lunedì 30 gennaio 2012

l’Unità 30.1.12
Gli immigrati e l’Italia
I diritti spariscono nel lavoro sommerso
Continuano a crescere i flussi migratori e il bisogno delle imprese di mano d’opera. Ma l’occupazione «in nero» resta l’ostacolo principale a una vera integrazione. In questa partita diventa decisivo il ruolo degli enti locali
di Carlo Buttaroni


Le attuali migrazioni sono fenomeni complessi, destinati a trasformare profondamente l’assetto dei sistemi sociali contemporanei. Di fronte a questa pressione l’opinione pubblica oscilla tra eccessi di buonismo e atteggiamenti di esasperata intolleranza, mentre ancora manca un quadro esauriente del fenomeno che consenta di progettare politiche adeguate. Basti pensare che solo dal 2005 i dati Istat sulle forze lavoro contengono anche stime sulla partecipazione di manodopera straniera, colmando così una grave lacuna informativa in un contesto di crescente rilevanza del fenomeno.
Eppure il rapporto tra immigrazione e lavoro è quello che più rappresenta il fenomeno migratorio, coinvolgendo la natura stessa dei diritti civili. Un tema che riguarda, nella stessa misura, migranti e ospitanti. Proprio su questi aspetti si misura l’evidente contraddizione tra le buone intenzioni legislative, affidate a corposi apparati normativi, e la realtà del mercato del lavoro sommerso, alimentato, in misura crescente, dai flussi d’immigrazione clandestina.
Si tratta soltanto d’inefficienza dei sistemi di controllo e di repressione o, invece, è un fenomeno che ha a che fare con caratteristiche più strutturali? In realtà in questi anni i flussi migratori si sono mantenuti costanti anche con tassi di disoccupazione elevati, a dimostrazione che le spiegazioni economiche del fenomeno, legate alla struttura duale e segmentata dei nuovi mercati del lavoro, mantengono tutta la loro validità.
Il permanere di elevati tassi di disoccupazione, infatti, non ha fatto diminuire la necessità economica di convivere con l’immigrazione, facendo registrare una peculiare relazione tra economia post-fordista e ampliamento dell’economia sommersa e informale.
Il mondo del lavoro irregolare è l’ambito all’interno del quale gli immigrati offrono una risposta paradossalmente efficace alle trasformazioni e alla deregolamentazione dei sistemi produttivi. La presenza di una quota di economia irregolare si sta affermando come una caratteristica strutturale dei sistemi economici contemporanei e il lavoro immigrato sembra fatto apposta per rispondere efficacemente a questo tipo di domanda.
Basti pensare alla pratica del ricorso al lavoro nero per abbassare i costi di produzione da parte di imprese che operano in regime di subappalto, di fronte a sistemi di aggiudicazioni basati su forti rincorse al ribasso; oppure alla crescita della domanda di servizi come la cura degli anziani o l’assistenza ai bambini, cui è seguito lo sviluppo di lavoro ad alta flessibilità e a basso costo; o alla riduzione degli spazi economici per settori ad alta intensità lavorativa e a basso contenuto tecnologico, come le micro-imprese edili, l’agricoltura e il piccolo commercio al dettaglio.
Fattori che hanno fatto crescere la domanda di manodopera non specializzata e con margini di flessibilità elevata anche dal punto di vista reddituale, che il mercato del lavoro ufficiale non è in grado di offrire. A questo si aggiunga la particolarità del mercato del lavoro che riguarda il segmento dei giovani, il cui tasso di occupazione è più basso rispetto alla media europea e tende a diminuire ulteriormente man mano che cresce il livello di scolarizzazione.
Una dinamica che si alimenta anche della tendenza a rifiutare lavori scarsamente retribuiti e lontani dal percorso formativo seguito. E questo spiega, tra l’altro, il carattere prevalentemente non concorrenziale dell’offerta di lavoro immigrata.
L’alta incidenza degli oneri fiscali e contributivi che grava sulla retribuzione ha fatto il resto, alimentando la violazione degli standard retributivi minimi previsti dai contratti collettivi nazionali. E gli immigrati, irregolari e clandestini, finiscono per essere soggetti particolarmente esposti a simili violazioni, in ragione di convenienze relative, in quanto, proprio per evitare l’espulsione, non si rivolgono alle autorità amministrative per ispezioni, o alle autorità giurisdizionali per il riconoscimento dei propri diritti.
Tanto che per le imprese è più conveniente far lavorare immigrati clandestini anziché avvalersi in modo irregolare di immigrati in possesso di permesso di soggiorno, che potrebbero avviare dei contenziosi. L’idea che «sommerso è utile se non proprio bello» non è ormai sussurrato tra le labbra, ma esposto quasi come una necessità.
È evidente l’effetto di attrazione che finisce per produrre questa situazione. Molti immigrati non solo disperati ma spesso alla ricerca di un miglioramento della propria condizione tendono a considerare l’Italia un luogo dove è facile entrare, ancor più facile rimanere a causa della scarsa effettività dei controlli e, magari, trovare un lavoro ben retribuito rispetto al Paese d’origine, e dove l’impatto con fenomeni di intolleranza razzista e xenofobica è ancora relativamente basso, sebbene crescente.
Condizioni strutturali che non potevano che diventare il brodo di coltura dell’incontro tra immigrazione irregolare ed economia sommersa.Tutto ciò apre una prospettiva di ben altra portata che potrebbe assumere, come suo specifico oggetto, la relazione tra diritto e uguaglianza. Uno specchio nel quale si riflettono gli stadi di evoluzione del diritto, facendo diventare il fenomeno immigratorio, insieme alla prospettiva federalistica e alla giustizia intergenerazionale, uno degli elementi di problematicità costituzionale con cui debbono confrontarsi principi, valori e politiche.
Il banco di prova è indubbiamente quello del lavoro. L’ampio bacino del sommerso e senza regole, alimentato dal fenomeno immigratorio, costituisce una sfida non soltanto all’uguaglianza nel diritto del lavoro, ma alla stessa effettività dei diritti e dei suoi apparati di regolazione. La posta in gioco, prima ancora che l’alternativa tra parità e adattamento delle regole, è la dimensione di effettività dei diritti che nessun apparato di controllo e di repressione, né una legislazione di sostegno ispirata alla moral suasion, sono probabilmente in grado di garantire.
Si sente la necessità di un approccio nuovo che arrivi a concepire la cittadinanza come un diritto costruito su un fascio di relazioni mirate all’integrazione sostanziale, il cui principale medium è il lavoro. Proprio la complessità funzionale del rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro potrebbe consentire una diversa sequenza che metta in collegamento il riconoscimento dell’identità attraverso l’inclusione e il riconoscimento dei diritti, l’acquisizione della cittadinanza sociale e l’integrazione sostanziale.
Se il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, bisogna allora rifiutare l’emergenza come diaframma ideologico di approccio e operare interventi strutturali in grado di rispondere ai problemi inediti che questa sfida impone. L’affermazione dell’eguaglianza dei diritti costituisce la base teorica per affermare una civiltà che si non si arresti ai confini dell’immigrazione ma la includa e la riconosca nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. Una volta affermati i diritti, il problema è però attivare percorsi per renderli concreti.
Un passaggio delicato e complesso che richiede una nuova alfabetizzazione culturale e politica. In questo quadro un ruolo fondamentale può essere svolto dalle autonomie locali. Non solo perché le politiche dell’integrazione possono vivere soltanto se diventano pratiche attive, ma perché è proprio dal territorio che possono prendere vita politiche orientate a costruire le nuove città dei diritti.

l’Unità 30.1.12
La polemica sullo ius soli
Grillo e il medioevo della ragione
di Marco Pacciotti
coordinatore Forum immigrazione Pd

Leggendo i giornali o i blog, torna in mente l’espressione «il medioevo della ragione». Ragionamenti tagliati con l’accetta ed espressi con toni urlati. Un sostanziale imbarbarimento delle idee che da tempo colpisce il nostro Paese.
È esattamente questo che ho provato leggendo le recenti dichiarazioni di Grillo sul tema dello Ius Soli. Un medioevo della ragione, con la differenza che in quel periodo storico ingiustamente mal considerato, i comici che facevano satira svolgevano una funzione importante e costruttiva. Davano voce a chi non ne aveva al cospetto di re e vassalli. Questa era la funzione del giullare, non solo di divertire e schernire, ma di «riferire» la vox populi al sovrano perché ascoltasse quello che i fedeli vassalli temevano di raccontare per un eccesso di fedeltà mista al timore di perdere rendite e favori.
Circa mille anni dopo, un possibile erede di quei giullari viene meno al suo ruolo. Anziché portare la voce dei più deboli ed esposti nei luoghi del potere, si infila in una dietrologica e complottarda teoria, nella quale il tema dello Ius Soli si trasforma in un arma di «distrazione di massa» contro i cittadini. Commettendo un macroscopico errore e lasciando intendere velatamente due cose gravi. L’errore macroscopico è che nel tentativo di attaccare il sistema, finisce per colpire chi dal sistema è schiacciato, aizzando un certo populismo xenofobo sempre presente nella pancia della gente, specie in periodi di crisi economica. A questo si aggiunge l’idea odiosa che i sostenitori di tale proposta siano sostanzialmente agenti del nemico (quale?) sotto mentite spoglie o dei cretini nella migliore delle ipotesi. Come se non bastasse, si insinua l’idea che ci siano cittadini da difendere da altri che potrebbero indebitamente acquisire quel loro stesso status civico. Esattamente quello che la campagna L’Italia sono anch’io vuole confutare, affermando invece l’idea che quel milione circa di ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia sono nostri connazionali e quindi possano
godere degli stessi diritti dei loro compagni di scuola e di gioco.
Idee, quelle di Grillo, che mai vengono messe a disposizione per un confronto sereno e di merito, ma spiattellate, gridate in rete su uno dei blog più frequentati in Italia. Questa prassi del comico-attore e politico fa rabbrividire. Mai un tema è lanciato per confrontarsi. L’arena che sia un teatro, una piazza o un social network è sempre priva di contraddittorio diretto. Un metodo che ricorda molto il berluscon-pensiero o quei movimenti e figure politiche del recente passato che hanno ben poco a che fare con il concetto di democrazia. Parola spesso abusata, specie da chi finisce con perderne di vista due prerogative essenziali, il rispetto verso gli interlocutori e il diritto di replica a parità di condizioni.
Il danno è fatto. Una battaglia di civiltà come quella per lo Ius Soli ricondotta nel calderone della politica con la p minuscola. Il ribadire ossessivo che tutti sono uguali, sempre e comunque. Sostenere contro l’evidenza che dietro a qualsiasi iniziativa da parte della politica ci sia la volontà di raggirare le persone. Purtroppo quel che resta in questa equazione è il niente, l’antipolitica.
Di questo stiamo parlando quindi, non di un moderno giullare fustigatore dei potenti, ma di un politico che cerca consenso blandendo le paure e gli stereotipi sempre presenti nella pancia delle persone. Un populismo becero e qualunquista, che ha poco a che vedere con la democrazia e la sinistra.

l’Unità 30.1.12
Il fattore diseguaglianza
di Massimo D’Antoni


Da tempo il tema della diseguaglianza non aveva il rilievo di questi giorni nel dibattito pubblico. Martedì il presidente Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha indicato quale sfida centrale del nostro tempo la creazione di un società in grado di distribuire all’intera popolazione, e non a pochi privilegiati, i benefici della crescita economica.
Il progressivo aumento della concentrazione di redditi e ricchezza è un processo in atto nelle economie avanzate a partire dagli anni Settanta, quando si è invertita la tendenza in atto dei decenni precedenti, in cui la crescita sostenuta si era accompagnata a una riduzione delle diseguaglianze.
Se solo ora il problema è avvertito come rilevante è perché la crisi finanziaria ha tolto credibilità all’illusione, a lungo alimentata, che la ricchezza ai vertici della scala sociale avrebbe prima o poi coinvolto tutti gli strati della società. Non solo. Ha tolto credibilità anche all’idea che la diseguaglianza fosse anzi essa stessa motore di crescita, in quanto fonte di incentivo e stimolo. La difficoltà in cui versano le economia più ricche sta dunque creando una seria crisi di legittimità. Soddisfare la domanda di equità è un problema tutt’altro che banale nel momento in cui il sistema di protezione sociale e di redistribuzione tramite il bilancio pubblico viene da molti considerato un lusso che non possiamo permetterci.
Non è soltanto questione di giustizia. Molte ricerche hanno evidenziato come la disuguaglianza sia associata a una cattiva performance rispetto ad importanti indicatori di qualità sociale: il tasso di mortalità, la salute (es. l’incidenza di malattie mentali), la frequenza di omicidi e violenze, la diffusione di sentimenti di ostilità e razzismo, gli abbandoni scolastici, si presentano con maggiore frequenza in Paesi caratterizzati da livelli più elevati di disuguaglianza. Non si tratta dell’ovvia constatazione che questi fenomeni sono più diffusi perché ci sono più poveri; il dato rilevante è che in società più diseguali la qualità della vita è peggiore anche per coloro che hanno un reddito medio o medio-alto, quando li si confronti con individui di pari reddito in società più egualitarie. Le società più egualitarie sono insomma società in cui si vive complessivamente meglio.
Con riguardo alle determinanti della crescita della diseguaglianza nell’ultimo quarto di secolo, un recente e accurato rapporto dell’Ocse tenta un bilancio. Accanto alle spiegazioni che sottolineano fattori strutturali e almeno in parte al di fuori del controllo delle politiche, quali la globalizzazione (in particolare i processi di delocalizzazione produttiva) e lo sviluppo tecnologico (che ha accentuato i divari di produttività tra lavoratori con minore o maggiore abilità), viene evidenziata la rilevanza dei processi di riforma del mercato del lavoro, in special modo la loro liberalizzazione e la conseguente crescita di disparità nelle retribuzioni, e della minore volontà o possibilità di attuare politiche redistributive, soprattutto a partire da metà anni Novanta.
E se la graduatoria vede all’estremo negativo le economie liberali di mercato (gli Stati Uniti e il Regno Unito) e all’altro estremo quelle del Nord Europa, che riescono a conciliare crescita e bassa diseguaglianza, anche l’Italia si colloca tra i Paesi ad alta diseguaglianza. Da noi il fattore determinante non è dato tuttavia dalle remunerazioni individuali, almeno tra i lavoratori dipendenti; la disuguaglianza si manifesta semmai nei redditi familiari, e dunque la ragione della cattiva performance va ricercata in fattori quali la scarsa partecipazione femminile al lavoro (e quindi l’alto numero di famiglie monoreddito) o l’incidenza di lavoro atipico, caratterizzato da elevata discontinuità e retribuzione mediamente più bassa rispetto al lavoro stabile.
Si conferma insomma la centralità della questione del lavoro. Un ulteriore richiamo alla necessità di ripensare una strategia che si è affidata unicamente alla flessibilità, e a mettere in campo politiche orientate ad aumentare la partecipazione al lavoro (soprattutto femminile e giovanile) e ridurre la “precarizzazione”. Se è vero quanto suggerisce lo stesso rapporto dell’Ocse, che la chiave è rappresentata da politiche che incoraggino l’investimento in capitale umano, un’efficace strategia di riduzione della diseguaglianza nel nostro Paese deve da un lato destinare risorse adeguate al sistema di istruzione, dall’altra favorire l’investimento on-the-job (sul posto di lavoro) da parte di imprese e lavoratori. Un investimento che, come ogni altro, richiede salvaguardie e un orizzonte sufficientemente stabile. Come dire che, anche da questo punto di vista, la riduzione delle tutele sul lavoro appare la direzione sbagliata da percorrere.

Repubblica 30.1.12
Noi, Lama e la crisi ma il ’78 è lontano
Quante differenze dagli anni di Lama oggi la precarietà è il primo problema
Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno
di Susanna Camusso


CARO DIRETTORE, nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un´intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione "programmatica" dell´accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell´Eur.
La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall´inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d´acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.
La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei «capitalisti», a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.
Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l´idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.
Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.
Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell´intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera «assicurazione» o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.
Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.
A noi è chiara l´emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l´età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.
Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all´immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.
Il coro sull´importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l´assurdità che sarebbe per colpa dell´articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l´occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.
Per noi l´urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall´intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l´emergenza con l´idea che «qualunque cosa può essere fatta».
Siamo i primi ad apprezzare che l´Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l´equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il « nuovo» con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma "salvare il soldato Ryan". Se sarà così, non si salverà l´Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.
Questa è un´ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l´abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l´orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell´industria in cinque anni.
* Segretario generale della Cgil

La Stampa 30.1.12
Intervista
“Il capitalismo è un’auto vecchia Va cambiato”
Yunus: dobbiamo immaginare un mondo diverso con i giovani
di Francesco Manacorda


Nobel per la pace Muhammad Yunus è uno studioso di economia sociale e pioniere del microcredito, cioè della concessione di piccolissimi prestiti, che nei Paesi meno sviluppati sono sufficienti ad avviare un business Guida lo Yunus Centre

ASSENZA DI FUTURO «In Spagna metà dei ragazzi è senza impiego. E si tratta di Europa, non di Africa»

La novità peggiore di quest’anno? La crisi in Europa, che anche qui a Davos si avverte molto».
E quella migliore, professor Yunus?
«Il fatto che proprio grazie a questa crisi si sta capendo, anche se nessuno lo vuole ammettere, che il capitalismo è arrivato al capolinea». Muhammad Yunus è il più celebre pioniere del microcredito, che gli ha portato anche un Premio Nobel per la Pace. Lo scorso anno ha dovuto abbandonare la sua Grameen Bank per ombre sulla gestione degli anni passati e una dura polemica con il governo del Bangladesh, ma rimane una star anche oggi che guida lo Yunus Centre e si occupa di imprenditoria sociale. Una star anche a Davos, dove è uno dei personaggi più ricercati. Paradossalmente, si potrebbe dire, visto il suo messaggio pare conciliarsi poco con il verbo della competitività che sulle Alpi Svizzere va per la maggiore.
Eppure, proprio qui a Davos, si è dibattuto molto sui mali e le cure del capitalismo...
«E’ vero, il dibattito c’è, ma continua ad essere condotto secondo i soliti schemi. Penso che in cuor nostro siamo tutti convinti che il capitalismo non funziona più e non può più funzionare, ma nessuno ha il coraggio di dire che va abbandonato».
Ne è convinto davvero?
«Ma certo. E’ come una vecchia auto che cade a pezzi. Un’auto che forse ci potrà portare al prossimo isolato ma non certo adatta per un lungo viaggio. Invece di cercare di costruire un’auto nuova ci ostiniamo tutti a cercare di riparare quella vecchia. Ma è impossibile, il capitalismo è un modello nato più di cent’anni fa, non tiene il passo con un mondo che cambia così in fretta».
E quale dovrebbe essere la nuova auto da costruire?
«Non lo sappiamo ancora, ma se riflettiamo su ciò che vogliamo potremo costruirla di conseguenza. Dovrà avere le ali? Dovrà navigare? » Usciamo dalle metafore, professore. Lei quale società vorrebbe?
«Vorrei una società dove nessuno rimanga disoccupato, nemmeno una persona. Il lavoro è la priorità, ma non serve pensare a come creare più posti in questo sistema proprio perché il sistema non funziona più. Invece dobbiamo pensare che nessuno deve essere un mendicante, nessuno deve dipendere dal Welfare, perché tutti sono in grado di guadagnarsi da vivere».
Dalle banche, alle Tlc, alla chimica, lei ha creato molte imprese sociali. Qual è il modello che vorrebbe vedere affermarsi?
«Un modello nel quale la missione sociale dell’impresa sia integrato nella struttura dell’impresa stessa. Fare qualcosa di buono per la società non dovrebbe essere il risultato quasi accidentale dell’attività degli imprenditori, ma il fondamento della loro attività».
Lei ovviamente è conscio che molti la classificano come un sognatore.
«Naturalmente sì, ho una visione. Ma bisogna essere dei sognatori per pensare a un mondo diverso da questo. Tutti dovremmo essere sognatori, pensare di più al mondo che vorremmo tra vent’anni. Oggi il sistema è orientato a fare soldi: questo è assolutamente ridicolo. Lei pensa che lo scopo della nostra vita sia fare soldi? Io ritengo che sia la realizzazione di noi stessi».
Ma non pensa di essere una foglia di fico qui a Davos? Non è qui solo per far sì che gli esponenti del capitalismo ortodosso possano dire di essere aperti a idee diverse?
«Io parlo a lei, lei parla ai suoi lettori, questo è comunque un vantaggio per me. Se parlo a duemila persone la grande maggioranza potrà pensare che sono pazzo; ma se solo due persone cominciano a riflettere sulle mie idee per me è un successo».
Chi può aiutarla ad attuare questo cambiamento? Le multinazionali, con cui lei pure collabora, i governi o i singoli individui?
«I giovani. I giovani dai 15 ai 25 anni, oggi hanno tantissime competenze; sono più preparati di quanto fossimo noi alla loro età. Il nostro obiettivo deve essere realizzare un mondo dove le capacità dei nostri figli si possano realizzare. Non con un lavoro dalle 9 alle 5, ma in modo da realizzare tutte le loro capacità, da seguire la loro visione».
Sì, ma in concreto?
«Il mio messaggio è che si deve liberare la società. I governi sono anche loro vecchie macchine, piene di timbri e burocrazia, che funzionano come secoli fa. Non penso che siano in grado di traghettarci verso un altro modello, mentre può farlo la società civile».
E il mondo degli affari che contributo può dare?
«Dobbiamo cambiare il modello di business, che è una cosa che si può fare immediatamente. Creare società non profit, che facciano business sociale, è una cosa che si può fare subito».
Ma non è certo il modello dominante nel mondo degli affari...
«Ma se io e lei cominciamo, ci mettiamo i nostri soldi e cominciamo a decidere che la nostra attività deve avere come obiettivo il fatto che nessuno dei miei vicini resti disoccupato, allora muoviamo qualcosa. E’ questo l’importante. Altri seguiranno».
Vista dal suo punto di vista Davos è cambiata?
«Certo, quando si è in crisi si cercano soluzioni nuove, si pensa agli errori, si è più disposti a cambiare. Quest’anno le cose sono molto diverse e non parlo solo di Davos, ma del mondo dei giovani. In Spagna la metà dei giovani è senza lavoro. Stiamo parlando del cuore dell’Europa, non dell’Asia o dell’Africa. Che futuro ha questa generazione con il modello attuale? ».

La Stampa 30.1.12
La casta, il costo delle istituzioni
Il Parlamento italiano è il più caro d’Europa
Ma a pesare è soprattutto la struttura, non gli onorevoli
di Carlo Bertini


L’indagine I costi di Montecitorio sono stati confrontati con quelli delle Camere basse degli altri Paesi europei
27,15 euro pro capite. È quanto costa ad ogni cittadino il Parlamento: tre volte di più che in Francia (8,11 euro), sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro)
DIPENDENTI NEL MIRINO I loro stipendi valgono il 43% del bilancio. Quelli dei parlamentari il 24%
LA DIFFERENZA «In Europa hanno preferito assumere assistenti invece che commessi e stenografi»

Il dato in sé è impressionante e contiene uno dei paradossi del nostro Paese: i cinque grandi parlamenti nazionali d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Spagna, costano 3,18 miliardi di euro l’anno, ma il Parlamento italiano spende più della somma degli altri quattro messi insieme. E la sorpresa sta nel fatto che la colpa non è tanto degli stipendi della Casta, bensì dei costi di una struttura molto più dispendiosa. La storia parte da lontano, se è vero, come raccontano i più anziani, che nel 1946, subito dopo il fascismo, si ritenne che fosse opportuno tenere il Parlamento sempre «aperto e agibile, un presidio democratico», con quel che ne conseguiva in termini di turni dei commessi e di apparati di sicurezza. Oggi non è più così, da anni si chiudono i battenti alle 22 e una delle polemiche sotterranee investe proprio il dispendio di risorse. Per una struttura che, di norma e salvo casi rari, potrebbe tranquillamente fermarsi due ore prima, evitando di far rimanere funzionari e documentaristi in servizio permanente effettivo pagandogli pure gli straordinari.
Ma il problema non è la quantità della forza lavoro, tanto meno la qualità, vista l’alta professionalità riconosciuta a tutte le maestranze di ogni ordine e grado, dai funzionari di prima fascia fino ai barbieri. In Italia e Regno Unito, il numero di dipendenti per i due parlamenti è simile (1.620 contro 1.868) ma a fare la differenza è il costo pro capite. Per dirla con Francesco Grillo della London School of Economics, che insieme ad Oscar Pasquali ha curato un’inchiesta per il think-tank Vision, gli altri parlamenti nel corso degli anni «hanno preferito assumere molti meno commessi e stenografi e viceversa molti più giovani assistenti che affiancano i parlamentari nel loro lavoro».
Dall’analisi comparata delle cinque più importanti «camere basse» d’Europa (Montecitorio, Bundestag, Assemblée Nationale, House of Commons e Congreso de Los Deputados) emerge che «non è il costo dei deputati italiani a determinare questa situazione». Perché la spesa per le retribuzioni dei parlamentari in carica e in quiescenza è pari a poco più di un quinto del totale del bilancio 2011 di 1,66 miliardi di euro: dove il costo per il personale in servizio e in quiescenza è del 42,8%, contro il 23,8% destinato ai parlamentari. E quindi, una delle conclusioni dell’inchiesta di Vision è che la norma inserita nella finanziaria di luglio che stabilì di equiparare il costo dei parlamentari alla media europea avrebbe dovuto prescrivere casomai di equiparare il costo del parlamento nazionale alla media degli altri.
Ad ogni cittadino italiano, il Parlamento costa tre volte di più che in Francia (27,15 euro rispetto a 8,11 euro), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro pro capite). E non è tanto il numero dei parlamentari ad incidere (in Italia poco superiore alle medie europee) ma il costo del Parlamento per deputato. «Più del 40% delle risorse del nostro palazzo sono assorbite dal personale della Camera. Stenografi o commessi - si legge nel documento - che individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità, ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato». Ed è vero che i nostri parlamentari, a differenza dei tedeschi, devono pagare i propri collaboratori a valere su uno specifico rimborso a forfait, che proprio oggi verrà dimezzato con una delibera dell’ufficio di presidenza di Montecitorio. «Tuttavia, mentre il parlamento tedesco (o quello europeo) paga direttamente assistenti parlamentari di qualifica elevata, il parlamento italiano paga, in misura maggiore, un numero assai più alto di commessi». E qui scatta l’accusa del rapporto Vision: «Se è vero che non sono i parlamentari ad intascare la differenza di costo rispetto agli altri parlamenti europei, rimane una domanda ineludibile: come è possibile che i deputati italiani in cinquanta anni hanno consentito che crescesse e si consolidasse il sistema retributivo più assurdo di un paese che pure ha conosciuto privilegi di tutti i tipi? ».
Passando dall’analisi alla proposta, tra le ipotesi su come riuscire a collegare costi della politica e qualità dell’attività legislativa e di governo, eccone una suggestiva: dare valore all’astensione, con una riduzione lineare dell’ammontare dei rimborsi elettorali collegata all’incremento oltre una certa soglia della quota di rinunce al diritto di voto, per stimolare i partiti «a migliorare la propria credibilità».
Uno dei membri del Progetto Vision, Sandro Gozi, per anni di stanza a Bruxelles con Prodi e oggi deputato del Pd, sostiene che «oggi sono i giovani a pagare gli errori del passato perché noi delle nuove generazioni preferiremmo avere due collaboratori in più pagati dalla Camera per preparare i dossier e fare meglio il nostro lavoro». L’accusa è che si sia lasciato lievitare un sistema «non più efficiente di quello di altri parlamenti, lasciando in una zona grigia il pagamento dei collaboratori: che adesso verrà pure rendicontato al 50% per lasciare il resto ai partiti. È ridicolo. Se avessimo avuto una struttura con costi meno elevati e il cosiddetto portaborse pagato dalla Camera, non avremmo avuto l’esplosione dell’antipolitica».

Corriere della Sera 30.1.12
Battaglia a Damasco Periferie della città nelle mani dei ribelli
Quasi 300 morti civili in tre giorni
di Lorenzo Cremonesi


DAMASCO — La guerra per Damasco appare soprattutto una tragica sfida ad armi impari. L'esercito siriano mantiene con arrogante violenza la superiorità militare e logistica. Le opposizioni — sparse, disorganizzate, prive di un effettivo coordinamento nazionale che unifichi il confronto armato — attaccano e si disperdono a seconda delle circostanze. Il risultato sono i tragici bilanci degli ultimi giorni. Secondo i Comitati Locali di Coordinamento (uno dei gruppi più noti che operano tra le sommosse) i morti tra civili e guerriglieri sono stati 103 venerdì, 98 sabato e quasi 70 ieri. I feriti sarebbero centinaia. Nessuno si reca agli ospedali nazionali, verrebbero immediatamente arrestati, ma sono curati in modo approssimativo nelle piccole cliniche clandestine sempre più diffuse.
Ieri mattina presto, viaggiando dal centro della capitale verso l'aeroporto internazionale per lasciare il Paese (il visto per i giornalisti stranieri che non siano considerati «amici» come russi e cinesi è limitato a 10 giorni), abbiamo intravisto gli effetti della nuova mobilitazione in atto: rafforzati i posti di blocco dovunque, colonne di soldati in movimento, traffico civile nullo lungo le periferie. A un semaforo due auto cariche di agenti in borghese del mukhabaràt (il servizio di sicurezza interno) che brandivano i mitra visibilmente eccitati strombazzavano a velocità folle per chiedere strada. A bordo erano ben visibili due giovani uomini ammanettati, gli occhi bendati, con il viso, i capelli e i vestiti arrossati di sangue. Uno sembrava incosciente, con la testa ciondolante a ogni accelerata e la bocca spalancata in una smorfia di dolore.
Ma quello che non si vede della nuova battaglia per Damasco è molto più grave di ciò che si riesce in qualche modo a individuare. Da almeno quattro giorni il regime ha deciso di fare piazza pulita dei gruppi della rivoluzione attorno alla capitale. È la fine di una fase. Dopo l'arrivo degli osservatori della Lega Araba nei giorni di Natale, le azioni repressive si erano in qualche modo attenuate, in alcune zone i soldati si erano limitati a controllare da lontano. Le forze ribelli avevano dunque conquistato terreno. Alcuni quartieri periferici e numerosi villaggi nella regione di Damasco si erano autoproclamati «liberati». Di giorno una calma tesa, inframmezzata da spari isolati e brevi blitz dell'esercito. Di notte il buio totale per il taglio della corrente elettrica, la popolazione tappata nelle case e le imboscate occasionali.
Ma sabato la Lega Araba ha deciso di ritirare tutti gli osservatori. La questione della Siria insanguinata da oltre 10 mesi di rivolte passa ora al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Nei prossimi giorni si dibatterà la proposta incentrata sulle dimissioni del presidente Bashar Al Assad. Russia e Cina continuano a imporre il veto. È in questa situazione di stallo che la dittatura passa al contrattacco. L'agenzia di stampa ufficiale Sana insiste nel rilanciare la versione del regime, per cui i manifestanti sarebbero per lo più «terroristi», o addirittura nemici infiltrati dall'estero con il patrocinio di Israele, Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar.
Il tam tam della gente in rivolta segnala gravissime azioni repressive nel cuore dei centri abitati contro i civili. I carri armati e le artiglierie ieri hanno colpito i sobborghi di Kfar Batna, Saqba, Jisreen, Arbeen. Guerriglia nei villaggi di Doura, Harasta, Ghouta, Hammouryia. Sono segnalati movimenti di 2.000 soldati, accompagnati da una cinquantina tra carri armati e cingolati trasporto truppa. «È guerra urbana. Ci sono morti per le strade», gridano i ribelli su YouTube. Nuovi incidenti con numerose vittime sono tornati a interessare anche le città di Homs, Idlib e Hama. Ad Aleppo decine di studenti sono stati arrestati mentre manifestavano presso l'università.

Corriere della Sera 30.1.12
Tibetani in rivolta, il Sichuan in stato d'assedio
La polizia schierata da Pechino nella regione apre il fuoco, decine di vittime
di Paolo Salom


PECHINO — Dopo le fiamme che da un anno a questa parte hanno avvolto almeno sedici monaci, ora gli scontri di strada, le pallottole, lo stato di assedio. Il Sichuan torna ad accendersi: o meglio, bruciano le contee autonome nell'ovest della provincia, abitate dai tibetani che già nel 2008 avevano aderito alla grande rivolta partita da Lhasa. A dimostrazione che la brace lasciata dalle auto immolazioni nel nome della «libertà da Pechino» ha continuato ad ardere, spingendo migliaia di seguaci del Dalai Lama a scendere nelle strade per confrontarsi con gli agenti in tenuta anti sommossa. Il bilancio è pesante. Pechino ha denunciato tre morti tra i tibetani mentre fonti dei ribelli parlano di almeno undici vittime e decine di feriti. Le autorità centrali hanno ammesso l'uso di armi da fuoco da parte dei poliziotti, ma «solo perché sono stati oggetto di aggressione armata: 19 agenti sono rimasti feriti». Opposta la versione dei manifestanti: «Sono loro che sparano, non noi».
Impossibile avvicinarsi alle cittadine e ai villaggi che si sono sollevati: le autorità hanno chiuso ogni via di comunicazione, tagliando anche telefoni ed Internet. Ufficialmente non si può viaggiare nell'ovest del Sichuan, tra verdissime montagne e vallate che aprono la strada verso il Tibet, perché «il ghiaccio ha reso pericolose le strade». La realtà è che in questo freddo inverno, il fuoco della rivolta rischia di riportare la Cina nel caos. Certo non è un buon auspicio per l'inizio dell'anno del Dragone, il segno più fausto dello zodiaco tradizionale. A Ganzi, per esempio, lunedì scorso alcune migliaia di manifestanti hanno marciato verso il municipio cantando slogan contro «l'occupazione» del Tibet da parte dei cinesi. I soldati avrebbero aperto il fuoco uccidendo tre persone. L'indomani, nuovo corteo spontaneo nella stessa cittadina: altri due morti. Pochi giorni più tardi, nella contea di Aba, un giovane tibetano ha affisso un poster con la propria foto e un testo che diceva, più o meno: «I monaci continueranno a darsi fuoco e morire fino a che il Tibet non sarà libero». Il giovane invitava la polizia ad arrestarlo. Proprio quello che è successo due ore più tardi. Salvo che l'azione ha provocato un'immediata rivolta finita nel sangue: altri spari, altri morti. «La Cina deve affrontare alla radice le cause delle proteste: una repressione sempre più dura e una politica fallita verso la minoranza — ha detto Sharon Homs, direttore della Ong Human Rights in China —. I tibetani vogliono la demilitarizzazione della loro terra e il rispetto dei diritti fondamentali».
La risposta di Pechino non è stata incoraggiante. Fonti locali raccontano di arresti nei monasteri e nelle case prima dell'alba, e obbligo di «rieducazione» per i monaci ribelli. Il timore: da episodi singoli, per quanto brutali e ad effetto — le auto immolazioni — i tibetani sono passati a una vera sollevazione popolare. «Il governo cinese, come sempre — ha detto Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri — combatterà tutte le violazioni della legge e sarà risoluto nel mantenere l'ordine sociale». Da New Delhi, Youdon Aukatsang, ha confermato all'Ap che Pechino ha paura di un «possibile movimento sotterraneo» capace di organizzare segretamente un'insurrezione in vista del Capodanno tibetano (22 febbraio). Di fatto ogni anno, intorno al 14 di marzo, anniversario della tragica rivolta del 2008 (22 morti ufficiali), il Tibet viene sigillato. Da Dharamsala, in India, dove il Dalai Lama vive in esilio dal 1959, non è arrivato alcun comunicato ufficiale. Nelle strade del Sichuan occidentale i tibetani si sentono sempre più soli e disperati.

Corriere della Sera 30.1.12
«La Cina aprirà ai capitali privati»


PECHINO — Il premier cinese Wen Jiabao si è detto favorevole a «rompere i monopoli» contro la partecipazione del capitale privato nel settore finanziario, aggiungendo che i prestiti privati hanno «un ruolo positivo» nell'economia e che occorre una maggiore regolamentazione. Le dichiarazioni di Wen sono contenute in un discorso pubblicato oggi sul Quotidiano del popolo. Il governo, prosegue Wen delineando le prossime riforme, garantirà un più deciso sostegno alle piccole imprese e incoraggerà l'azione delle banche. Secondo il primo ministro, il debito pubblico di Pechino è «a un livello complessivamente sicuro e sotto controllo».

Corriere della Sera 30.1.12
Lo spirito che si fa arte nell'Estetica di Hegel
di Armando Torno


L' arte occupa un posto d'onore nel sistema di Hegel. Oltre ad essere il primo momento dello «spirito assoluto», e di esso è la «manifestazione sensibile», ha in sé il proprio fine: non rinvia a una natura da imitare, né presenta un significato edificante. Hegel consegnò le sue idee in materia alle pagine delle lezioni di Estetica. E quest'opera rappresenta uno degli sforzi più grandi per comprendere l'arte.
In italiano l'Estetica ha avuto una prima traduzione a Napoli nel 1863-64 (in quattro volumi), poi ci è voluto un secolo per vederne una seconda: apparve nel 1963 da Feltrinelli, curata da Nicolao Merker (ristampata da Einaudi nel 1967 e ancora nel 1997). Ci sono state anche versioni di parti o di singoli corsi (per esempio, quello del 1823, sotto il titolo Lezioni di estetica, è stato tradotto nel 2000 per Laterza), ma un tentativo per restituire l'insieme dei testi nati in anni diversi vede soltanto ora la luce. È il primo titolo del 2012 della collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani. La non facile impresa si deve a un giovane docente, Francesco Valagussa. Presentata con l'originale tedesco a fronte, seguendo l'edizione di Hotho — con le varianti delle lezioni del 1820-21, 1823 e 1826 — viene dunque pubblicata nuovamente tutta l'Estetica di Hegel (pp. 3.036, 50).
In margine a questa fatica degna della massima considerazione, va detto che Valagussa ha fatto tesoro delle ultime ricerche. L'edizione di Hotho — che seguì le lezioni direttamente e utilizzò i quaderni autografi di Hegel e numerosi appunti, poi perduti, del filosofo — uscì in tre volumi tra il 1835 e il 1838 (una seconda tra il 1842 e il 1845) oggi ritradotta è arricchita da un corpus di poscritti che hanno visto la luce nell'ultimo trentennio grazie al lavoro degli studiosi dell'Hegel-Archiv dell'Università di Bochum.
Nel saggio introduttivo Valagussa si sofferma anche sulle questioni riguardanti la fedeltà della lezione di Hotho e gli inevitabili confronti che si devono fare tra il suo testo e i quaderni di altri (uno dei capi d'accusa riguarda la significativa presenza dell'estensore all'interno dell'opera hegeliana). La soluzione adottata risolve diversi problemi. È stato creato un doppio registro di note: il primo aiuta a identificare l'immenso patrimonio di personaggi, figure, brani citati dal maestro; il secondo riporta le varianti e le integrazioni più significative emerse dagli appunti degli studenti berlinesi da poco ritrovate. Il tutto per comprendere che «nell'arte entriamo in rapporto non con un congegno meramente gradevole o utile, bensì con la liberazione dello spirito dal contenuto e dalle forme della finitezza».

Repubblica 30.1.12
Stefano Levi Della Torre
"Vivere consapevolmente di illusioni ecco la lezione di Leopardi, mistico laico"
L´intellettuale e il tema della crisi dei punti di riferimento classici
"Possiamo volare liberi con interpretazioni e fantasie, ma restiamo soggetti alla forza di gravità dei fatti"
"La religione è poco metafisica e finisce per addomesticare l´abisso. Preferisco lo sguardo del poeta"
Intervista di Franco Marcoaldi


BASSANO IN TEVERINA Il luogo d´incontro con Stefano Levi Della Torre non è irrilevante. Perché la passeggiata che precede la nostra conversazione, un lento periplo di questo fascinoso borgo del viterbese costruito sul tufo, raffigura plasticamente il senso del successivo periplo attorno all´inafferrabile quanto imprescindibile concetto di verità. E proprio un intellettuale irregolare come Levi Della Torre sembra essere la persona più indicata a compiere tale genere di esercizio.
Leggendo le sue scarne note biografiche, si scopre che è pittore e docente a contratto della Facoltà di Architettura di Milano. Ma prima ancora, direi, è un uomo che ama pensare, sempre pronto a indagare il lato rovescio di ogni questione. Una lezione, questa, che gli viene dalla sua origine ebraica e da una lunga frequentazione del Talmud. Dal quale ha anche imparato a praticare l´ironia e il paradosso, come si evince già dal titolo del suo ultimo, acutissimo saggio in uscita per Einaudi: Laicità, grazie a Dio.
Se è d´accordo, comincerei dall´idea di verità che ci viene dal vocabolario, dove si afferma che «il vero» risponde alla «realtà effettiva delle cose». Insomma, verità e realtà marciano di pari passo.
«Io direi così: la verità è una realtà orientata, dotata di senso. La realtà, di per sé, può apparire come qualcosa di inerte; è la verità a offrirle orientamento. La verità, dunque, non è una semplice constatazione, anche perché in tal caso risulterebbe illusoriamente istantanea, mentre ha una pretesa di durata.
La mia polemica con i postmodernisti nasce da qui: concentrano la loro attenzione esclusivamente sull´interpretazione, lasciando da parte la realtà. Ora, è del tutto evidente che noi umani siamo condannati all´interpretazione, ma su cosa gravita quell´interpretazione? Qual è il suo baricentro, se non la realtà? Interpretazione di cosa, se non di fatti veri o presunti? Tutto questo per dire che possiamo sì volare liberi con le nostre interpretazioni e fantasie, ma restiamo comunque soggetti alla forza di gravità dei fatti, che prima o poi ci chiedono il conto».
Potremmo dunque dire che, tanto per cambiare, la nostra ricchezza e la nostra povertà sta nel linguaggio?
«Certamente, perché grazie ad esso facciamo in modo che la realtà ci parli, ci dica delle cose, mentre per contro può anche accadere che un´interpretazione si spinga talmente in là da sembrarci più reale della realtà. Finendo così nell´ideologia. E´ la questione affrontata da Andersen nella sua fiaba Il vestito nuovo dell´imperatore. Nella prima parte del racconto assistiamo al trionfo dei tessitori imbroglioni, che dicono di tessere un tessuto meraviglioso, ma invisibile. Mentre in realtà non tessono nulla. Così l´imperatore si pavoneggia in mutande tra ali di una folla ammirata che inneggia al suo abito regale, non sentendosela di infrangere una credenza creata ad arte da una convenzione linguistica. Fino a quando interviene un bambino che dice la semplice verità: il re è nudo. Ecco, i postmoderni, affermando che non esistono i fatti ma soltanto le opinioni, si sono rassegnati alla realtà del linguaggio, rinunciando al linguaggio della realtà».
Resta però che la verità non si dà mai una volta per tutte.
«E difatti Bloch, con estrema perspicacia, distingue tra conoscere e comprendere, in apparenza sinonimi, mentre nascondono una divaricazione. Perché il conoscere, cioè l´addentrarsi nello sconosciuto, ci mette in crisi, scombina le nostre conoscenze precedenti, mentre comprendere significa sistemare, fissare tutto dentro una cornice precisa. Un´operazione, beninteso, necessaria, ma allo stesso tempo rischiosa, perché indicativa di un meccanismo di autoconservazione. Questa del resto è l´inevitabile parabola di ogni ideologia, che nasce come istanza di liberazione, e poi invece, pian piano, si irrigidisce rendendosi indisponibile a nuove forme di conoscenza».
Nel suo libro ci sono pagine molto polemiche verso Richard Rorty, uno dei padri del postmodernismo. Ce ne spiega i motivi?
«Cosa fanno i pensatori come lui? Volendo contraddire le pretese autoritarie della verità, giungono a prediligere le pretese autoritarie dell´opinione. Niente di più confacente al populismo autoritario, al prevalere della propaganda sulla scienza. La verità finisce per combaciare con ciò in cui si crede, diventa un atto di fede. Così questa caricatura della laicità e del relativismo più radicale si trasforma in un´apoteosi dell´assoluto, nel miglior alleato del fondamentalismo religioso: ciascuno ha le proprie convinzioni e nessuno ha il diritto di interferire in esse.
Per non parlare poi di quell´altra solenne sciocchezza in base alla quale non esisterebbe la natura umana, ma soltanto la cultura. Con la pretesa di combattere ogni potere – politico o religioso – che giustifica la sua presenza come se fosse dettata dalla natura, si finisce per escludere la natura dalla storia. Si finisce per dimenticare Darwin e per sposare inconsapevolmente l´idealismo, che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. La concezione della storia come puro atto umano indipendente dalla natura mi ricorda la nostra percezione ingannevole delle città: vediamo le luci e ci dimentichiamo che sotto ci sono le fogne, dove scorre l´enorme flusso del metabolismo umano. Dietro la storia ci sono le sue materie prime, ci sono corpi che agiscono secondo i meccanismi ripetitivi e universali della natura umana. Negarlo è uno dei tanti modi per edulcorare la realtà, per ammansire la caoticità del mondo».
Proviamo a riordinare le idee: la ricerca della verità procede attraverso il dubbio, la lotta contro la censura, la credenza, l´edulcorazione della realtà…
«A questo punto, però, voglio ricordare un passo di Leopardi in cui si dice che ci sono dei filosofi talmente illusi da pensare che bisogna distruggere le illusioni. Straordinario, no? Ecco così che le cose si complicano ulteriormente. Perché non c´è niente da fare: anche il nostro desiderio di senso è in qualche modo falsificante. Il bambino, ad esempio, stabilisce che una certa pianta vuole bene a una certa pietra che vuole bene a un certo animale…. Questa teatralizzazione del mondo è fisiologica, attiene alla sopravvivenza umana. Ma appunto, è un´illusione. Del resto, volendo addentrarci ulteriormente nel labirinto: cos´è l´antropologia se non lo studio delle illusioni umane, le quali a loro volta rappresentano una concretissima realtà sociale? Così il circolo ricomincia e ricomincia anche la nostra ricerca della verità».
Per questo lei afferma che non possiamo mai arrivare alle verità ultime, definitive. Kafka affermava che siamo «abbagliati» dalla verità. «Vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient´altro». Ecco perché la verità risulta inafferrabile, insondabile, abissale.
«E sono totalmente d´accordo con lui. Tant´è che, da laico, non obietto alla religione di essere troppo metafisica, ma di esserlo troppo poco. Perché pretende di dare un volto definitivo a quell´abisso. I veri, grandi mistici laici del moderno sono proprio Leopardi e Kafka. Perché accettano l´abisso e ci sprofondano dentro. Senza riempire il mistero di parole volte ad addomesticare quell´abisso, per addolcirne l´angoscia. Senza tradurre la vertigine dell´insondabile in liturgie consolatorie. Freud sosteneva che si investono più energie nel ripararsi dagli stimoli che nel riceverli. Ecco, le religioni costruiscono delle formidabili fantasmagorie proprio per incistare lo scandalo del caos, per dare senso alla realtà e al contempo ripararsi da essa».
Mentre lei parlava, mi è venuto in mente un aforisma di Canetti che suona più o meno così: non si può tenere a guinzaglio la verità. La verità è come un temporale che spazza l´aria e poi va via. Cosa ne pensa?
«Provo a risponderle riprendendo quanto dicevo all´inizio: la ricerca della verità è la storia della nostra gravitazione verso la realtà, nello sforzo di dare ad essa un senso, riconoscendo però in questa ricerca tanto il tratto vitale quanto la sua necrosi, perché il senso è inevitabilmente transeunte. Ma la verità opera anche in un altro modo, come vera e propria rivelazione. E accade allora che si finisca per coglierla con la coda dell´occhio, di straforo, quando un improvviso cortocircuito, una breccia si apre mettendo in subbuglio il nostro sistema codificato delle cose. Un po´ come con le due dita di Dio e Adamo dipinte da Michelangelo, che inaspettatamente si incontrano e producono una scossa: quanto era separato, ora, trova il suo nesso. Si è rotta una crosta e si è creato un nuovo contatto tra soggetto e realtà, magari impedito proprio dal precedente conferimento di senso, dalla precedente idea di verità, che è diventata essa stessa un´istanza di pregiudizio».
(2-continua)

Repubblica 30.1.12
Dai ricordi ai dati. L’oblio è un diritto?
Il pericolo è quello di limitare le informazioni a danno della democrazia
di Stefano Rodotà


Dalla cancellazione alla imposizione. Ieri la damnatio memoriae, oggi l´obbligo del ricordo. Che cosa diviene la vita nel tempo in cui "Google ricorda sempre"? L´implacabile memoria collettiva di Internet, dove l´accumularsi d´ogni nostra traccia ci rende prigionieri d´un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità libera dal peso d´ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di una infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi – il diritto all´oblio, il diritto di non sapere, di non essere "tracciato", di "rendere silenzioso" il chip grazie al quale si raccolgono i dati personali.
La cancellazione della memoria, l´oblio forzato sono antiche tecniche sociali. A Roma, per i condannati per fatti gravissimi, v´era la damnatio memoriae, l´eliminazione d´ogni traccia che potesse mantenerne il ricordo: scomparso il nome dalle iscrizioni, distrutte le immagini e le statue. In Francia, nel 1598, dopo una stagione di guerre laceranti, l´Editto di Nantes stabilì "che la memoria di tutte le cose accadute da una parte e dall´altra, dall´inizio del mese di marzo 1585 fino al nostro avvento al trono, rimanga spenta e assopita come di cosa non avvenuta. Vietiamo a tutti i nostri sudditi, di qualunque ceto e qualità siano, di rinnovarne la memoria". Solo la liberazione dalle tossine del ricordo poteva consentire il ritorno alla normalità sociale.
Un confronto con i nostri tempi mostra come queste impostazioni possano essere rovesciate. In paesi usciti da regimi dittatoriali, commissioni per la verità e la riconciliazione, sul modello creato nel 1995 dal governo sudafricano, hanno messo in evidenza l´importanza di una luce piena sul passato per una riconciliazione fondata sulla costruzione di una memoria "condivisa". Per quanto riguarda le persone, la vera damnatio è ormai rappresentata dalla conservazione, non dalla distruzione della memoria. Che cosa diventa la persona quando viene consegnata alle banche dati e alle loro interconnessioni, ai motori di ricerca che rendono immediato l´accesso a qualsiasi informazione, quando le viene negato il diritto di sottrarsi allo sguardo indesiderato, di ritirarsi in una zona d´ombra?
Questa domanda è occasionata da un cambiamento tecnologico, ma illustra un mutamento antropologico. Non a caso si parla di persona "digitale", disincarnata, tutta risolta nelle informazioni che la riguardano, unica e "vera" proiezione nel mondo dell´essere di ciascuno. Non un "doppio" virtuale, dunque, che si affianca e accompagna la persona reale, ma la rappresentazione istantanea di un intero percorso di vita, un´espansione senza limiti della memoria sociale che condiziona la memoria individuale. Il mutamento di qualità della memoria sociale nasce dapprima con la creazione di banche dati sempre più gigantesche, che rendono possibile la raccolta di tutte le informazioni disponibili, i loro collegamenti, la loro massiccia diffusione. Ma il vero cambiamento si ha quando Internet fa sì che quelle informazioni siano accessibili a tutti attraverso motori di ricerca che le "indicizzano", le organizzano e le rendono suscettibili non solo di più diffusa conoscenza, ma di rielaborazioni continue.
Si crea così un contesto che neutralizza le modalità che storicamente avevano consentito il sottrarsi ad una sorta di dittatura implacabile della memoria sociale. Limitate, fino a ieri, le possibilità di raccolta delle informazioni; ardua o impossibile una loro conservazione totale; lontani o difficilmente accessibili gli archivi; ristrette le opportunità di una diffusione su larga scala. In alcuni casi, come quello americano, vi era poi il contrappeso della "frontiera", dimensione non soltanto fisica come ci ha ricordato Frederick Turner, ma luogo d´ogni opportunità e di rinascita della persona libera dal passato. E poi la possibilità di scomparire, cambiando nome, immergendosi nella "folla solitaria" delle metropoli.
Tutto questo è oggi cancellato dalla "tracciabilità" consentita dalle raccolte di massa delle informazioni, dal fatto che la folla non è più solitaria, ma "nuda", restituita ad una realtà nella quale ogni individuo è scrutato, schedato, ricondotto ad una misura che lo rende riconoscibile e riconosciuto. Sembra scomparire l´antica alternativa intorno alla quale tanti si sono affaticati. La memoria come accumulo di esperienza e saggezza o peso insostenibile del quale liberarsi? L´oblio come condanna o come risorsa? Se pure vi fosse un fiume Lete dove abbeverarsi, per cancellare ogni ricordo, Internet rimarrebbe lì, implacabile, con la "sua" memoria che si imporrebbe alla nostra.
Qui è la ragione di una discussione sul "diritto all´oblio" che si diffonde in ogni luogo, tema divenuto cavallo di battaglia della commissaria europea Viviane Reding e che ha trovato riconoscimento nelle nuove norme europee sulla privacy. Liberarsi dall´oppressione dei ricordi, da un passato che continua ad ipotecare pesantemente il presente, diviene un traguardo di libertà. Il diritto all´oblio si presenta come diritto a governare la propria memoria, per restituire a ciascuno la possibilità di reinventarsi, di costruire personalità e identità affrancandosi dalla tirannia di gabbie nelle quali una memoria onnipresente e totale vuole rinchiudere tutti. Il passato non può essere trasformato in una condanna che esclude ogni riscatto. Non a caso, già prima della rivoluzione tecnologica, era prevista la scomparsa da archivi pubblici di determinate informazioni trascorso un certo numero di anni. La successiva "vita buona" era considerata ragione sufficiente per vietare la circolazione di informazioni relative a cattivi comportamenti del passato. Soprattutto negli Stati Uniti le leggi prevedevano minuziose casistiche riguardanti le attività economiche, tanto che dopo quattordici anni non si poteva dare notizia neppure d´una bancarotta. Ombra protettrice di Max Weber, con l´etica protestante a dare una mano a chi, benedetto dal successivo successo negli affari, doveva considerarsi assolto da ogni precedente peccato?
Nelle regole di oggi, rinvenibili nei paesi più diversi, si va dal diritto della persona di chiedere la cancellazione di determinate informazioni al potere di impedirne la stessa raccolta; al divieto di conservare i dati personali oltre un tempo determinato e di trasmetterli a specifiche categorie di persone (i datori di lavoro, ad esempio). E si prospettano ipotesi radicali: la cancellazione della gran parte delle informazioni dopo dieci anni, una tabula rasa che consentirebbe a ciascuno di ripartire liberamente da zero e riscatterebbe la persona dalla servitù d´essere considerata come semplice produttore d´informazioni.
Ma il punto chiave sta nel rapporto tra memoria individuale e memoria sociale. Può il diritto della persona di chiedere la cancellazione di alcuni dati trasformarsi in un diritto all´autorappresentazione, alla riscrittura stessa della storia, con l´eliminazione di tutto quel che contrasta con l´immagine che la persona vuol dare di sé? Così il diritto all´oblio può pericolosamente inclinare verso la falsificazione della realtà e divenire strumento per limitare il diritto all´informazione, la libera ricerca storica, la necessaria trasparenza che deve accompagnare in primo luogo l´attività politica. Il diritto all´oblio contro verità e democrazia? O come inaccettabile tentativo di restaurare una privacy scomparsa come norma sociale, secondo l´interessata versione dei nuovi padroni del mondo che vogliono usare senza limiti tutti i dati raccolti?
Internet deve imparare a dimenticare, si è detto, anche per sfuggire al destino del Funes di Borges, condannato a tutto ricordare. La via di una memoria sociale selettiva, legata al rispetto dei fondamentali diritti della persona, può indirizzarci verso l´equilibrio necessario nel tempo della grande trasformazione tecnologica.