l’Unità 31.1.12
Immigrati, aumentano le tasse ma non i diritti
Il ministro Riccardi: «Per la cittadinanza nascere in Italia non basta, diamola ai ragazzi già integrati». Da ieri i permessi di soggiorno costano di più
di Alessandra Rubenni
Ottanta euro per poter stare in Italia per un periodo massimo di un anno, 100 per due anni, 200 per il lungo periodo. Mentre Lega e Pdl minacciavano barricate contro l’abrograzione della nuova tassa sul permesso di soggiorno, nei giorni scorsi il governo aveva già chiarito di non avere nessuna intenzione di cancellarla. Semmai, l’avrebbe “modulata”, in base a reddito e composizione del nucleo familiare degli immigrati. Stranieri che evidentemente nel momento in cui richiedono il permesso di soggiorno già lavorano e pagano le tasse nel nostro Paese. Ma anche gli «sconti» sono stati rinviati e nel frattempo il balzello aggiuntivo sul rinnovo dei permessi è entrato in vigore.
Da ieri, grazie al decreto Maroni-Tremonti, varato agli sgoccioli del governo Berlusconi, si paga anche un’altra tassa, oltre i 72 euro che gli immigrati dovevano già versare per le spese relative al permesso elettronico, al servizio postale e marca da bollo. Contro la quale annunciano battaglia la Cgil («presenteremo ricorso contro un ingiusto provvedimento»), il Pd, sindacati e associazioni, con Sel già da ieri a protestare sotto Montecitorio e, tra tanti, una Emma Bonino in rivolta contro un governo che «ha annunciato che forse sospenderà la tassa, con un successivo provvedimento: un’altra goccia di incertezza legislativa, in cui migliaia di persone, immigrate, si chiederanno se la devono pagare o no, e cosa devono fare».
E per un balzello in più che arriva a carico di chi sia alle prese con la trafila per evitare di finire in clandestinità, ecco che si avvicina forse a un giro di boa il dibattito sulla proposta caldeggiata anche dal Presidente Napolitano come un passo necessario e ineludibile in un Paese civile di riconoscere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati che nascano o crescano nel nostro Paese. Quei ragazzi che a scuola sono compagni di banco di bambini italiani, che giocano e diventano grandi insieme a loro ma che per legge restano degli stranieri. «Se un bambino è nato in Italia da genitori immigrati e ha studiato anche qui per un certo periodo, è inserito nella nazione ed è giusto che abbia la cittadinanza. Ma non si può pensare di ricorrere solo al criterio dello ius soli. Questo porterebbe a far nascere qui bambini da tutto il mondo», è l’obiezione arrivata l’altra sera dal ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, intervistata da Fabio Fazio.
Sulla stessa linea, il ministro dell’Integrazione, Andrea Riccardi, convinto che «tra fautori dello ius soli e dello ius sanguinis (il diritto alla cittadinanza per chi è figlio di italiani, ndr), si possa trovare una strada intermedia, che ho definito ius culturae». Quindi, pensiamo alla cittadinanza per i ragazzi già integrati, è il ragionamento di Riccardi, per «i figli dei lavoratori stranieri nati in Italia e che risiedono qui da tanti anni», quelli «che hanno frequentato le stesse scuole dei nostri figli, parlano italiano e spesso non conoscono se non per accenni la lingua originaria dei loro genitori e non sono mai tornati nei Paesi d’origine».
Chi sostiene la campagna per l’estensione del diritto di cittadinanza, però, mette in guardia proprio sulla difficile applicazione delle norme già esistenti: già oggi infatti è previsto che a 18 anni chi è nato in Italia possa chiedere la cittadinanza ma dimostrando di aver vissuto qui ininterrottamente. Anche delle vacanze nel paese d’origine o la semplice mancata notifica di un cambio di residenza possono compromettere il rilascio della cittadinanza.
Il numero degli stranieri residenti in Italia intanto continua a crescere: 4 milioni di stranieri residenti il 7% della popolazione tra i quali 572.000 minori nati nel Belpaese. Ma in otto anni, dal 2002 al 2010, meno di una persona straniera residente su 100 ha acquisito la cittadinanza italiana. Dati nettamente inferiori alla media europea, certifica Eurostat con una classifica su questo particolare “indicatore di civiltà”.
l’Unità 31.1.12
Attenti, l’eguaglianza non è un premio da conquistare
La cittadinanza non va riconosciuta solo a chi supera delle prove. Ricordiamoci cosa dice la Costituzione
di Filippo Miraglia
La discussione che si sta sviluppando sulla cittadinanza dimostra che abbiamo avuto a ragione a tentare di spostare con la campagna «l’Italia sono anch’io», promossa da 19 organizzazioni il dibattito pubblico sull’immigrazione dal terreno dell’emergenza a quello dei diritti e della democrazia. Si parla finalmente delle milioni di persone di origine straniera che vivono nel nostro Paese, contribuendo alla sua crescita, e del loro rapporto con lo Stato in tutte le sue articolazioni.
Abbiamo chiesto ai cittadini di sottoscrivere due proposte di legge di iniziative popolare, un modo per avere una relazione diretta con l’opinione pubblica, non mediata da politica e stampa.
In tanti hanno firmato e stanno firmando, optando per un modello di società aperta e tra pari, per un’idea di cittadinanza che non si costruisce per esclusione. Certamente un grande aiuto è venuto da autorevoli interventi di esponenti del mondo della politica, della cultura e delle istituzioni, a cominciare dalle importanti dichiarazione del Presidente Napolitano.
Tuttavia va rilevato che anche tra coloro che si sono dichiarati favorevoli alla riforma della cittadinanza, c’è chi ha mostrato una certa propensione verso un “diritto speciale” per i migranti e le loro famiglie, a una idea di diritti “in prova”. Più precisamente e qui prendiamo in esame solo una parte degli obiettivi della campagna l’idea che la cittadinanza per i nati in Italia, lo ius soli, e quindi l’ampliamento della sfera dei diritti per i bambini di origine straniera, debba essere ottenuta attraverso la dimostrazione di una “volontà di integrazione” da parte delle famiglie e addirittura degli stessi minori, che necessita di un percorso complesso.
In generale tutta la materia dell’immigrazione, quando si parla di diritti, è affrontata da alcuni con un approccio “premiale”: se vuoi diventare cittadino italiano devi superare delle prove.
Questa logica, che sta alla base del contratto di soggiorno, è anche quella che induce a pensare che la cittadinanza sia lo spazio dentro il quale misurare la “integrabilità” di una persona o di una famiglia nella società.
A chi ritiene che lo ius soli vada “temperato”, ricordiamo che l’articolo 3 della Costituzione sancisce il principio di uguaglianza e impegna lo Stato a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il pieno raggiungimento. Il contrario di chi sostiene la “integrabilità” come condizione per la sua piena applicazione.
Nella nostra proposta di legge di riforma della cittadinanza sosteniamo che la regolarità del soggiorno di uno dei genitori da un anno è condizione sufficiente per richiedere la cittadinanza per i nati in Italia. La regolarità del soggiorno di un anno, data l’attuale legislazione sull’ingresso e il soggiorno dei migranti, presuppone la presenza stabile e un’occupazione. Introdurre altre condizioni provocherebbe solo disuguaglianze.
È giusto, per esempio, prevedere che il minore che compie un ciclo di studi possa chiedere la cittadinanza, ma non come condizione aggiuntiva alla nascita. Pensiamo a un minore che si trasferisce in Italia da piccolo: un esempio che riguarda oggi centinaia di migliaia di ragazzi. Nonostante frequenti la scuola, anche per l’intero ciclo scolastico, è assimilato a un qualsiasi altro straniero che chiede di naturalizzarsi e a 18 anni dovrà dimostrare di avere i requisiti per ottenere il titolo di soggiorno se vuole evitare l’espulsione.
Sarebbe utile confrontarsi anche su due altri aspetti importanti, finora poco toccati. La competenza sulla procedura relativa alla cittadinanza secondo noi dovrebbe passare ai Comuni, cioè all’amministrazione pubblica più vicina al cittadino.
Inoltre, la procedura dovrebbe essere sottratta a ogni discrezionalità e definita con precisione nella legge, per garantire trasparenza e certezza. Decine di migliaia di domande di naturalizzazione giacciono invece da anni al Ministero dell’Interno, senza che venga fornita agli interessati nessuna certezza sui tempi e gli esiti.
In altre parole, sarebbe opportuno che nel dibattito sulla possibile riforma della cittadinanza si partisse dai problemi che oggi incontrano le persone che vogliono accedervi in un Paese che cambia e che rischia di essere sempre più popolato di persone che rimangono straniere per sempre.
*Responsabile immigrazione Arci
il Fatto 31.1.12
Lo Ior si fa beffe dell’Italia
In un documento riservato il rifiuto del Vaticano di dare informazioni allo Stato. A difendere la banca era la Severino
di Marco Lillo
Il Vaticano sta prendendo per il naso da mesi la giustizia e la Banca d’Italia. Il Governo Monti dovrebbe fare la voce grossa e ottenere il rispetto degli impegni assunti in materia di antiriciclaggio ma c'è un piccolo particolare: il ministro della giustizia che dovrebbe essere in prima linea in questa battaglia, è stato l'avvocato del presidente della banca vaticana, lo IOR, Ettore Gotti Tedeschi. La linea del Vaticano in questa materia non corrisponde affatto alle promesse di trasparenza contrabbandate in pubblico. Lo dimostra un documento che Il Fatto pubblica in esclusiva.
Si intitola “Memo sui rapporti IOR-AIF” ed è un documento “confidenziale” e “riservato” circolato negli uffici del Papa e della Segreteria di Stato e annotato a penna da una mano che - secondo gli esperti di cose Vaticane - potrebbe essere quella di monsignor Georg Ganswein, il segretario di Benedetto XVI. E’ stato scritto da un personaggio molto in alto che si può permettere di sottoporre la sua analisi ai vertici del Vaticano. Al di là di chi sia l’autore, il “memo” dimostra che il Papa, il segretario di Stato Tarcisio Bertone, il presidente dello AIF, l'autorità di controllo antiriciclaggio Attilio Nicora e i vertici dello IOR sono tutti a conoscenza della linea sul fronte antiriciclaggio che si può sintetizzare così: non si deve collaborare con la giustizia italiana per tutto quello che è successo allo IOR fino all’aprile 2011. Il “Memo”, come dimostrano le note appuntate a penna dalla segreteria del Santo Padre, è stato “Discusso con SER (Sua Eminenza Reverendissima) il Cardinale Bertone il 3 novembre” 2011. L’autore della nota, favorevole a una maggiore apertura verso Bankitalia e le Procure, aggiunge: Bertone “Si è trovato d'accordo sulle mie considerazioni! Incontrerà SER il cardinale Attilio Nicora (Presidente dell’AIF) e il direttore AIF (Francesco Ndr) De Pasquale”. Il memo, così annotato, è stato poi girato, al presidente dello IOR e al direttore dell’AIF.
Basta scorrere il testo per capire la rilevanza della partita in gioco: “Dall'entrata in vigore della legge vaticana anti-riciclaggio, avvenuta il primo aprile 2011, si sono tenuti numerosi incontri tra lo IOR e l'AIF (Autorità creata dalla nuova legge del Vaticano Ndr), rivolti da una parte a dimostrare alla nuova Autorità le iniziative intraprese per l'adeguamento delle procedure interne alle misure introdotte dalla legge.... ”
IN QUESTA prima parte il memo ripercorre la vicenda del mutamento della normativa antiriciclaggio, intervenuto sotto la spinta dell’indagine della Procura di Roma. Il pm Stefano Rocco Fava e il procuratore aggiunto Nello Rossi - a settembre del 2010 - avevano sequestrato 23 milioni di euro che stavano per essere trasferiti dal conto dello IOR presso il Credito Artigiano alla Jp Morgan di Francoforte (20 milioni di euro) e alla Banca del Fucino (3 milioni) e aveva indagato il presidente IOR, Ettore Gotti Tedeschi e il direttore Cipriani. Secondo i pm, lo IOR si era rifiutato di dire “le generalità dei soggetti per conto dei quali eventualmente davano esecuzioni alle operazioni”. Cioé chi era il reale proprietario dei soldi. Dalle indagini della Guardia di Finanza emergeva un quadro inquietante: lo IOR mescolava sul suo conto al Credito Artigiano i 15 milioni di euro provenienti dalla CEI, e frutto dell’8 per mille dei contribuenti italiani, con fondi di soggetti diversi. Non solo: da altre operazioni emergeva che lo IOR funzionava come una fiduciaria e i suoi conti erano stati usati per schermare persino i proventi di una presunta truffa allo Stato italiano realizzata dal padre e dallo zio (condannato per fatti di mafia) di don Orazio Bonaccorsi.
DI FRONTE a un simile scenario i pm romani si erano opposti al dissequestro dei 23 milioni di euro nonostante le dotte motivazioni dell’avvocato del presidente dello IOR, il professor Paola Severino. Il ministro ora ha lasciato lo studio e si è cancellato dall’Albo anche se non ha comunicato alla Procura chi la sostituirà nella difesa di Gotti Tedeschi. A sbloccare la situazione comunque non fu l’avvocato Severino ma il Papa in persona. Con una Lettera Apostolica per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario il 30 dicembre 2010, Benedetto XVI ha istituito l’Autorità di informazione finanziaria (AIF), per il contrasto del riciclaggio. I pm romani motivarono così il loro parere favorevole al dissequestro nel maggio 2011: “l’AIF ha già iniziato una collaborazione con l’UIF fornendo informazioni adeguate su di un’operazione intercorsa tra IOR e istituti italiani e oggetto di attenzione”. Peccato che, un minuto dopo essere rientrato in possesso dei suoi 23 milioni, lo IOR ha cambiato completamente atteggiamento. Tanto che in Procura non si nasconde il disappunto per quel dissequestro “sulla fiducia”. Ora si scopre che la giravolta vaticana è una scelta consapevole delle gerarchie, come spiega lo stesso “memo” discusso dai cardinali Nicora e Bertone e dallo stesso Gotti Tedeschi. “L'AIF (....) ha inoltrato allo IOR alcune richieste di informazioni relative a fondi aperti presso l'Istituto, cui quest'ultimo ha corrisposto, consentendo tra l'altro lo sblocco dei fondi sequestrati dalla Procura di Roma (....) Ultimamente, tuttavia la Direzione dell'Istituto ha ritenuto di riscontrare le richieste dell' AIF - relative ad operazioni sospette o per le quali sono in corso procedimenti giudiziari - fornendo informazioni soltanto su operazioni effettuate dal primo aprile 2011 in avanti. Nel corso dell'ultimo incontro tra IOR e AlF del 19 ottobre u. s. tale posizione è stata sostenuta dall'Avv. Michele Briamonte (dello studio Grande Stevens Ndr), sulla base di un generale principio di irretroattività della legge, per il quale le misure introdotte dalla legge antiriciclaggio, (....) non possono valere che per l'avvenire”. Questa linea interpretativa, ovviamente, ostacola enormemente il lavoro degli investigatori italiani e l’Aif ne è consapevole tanto che, come si evince dal memo ha ribadito “il proprio diritto/dovere ad accedere a tutti i dati e le informazioni in possesso dello IOR (...) motivando tale posizione con argomentazioni attinenti alla lettera e alla ratio della legge, al rispetto degli standard internazionali cui la Santa Sede ha aderito, allo svuotamento dell'effettività della disciplina appena introdotta, al rischio di una valutazione negativa dell'organismo internazionale chiamato a esaminare il sistema Vaticano di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo”.
PURTROPPO l'operazione trasparenza era solo uno specchietto per le allodole. Nel frattempo il Vaticano ha spostato la sua operatività dalle banche italiane alla JP Morgan, soprattutto a Francoforte. La banca americana ha però un solo sportello (non accessibile alla clientela comune) a Milano, che è già finito, da quello che risulta al Fatto, nel mirino dell’attività ispettiva della Banca d’Italia. E così il 25 gennaio è stato pubblicato un decreto pontificio che ha ratificato tre convenzioni contro il riciclaggio. Sembra ci sia anche un articolo sull’obbligo di “adeguata verifica” prima del fatidico primo aprile. In Procura però stavolta non si fidano.
il Fatto 31.1.12
La messa del prete assassino
di Maurizio Chierici
Nei giorni della memoria, la Chiesa argentina dimentica la sua “piccola” Shoah: 30 mila morti, come gli ebrei scelti uno per uno, quasi sempre ragazzi. Giovani madri uccise nei lager segreti appena mettevano al mondo la creatura. Bambini da vendere alle coppie sterili o regalati se il capo famiglia era in divisa. Le nonne di piazza di Maggio hanno restituito la memoria rubata a più di cento adulti cresciuti nell’inganno da chi aveva ucciso i genitori. E la ricerca continua. Ma se fra i protagonisti del genocidio c’è un sacerdote sepolto dalla giustizia dietro le sbarre, i vescovi discutono e non trovano l’accordo: sospenderlo a divinis o lasciar maturare chissà quale pentimento? E il prete resta prete. Può confessare e dir messa come ogni sacerdote dal cuore innocente. Confessa e assolve assassini che gli somigliano. Marcos Paz è un carcere speciale attorno a Buenos Aires. Gli ospiti fanno la differenza con ogni altra prigione. Paga l’ergastolo il capitano Astiz, angelo della morte: due religiose francesi violentate e strangolate. C’è Luis Alberto Patti, maestro nell’arte orribile della “picana”, tortura alla quale nessuno sapeva resistere. E, nella cella accanto, Christian von Wernich, sacerdote che “consolava” gli studenti destinati a sparire nei sotterranei segreti della Scuola Meccanica della Marina. Anni della dittatura militare: 1977, 1983. Proprio nei giorni della memoria, Von Wernich scrive ai giornali: “Sono vittima di una persecuzione rivoltante. Mi è proibito dir messa nella cappella dove si raccolgono i prigionieri. La colpa? Aver combattuto l’eversione sacrilega del marxismo”. Von Wermich sconta l’ergastolo per aver ingannato con trappole sacrileghe 34 ragazzi: 7 non sono mai tornati. Ha partecipato alla tortura di 32 prigionieri. I sopravvissuti lo hanno riconosciuto in tribunale. Jacopo Timerman ricorda nel suo libro: “Assisteva ai miei interrogatori. Ero bendato, ma quando la benda si è abbassata per il sussulto della scossa elettrica, l’ho visto seduto accanto al capo della polizia Ramos Camps. Mi guardava come si guarda un cane che sta per morire”. La sua trappola era la confessione. Consolava i prigionieri che non si arrendevano alla violenza. Parole di speranza: “Se pensi che i tuoi amici siano in pericolo, dimmi chi sono: corro a metterli in salvo”. E mandava la polizia. Accompagnava le vittime a morire invitando alla serenità “perché Dio lo sa”. Dopo l’ergastolo si attendeva la sospensione dai ministeri religiosi, competenza della Chiesa argentina. Sono passati 4 anni, i vescovi non riescono a mettersi d’accordo. Nessun provvedimento. Sacerdote come prima. Sul poeta Ernesto Cardenal, trappista, e Miguel D’Escoto, domenicano, entrati in politica nel Nicaragua liberato dalla dittatura di Somoza, papa Woytila alza l’indice dell’esclusione: proibita per sempre la messa. E Ferdinando Cardenal, gesuita, ministro della scuola, fratello di Ernesto, a 70 anni torna a fare il noviziato con l’umiltà di un adolescente. È andata meglio a Gianni Baget Bozzo, deputato europeo nel nome di Craxi: benevolmente gli si è concesso di celebrare, ma non in pubblico. Entrare in politica può essere considerato un peccato più odioso dell’omicidio e della tortura? Christian von Wermich non si accontenta. “La Chiesa conferma la mia piena dignità sacerdotale, perché il direttore del carcere mi impedisce di esercitarla?”. Si lamenta per la costrizione del dir messa “nella solitudine della cella”. Si lamenta del divieto a partecipare “come chierico d’aiuto al celebrante” nella cappella dei reclusi. “Violenza della politica”. Non ha mai chiesto perdono alle vittime. Anche il comunicato della Conferenza episcopale argentina se n’è dimenticato. Immagino che il nunzio di Buenos Aires abbia riferito a Roma. Perché anche il Vaticano non decide? mchierici2@libero.it
il Fatto 31.1.12
Shoah: l’archivio dei beni confiscati
La Memoria restituita
di Francesco Costantini
Sono 2 milioni, ora, le proprietà archiviate raccolte da Project Heart ( www.heartthewebsite.org ), il Gruppo di lavoro per la restituzione dei Beni dell’Olocausto. Una crescita esponenziale rispetto alla nascita, nel maggio 2011, quando le registrazioni erano 500mila. Il database non potrà essere un risarcimento, ma quantomeno una forma di giustizia che mira alla restituzione delle proprietà che sono state “confiscate, saccheggiate o forzatamente vendute durante l’epoca della Shoah”.
“Questo programma offre la promessa – dice nel suo discorso dedicato al tema il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, disponibile su Youtube – che possiamo finalmente ottenere la giustizia così a lungo negata alle vittime dell’Olocausto e i loro eredi”. L’iniziativa del governo israeliano e ministero degli anziani, in collaborazione con l’Agenzia ebraica per Israele è, continua Netanyahu “una corsa contro il tempo”: ogni giorno che passa scompaiono sempre più superstiti della più grande tragedia del XX secolo e con loro vengono a mancare le testimonianze di quello che il nazismo ha rubato, anche a livello patrimoniale. I campi di concentramento avevano distrutto, assieme alle esistenze, anche il mondo in cui pochi sopravvissuti erano riusciti a tornare. Il lavoro di ricostruzione è complesso e il sito offre un aiuto concreto in questa direzione: tradotto in 13 lingue, spiega passo per passo come muoversi. Innanzitutto è opportuno verificare l’idoneità della richiesta di indennizzo. Bisogna ad esempio dimostrare che le proprietà “erano ubicate in paesi controllati dalle forze naziste o dalle potenze dell’Asse in qualsiasi periodo durante l’epoca dell’Olocausto; appartenevano a persone di etnia ebraica secondo la definizione dalle leggi razziali naziste o dell’Asse; sono state confiscate, saccheggiate o vendute forzatamente dalle forze naziste o dalle potenze dell’Asse durante l’epoca dell’Olocausto” e infine, che “non è stata ricevuta alcuna restituzione di tali proprietà successivamente all’epoca dell’Olocausto”.
“Un database online con più di 2 milioni di beni archiviati ci permette di restituire un pezzo di storia al popolo ebraico – spiega Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele – Rimaniamo impegnati a ottenere la restituzione per gli individui che sono stati ignorati per troppo tempo”. Un’iniziativa per la quale ogni giorno è quello della Memoria: “Il database ha più di 500.000 visite ogni settimana – dice Anya Verkhovskaya, la direttrice – e questo dimostra la grande necessità che il progetto sta riempiendo”. Chiunque avesse i requisiti (per scoprirlo c’è un apposito questionario da inviare) potrà rivalersi per proprietà immobili (compresi terreni anche non edificati), proprietà mobili (oggetti d’arte, di culto giudaici, bestiame, strumenti professionali , metalli preziosi, pietre, gioielli) e proprietà personali intangibili (azioni, obbligazioni, polizze assicurative, conti di risparmio, brevetti, finanziamenti e mutui non saldati).
l’Unità 31.1.12
«C’è solo un modo per fermare Assad: l’isolamento totale»
Il capo dell’opposizione: «Il rais conosce solo
il linguaggio della forza. La comunità internazionale può agire solo politicamente e diplomaticamente»
di U.D.G.
Bashar al-Assad conosce e pratica un solo linguaggio: quello della forza. E da mesi lo sta praticando spietatamente. Per quanto ci riguarda non eravamo pregiudizialmente contrari all’apertura di un dialogo nazionale con il regime, così come indicato dal piano della Lega Araba. Ma avevamo posto alcune condizioni basilari per dare un senso al dialogo: il ritiro dell’esercito e delle forze di sicurezza dalle città, lo stop alle uccisioni e agli arresti, la liberazione dei detenuti politici e la libertà di manifestare. Assad ha affidato la sua risposta ai carri armati».
A parlare è una delle figure più autorevoli dell’opposizione siriana: Hassan Abdel Azim, avvocato, leader dell’Ncb (l’Organismo di coordinamento nazionale per il cambiamento democratico in Siria). Figura storica del dissenso, Hassan Abdel Azim si è sempre dichiarato contrario ad un intervento militare esterno: «Tra questa misura estrema e l’inerzia – dice a l’Unità – vi è una terza via che la Comunità internazionale deve perseguire con la massima determinazione se non vuol essere complice della brutale repressione messa in atto da dieci mesi da Assad: è la strada dell’isolamento politico e diplomatico del regime a cui unire pesanti misure sanzionatorie contro gli esponenti del clan che sta portando alla rovina la Siria».
Dalla Siria giungono notizie sempre più drammatiche. Si combatte alla periferia di Damasco... «Nonostante gli appelli internazionali, il regime ha deciso di scatenare l’offensiva finale. Assad ha dimostrato di conoscere e praticare un solo linguaggio: quello della forza».
Nel piano della Lega Araba c’è l’indicazione dell’apertura di un dialogo nazionale volto alla creazione di un governo di transizione. In passato, lei non si è dichiarato contrario a questa prospettiva. Lo è ancora?
«Il dialogo può avere senso se la controparte mostra con i fatti la disponibilità a voltare pagina. Per quanto ci riguarda, come Ncb avevamo posto alcune condizioni basilari per sederci ad un tavolo negoziale: il ritiro dell’esercito e delle forze di sicurezza dalle città, lo stop alle uccisioni e agli arresti, la liberazione dei detenuti politici e la libertà di manifestare. Assad ha affidato la sua risposta ai carri armati. Mi lasci aggiungere che esprimere una disponibilità al dialogo vincolato alle condizioni da noi poste, non è una prova di debolezza o di accondiscendenza, ma il modo più efficace per costringere la controparte a mostrare al mondo e al popolo siriano il suo vero volto. Non si dialoga con chi ti punta una pisola alla tempia...».
Tra le fila dell’opposizione, c’è chi invoca un intervento armato internazionale...
«Non è la mia posizione, anche se capisco che di fronte alla violenza pianificata del regime una richiesta del genere ha un fondamento. Ma tra l’intervento militare esterno e l’inerzia, c’è una terza via da praticare con la massima determinazione da parte della Comunità internazionale...».
Quale sarebbe questa terza via?
«L’isolamento totale, politico e diplomatico, del regime a cui accompagnare misure sanzionatorie mirate a colpire gli interessi del clan Assad. Una linea che l’Europa sta assumendo, ma che a livello del Consiglio di Sicurezza sconta ancora l’ostracismo della Russia».
C’è chi sostiene che il futuro della Siria è incerto non solo per la repressione del regime ma anche per un’opposizione divisa.
«Se si vuol dire che tra i gruppi dell’opposizione vi sono orientamenti, sensibilità, diversi questo è vero, ma ciò rappresenta un elemento di forza e non di debolezza. Ma su un punto non esistono divisioni. Ed è il punto fondamentale: battersi per realizzare una vera democrazia, uno Stato di diritto. Non stiamo combattendo questo regime per sostituirlo con un altro».
Corriere della Sera 31.1.12
Siamo pronti alla pillola della moralità?
Un test apre nuovi scenari sull'empatia degli uomini
di Massimo Piattelli Palmarini
U n blog del New York Times, con un articolo del noto filosofo dell'etica e ambientalista Peter Singer, professore a Princeton, ritorna in questi giorni su un esperimento effettuato sui ratti all'Università di Chicago lo scorso Dicembre dal neuroscienziato Jean Decety e dai suoi collaboratori.
L'esperimento fece molto rumore perché, come ho avuto occasione di descrivere io stesso sul Corriere della Sera, in essenza, aveva dimostrato che alcuni ratti (si noti: alcuni, non proprio tutti), posti di fronte a una situazione nella quale potevano tranquillamente mangiare della cioccolata, oppure liberare un altro ratto visibilmente imprigionato in un tubo trasparente, preferivano agire da liberatori e poi condividere con il compagno quella cioccolata. Nessuna differenza è stata osservata tra ratti maschi e ratti femmine nel liberare un compagno dello stesso sesso. Sono ancora in corso i più complessi esperimenti su maschi che liberano femmine o l'inverso.
L'empatia, cioè la condivisione soggettiva della sofferenza altrui, si rivela essere, quindi, evolutivamente molto antica. Risale a circa 60 milioni di anni addietro, quando roditori e primati avevano un antenato comune. Infatti, Decety mi conferma che i circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina.
Peter Singer riporta anche casi reali del tutto opposti, cioè suprema indifferenza degli esseri umani di fronte a una manifesta, tragica sofferenza di altri esseri umani. Si chiede se sarebbe possibile creare una pillola dell'empatia, un farmaco che, una volta somministrato, generasse compassione in chi ne è spontaneamente carente. Se questo fosse farmacologicamente possibile, avremmo, per i potenziali criminali, una terapia preventiva assai più semplice e indolore di quella rappresentata da Stanley Kubrick nel noto film Arancia meccanica.
Immaginiamo che una simile pillola, chiamiamola empaten, sia possibile. Decideremmo di usarla? Su chi e perché? Immaginiamo anche che un semplice test effettuato mediante prelievo di sangue riveli quali individui sono spontaneamente inclini all'empatia e quali non lo sono. Vorremmo somministrare ai secondi, preventivamente, l'empaten? Solo se accettano, o anche se non accettano? E con quale autorità? Dove finirebbe il libero arbitrio? I commentatori del blog di Singer offrono un vasto spettro di opinioni, per lo più contrarie all'idea della pillola e tutte problematiche. In effetti i problemi sono molti e tutti spinosi. Per esempio, l'autore dello studio sui ratti, Jean Decety, ha anche verificato che nei medici e nei chirurghi l'empatia è assai attenuata, per necessità professionali. Rise quando gli tradussi il vecchio proverbio «Il medico pietoso fa la piaga puzzolente» e ammise che è un proverbio saggio.
Vorremmo somministrare l'empaten anche ai clinici?
Personalmente ritengo che si sia tutti un po' succubi di una certa crescente neuromania e di una genetomania. Va benissimo sondare le radici neurobiologiche e genetiche di un numero sempre crescente di comportamenti, predisposizioni e stati d'animo. Meno bene, però, adottare di conseguenza un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore. Il libero arbitrio è un peso, ma dobbiamo sopportarlo. Le spontanee differenze comportamentali, caratteriali e morali tra gli individui arrecano incertezze e complicano la vita. Provocano anche tragedie e orrori, ma la soluzione non sarà una pillola o una stimolazione di aree cerebrali specifiche. I progressi della neurobiologia, la neurofarmacologia e la genetica ci consentiranno di capire meglio come siamo fatti, ci daranno un quadro più approfondito della natura umana, ma le conseguenze dovremmo trarle noi tutti, individualmente e collettivamente, con la mente, il sentimento, la persuasione e l'educazione. Cureremo meglio le malattie, anche quelle psichiatriche, ma con il pieno consenso dei pazienti. Nel blog, una signora di Arlington, Massachusetts, chiede, come paradosso, se vorremmo accordarci in anticipo sul punteggio finale del campionato di football. Il paragone mi sembra calzante. La vita quotidiana è piena di incerti e non vorremmo pillole che progressivamente li eliminassero tutti.
Corriere della Sera 31.1.12
Il mito dentro
L'antica Atene plasmò l'identità europea Ma fu il nostro Sud a rivelarne i valori
di Francesca Bonazzoli
Nell'Europa dell'euro in cui l'economia ha rinunciato a pensare la società e la società si pensa in termini di economia, si sta facendo sentire sempre più forte il bisogno di tornare a riflettere sui valori che ci tengono insieme. Per noi europei c'è un luogo fondante dove andarli a cercare: il mito, perché il simbolo, trasformato in narrazione e poi in filosofia e storia, non è raccontato una volta per tutte, ma genera una continua stratificazione di sensi e reinterpretazioni (a differenza della religione che offre un'unica verità) ed è, come ci ha mostrato Freud, per esempio attraverso la figura di Edipo, sempre contemporaneo. Il nostro futuro non può dunque che essere già lì, nel nostro cuore più antico.
Tutti i Paesi, in Europa, hanno partecipato nei secoli alla creazione del nostro mito comune, ma sono proprio i due Paesi oggi additati come i colpevoli della crisi dell'Europa finanziaria, quelli da cui ha avuto inizio la formazione della nostra identità: la Grecia e l'Italia. Da essi sono riverberate in tutto il mondo le domande fondamentali sulla vita, l'immortalità, la virtù, il potere, la civiltà, la bellezza, il destino, la pietas, la giustizia, il dovere morale, la tirannia, la democrazia, il diritto e così via.
Tutto è nato in Grecia, ma, come sintetizzò Orazio, quando Roma mise fine alla libertà delle polis greche: «Una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori, e portò le arti fra i contadini del Lazio». Poi, attraverso l'impero di Roma, la Grecia capta, che già Alessandro aveva portato ai confini dell'India, conquistò anche l'intera Europa.
In questo processo di ellenizzazione che ha formato l'identità dell'Europa, l'Italia è stata la torcia che ha fatto divampare l'incendio in ben due occasioni fondamentali. Senza l'impero romano e senza il Rinascimento, infatti, il nostro cuore più antico oggi si sarebbe probabilmente perso. Basti pensare che fino al Settecento l'arte greca era ancora conosciuta solo grazie alle copie romane e soltanto nel corso dell'Ottocento e del Novecento cominciò la riscoperta degli originali ellenici.
Ma c'è ancora un'altra particolarità che rende speciale il legame dell'Italia con la Grecia: la Magna Grecia, la fondazione di città greche nell'Italia meridionale. È lì che ha avuto inizio l'infatuazione millenaria per la grecità da cui furono sedotti per primi gli etruschi che compravano i manufatti attraverso i greci insediatisi nel nostro Meridione. Dopo gli etruschi ne furono ammaliati i romani i quali importarono opere d'arte, artisti e produssero migliaia di copie di statue greche. Per ultimi, nel Settecento, caddero nelle reti della bellezza greca tedeschi, inglesi e francesi. I più temerari di questi si spinsero fino in Sicilia sulle tracce del mito. Un'esperienza che cambiò Goethe «fino al midollo»: «Sicilia e Nuova Grecia mi fanno sperare in una novella vita», scrisse. E fu un tedesco, Joachim Winckelmann, che pure non aveva mai visto un originale greco ma solo copie romane, a redigere una narrazione per la prima volta scientifica della storia dell'arte greca. Gli inglesi, dal canto loro, furono i maggiori acquirenti di antichità e dall'esperienza del Grand Tour riportarono in patria la nuova visione neoclassica dell'architettura che si ispirava a Palladio e dunque all'antico.
Purtroppo questa passione per Atene riaccesasi nel Settecento si espresse attraverso il saccheggio di opere d'arte come l'ancora controverso acquisto (autorizzato dai dominatori turchi) dei marmi del Partenone da parte di lord Elgin definito già da Byron «il predone di una terra sanguinante». Nel 1816, tuttavia, esposti al British Museum, i marmi (che, detto tra parentesi, non hanno più motivo di essere tenuti prigionieri a Londra) ebbero un enorme impatto sia popolare sia sugli studi archeologici e furono almeno, se può essere di consolazione, sottratti al vandalismo cui i turchi sottoponevano l'Acropoli. Un altro razziatore fu Napoleone che saccheggiò in particolare le collezioni italiane di arte antica, primo fra tutti il museo pontificio. Ma ancora una volta il destino della Grecia capta era stato quello di conquistare i suoi conquistatori.
Chi pensa che sia sentimentalismo riflettere su questi reciproci legami mentre nella City e a Wall Street guardano con sufficienza un piccolo grande popolo come quello greco devastato dalle politiche economiche, non valuta quanto stiamo distruggendo insieme ai greci l'intera Europa.
«Prima di agire, l'uomo antico avrebbe sempre fatto un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro per affrontare così, protetto e in pari tempo trasfigurato, il problema del presente. La mitologia del suo popolo non soltanto era per lui convincente, aveva cioè senso, ma era anche chiarificatrice, vale a dire dava senso», ha scritto Kàroly Kerényi, che allo studio della mitologia greca dedicò la vita.
È nel nostro mito che dobbiamo calcolare lo spread tra la nostra vita di consumatori e il soddisfacimento dei bisogni umani.
Repubblica 31.1.12
Tullio De Mauro
"Così Croce mi insegnò a non essere più fascista"
di Francesco Erbani
"Sono stato bocciato in quinta ginnasio per colpa di un´interrogazione"
"Il problema non è la scuola che fa quel che può ma quel che c´è fuori e c´è dopo"
Il linguista, alla vigilia degli 80 anni, racconta alcuni episodi della sua vita in un libro. Dall´Italia della guerra al fratello Mauro
"Siamo migliorati, ma oggi c´è una dealfabetizzazione degli adulti: solo il 20% sa leggere le istruzioni di un farmaco"
Da Saussure e Wittgenstein fino all´ordinamento dell´ultima scuoletta di provincia, gli ottant´anni di Tullio De Mauro (li compie il prossimo marzo) sono una lunga cavalcata dalle vette delle discipline filosofiche e linguistiche alle tabelle che drammaticamente attestano quanto analfabetismo, primario e di ritorno, ancora affligga il nostro paese. De Mauro, che Linguistica generale ha insegnato per decenni e per quasi due anni è stato ministro dell´Istruzione, torna ora dalla Sorbona dove l´hanno anche festeggiato, passando in rassegna i suoi studi, ma dove pure sono rimbalzate quelle cifre che ci inchiodano, «e di cui sulla stampa si parla per un giorno appena e nel governo e nei partiti neanche per un giorno», dice strizzando gli occhi offesi dal fumo della sigaretta. I dati, appunto, i numeri, i diagrammi che ogni buon umanista si dice dovrebbe bandire e che invece lui macina quanto le desinenze latine, e forse di più.
Per il suo compleanno esce anche la seconda parte di una specie d´autobiografico dizionario, Parole di giorni un po´ meno lontani (il Mulino, pagg. 196, euro 15), che dopo gli anni dell´infanzia percorre quelli dell´adolescenza.
Lei, professore, fino a quindici anni si dichiarava fascista.
«Fascista di origine familiare. Dopo l´8 settembre, come in molte famiglie della piccola e media borghesia meridionale, anche nella mia scattò una reazione moralistica contro la monarchia. Spinse soprattutto mio fratello Mauro alla sciagurata decisione di arruolarsi nella Decima Mas».
Suo fratello Mauro suscitava su di lei grande fascino?
«Era un giocherellone, un tornado. Mi portava i libri da leggere. E fra i primi, memorabile, Timpetill, la città senza genitori di Manfred Michael, che raccontava una storia profondamente democratica, quella dei bambini che ricostruiscono una comunità dal basso».
Però, appunto, aderì alla Repubblica Sociale.
«Raccontare queste vicende mi costa molto stento. Lo vedemmo sparire. Per la Decima Mas fece l´addetto stampa. Con puntigliosità ho ricostruito il processo cui fu sottoposto, la condanna in primo grado, quindi l´assoluzione per insufficienza di prove e infine per non aver commesso il fatto».
Poi Mauro De Mauro va a Palermo, fa il giornalista a L´Ora, quotidiano vicino al Pci, e si occupa di mafia. Nel 1970 viene sequestrato e di lui non si saprà più nulla. Lei che idea ha sulla sua morte?
«Ora c´è un processo a Palermo. In primo grado Totò Riina è stato assolto, vedremo l´appello. La pista seguita, al di là delle responsabilità personali, è quella dei misteri dietro l´attentato a Enrico Mattei, sui quali Mauro stava lavorando».
Torniamo a lei. Che cosa le fece cambiare idea sul fascismo?
«Ero già in bilico. Presi in mano la Logica di Benedetto Croce per vedere che cosa diceva questo pericoloso e notissimo antifascista. Fu comunque il leggere che fece breccia in quella rozzezza culturale e mentale».
Lei fu scolaro diligente?
«Fui bocciato all´esame di quinta ginnasiale. Mi servì a capire quanto le interrogazioni orali fossero squilibrate: bastava una smorfia facciale per precipitare l´alunno in uno stato confusionale. Quando decisi di fare l´insegnante, presi l´impegno di assegnare sempre tesine scritte».
Il suo maestro all´università è stato Antonino Pagliaro.
«Insegnava Glottologia. Era stato fascista, epurato e poi riammesso all´insegnamento. Ma grande studioso. Pagliaro conosceva lo strutturalismo e le sue lezioni erano introdotte da una citazione di Ferdinand de Saussure. Fu il primo a segnalare le riflessioni di Wittgenstein sul linguaggio. Con un suo assistente, Mario Lucidi, che era anche un grande matematico, parlavamo di Roman Jakobson, di Louis Hjelmslev, dei linguisti russi, praghesi e americani».
Che in Italia non circolavano. Perché?
«Perché il linguista doveva occuparsi solo di lingue accertatamente morte: sanscrito, ittito, al massimo germanico medievale. Quando invitammo André Martinet, lo storico della lingua Alfredo Schiaffini se ne uscì con un "Ma non è un linguista, è un ingegnere"».
Sulla linguistica vigeva un pregiudizio umanistico: era troppo vicina alle scienze esatte?
«Quando ottenni la libera docenza, i miei esaminatori scrissero che, nonostante gli interessi filosofici, ero un buon linguista. Lo sforzo di dare una forma ipotetico-deduttiva alle teorie, di occuparsi di questioni funzionali era ritenuto mestiere da ingegneri».
Valse una questione di orgoglio nazionale?
«Anche, ma non molto. Più o meno lo stesso accadde in Francia».
E Croce?
«La sua tesi sull´unità di linguistica ed estetica si risolveva a vantaggio di quest´ultima. Ma le sorti di un movimento culturale non dipendono immediatamente da una singola posizione teorica. Croce poi aveva grande attenzione al rapporto tra esprimersi individuale e norma linguistica».
A un certo punto cercarono di radiarla, lei giovane assistente, dall´università.
«Sì, all´Orientale di Napoli. Ero accusato di familiarizzare troppo con gli studenti. E quando un professore ordinario compariva nel cortile, io non mi precipitavo a prendergli la borsa».
Nel 1963 esce la sua Storia linguistica dell´Italia unita, fondamentale non solo per i linguisti. D´altronde lei, per guadagnare, aveva lavorato con Bruno Zevi all´Istituto nazionale di urbanistica. E poi a Nord e Sud con Francesco Compagna.
«Che sentendomi parlare di linguistica a un convegno, sbottò: "Chillo è nu urbanista, ha da fa´ l´urbanista, no ‘sti cose". In quel libro si raccontava un paese con il 14 per cento di analfabeti, che erano il 20 nelle regioni meridionali, il 30 in Calabria».
Da linguista teorico a linguista che si misura con i livelli di scolarità, con l´innalzamento diffuso dei saperi. Incrociando don Lorenzo Milani e il maestro Mario Lodi. Ma senza trascurare Saussure, di cui fornisce un´edizione fondata sui manoscritti, la prima che metta in circolo le riflessioni del linguista svizzero.
«In realtà Saussure sottolineava che non tanto negli aspetti sistemici, ma solo in rapporto allo stato di una particolare massa parlante e in un certo tempo, si può capire come vive una lingua. Le sue riflessioni sono fondamentali per la Storia linguistica».
Siamo costretti a un vertiginoso salto in avanti. L´Italia si confronta ancora con l´analfabetismo?
«Abbiamo compiuto passi giganteschi. Ma ora il problema è la dealfabetizzazione degli adulti. L´Istat dice che gli analfabeti sono l´1 per cento. Ma sono analfabeti che ammettono di esserlo. Gli studi di Vittoria Gallina documentano che solo un 20 per cento della popolazione adulta si orienta con sicurezza nel mondo d´oggi: sa leggere un giornale, le istruzioni di un farmaco, le comunicazioni della banca. Un altro studioso, Saverio Avveduto fa retrocedere all´analfabetismo il 30 per cento di adulti che ha solo i cinque anni di elementari».
Sono dati terribili.
«La scuola fa quel che può. Ma il problema è quel che c´è fuori e dopo la scuola».
Lei ora presiede il premio Strega. Quale italiano viene fuori dai romanzi che concorrono?
«Buono. Fino a qualche tempo fa persisteva il gusto della parola esibita, colta, bizzarra. Ora molto meno. Quelli di oggi, in media, sono scrittori che sanno tenere bene la penna in mano».
l’Unità Lettere 31.1.12
Le riforme di struttura
di Carlo Patrignani
Ho trovato molto interessanti i servizi sulla crisi del capitalismo ed in particolare il grido d’allarme lanciato dal prof. Giorgio Ruffolo sull’assenza nel nostro Paese di una cultura riformatrice: per dirla chiaramente l’assenza di riforme di struttura che sappiano incidere nell’assetto malato del sistema, per cambiarlo. Il dramma della crisi economica, finanziaria e sociale, prodotta dal neocapitalismo manageriale, potrebbe diventare l’occasione per avviare una proficua stagione di grandi riforme! Insomma, la via d’uscita potrebbe essere a portata di mano. Se ne è accorto lo stesso Monti, in ciò mostrando la sua perspicacia, intelligenza e lungimiranza: è infatti dal 2007 che si richiama alle riforme di struttua o strutturali, proposte negli anni 60 da Riccardo Lombardi e derivate da quel «riformismo rivoluzionario» che affascinò la gauche francese e Gilles Martinet che ne parlò nel suo libro «La conquista dei poteri», attribuendone la partitura oltre che a Lombardi, a Bruno Trentin, Vittorio Foa e Pietro Ingrao. Espressione alta di quelle «riforme di struttura» furono la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, la scuola media dell’obbligo, la riforma agraria: non riuscirono la riforma urbanistica e del sistema bancario, tra loro interconnesse! Ora tornano di moda le riforme di struttura o strutturali, oltre a Monti ne parla anche Sarkozy in Francia. Forse, c’è da dire che tra Lombardi (e direi anche Trentin, Foa, Ingrao) da una parte e Monti e Sarkozy dall’altra, passa un abisso come riferimenti sociali, intenti e cultura.