i demoni che Sigmund Freud aveva davanti agli occhi quando scopriva il complesso di Edipo. La fotografia in bianco e nero ci mostra le antiche figure come apparivano una volta, allineate e compatte, davanti alla sedia girevole in pelle su cui sedeva l’inventore della psicanalisi. Tutt’intorno, alcune di quelle statuette riposano in teche di vetro nella mostra La divina follia: Freud archeologo. Una mostra piccola, 18 pezzi in tutto. Ma è suggestivo entrare nell’atmosfera dello studio viennese di Berggasse 19, dove Freud scriveva i suoi libri e riceveva i suoi pazienti, scortati da questa schiera di demoni. Freud aveva una passione assoluta per l’archeologia. I pezzi esposti a Bolzano (“I miei vecchi, sudici dèi”, come li chiamava lui) vengono dalla sua collezione privata custodita al Museo Freud di Londra. “Ho letto più di archeologia che di psicologia”, confessava lui stesso in una lettera a Stefan Zweig. E altrove annotava: «Proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordo dell’analizzato». Lo psicanalista, dunque, come archeologo dell’anima. Ma quale antichità era quella di Freud? A volte la sua opera e la sua collezione sembrano illustrarsi a vicenda. Non stupisce di trovare un vaso greco che rappresenta Edipo di fronte alla Sfinge. E, forse, anche nella statuetta che mostra affiancati il faraone Amenofis I e sua madre, scoperta nella loro sepoltura comune, «Freud potrebbe avere colto un aspetto edipico», come suggerisce il curatore della mostra Francesco Marchioro. Di certo, davanti a questa ossessione per l’antico, si capisce come dalla sua scuola sia potuto uscire anche Gustav Jung, che le divinità pagane le infilava dappertutto. L’antichità di Freud è radicalmente anticlassica. Il suo idolo era Heinrich Schliemann, l’archeologo dilettante che, seguendo i sogni d’infanzia, aveva scoperto una grecità primitiva e favolosa, il mondo preistorico delle maschere d’oro dei re di Micene, così lontano dall’equilibrio apollineo celebrato dal neoclassicismo. Usando Edipo come chiave per l’inconscio, in fondo, lo stesso Freud aveva contribuito a trasformare gli eroi antichi da paradigmi di un canone estetico o morale in simboli della dimensione più oscura dell’umano. Ma già i suoi “sudici dèi” annunciavano la morte dell’ideale neoclassico.
La divina follia: Freud archeologo, Galleria Civica, Bolzano, fino al 29 gennaio

La Stampa 6.1.12
Ci vuole la tonaca per fare ascolti in tv
Trionfano Suor Angela Rai e Padre Gabriel Mediaset Bernabei: “Rassicurano”. Valsecchi: “Piace il mistero”
di Simonetta Robiony


Italia misteriosa. Saranno preti, suore, frati, teologi a salvare la fiction italiana dal calo degli ascolti? Vedendo i risultati pare di sì. L' ottava serie di Don Matteo della Lux, con l'eterno Terence Hill, ha chiuso con una media di 7 milioni le sue 13 puntate con ascolti in salita fino agli oltre 8 e subito, su Raiuno, è ripartita un' altra serie, Che Dio ci aiuti, stavolta con la suor Angela di Elena Sofia Ricci, approdata ieri alla quarta puntata e subito piazzatasi sopra i 6 milioni. Ha fatto un gran botto superando i 7 milioni su Canale 5, mercoledì, la prima puntata de Il tredicesimo apostolo della Taodue di Valsecchi con Claudio Gioè e Claudia Pandolfi, esplorazioni nel paranormale di un teologo prudente in compagnia di una psicologa materialista. E l'Italia che va a messa sempre meno, ascolta distrattamente i dettami della chiesa, sorride con Don Matteo e suor Angela o trattiene il respiro con Padre Gabriel. Si cerca con loro una via di salvezza davanti alla caduta dei valori tradizionali? O ci intriga buttare un occhio sui misteri che a dispetto di Piero Angela e del suo scientismo ancora ci turbano?
Certo i due religiosi di questo momento tv si somigliano poco. C'è, però, un elemento in comune: entrambi i sono immersi nella realtà e spesso i casi di puntata sono tratti da fatti di cronaca modificati. Pietro Valsecchi, gran capo di Taodue, produttore delle migliori fiction su mafia, Ris, distretti di polizia della nostra tv, da uomo con i piedi per terra parla, per il suo Il tredicesimo apostolo, di bisogno di novità da parte del pubblico. «Abbiamo fatto il più bel regalo di Natale a Canale 5 dimostrando che la fiction non è morta né è ammalata: basta innovare e il pubblico si trova. Io rischio. M'è andata bene. Ma c'è attenzione, studio, scrittura, regia e buoni attori. Senza la qualità non c’è successo». Quindi se il protagonista non fosse stato un sacerdote sarebbe andata ugualmente bene? «Non dico questo. Il conflitto fede-ragione affascina. E per renderlo serve mettere insieme una persona di fede e un'altra di ragione. Meglio se un uomo e una donna che si piacciono, pensando a Uccelli di rovo e meglio ancora se come in Voyager si alimenta il mistero. Ma la cosa più importante è innovare senza scimmiottare gli americani». Conta che l'Italia sia un paese cattolico? «Un po’ sì. Del resto tutti noi non ascoltiamo l'oroscopo, magari senza crederci? Se si vuole fare ascolto si deve fare una fiction profondamente italiana e di buona qualità. Soprattutto non ripetitiva. La gente ha pochi soldi adesso ma pretende dalla fiction quello che chiede a un film: vuol starsene a casa senza spendere i 7 euro del biglietto ma vuole il meglio».
Sarà. Ma proprio la ripetitività è la forza del vecchio Don Matteo e del nuovo Che Dio ci aiuti, la sua copia al femminile. Piccoli o grandi reati risolti con intuito, generosità e tanta fede. Luca Bernabei, che con la sorella Matilde è a capo della Lux, la più cattolica delle case di produzione, sostiene che piace la figura positiva. «La gente vuol essere rassicurata: piacciono suore e preti perchè portano una divisa così come piacciono i carabinieri e i poliziotti. E piace che i non giudichino mai con durezza chi ha sbagliato, ma indichino la via della salvezza». Qual è la ricetta del successo? «La serietà con cui lavoriamo. Ottimi collaboratori. Scrittura e riscritturadel copione, attori capaci come Terence Hill e Elena Sofia Ricci. Oggi il pubblico è diventato spietato, decreta la morte di una fiction col pollice verso fin dalla prima occhiata. In vent'anni è come se gli italiani avessero preso un master in fiction: sono bravissimi. E noi stiamo attentissimi. Suor Angela, per dire, è ispirata a una giovane donna che conosciamo: bella, ricca, fidanzato innamorato e casa ai Parioli, ha lasciato tutto e s'è fatta suora per regalare a chi la incontra la sua serenità». Il successo in tv dei personaggi che vestono abiti religiosi ha la stessa origine del successo che hanno le fiction sui papi o sui santi? Matilde Bernabei dice di no. «Quelle sono storie eccezionali, questi sono uomini e donne che si possono incontrare ogni giorno. In comune c’è il bisogno di spiritualità che c'è anche nella fiction di Valsecchi. E' un desiderio che sta nel nostro profondo, ma se lo sappiamo esprimere con onestà, perfino in tv finisce con il catturare l'attenzione».

Repubblica 6.1.12
Storia e leggenda dell´Epifania dai romani a noi La festa fonde usanze antiche e simboli cristiani
La befana
Così dalla ninfa Egea nacque il rito della calza
La notte della vecchina che vola sulla scopa ha un carattere di attesa magica
di Marino Niola


È la calza a fare la befana, non la befana a fare la calza. Basta questo accessorio magico, infatti, a trasformare una strega inquietante in una nonnina volante. Un po´ fata generosa, un po´ maga minacciosa. Ninfa attempata e sibilla decrepita, la megera benefica che arriva il sei gennaio ha nella calza il suo logo millenario. Che risale alle antiche divinità femminili del mondo pagano. Quelle che governavano il passaggio dall´anno vecchio a quello nuovo.
Prima fra tutte la ninfa Egeria, consigliera soprannaturale di Numa Pompilio. Il secondo dei mitici sette re di Roma proprio alle calende di gennaio appendeva una calza nella grotta della dea, vicino a Porta Capena e alle terme di Caracalla. E l´indomani mattina la trovava puntualmente piena di regali, ma anche di ammonimenti e profezie. Qualcosa tra un pizzino e una predica.
A dar man forte alla generosa Egeria ci pensava la divina Strenia, da cui deriva il nostro termine strenna. Che in origine era il regalo speciale che i genitori romani facevano ai bambini. Anche questa volta nei primi giorni dell´anno, durante la Sigillaria, letteralmente la festa delle statuette. Chiamata così perché si regalavano biscotti dolci a forma di bamboline e animaletti, assieme a una gran quantità di frutta secca e fave.
Regali, più profezie, più calze. Queste dee erano delle befane di fatto anche se non lo erano ancora di nome.
La parola befana è infatti un´invenzione del cristianesimo popolare e nasce dalla volgarizzazione dell´Epifania che sarebbe la manifestazione della doppia natura di Cristo ai re Magi venuti da Oriente per portare doni al dio bambino. Così il termine greco epifaneia si trasforma, nei vari dialetti italiani, in bifania, befania, pifania. Fino a diventare un vero e proprio personaggio. Come dire che la befana è la personificazione di un dogma astratto.
La nostra festa è dunque il risultato di una fusione tra antichi riti calendariali e nuovi simboli cristiani. Resta il fatto che la nonnetta svolazzante rappresenta la personificazione femminile dell´anno, il simbolo della natura giunta alla fine del suo ciclo e perciò raffigurata come una vecchia. Povera, striminzita, raggrinzita. Ecco perché la notte dell´epifania conserva quel carattere di attesa magica del nuovo anno e al tempo stesso di resa dei conti con quello vecchio. Premi e castighi. Previsioni e sanzioni. Cose buone da mangiare e cose assolutamente immangiabili come aglio e carrube, cenere e carbone. Quel carbone, una volta tanto temuto dai ragazzini e che le vecchine buoniste di oggi hanno trasformato in cristalli di zucchero nero. Una dolce punizione, una lezione a salve fatta apposta per una società dove la bocciatura non è più contemplata. Eppure quella della befana resta comunque una pagella, uno scrutinio di fine anno. Non a caso si chiamano proprio scrutini le sorprese che tradizionalmente si mettono nei dolci dell´Epifania. E che di solito sono a forma di fava. Probabilmente perché questi legumi venivano usati nell´antichità per votare a scrutinio segreto condanne o assoluzioni, fave bianche per il sì, fave nere per il no. Ma anche per predire il futuro. E farsi amica la fortuna.
Forse proprio perché viene da molto lontano la befana è dura a morire. Ha dalla sua il passo lungo della tradizione che le consente di resistere alle mode e di essere a suo agio in ogni epoca. In fondo la vecchia che vola sulla scopa e si cala nottetempo dalla cappa del camino è un hardware fiabesco in grado di lanciare i software più diversi. Dalla calza bio a quella chilometro zero, da quella ecocompatibile a quella equosolidale, da quella sostenibile a quella responsabile. E perfino alla calza delocalizzata della Omsa, regalo avvelenato per le lavoratrici dello storico marchio. Oggetti ma anche concetti. Stili di vita. Idee di futuro. Non semplicemente consumi.
Se è vero che tutto quel che si infila nella calza diventa simbolico allora le ultime tendenze della befana diventano un sismografo del presente. Ne registrano fedelmente gli umori e i valori, le attese e i timori. Da un lato la crisi economica che costringe alla sobrietà. Ma dall´altro anche la voglia di cambiamento. Ecco perché in un tempo di crisi come il nostro la befana, emblema millenario del dono e dei bilanci, del dare e del ricevere, abiura la bulimia consumistica. E si converte all´abbondanza frugale. Senza rinunciare a sognare.