l’Unità 1.2.12
Lo scandalo Lusi scuote la ex Margherita e il Pd
Il tesoriere accusato di appropriazione indebita: restituirò tutto. Case e fondi per oltre 13 milioni di euro. Bersani: «Niente sconti». Pronti a espellerlo dal partito.
Il senatore Pd ed ex tesoriere della Margherita ammette le proprie colpe e chiede di patteggiare. Trattative per la restituzione di una parte dei 13 milioni. Ma per gli investigatori non avrebbe agito da solo.
di Claudia Fusani
Il delitto è chiaro: il tesoriere della Margherita Luigi Lusi s’è intascato 12 milioni e 961 mila euro di finanziamento pubblico al partito in tre anni tra il gennaio 2008 e l’estate 2011, l’ha confessato, restituirà quello che potrà, risponderà davanti ai giudici per sottrazione indebita. Ma alla cosiddetta scena del crimine mancano ancora mandanti, beneficiari e anche un pezzo del movente. Perchè i magistrati della procura di Roma e gli uomini del Nucleo Tributario della Guardia di Finanza sono scettici all’idea che l’avvocato con la passione per gli affari immobiliari, ex scout nonchè senatore affabile e competente nelle questioni di bilancio, abbia potuto mettere a segno un “furto” così clamoroso, tutto sommato alla luce del sole senza contare almeno sull’appoggio di testimoni silenti.
L’aggiunto della procura di Roma Alberto Caperna e il sostituto Pesci stanno valutando come procedere nell’indagine non risultano essere state assegnate deleghe alla Finanza ma è chiara la direzione. Ecco perchè potrebbero presto essere sentiti i membri del Comitato federale di Tesoreria (i senatori Rutelli e Bianco e il deputato Gianpiero Bocci) e i membri del collegio dei revisori della Margherita. Nonchè nomi di spicco dell’assemblea come il professor Arturo Parisi che ieri, allibito e sconvolto, ricordava come ad ogni Assemblea nazionale della Margherita con all’ordine del giorno la ratifica del bilancio «i conti fossero via via sempre meno chiari e certe voci, ad esempio “consulenze” o “manifestazioni”, prive delle dovute certificazioni». Per questo, «nell’ultima assemblea, a giugno 2011, presenti anche Bindi, Fioroni, Franceschini ho chiesto che fosse istituito un gruppo di analisi per fare luce sul bilancio. Ma queste spiegazioni non sono mai arrivate». Qualche chiarimento in più deve arrivare poi anche sui 3 milioni di euro che Lusi ha utilizzato per ristrutturare la villa ai Castelli romani.
L’inchiesta parte a metà novembre quando la Banca d’Italia segnala un’operazione sospetta sui due conti correnti (Bnl e Unicredit) con un unico intestatario, “Democrazia e libertà-La Margherita”. Da questi conti sono partiti 90 bonifici in meno di tre anni. La Guardia di Finanza impiega relativamente poco per scoprire beneficiari e causali: finiscono tutti indistintamente alla TTT srl, società con socio unico che è la LUIGIA ltd, società canadese. Dettagli di qualche rilevanza: la TTT srl viene costituita il 18 luglio 2007 e liquidata il 27 dicembre 2011 e la sua proprietaria, la LUIGIA ltd , è riconducibile a Luigi Lusi, senatore Ds e tesoriere storico della Margherita, dal 2001 fino ai giorni nostri (25 gennaio).
PASSAGGI DA PRECISARE
Serve qui ora precisare alcuni passaggi. Nell’aprile 2007 la Margherita si fonde con i Ds per dare vita al Pd. Il soggetto politico però continua ad esistere e a ricevere il finanziamento elettorale pubblico, una cifra che tra politiche del 2006 e successive tappe delle amministrative si aggira intorno ai 42 milioni di euro erogati ogni anno in varie tranche. Gli ultimi finanziamenti pubblici sono arrivati nel 2011. Per gli investigatori è chiaro che la TTT srl è la società nata per gestire i soldi della Margherita. Conti correnti su cui hanno potere di firma il tesoriere Luigi Lusi e il presidente Francesco Rutelli. La Margherita è quindi un partito fantasma ma finanziariamente vivo e appetitoso.
Il 17 gennaio, pomeriggio, l’aggiunto Caperna convoca Rutelli in procura come persona informata sui fatti. Il faccia a faccia è anche un veloce ripasso di date e circostanze: l’ex sindaco di Roma nel novembre 2009, alla vigilia della nomina di Bersani a segretario, lascia il Pd e fonda l’Alleanza per l’Italia (Api) a cui va una quota dei soldi Margherita, approdata nel Terzo Polo. Rutelli però, come spiega ai magistrati, è sempre rimasto presidente della Margherita e consapevole dello stato dei conti e del bilancio. Ma di quei 90 bonifici non sa dire nulla. La mattina dopo tocca a Lusi. Che si presenta con l’avvocato Luca Petrucci. Ancora non immagina che la Finanza è in grado di documentare per filo e per segno la storia di ogni bonifico. Lì per lì cerca di difendersi dietro una serie improbabile di consulenze. Poi ammette tutto: un milione e 900 mila euro sono serviti per acquistare un meraviglioso appartamento in centro a Roma (via Monserrato) intestato al senatore; un milione e 863 mila sono stati versati alla “Paradiso immobiliare” che acquista una villa principesca a Genzano, zona Castelli. Alla stessa società vanno, qualche mese dopo, altri due milioni e 815 mila euro. Lusi li giustifica con i lavori di ristrutturazione dell’immobile. Gli investigatori vogliono approfondire. Villa e Paradiso immobiliare sono di Lusi.
La Finanza ricostruisce il percorso di altri bonifici minori: 272mila euro alla Luigia ltd; 49 mila su un conto personale di Lusi, 60mila allo studio legale del senatore e 119mila allo studio di architettura Giannone-Petricone (che è anche la moglie canadese di Lusi). L’ultima versione del tesoriere («ho fatto tutto da solo») è che quegli 8 milioni («perché 5 se ne sono andati in tasse») fossero in realtà una buonuscita dopo anni di fatiche da tesoriere.
Peccato che di questa sua decisione non avesse informato nessuno.
il Fatto 1.2.12
Ladri di Margherita
La favola del tesoriere Lusi, che fugge con la cassa (13 milioni) all’insaputa dei vertici Dl, fa ridere. Ma il guaio serio sono i partiti, perfino quelli defunti, che navigano nell’oro a spese nostre
di Pacelli e Perniconi
Come si fa a non fidarsi di uno scout? Questo almeno è quel che sostengono i dirigenti dell’ex Margherita quando parlano del loro tesoriere, Luigi Lusi. Solo lui aveva in mano le chiavi del forziere del partito, poteva accedervi, prelevare soldi, decidere come spenderli. L’unico col potere di firma sui conti, assieme al presidente Francesco Rutelli. Chi se non lui, scout di rigorosa osservanza fino all’età adulta? In realtà le spiegazioni dei vertici ex Dl finora non hanno convinto la magistratura che sta indagando sull’ammanco di 13 milioni: “Il potere amministrativo, in base allo Statuto, era interamente nelle mani del senatore Luigi Lusi – hanno scritto Rutelli, Enzo Bianco (presidente dell’Assemblea federale) e Gianpiero Bocci (alla guida del Comitato di controllo sulla tesoreria) ieri dopo una riunione urgente – persona da tutti stimata, che aveva iniziato la propria attività, in quanto Direttore Generale degli Scout, apprezzato dal Sindaco Rutelli e quindi eletto due volte come amministratore del partito”. Rutelli è stato sentito dalla Procura il 16 gennaio, dopodiché ha informato i vertici dell’ex partito e chiesto le dimissioni di Lusi da tesoriere, arrivate mercoledì scorso. Nessuna rinuncia finora per la poltrona a Palazzo Madama e per il ruolo di tesoriere del Pd europeo di cui Rutelli è copresidente. L’inchiesta è partita da venti bonifici. Quelli che Lusi giustificava come “prestazioni di consulenza” e che dalle casse della Margherita sono finiti in quelle della Ttt srl, una società riconducibile proprio all’ex tesoriere. È da questi movimenti sospetti che Bankitalia ha iniziato a indagare, finché ne ha scoperti altri 70.
Quelle “voci opache”
In totale, secondo i pm romani Alberto Caperna e Stefano Pesci, Lusi si sarebbe appropriato indebitamente di circa 13 milioni di euro, dirottati su società italiane e estere di cui 5 milioni destinati al pagamento di “tasse”. Si tratta di tutti soldi pubblici, perché provenienti dagli ultimi rimborsi elettorali. Che i conti non tornassero se n’erano già accorti alcuni dirigenti della Margherita che avevano denunciato “voci opache e rissuntive” nel bilancio 2010. Il 21 giugno 2011, nell’assemblea federale in cui si dovevano decidere le sorti dei 20 milioni in attivo, ci fu la minaccia del ricorso al tribunale, che Rutelli apostrofò come “una cazzata”. E invece Enzo Carra, Renzo Lusetti, Rino Piscitello e Gaspare Nuccio una denuncia la sporsero davvero perché non coinvolti nelle decisioni in quanto transitati verso altri partiti. La giustificazione dell’esclusione è che non perseguivano più gli interessi della Margherita che ha scelto il centrosinistra. Eppure chi, come Lusetti e Carra, ha aderito all’Udc, rivendica di militare nel terzo Polo esattamente come l’Api di Rutelli che invece ha ancora diritto di parola sui finanziamenti dell’ex partito. Certo è che in molti sembrano sorpresi dagli interessi personali che Lusi ha fatto con i soldi pubblici, ma non si spiegano come abbia potuto agire da solo: “Il caso Lusi non sarà un altro Schettino ma poco ci manca. Che tutto un partito abbia subito inerte le decisioni solitarie del suo amministratore ha dell’inverosimile” dice Carra. E il leader della Destra, Francesco Storace, commenta sarcastico: “Si vede che frodava Rutelli a sua insaputa... ”. Con quel denaro è stato acquistato un immobile in pieno centro a Roma, in via Monserrato, pagato 1 milione e 900 mila euro; poi sono stati fatti due bonifici in due distinte occasioni, uno di 1 milione 863 mila e un altro di 2 milioni 815 mila euro alla “Paradiso Immobiliare”. E ancora.
Risultati degli accertamenti
La Ttt ha bonificato 272 mila euro alla Luigia Ltd., società di diritto canadese, anche questa riconducibile all’ex tesoriere. Inoltre secondo gli accertamenti di Bankitalia una parte del denaro sarebbe confluito sia sul conto personale di Lusi, circa 49 mila euro, che su quello del suo studio legale a titolo di “fondo spese”, 60 mila euro. Altri 5 milioni e 100mila euro sarebbero stati utilizzati per pagare le imposte. E non mancano neanche i soldi per la consorte: 119 mila euro sarebbero stati destinati ad uno studio di architettura di Toronto, “Giannone-Petricone”, dove lavora Pina Petricone, moglie di Lusi. Ma a non convincere i magistrati, oltre l’utilizzo del denaro, è proprio il comportamento del resto del partito. Come mai in tre anni, dal gennaio del 2008 all’estate del 2011, nessuno si sia accorto che i soldi sparivano? Anche perché Rutelli aveva, e ha ancora tutt’oggi, delega ad operare e il legame con Lusi è talmente solido, dai tempi del Comune di Roma in cui gli assegnò una consulenza per la quale poi Lusi fu giudicato non abbastanza qualificato, che appare improbabile che non abbia mai controllato l’operato del suo uomo. Ma l’ex presidente ai pm ha dichiarato di non sapere nulla della gestione Lusi.
“Solo il mio dovere”
Da parte sua Lusi ha ammesso l’appropriazione indebita ma ha poi dichiarato ai giornali “di aver fatto solo il suo dovere”, lasciando intravedere l’ombra di qualche ipotetico mandante. L’ammanco è sfuggito anche al comitato di controllo sulla tesoreria, del quale facevano parte numerosi esponenti del partito, da Bocci a Vaccaro, da Mantini a Strizzolo fino a Tanoni. Ma non a Parisi che chiese più volte verifiche sul bilancio. Con la confessione di Lusi, l’inchiesta potrebbe dirsi chiusa, ma la procura vuole capire se ci sono altri dirigenti che hanno fatto buon viso a cattivo gioco.
La Stampa 1.2.12
La strana resurrezione di un partito-fantasma
Sciolto nel 2007, ha continuato a vivere con fondi pubblici
di Fabio Martini
Erano riunioni semiclandestine, convocate chissà perché la mattina presto. Riunioni con pochi intimi, da matrimonio di Renzo e Lucia: dieci, dodici persone, chiamate ad approvare il bilancio consuntivo di un partito non più in vita, la Margherita. L’ultima volta era la mattina del 20 giugno 2011 accadde qualcosa di molto curioso. Luigi Lusi, il tesoriere, lesse le varie voci del bilancio e Arturo Parisi, per poterle giudicare, chiese un po’ di tempo di più, almeno «un aggiornamento al pomeriggio». Non fu facile, ma alla fine si convenne che la richiesta era ragionevole. Tra le voci del bilancio, ce ne era una (“attività”) molto più ricca del previsto, visto che il partito era stato sciolto tre anni prima e visto che l’esposizione corrispondeva ad alcuni milioni di euro. Parisi chiese conto: «E questa spesa a cosa corrisponde? ». Lusi rispose: «Un contributo per le spese elettorali per le Primarie di Dario Franceschini». Ma come? Un partito defunto, senza mandato, spende 2-3 milioni di euro per alimentare la lotta intestina di un partito vivo e vegeto? E come mai la spesa era stata rendicontata nel bilancio del 2010, visto che le Primarie del Pd risalivano al 2009? Successivamente interpellato dallo stesso Parisi, Dario Franceschini negò con molta energia di aver mai ricevuto sostegni.
Al di là delle responsabilità penali, la resurrezione post-mortem della Margherita è vicenda esemplare, perché offre uno spaccato su come abbiano vissuto alcuni dei più grandi partiti italiani durante la Seconda Repubblica. Molto trae origine da una norma legislativa in base alla quale i partiti presenti in Parlamento hanno diritto ad un rimborso elettorale annuo per tutta la durata della legislatura, anche se questa si interrompe prematuramente. Grazie a questo «trucchetto», non solo la Margherita ma anche Ds, Forza Italia e An hanno continuato ad intascare denaro pubblico per diversi anni anche se nel frattempo si erano sciolti. La Margherita, per esempio, ha deliberatola fine attività nell’ottobre del 2007, ma ha proseguito a ricevere soldi pubblici fino al 2011 per rimborsi relativi alle Europee 2004, alle Regionali 2005, alle Politiche 2006. Un bel gruzzolo, amministrato da Lusi. E qui occorre fare un passo indietro. Cinquanta anni, romano, Lusi viene portato sulla ribalta politica nazionale da Francesco Rutelli. Nel 2001, poco dopo essere stato eletto presidente della Margherita, Rutelli annuncia ai vertici del partito di aver rimosso da tesoriere Renato Cambursano e di aver chiesto di assumere l'incarico a Luigi Lusi. Ricorda Cambursano: «Appresi la notizia seduta stante».
Qualche tempo dopo, per garantire una più attenta e collegiale disanima dei bilanci, a Lusi viene affiancato un Comitato di Tesoreria, formato da alcuni degli esponenti di punta del partito e presieduto da Arturo Parisi che «in un clima di guerriglia permanente» chiedeva, non sempre con successo, carte, riscontri. Alla vigilia delle elezioni politiche del 2006 un duro e prolungato scontro contrappone da una parte i prodiani, che vorrebbero presentarsi con il simbolo dell'Ulivo e dall' altra Ds e Margherita che invece chiedono di avere il proprio logo quantomeno al Senato. «Prevalse l'opinione dei due partiti, ma la mancata presentazione dell'Ulivo al Senato ci fece mancare quei seggi poi rivelatisi decisivi per garantire un margine di sicurezza al governo Prodi», ha scritto l'ex ministro Giulio Santagata nel suo libro " Il braccio destro". Una scelta che consentì di continuare ad incassare fondi pubblici ai due partiti, tanto è vero che quando la Margherita si scioglie, Rutelli ne resta formalmente il presidente, Lusi il tesoriere, Enzo Bianco il presidente dell'Assemblea federale. In una delle assemblee chiamate ad approvare il bilancio, Luciano Neri propone che le ingenti somme incassate da un partito oramai defunto vengano devolute ad associazioni di volontariato ma nessuno dei leader della fu-Margherita prende in esame la proposta. In compenso un po’ di fondi sono stati investiti per convegni organizzati in collaborazione col Pde, il partito di cui sono co-presidenti Rutelli e François Bayrou, uno degli sfidanti di Nicolas Sarkozy per l’Eliseo. E poiché il tesoriere del Pde, è sempre lui, Luigi Lusi, chi può escludere che il caso-Margherita abbia qualche riflesso nella corsa per l’Eliseo?
l’Unità 1.2.12
Rabbia nel Pd: «Niente sconti»
Bersani: se i fatti saranno accertati va espulso Finocchiaro chiede le dimissioni dal gruppo
In molti domandano : perché i Dl hanno taciuto?
di Simone Collini
Sconcerto, rabbia. E la sgradevole necessità di tornare a parlare in termini di ex: ex-Margherita, ex-Ds. Non è stata una bella giornata in casa Pd. La notizia dell’accusa di appropriazione indebita nei confronti di Luigi Lusi ha «sorpreso, e non gradevolmente» Pier Luigi Bersani, per il quale di fronte all’accertamento dei fatti il senatore del Pd va espulso: «Non facciamo sconti a nessuno, le procedure verranno applicate rigorosamente». Luigi Berlinguer ha già convocato la Commissione di garanzia, che è l’organismo incaricato di applicare Statuto e Codice etico e quindi l’unico in grado di prendere una decisione come l’espulsione. Mentre Anna Finocchiaro ha inviato a Lusi una lettera in cui si chiede al senatore di dimettersi dal gruppo del Pd e dagli incarichi che, «in ragione di tale appartenenza», ricopre a Palazzo Madama: ovvero vicepresidente della commissione Bilancio e membro della Giunta delle immunità parlamentari. Invano sia il segretario che la capogruppo del Pd al Senato hanno atteso per mezza giornata da Lusi un passo indietro volontario. Di fronte al silenzio del parlamentare, nel pomeriggio si è deciso per la richiesta formale di uscita dal gruppo (nel caso si dimettesse da senatore, subentrerebbe come primo dei non eletti Stefano Fassina).
Ma al di là di quello che farà Lusi, la vicenda scuote il partito e innesca tra i Democratici una serie di recriminazioni e anche di sospetti. La domanda più frequente nei capannelli che si formano nel Transatlantico della Camera è se sia possibile che Lusi abbia tenuto per sé una somma così ingente come 13 milioni di euro. E poi ci si domanda perché i vertici del Pd non siano stati avvisati di quanto stava avvenendo, visto che Lusi si è dimesso da tesoriere della Margherita il 25 gennaio, dopo che la vicenda è stata discussa per una settimana da più di un dirigente di quell’area insieme a Francesco Rutelli. Così se gli ex-dielle, soprattutto gli ex-popolari come Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti come Arturo Parisi, chiedono la convocazione immediata dell’Assemblea (si terrà entro il mese e servirà a eleggere un nuovo tesoriere) o ricordano di aver già denunciato «voci opache» nel bilancio approvato la scorsa estate, tra gli ex-diessini ci si domanda quanti compagni di partito provenienti dalla Margherita hanno taciuto sul caso che stava per scoppiare. E l’unico che riesce a ironizzare sulla vicenda è Massimo D’Alema, che incrociando a Montecitorio il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti (che alla nascita del Pd ha difeso la linea della «separazione dei beni» con la Margherita) gli fa: «Quello ha una casa in Canada, ora se tu non ci dici che hai almeno una casa in Siberia non ti guardiamo neanche in faccia, non si fa un’unificazione alla pari». Ma la voglia di scherzare nel Pd è poca.
Il fatto che Rutelli si sia costituito parte offesa, che abbia fatto sapere che i vertici della Margherita sono «incazzati e addolorati», che ora il bilancio sarà verificato dalla società di revisione Kpmg, che Lusi avesse «interamente nelle sue mani il potere amministrativo», serve fino a un certo punto. Bersani ha concordato con il tesoriere del Pd Antonio Misiani una nota per «precisare» che gli «unici rapporti economici» tra Pd e Margherita riguardano i pagamenti per il subaffitto e le spese di gestione della sede nazionale in Via Sant’Andrea delle Fratte (nel rendiconto dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010 si legge che sono stati pagati complessivamente poco più di tre milioni di euro). I vertici del Pd stanno ora bene attenti a tener arginata entro i confini della Margherita una vicenda di cui sono ancora da capire tutti i contorni e che rischia di influire su un’opinione pubblica che guarda con sempre minore fiducia ai partiti.
l’Unità 1.2.12
Drammatico record tra le donne: il numero delle inattive supera quello delle occupate
In Germania i senza lavoro diminuiscono. Da noi un giovane su tre è fuori dalla produzione
Solo il 56,9% ha un lavoro
In Italia record di inattività, in Germania si festeggia il calo della disoccupazione. La Cgil: senza Cig straordinaria 3 milioni di senza lavoro. Oggi incontro Confindustria e sindacati, domani il tavolo con Fornero.
di Massimo Franchi
Alla vigilia del vero avvio sulla riforma del lavoro, arrivano dati sempre più scoraggianti sull’occupazione. Il nostro Paese si conferma fanalino di coda in Europa sul tasso di occupati che ha toccato a dicembre quota il 56,9% con un calo 0,1% rispetto a dicembre 2010. Il quadro è desolante per l’occupazione femminile: siamo l’unico Paese europeo dove il tasso di occupazione è più basso di quello di inattività: 46,8% contro 48,2%. In pratica sono più le donne che non hanno un lavoro e neanche lo cercano, di quelle che hanno un’attività.
IL TOP DA 7 ANNI
L’Istat continua a certificare la vera tragedia italiana. La disoccupazione tocca il picco e non va meglio per i giovani: uno su tre è senza lavoro. Con un aumento dello 0,1% rispetto a novembre e dello 0,8% su un anno fa, la disoccupazione si attesta all’8,9%. Le persone alla ricerca di un impiego sono aumentate in un solo mese di 20 mila unità e su base annua di 221 mila. Si tratta del dato più alto da quando, nel 2004, sono iniziate le serie dell’Istat. E se ci si riferisce alle serie trimestrali si torna ai livelli del 2001 tornando a 2,2 milioni di disoccupati. Il tasso di disoccupazione giovanile (persone tra i 15 e i 24 anni) è pari al 31%, in diminuzione di 0,2% rispetto a novembre ma in aumento de 3% rispetto a dicembre 2010 (era al 28%).
E intanto in Germania le cose vanno molto diversamente: nell’ultimo anno la disoccupazione è scesa dal 6,7% (mentre in Francia è salita dal 9,7% al 9,9%, la media europea è al 10,4%, ai massimi dall’introduzione della moneta unica). Magari è quello il modello a cui guardare.
I dati comunque sono allarmanti. E la Cgil li “lavora” per darne di ancora più tragici, soprattutto rispetto alle possibili riforme annunciate dal governo.
«Prima della crisi attacca il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni gli occupati erano 700 mila in più, se non ci fosse stata la cassa integrazione e in particolare la Cig straordinaria e la deroga, i disoccupati sarebbero oggi più di 3 milioni. Questo continua Fammoni sarebbe già avvenuto e avverrà se la cassa integrazione sarà ridotta e se si punterà solo sulla disoccupazione e su un reddito minimo per il quale però non c’è alcuna risorsa». Ma Fammoni rilancia soprattutto il problema dei giovani. «Al 31% di giovani disoccupati (che in realtà sono di più perché anche una parte dei giovani è in cassa integrazione), che prospettiva si dà? Un lavoro con meno diritti e sempre più ricattabile? Una mobilità da un lavoro precario in un’azienda a un lavoro temporaneo in un’altra? Ricordo che la teoria del “meglio un lavoro qualunque”, ha portato proprio a questa situazione di lavoro per i giovani».
Per la Cgil dunque dai dati Istat arriva un messaggio preciso per la trattativa che parte domani: «Servono tutele straordinarie e uno straordinario Piano per il lavoro per ridurre il precariato conclude il segretario Cgil e dare ammortizzatori universali a tutti i lavoratori mantenendo la possibilità di non rompere il rapporto con l’impresa in tutti i casi possibili e dando una tutela maggiore alla disoccupazione. Dire invece che occorre facilitare il licenziamento per più occupabilità è il contrario dei dati reali».
Il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini, sottolinea che «è necessario un intervento organico di sostegno alle assunzioni dei giovani, delle donne, degli over 50 e per il reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione e dei disoccupati, valorizzando in primo luogo l’apprendistato, il contratto di inserimento, il part-time lungo, mettendo in campo ulteriori incentivi al loro utilizzo».
INCONTRO SINDACATI-CONFINDUSTRIA
Dopo gli annunci dei giorni scorsi, ieri è stato ufficializzato l’incontro tra le parti sociali preparativo al tavolo con il governo di domani. Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si incontreranno alle 9,30 alla foresteria dell’associazione degli industriali in via Veneto a Roma. L’incontro tra Emma Marcegaglia, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella punta a definire una posizione comune sulle possibili proposte del governo. Come anticipato lunedì, non ci sarà però nessun documento scritto. In più al tavolo mancheranno ReteImprese, Abi (che doveva ospitare il vertice nella sua sede) e Ania, che invece saranno a palazzo Chigi domani. Nessuna frattura tra le parti sociali, solo differenti tattiche rispetto ad un tavolo che rappresenta un punto interrogativo per tutti. Rimasti spiazzati dall’atteggiamento e conduzione del ministro Fornero nella prima riunione, le parti sociali rimangono assai guardinghe. E si aspettano ancora sorprese.
La Stampa 1.2.12
Se non ora quando?
di Irene Tinagli
Ormai non fa più nemmeno notizia: la disoccupazione giovanile in Italia non accenna a scendere. Anzi, su base annua, continua a salire. Secondo i dati resi noti ieri dall’Istat è al 31%. Fin dove dovrà arrivare perché questo Paese si decida a far qualcosa e a farlo subito? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a politici, sindacalisti e amministratori di vario livello e colore che continuare ad ignorare il problema, ricordandosene solo per qualche slogan nei comizi, non farà cambiare direzione a questo trend. Ma soprattutto qualcuno dovrebbe ricordare loro che questo andamento ci porterà dritti dritti verso una situazione di gravissima insostenibilità sociale ed economica. Non si tratta solo dei giovani, ma di tutti noi. Per capirsi: dire che stiamo mangiando il futuro dei giovani è una sciocchezza. Perché in realtà stiamo mangiando quello di tutta la nazione, incluso quello di tante signore e signori che oggi guardano con compassione e commiserazione questi «poveri ragazzi». Perché tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. Continuare a dire che stiamo danneggiando il loro futuro, quindi, è miope e fuorviante. È come guardare un orto che avvizzisce e pensare «povere piantine», scordandoci che senza quelle piantine resteremo presto tutti senza mangiare.
È stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo confezionando e su cui siamo seduti. E come molti ancora pensino che semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i figli, senza rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui entrambi salteranno con le gambe all’aria. E i primi assaggi li avremo presto, quando migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione resteranno scoperti. Perché la cassa integrazione straordinaria, lo sappiamo bene, non ha fatto che finanziare una lenta agonia, ma non ha reso né le aziende né i lavoratori più forti e competitivi sul mercato. E anche quella bomba, presto, esploderà.
Domani inizia il tavolo tra ministro del Welfare e parti sociali. I segnali «preparatori» di questi giorni non sono molto incoraggianti, con le parti sociali che hanno già lanciato veti e allarmi preventivi. I sindacati hanno messo le mani avanti su cassa integrazione e articolo 18, intoccabile perché questione di «civiltà» (qualcuno dovrà prima o poi dire a Francia, Danimarca, Spagna, Inghilterra e a molti altri Paesi europei quanto siano incivili). E anche Confindustria pare molto allarmata per l’ipotesi di riformare la cassa integrazione straordinaria un costo di miliardi di euro che lo Stato si sta sobbarcando da anni per dare tempo alle imprese di «ristrutturarsi» (un tempo che però sembra non arrivare mai). La convergenza di interessi tra sindacati e industria su alcuni dei temi chiave della riforma che da domani sarà in discussione dà un’idea abbastanza chiara delle cause dell’ingessamento della nostra economia, e dell’incapacità di una buona parte del nostro sistema produttivo di aprirsi ai giovani così come alle nuove tecnologie e all’innovazione.
È in parte comprensibile che una parte sociale che ha impostato tanta parte della sua ragion d’essere sul tema della difesa del posto di lavoro prima ancora che del lavoratore in sé (perché prima si difende il posto, l’«inamovibilità», poi si parla di formazione, crescita, competenze etc.) sia pronta a dar battaglia sul comma di un articolo. Così come può essere comprensibile che un’associazione di industriali che tanto hanno beneficiato (e spesso approfittato) degli aiuti dello Stato siano adesso spaventati da riforme che potrebbero rendergli la strada più difficoltosa. E c’è da riconoscere che la crisi non ha aiutato: con essa sono aumentate paure e insicurezze, ed è più facile per rappresentanti politici e di categoria cavalcare certe paure che assumersi la responsabilità di un’azione coraggiosa che le sfidi.
Ma quando domani si troveranno tutti allo stesso tavolo per discutere una riforma che, pur non essendo l’unica soluzione al problema dei giovani, rappresenta un tassello fondamentale dell’insieme di misure che il governo sta attuando, c’è da sperare che le varie parti ritrovino questo coraggio. E che preferiscano sfidare le paure e gli interessi di parte per il bene comune, piuttosto che restare schiavi di un copione che l’Italia legge ormai da troppi anni.
l’Unità 1.2.12
Sinistri liberismi
di Michele Prospero
Con durezza Eugenio Scalfari bacchetta “la Camusso” che non avrebbe alcuna visione dell’interesse generale, e quindi navigherebbe alla cieca e con una ben scarsa «intelligenza politica». A corto di una «strategia politica realistica», la Cgil viene dipinta come una sigla estremista che mostra «rigidità su tutti i piani».
Eppure, proprio in nome della responsabilità nazionale, ci sono state poche ore di sciopero dopo manovre economiche devastanti. Accusata di ricorrere a slogan degni della deteriore «tattica sindacalese», Susanna Camusso viene contrapposta a Luciano Lama, che al contrario merita ancora oggi di sedere sugli allori per essere stato lui sì un interprete del generale e non uno schiavo del vile particulare.
Ha un senso storico però questo paragone? Lama era il capo di un sindacato che veniva da un glorioso trentennio di conquiste. La moderazione salariale era discussa in anni che convivevano con un tasso di inflazione superiore al 20%. E, comunque, erano moneta sonante le grandi contropartite pubbliche ottenute in cambio dei sacrifici richiesti ai lavoratori, protetti dal meccanismo della scala mobile: il servizio sanitario nazionale, l’equo canone, le norme per l’occupazione giovanile. Insomma, se si trattava di una ritirata, era ben ripagata con inedite conquiste di cittadinanza.
Camusso guida invece un sindacato che ha sul corpo le cicatrici provocate da un ventennio di arretramenti. Mentre i redditi di impresa e di lavoro autonomo si sono rigonfiati, i salari sono fermi ai livelli del 1991. Con l’euro le retribuzioni hanno perso almeno il 40 per cento del loro valore. L’inflazione programmata, ben al di sotto di quella reale, ha poi mangiato altri 20 punti del magro reddito. Il prelievo fiscale sul lavoro ha infine raggiunto vette inusitate. I beni pubblici sono nel frattempo del tutto appassiti. Il costo dei ticket per ricevere le prestazioni del servizio sanitario si avvicina ormai alla tariffa della azienda privata. Nelle città il canone di un monolocale chiede l’intero ammontare mensile di un salario. Di politiche attive in favore dell’occupazione giovanile neanche a parlarne.
Le diseguaglianze, le incertezze, le precarietà per Scalfari non hanno nulla a che fare con la crisi perché invece «le cause della crisi sono l’esplosione del debito, la finanziarizzazione dell’economia». E quindi, asserisce, «Camusso sbaglia radicalmente» quando lamenta la strutturale contrazione della capacità di consumo dei lavoratori e decide di «arroccarsi» o peggio di contrastare i processi economici con una dannosa «politica ideologico-sindacale». Stanno davvero così le cose? Un lavoratore che ha perduto il 60 per cento del valore reale del salario non è la principale causa della crisi? I mercati sono saturi di macchine e merci che non trovano più acquirenti. Proprio a questa carenza organica si cercava un illusorio rimedio con la proliferazione delle carte di credito. Meno salari e più consumo drogato con il diabolico congegno del credito, questa è la radice vera, cioè sociale della crisi.
Per essere «il protagonista della nuova modernità» il lavoro viene invitato ad accettare ulteriori sacrifici per ripristinare le condizioni di accumulazione del capitale. Camusso invoca giustamente nuove politiche pubbliche perché, malgrado le privatizzazioni e liberalizzazioni, l’Italia ha il tasso di minore crescita e il più basso livello salariale. Resta poco da spremere e però dinanzi a politiche pubbliche per la crescita Scalfari storce la bocca e le reputa costose. Eppure un fiume di denaro pubblico è già stato versato per salvare le banche e abbeverare il mercato in sofferenza. Nessuno vuole scherzare con le famiglie che possiedono il 17 per cento del debito pubblico e con le banche che ne coprono il 40 per cento. Ma i lavoratori con le manovre perdono con gli anni decine di migliaia di euro. Perché mai inoltre l’intervento statale non desta scandalo se serve per rassicurare gli investitori, mentre diventa un colossale mostro se introduce ammortizzatori sociali, difende l’occupazione, progetta politiche industriali nei settori strategici che vedono il mercato in grande affanno?
Nella rubrica «lotta agli sprechi e ai privilegi» Repubblica inserisce la auspicata guerra santa del governo tecnico per la rapida riforma del mercato del lavoro. Sembra però una lotta contro i mulini a vento che nulla porta in termini di competitività. Scalfari si commuove con la Marsigliese e non apprezza le note di Bandiera rossa. Questione di gusti, ma se la prospettiva è quella di un governo che assume il sindacato come una «controparte» e dipinge i lavoratori come dei privilegiati allora si preparano lugubri scenari, in cui ben più tristi note accompagneranno le marce dei nuovi barbari pronti ad agitare capri espiatori contro cui scagliare il risentimento, la ribellione, l’odio. Il vuoto di rappresentanza sociale non aiuta la crescita e annuncia quasi sempre il crepuscolo della democrazia.
Corriere della Sera 1.2.12
Perché non si fa la riforma elettorale
di Paolo Franchi
Dopo la (prevedibilissima) sentenza della Consulta sui referendum, non sono mancate le esortazioni, anche autorevolissime, a Parlamento e partiti perché procedano lo stesso, e in fretta, a riformare la legge elettorale. Ma fin qui non è successo praticamente nulla. E il rischio è che non succeda nulla nemmeno nei prossimi mesi. Eppure, dovrebbe essere lo stesso istinto di autoconservazione a suggerire di muoversi subito. Il Porcellum si è rivelato un potente strumento di delegittimazione della politica: se i partiti stanno fermi, o limitandosi a qualche falso movimento, e insomma non danno segnali di vita, la loro già modestissima capacità di rappresentanza, testimoniata plasticamente dalla valanga di astensioni, bianche e nulle che ci anticipano tutti i sondaggi, subirebbe un colpo gravissimo, forse mortale.
Ci sono molte spiegazioni possibili per una simile, sorprendente afasia. A cominciare, naturalmente, dalle divisioni profonde sulla natura stessa della riforma da mettere in cantiere. Ci si può anche trovare d'accordo (anche se in realtà non è detto) sull'opportunità di togliere di mezzo l'attuale, improponibile premio di maggioranza, e di restituire agli elettori qualche ruolo nella scelta degli eletti. Ma non si capisce esattamente quale intesa sia possibile tra chi crede che si tratti di tornare ad alzare le insegne della «rivoluzione» maggioritaria tradita e chi, tutto all'opposto, pensa che si debba tornare, in un modo o nell'altro, al proporzionale. È vero, la testa degli italiani è altrove, dello stesso milione e passa di firme referendarie è difficilissimo stabilire quante abbiano un segno riformatore e quante invece siano una protesta contro la «casta». La contesa tra neomaggioritari e neoproporzionalisti già fatica ad appassionare il vasto pubblico sulle colonne dei giornali, che infatti (comprensibilmente) le dedicano sempre meno spazio; e nel confronto tra i partiti, e nei partiti, viene lasciata pudicamente sullo sfondo. Quasi si trattasse di un dilemma che andrebbe messo a fuoco, sì, ma che non si ha nemmeno la forza di enunciare a chiare lettere.
Il fatto è che non si possono scrivere le regole del gioco, nella fattispecie quello elettorale, se i giocatori non stabiliscono, dopo un confronto alto, e magari anche uno scontro aspro, a quale nuovo gioco intendono giocare, visto che quello vecchio proprio non va. Ma se un simile confronto non decolla, ci saranno pure delle ragioni. È solo per via della diversità delle posizioni, delle storie, delle culture politiche? Qualche perplessità in materia è non soltanto lecita, ma pure doverosa. E il dubbio principale non riguarda tanto il gioco e le sue regole, quanto i giocatori. Nel senso che a turbare i sonni dei giocatori di oggi, c'è soprattutto l'incubo di non essere i giocatori di domani. Un incubo che, a quanto pare, piuttosto che indurli a un colpo d'ala minaccia di condannarli all'impotenza.
Fuori di metafora. Nessuno, dentro e fuori la politica, se la sentirebbe di giurare che, quando andremo a votare, ci sarà ancora il Pdl, o almeno il Pdl che abbiamo conosciuto. Nessuno può pronosticare quali saranno gli esiti della crisi della Lega. Nessuno, nemmeno chi spera nella formazione di una forza neocentrista di dimensioni significative, affida questa speranza a un gigantesco incremento dell'Udc. E, a sinistra e nel centrosinistra, c'è un grande alone di incertezza sul futuro stesso del Pd. Lo vede a occhio nudo qualsiasi osservatore, figurarsi se non lo sanno i diretti interessati.
Lo sanno, e ne traggono pure le conseguenze, sbagliate e pericolose quanto si vuole, e però facilmente spiegabili. In poche parole. Quando mettono mano a una riforma del sistema elettorale, i partiti fanno riferimento, oltre che ai propri interessi, alle strategie e alle alleanze future. Se le strategie non ci sono, e le alleanze (di conseguenza) nemmeno, restano solo gli interessi. E una visione miope dei propri interessi rischia di portare i partiti, per logica inerziale, i partiti a restare fermi, anche a costo di autocondannarsi. Visto quello che passa il mercato, forse non sarebbe nemmeno una tragedia. Ma di democrazie senza partiti, o con partiti ridotti a vuoti simulacri, non se ne conoscono. Sarebbe il caso di non fare da battistrada in questa ricerca.
l’Unità 1.2.12
«Non uccidete Liberazione»
Appelli al governo e all’editore: firma anche Loach Oggi Fnsi e Cgil incontrano il vertice dell’azienda
di Roberto Monteforte
Assemblea sino a sera ieri nella di redazione di Liberazione in viale del Policlinico. Siamo alla stretta finale per la vertenza del quotidiano di Rifondazione comunista. Oggi al tavolo con l’azienda, la società espressione di Rifondazione Cominista, ci saranno anche il segretario nazionale della Fnsi, Franco Siddi e Massimo Cestaro, segretario generale dei poligrafici della Cgil. Queste due presenze danno il senso di quanto sia compatto il fronte dei lavoratori e straordinaria questa vertenza a difesa di una testata storica e dei suoi cinquanta dipendenti.
L’esigenza di difendere i posti di lavoro, la dignità anche professionale dei lavoratori si intreccia con la concreta tutela del pluralismo e della libertà d’informazione colpito duramente dai tagli al Fondo per l’Editoria decisi dal governo Berlusconi e sino ad oggi nella sostanza confermata dall’esecutivo tecnico del professore Mario Monti. Occorrono decisioni immediate dell’esecutivo per salvare Liberazione, come tante altre testate messe in ginocchio dal taglio al finanziamento pubblico, e all’editore la riapertura dell’edizione in pdf del quotidiano, nonché la ripresa di una «trattativa vera».
Lo chiedono con l’appello «Non uccidete Liberazione» sindacalisti, personalità della cultura e dello spettacolo. La parola d’ordine è mantenere un «prodotto vivo e lavoratori vivi al tavolo del confronto», perché «una storia collettiva lunga vent’anni non può essere cancellata con una riga di calcolatrice si legge nell’appello una voce non allineata e plurale non può essere messa a tacere con un clic». «Liberazione non può morire. Né trasformarsi, neanche temporaneamente, neanche strumentalmente, nella caricatura di se stessa». Sono l’obiettivo della vertenza simbolo per l’intero settore dei giornali politici, di idee e no profit. Nell’appello si ricorda al primo
ministro Monti e al sottosegretario Peluffo che «il mancato rifinanziamento del Fondo per l’Editoria e il ritardo nella fissazione di criteri rigorosi e chiari di erogazione del contributo pubblico si stanno trasformando in una vivisezione di giornali, di cui Liberazione è un primo tragico test». La richiesta rivolta all’editore, il Partito della Rifondazione comunista, è quella di consentire almeno l’uscita del giornale in versione Pdf e l’immediata riapertura del sito online mantenuto in vita in modo volontario dalla redazione, giornalisti e poligrafici, che hanno occupato la redazione.
«Liberazione voce sottile, ma tenace e indispensabile»» continua il documento, non deve mancare «al dibattito pubblico e ai movimenti che si battono contro la crisi degli speculatori e per l’informazione libera». I lavoratori, che respingono l’ipotesi di una edizione «bandiera» di sole due pagine realizzata da due giornalisti e un poligrafico, ritengono ancora possibile «un accordo sindacale realistico e serio». Chiedono di riattivare l’accordo sulla solidarietà già sottoscritto tra azienda e sindacali.
Firma anche Ken Loach. Tra le firme quelle dei primi direttori di Liberazione Lucio Manisco e Luciana Castellina, quindi il regista Ken Loach, Dario Fo e Franca Rame, Paolo Rossi, la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, il leader della Fiom Maurizio Landini, il presidente Fnsi Roberto Natale, Fulvio Fammoni e Carla Cantone (Cgil), Giorgio Cremaschi, Rossana Rossanda, Haidi Gaggio Giuliani e Ilaria Cucchi, Gianni Minà, Paolo Beni, Gad Lerner, Ennio Remondino, Enrico Ghezzi, Giuseppe Giulietti, Vincenzo Vita, Sandro Portelli, Federica Sciarelli, Antonello Venditti, Francesco Carofiglio, Aurelio Mancuso, Pappi Corsicato, Andrea Purgatori, Alessandro D’Alatri, Johnny Palomba, Oreste Scalzone, Franco Piperno, Giovanni Rossi, Paolo Serventi Longhi, Roberto Seghetti, Paolo Butturini, Lea Melandri, Bruno Tucci.
Corriere della Sera 1.2.12
Ungheria
Il nazionalismo vittimista nell’Europa di Ieri e di oggi
risponde Sergio Romano
La sua risposta ad Alice Esterházy Malfatti (Corriere, 18 gennaio) mi ha lasciato insoddisfatto e un poco indignato nonostante io la consideri un grande e lucido commentatore. La descrizione delle terribili sofferenze patite dalla signora e dalla sua famiglia durante il regime comunista a cui l'Ungheria è stata soggetta per decenni, sono da lei ignorate nella sua risposta. Lei se la cava dichiarando che «Il comunismo, in questo particolare passaggio della storia politica ungherese, non è una parte del problema». Evidentemente — secondo lei — gli ungheresi oggi non dovrebbero considerare «un problema» le loro sofferenze patite per circa 50 anni! Mi sembra che manchi in lei, come in troppi altri commentatori italiani, l'impegno di dimostrare quanto è stato criminale il comunismo nei Paesi dove è andato al potere. Conquest e altri storici (Zaslawsky, Graziosi e Craveri solo per citare gli italiani) parlano di una cifra di morti che varia da 60 a 90 milioni! Perché non ne volete parlare?
Giuseppe Gloria
Caro Gloria,
Rispondo con riflessioni d'ordine generale che non concernono soltanto l'Ungheria. Il miglior carburante del nazionalismo europeo fra l'Ottocento e il Novecento è stato il vittimismo. I partiti nazionalisti soffiano sul fuoco della memoria nazionale, istillano nei loro connazionali il germe delle ingiustizie sofferte e delle umiliazioni da riscattare, li esortano a preparare il giorno della riscossa. È accaduto in Francia dopo la perdita dell'Alsazia e della Lorena nella guerra franco-prussiana del 1870. È accaduto in Italia dopo la sconfitta di Adua e la «vittoria mutilata» del 1919. È accaduto in Germania dopo i Trattati di Versailles. È accaduto in Ungheria dopo il Trattato del Trianon. Poco importa che molti di quegli stessi Paesi, in epoche precedenti, avessero trattato altri popoli con la stessa durezza. Il vittimismo cancella tutti i ricordi fuorché quelli che servono a preparare il giorno della rivincita.
Non è tutto. Il nazionalismo vittimista è lo strumento che meglio permette di demonizzare l'avversario interno e farne, agli occhi del Paese, una sorta di traditore. Il partito dei colpevolisti, nella Francia del «caso Dreyfus» non sarebbe stato così numeroso se i nazionalisti non avessero rappresentato la Germania come una minaccia incombente. Mussolini non avrebbe conquistato il potere se non avesse potuto sfruttare le delusioni italiane dopo la fine del primo conflitto mondiale. Le condizioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles furono la leva di cui Hitler si servì per denunciare l'inettitudine dei partiti democratici. Le collusioni dell'Ungheria con la Germania nazista furono dovute al nazionalismo vittimista del movimento delle Frecce crociate.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale sembrò che i popoli e i loro uomini politici avessero imparato l'arte di dimenticare. La riconciliazione franco-tedesca è stata una delle pagine migliori della storia politica europea degli ultimi cento anni. Ma altrettanto positiva è la stata la transizione dal franchismo alla democrazia in Spagna, l'unificazione delle due Germanie dopo il crollo del muro di Berlino, il ritorno al buon senso in Polonia dopo la dissennata «caccia al comunista» dei gemelli Kaczynski, persino la rinascita della Russia sulle ceneri dell'Unione Sovietica. Battersi contro il comunismo finché rappresenta un pericolo è giusto. Continuare a combatterlo quando è morto serve soltanto a giustificare politiche repressive e illiberali.
Alla sua domanda (perché non volete parlare del comunismo?) rispondo, caro Gloria, che le biblioteche e le librerie sono piene di libri sulle sue malefatte e che i giorni della memoria, contrariamente all'opinione corrente, non servono necessariamente a costruire un futuro migliore.
l’Unità 1.2.12
Desaparecidos 500 tunisini, le famiglie in patria reclamano ricerche
Associazione italo-tunisina le appoggia, un’interrogazione di Livia Turco
Onu, la strage del Mediterraneo 1.500 dispersi in mare nel 2011
Sono 1.500 i migranti dispersi nel Mediterraneo nel 2011, l’anno delle Primavere arabe. Lo calcola l’Unhcr. Circa 500 erano tunisini diretti in Italia. I parenti chiedono ricerche ed è nata una associazione italo-tunisina.
di Rachele Gonnelli
Sono i nuovi desaparecidos. Anche se non è la mano guantata di nero di una dittatura ad aver cancellato le loro tracce, anche se la loro sparizione è oggi nel Mediterraneo e non nell’America Latina degli anni Settanta. Lo stesso si somigliano le madri tunisime che tutti i giorni da mesi si riuniscono a drappelli sotto il ministero degli Esteri a Tunisi portando al petto le loro foto. Dispersi, spariti, dimenticati. Sono oltre 1.500 i migranti, quasi tutti giovani e giovanissimi, partiti dalla Libia e dalla Tunisia, forse annegati cercando di attraversare il Mediterraneo nel 2011, anno della «primavera araba», per raggiungere l'Europa o meglio l’Italia, almeno come prima tappa. La conta ma è ancora una stima viene dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’Unhcr. La portavoce, Sybella Wilkes, sottolinea come si tratti del bilancio più pesante di sempre e come questo numero di 1.500 sia stato calcolato per difetto, «potrebbe essere più alto».
Il precedente primato risaliva al 2007, quando le vittime e i dispersi furono 630. Poi i controlli alle frontiere e i pattugliamenti marittimi in Grecia e in Italia, i «contenimenti» in Libia, aveva ridotto o almeno spostato le rotte. Invece il 2011, l’anno delle grandi speranze e delle grandi libertà in Medioriente, i viaggi della speranza sulle carrette del mare sono ripresi in forza. Inclusi anche i profughi imbarcati nella Libia dell’ultimo Gheddafi come «bombe umane» contro l’Europa.
Il problema è che nessuno li cerca, questi giovani dispersi. Sono almeno 400 solo quelli tunisini. Le fragili democrazie arabe non sembrano finora aver trovato la forza per affrontare i costi delle ricerche chieste a gran voce dai familiari, caricati dalla polizia a Tunisi una settimana fa. E l’Italia, la Francia, la Grecia, Malta non sembrano più sensibili. Per i parenti rimasti senza notizie, è un calvario tra lutto e speranza che il congiunto sia ancora vivo e magari, clandestino in un Cie, non riesca a comunicare con la famiglia.
DA UNA SPONDA ALL’ALTRA
Come Faouzi Hadeji, fruttivendolo a Genova, fratello di Lamjed, partito il 29 marzo, come molti, da Sfax. È convinto di aver riconosciuto il fratello in un servizio televisivo. «Sto diventando pazzo perché l’ho visto, era a Lampedusa, ma sono nove mesi che non lo sento e non so nulla di lui». Una delle molte storie documentate dalla campagna italo-tunisina «Da una sponda all’altra: vite che contano» e dall’associazione e venticinquenovembre@gmail.com che ha avviato una petizione online e una raccolta di nomi. Su questi casi la parlamentare del Pd Livia Turco ha chiesto in una recente interrogazione una risposta urgente della ministra dell’Interno Cancellieri.
Repubblica 1.2.12
Fidel e il Papa l’ultima tentazione
Benedetto XVI sarà all’Avana a marzo. E c’è chi parla di una possibile svolta storica: la conversione del Líder La figlia Alina: “Mio padre si è avvicinato alla religione”. La Santa Sede: “Il Pontefice sarà pronto ad ascoltarlo”
di Marco Ansaldo
La conosce, anzi, e la custodisce come un segreto. Ma la conversione di Fidel Castro, dopo una vita da ateo militante, il suo “sì” alla fede religiosa, dopo la scomunica impartitagli da Giovanni XXIII il 3 gennaio 1962, potrebbe essere il dono più alto della prossima visita di Benedetto XVI a Cuba, alla fine di marzo.
«Negli ultimi tempi — ha detto Alina — Fidel Castro si è riavvicinato alla religione: ha riscoperto Gesù alle soglie della morte. Ciò non mi sorprende, perché papà è stato allevato dai gesuiti». Solo paura di morire? «Non so se chiamarla proprio paura. Ma sono convinta che, oggi, lui sia più interessato alla sorte della propria anima che non al futuro di Cuba».
In Vaticano, alla Segreteria di Stato, si sta lavorando al viaggio. Ieri è stato reso noto il programma della visita, dal 23 al 29 marzo, che toccherà prima il Messico e poi Cuba. Martedì 27, alle 17,30, Benedetto compirà all’Avana, al Palacio de la Revoluciòn, quella che nel protocollo è definita «una visita di cortesia» al fratello di Fidel, Raul Castro, attuale Presidente del Consiglio di Stato.
Un incontro tra Ratzinger e Fidel, come quello avvenuto nel 1998 tra Karol Wojtyla e l’allora Comandante, non è in programma. Ma la diplomazia vaticana non ne esclude la possibilità. Allora il Lìder si spogliò della celebre divisa militare, e si presentò in giacca e cravatta davanti al Pontefice, accogliendolo con tutti gli onori fin dal suo arrivo. Oggi Fidel, a 85 anni e con la morte vicina, potrebbe spingersi addirittura più in là.
Chi nella Santa Sede lavora al dossier cubano, nella più totale riservatezza, è pronto a ogni scenario. «Fidel — spiega in una stanza silenziosa un’Eccellenza di altissimo livello — è allo stremo delle forze. Ormai alla fine. Le sue stesse esortazioni sul giornale del Partito comunista, il Granma, sono sempre più diradate. Sappiamo bene che nell’ultimo periodo si è avvicinato molto alla religione e a Dio. E’ vero che nel 1963 fu scomunicato dal Papa, ma allora quel provvedimento era una
misura quasi automatica per chi professava il comunismo. Un incontro tra lui e il Santo Padre non è previsto. Però, certo, nel momento in cui sarà presente la famiglia dei Castro, potrebbe esserci anche l’ex Lìder màximo ed essere introdotto a Sua Santità».
Non sarà semplice spostare il Comandante. In questi giorni,
il governo sta preparando la struttura logistico-sanitaria per rendere l’incontro più agevole. Sarà forse questo il momento in cui Castro si rivolgerà al Papa, al rappresentante di Dio in terra, chiedendogli conforto e perdono? «Non sappiamo — rispondono in Vaticano — Nel momento estremo, la morte fa paura a tutti. Se Fidel
vorrà dire qualcosa in proposito al Santo Padre, Sua Santità sarà pronto ad ascoltarlo. Ma queste sono cose che possono essere anche confessate a un giovane prete che va a trovarlo e gli sta accanto».
All’Avana c’è attesa per l’arrivo di Benedetto XVI. La Chiesa di Cuba è amata e rispettata. Lo è anche dal governo, per i
suoi ampi interventi sociali. Anzi, c’è chi ritiene che oggi l’istituzione cattolica sia non solo un interlocutore privilegiato dal potere, e possa costituire piuttosto un elemento imprescindibile di mediazione.
Eppure il passo millenario della Chiesa sta, anche, nella sua capacità di attesa. Fidel Castro ha da poco compiuto 85
anni. Joseph Ratzinger li farà nel prossimo aprile. I profili del rivoluzionario latinoamericano e del Papa bavarese sono distanti. Ma forse proprio il loro scambio di parole e di sguardi può valere, per Cuba e per il Vaticano, tutto il viaggio. Tentazione
compresa.
Repubblica 1.2.12
Giovanni XXIII lo punì per la militanza comunista. A Wojtyla un’accoglienza memorabile
Dalla scuola cattolica alla scomunica le svolte del compagno che amava Gesù
di Omero Ciai
Negli anni della Sierra, quando guidava il piccolo esercito che finì con l’abbattere il regime di Fulgencio Batista a Cuba, erano tanti i contadini che chiedevano a
Fidel Castro l’onore di averlo come padrino per il battesimo dei loro figli. In quella guerriglia c’erano cattolici, evangelici, massoni e “santeros” (i seguaci della “santeria”, la religione degli schiavi africani). E c’era anche un prete, il sacerdote Guillermo Sardiñas, che fungeva da cappellano con il grado di comandante guerrigliero. Una foto di Alberto Korda, riapparsa recentemente all’Avana nella versione non censurata, mostra Fidel e un contadino con la Virgen del Cobre, santa protettrice dell’isola, a testimonianza del carattere largamente plurale di quell’avventura rivoluzionaria.
Per Castro e per i suoi “barbudos” i problemi con la Chiesa — soprattutto con la gerarchia ecclesiastica — arrivarono dopo. Quando, disprezzato da Nixon, all’epoca vicepresidente di Eisenhower, il non ancora lìder maximo strinse, per sopravvivere, l’alleanza con l’Unione Sovietica. Una storia raccontata in mille modi diversi nella quale gli storici si dividono anche sull’inizio della svolta marxista-leninista di Fidel. Fatto sta che, subito dopo la scelta del campo socialista, arrivarono la scomunica (firmata il 3 gennaio del 1962 da Papa Giovanni XIII) e lo scontro, feroce, con la Chiesa sull’isola. E Fidel divenne ateo, per necessità.
Le proprietà ecclesiastiche vennero nazionalizzate; centinaia di sacerdoti, soprattutto spagnoli, furono espulsi; il Natale e le altre feste cattoliche proibite. Per decenni le relazioni furono freddissime. Almeno fino al 1992 quando il quarto Congresso del Partito comunista cubano riconobbe la piena libertà e uguaglianza dei culti religiosi. Poi il viaggio a Roma per incontrare Wojtyla e la storica accoglienza del Papa polacco all’Avana.
Quella di Fidel Castro con la religione cattolica è sempre stata una relazione di amore e odio. Mai risolta. Ad Oliver Stone, nella famosa intervista, spiegò che non era diventato credente perché nel collegio dei gesuiti nel quale trascorse i suoi anni giovanili gli insegnarono la religione in modo “troppo dogmatico”. Mentre ad un gruppo di giornalisti, nel ‘98, rispondendo ad una domanda diretta su Dio disse: «Credere è un fatto molto intimo, mi rifiuto di parlarne in pubblico». A Frei Betto, l’amico sacerdote domenicano che nel 1986 pubblicò il libro
Fidel e la religione,
disse che la Bibbia era sempre stato il suo libro favorito. «La storia sacra e l’Antico Testamento mi hanno sempre affascinato », confessò. Aggiungendo il suo grande rispetto per i credenti e sottolineando le somiglianze «fra il pensiero cristiano e il pensiero rivoluzionario ». «Nel tempo — disse a Frei Betto — ho avuto la possibilità di fissare la mia attenzione sugli aspetti rivoluzionari della dottrina cristiana, soprattutto dal punto di vista educativo».
il Fatto 1.2.12
Perché lo sdegno è una virtù
di Maurizio Viroli
Pubblichiamo un estratto de “L’intransigente”, il nuovo libro di Maurizio Viroli, professore di Teoria politica all’Università di Princeton, in uscita domani per Laterza.
Primo requisito della buona intransigenza è senza dubbio la saggezza politica, intesa come capacità di capire uomini, circostanze e tempi. È un sapere che non si basa su regole certe, ma sull’arte raffinata di interpretare parole, segni, gesti e sulla capacità di cogliere la “verità effettuale della cosa”, come scrive Machiavelli, che sta dietro ai veli delle menzogne della politica. È la realtà delle motivazioni e delle passioni che spingono individui e popoli ad agire in un modo anziché un altro, a perseguire determinati fini e a disinteressarsi di altri. Se vogliamo disegnare congetture probabili su come agirà questo o quel politico, questo o quel popolo, dobbiamo leggere bene le sue passioni, capire se sono avidi di gloria, o attaccati agli interessi materiali, audaci o cauti, ambiziosi o umili. Solo chi è in grado di intendere la geografia delle passioni può disegnare e mettere in atto strategie politiche vincenti.
LA SAGGEZZA che aiuta l’intransigenza viene da una conoscenza specifica che diffida di modelli generali: non le interessa sapere come dovrebbero agire gli esseri umani se fossero razionali, ma com’è probabile che agiscano in determinate circostanze. (...) Tale qualità si acquista con l’esperienza e con la conoscenza della storia. Quest’ultima permette di capire la realtà entro la quale dobbiamo operare riconoscendola, vale a dire individuando le analogie con situazioni simili che si sono verificate in passato. Ma il riconoscimento è opera delicata, che richiede, ammoniva Guicciardini, “buono e perspicacie occhio”, perché, ai fini dell’azione politica, una piccola differenza rispetto alla situazione del passato fa tutta la differenza del mondo. (…) Da sola, la voce della coscienza morale difficilmente può vincere contro avversari agguerriti come le lusinghe, le promesse di onori e la pena e il senso di colpa che affliggono chi per il proprio ideale fa soffrire le persone più care; è necessario che accorra in suo aiuto una passione tenace quale lo sdegno, inteso come quel profondo senso di repulsione per l’ingiustizia, che è proprio degli animi grandi. Diverso dalla compassione, che è dolore nei confronti della immeritata sfortuna di altri; diverso anche dall’invidia, che è il dolore per un bene che gli altri hanno e noi no; lo sdegno è, in senso stretto, l’ira dei buoni: l’ira per giusti motivi, l’ira nei confronti delle persone contro le quali è giusto provare ira. Lo sdegno è insomma l’ira guidata dalla ragione. In taluni casi, lo sdegno dal furore elaborato e meditato razionalmente e si traduce in più matura consapevolezza e in serenità interiore e servizio. (…) Lo sdegno impone di operare anche quando le speranze di vincere sono esigue o nulle, quando bisogna agire nell’indifferenza dei più, e quando lottare espone a pericoli certi. Ciononostante, solo lo sdegno spinge a difendere la libertà nei tempi bui. Bobbio l’ha definito “l’arma senza la quale non vi è lotta che duri ostinata, senza la quale, vittoriosi, ci si infiacchisce, e, vinti, si cede”. È la virtù dei precursori, degli anticipatori, di quelli che dimostrano che si può lottare e incoraggiano gli altri a seguire il loro esempio anche quando la prudenza, con buoni argomenti, consiglia di stare fermi, di tacere, di adeguarsi. La fatica di chi agisce per sdegno spesso non riesce ad incrinare il potere di chi opprime e a fermare l’oppressione.
LO SDEGNO non è soltanto la passione dei momenti straordinari, ma deve ispirare l’agire dei cittadini nella vita ordinaria della repubblica. Ogni volta che viene violato un principio di libertà e di giustizia, l’azione guidata dallo sdegno dovrebbe essere la risposta normale di cittadini maturi. Nella realtà, prevalgono spesso docilità, indifferenza oppure azione rabbiosa, che è segno di impotenza più che di forza. Per i suoi presupposti – il principio morale e la grandezza dell’animo – lo sdegno è passione difficile. Lo insegnano soltanto, con l’esempio, i migliori ai migliori. Il movimento degli indignados, nato pochi mesi or sono in Spagna e già diffusosi nel resto del mondo, usa apertamente il linguaggio dello sdegno. Nei suoi manifesti esprime una condanna radicale della corruzione politica e del sistema economico che mira soltanto a produrre immensi profitti per pochi e disoccupazione e povertà per molti. Rivendica una “rivoluzione etica” che metta il denaro al servizio dell’essere umano, non questo al servizio di quello. (...) Per gran parte dei giovani che hanno dato vita al nuovo movimento si tratta della prima esperienza di partecipazione politica: hanno imparato a tenere assemblee, a discutere, a deliberare. Voci autorevoli hanno commentato che indignarsi non basta per realizzare effettivi cambiamenti sociali e politici. L’osservazione è giusta, ma non coglie il dato di maggior rilievo, vale a dire la nascita di un movimento che si pone obiettivi di giustizia e di libertà ed è animato dal giusto sdegno contro le ingiustizie e la corruzione. Un movimento di protesta sociale che nasce dallo sdegno può perdere, se manca di sagacia politica; un movimento che non nasce dallo sdegno, ma dall’ideologia o dall’interesse non può conseguire i suoi obbiettivi neppure con il soccorso della più raffinata sagacia politica.
L’intransigente DI MAURIZIO VIROLI LATERZA PAGINE 192, 15 EURO
l’Unità 1.2.12
Intervista a Dava Sobel
«Mi affascina il mistero del tempo»
La giornalista, a lungo curatrice della pagina scientifica del New York Times ha scritto un libro sui segreti di Copernico. «Lo scienziato, partendo da studi astrologici, ha approfondito il tema fino ad arrivare alla sua “rivoluzione”»
di Cristiana Pulcinelli
Dava Sobel ha avuto da sempre un debole per il problema il tempo: «ancora mi trovo a riflettere spesso su quale sia la natura del tempo e perché definirlo e calcolarlo sia sempre stato così difficile». L’interesse è diventato argomento di lavoro quando, dopo aver collaborato a lungo alla pagina scientifica del New York Times, Sobel ha scritto il suo primo libro: Longitudine che racconta proprio come la misura precisa del tempo abbia cambiato il nostro mondo, o almeno il nostro modo di vedere il mondo. Il tempo torna nel suo nuovo saggio Il segreto di Copernico appena uscito per Rizzoli (pp. 354, euro 18,50). Misurare il suo scorrere è infatti uno dei problemi che l’astronomo polacco si trovò ad affrontare. I suoi calcoli lo portarono a formulare un’ipotesi rivoluzionaria: la Terra non è immobile al centro dell’universo, ma si muove ruotando su se stessa e intorno al Sole. E un giorno è il tempo di rotazione del nostro pianeta e non del cosmo tutto intero.
Da quando l’uomo ha tentato di misurare il tempo?
«Da sempre. L’idea di creare un calendario basandosi sui movimenti del Sole e della Luna è molto antica. Ma fin dall’inizio questi tentativi si sono scontrati con grandi difficoltà. E misurare il tempo ancora dà adito a controversie. Mi riferisco al fatto che nei prossimi giorni si terrà una conferenza per decidere se sia opportuno o meno continuare ad aggiungere i secondi all’ora atomica per mantenere la sincronia con l’ora astronomica. Oggi infatti il tempo si misura con gli orologi atomici (che misurano la frequenza di risonanza di un atomo, ndr). Questa misurazione dà una scala temporale stabile che è il tempo atomico, ma fino alla metà del Novecento si utilizzava il tempo astronomico: la sua scansione si misurava sulla base dei fenomeni celesti. Per mantenere la sincronia tra queste due scale temporali, si deve aggiungere all’ora atomica una frazione di tempo extra. Alcuni sono favorevoli ad abolire questa prassi perché crea difficoltà di coordinamento. In effetti, tutto ormai dipende dalla misurazione del tempo: dall’invio di una navicella nello spazio, alla regolazione del traffico aereo. Aggiungere secondi, rischia di far andare in tilt alcune di queste attività. Altri invece sostengono che smettere di aggiungere secondi extra vuol dire dare definitivamente l’addio al tempo astronomico, buttare via Sole e Luna su cui ci siamo basati fino a ieri. Peccato».
Nel suo libro «Longitudine» c’è un capitolo che si intitola «Il mare prima del tempo», ovvero prima che la costruzione di orologi estremamente precisi consentisse di misurare i gradi di longitudine. Com’era il mare prima del tempo?
«Era mortale, nel vero senso della parola. Tanti marinai perdevano la vita perché non disponevano di mezzi per stabilire dove si trovasse la loro nave. Capitava così che si trovassero improvvisamente vicino alla costa e si sfracellassero sugli scogli, oppure che andassero avanti e indietro per il mare aperto alla ricerca di un approdo che non vedevano, finendo a poco a poco le scorte di cibo e di acqua. In questo caso fu la costruzione del cronometro, un orologio di grande precisione, nel XVIII secolo che cambiò le cose. In mare si poteva portare un orologio che misurava lo scorrere del tempo senza variazioni significative e quindi si poteva calcolare il “fuso orario”. Questo fu un punto di svolta nella storia della navigazione che ha reso il mare più sicuro e ha cambiato anche il mondo, rendendolo più piccolo».
Il rapporto tra la misurazione del tempo e l’astronomia è stato sempre strettissimo. Anche Copernico si interessò a questo problema. Perché?
«Copernico pensava al futuro. Voleva sapere dove si sarebbero trovati i pianeti il giorno dopo o dopo un anno e quindi cercò un metodo di calcolo che consentisse di fare predizioni. La spinta veniva sia dall’interesse per l’astrologia, che al suo tempo era molto diffuso, sia dall’interesse per i ritmi, i cicli, la periodicità del moto dei pianeti che consentiva di conoscere i pianeti stessi e quindi fare ipotesi astronomiche». Copernico partecipò anche alla riforma del calendario Giuliano. Quale fu il suo contibuto?
«Nel calendario Giuliano l’anno era troppo lungo, quindi accadeva che le festività religiose non fossero più in sincronia con le stagioni: Pasqua, ad esempio, era sulla via di trasformarsi in ricorrenza estiva. Per ovviare al problema, tra il 1512 e il 1517 vennero consultati alcuni astronomi, tra cui Copernico. Ma il testo dell’astronomo polacco è andato smarrito. Si sa per certo però che compì un tentativo per stimare in modo esatto la lunghezza dell’anno. Che per lui, ma non per i suoi contemporanei, era il tempo che la Terra impiega a completare la sua orbita intono al Sole».
La Stampa TuttoScienze 1.2.12
Antropologia. «Poco spiritosi, ma empatici, erano grandi cacciatori. Ma mancavano di due doti del nostro cervello»
Ecco i pensieri dei Neanderthal
Non abbastanza innovativi, persero la gara per il dominio dell’Europa arcaica
Due studiosi ricostruiscono la mente degli ominidi più affascinanti
di Gabriele Beccaria
L’antropologo Thomas Wynn e lo psicologo Frederick Coolidge (University of Colorado) hanno sfruttato l’attrazione collettiva per l’unica specie che ha conteso il dominio dell’Europa a noi Sapiens, tentando un esperimento funambolico: non solo ricostruire la vita dei Neanderthal, ma entrare nella loro testa e vagare tra i loro arcaici pensieri.
Erano bonari o aggressivi? Si innamoravano? Quanto erano astuti? E creativi? Sognavano nei rari momenti di riposo? E, soprattutto, avrebbero apprezzato la nostra propensione allo humor e alle imitazioni, agli scherzi da caserma e ai giochi di parole?
Wynn e Coolidge sono così sicuri di se stessi e della possibilità di decifrare il groviglio di dati raccolti su questi remoti parenti da sfidare gli scettici. Lo raccontano nel saggio «How to think like a Neandertal» (senza h, perché l’ultimo trend prevede di abolirla). A cominciare dal paradosso temporale del Neanderthal che entra in un bar. Se alla battuta di un avventore non avrebbe saputo stare al gioco, avrebbe invece sghignazzato come un bambino di fronte a due ubriachi traballanti. Non certo il bruto di cui si favoleggiava fino a qualche decennio fa, semmai un semplicione di poche parole, al quale dovevano fare difetto due abilità cognitive della nostra mente affilata: la capacità di smascherare al volo i comportamenti ingannevoli e quella nota come «market pricing», l’istinto di valutare la differenza qualitativa tra due oggetti simili.
Ma la grama esistenza, tra 40 e 30 mila anni fa, quando noi e loro ci siamo inoltrati nelle stesse tundre gelide, era tremendamente più impegnativa di una banale sfida da bar. Per quanto possano apparire creature imperfette, i Neanderthal sottolineano Wynn e Coolidge incarnavano un modello biologico così ben collaudato che l’evoluzione l’ha replicato per 170 mila anni, generando una discendenza agguerrita. I nostri «alter ego» avevano imparato a cacciare grandi mammiferi come i mammuth, si erano inventati un linguaggio, erano riusciti a produrre strumenti che ancora oggi stupiscono. Il capolavoro è la lancia: non solo la punta in pietra era scheggiata con tale perizia da squarciare le carni delle prede, ma veniva incollata a un’asta di legno con una specie di colla a base di bitume. Chiunque provi oggi a replicarla si troverà tra le mani un rompicapo da togliere il sonno.
Non sapremo mai quanta geniale casualità e quanti sforzi intellettuali collettivi siano stati necessari per approdare a questo prodigio tecnologico, ma a stupire gli studiosi raccontano Wynn e Coolidge è il fatto che, una volta realizzato, nessuno abbia tentato di fare altri passi avanti, migliorandolo. E nemmeno di copiare le asce e le frecce dei Sapiens. Ecco un altro deficit della mente neanderthaliana: il tradizionalismo. L’innovazione che tanto ci eccita non era apprezzata. Un neuroscienziato direbbe che nelle scatole craniche lavorava una «memoria procedurale», mentre sonnecchiava quella «operativa».
E infatti rivelano i reperti i cugini ancestrali trascorrevano la vita in piccoli gruppi, di 5-10 individui, e si spostavano su territori limitati, non oltre il migliaio di km quadrati. Sospettosi e xenofobi, erano allo stesso tempo empatici e pragmatici. Coltivavano la famiglia e aiutavano i compagni in difficoltà. Dai traumi degli scheletri si deduce che sperimentassero avventure da rodeo: chi si spezzava un braccio o si fratturava una costola poteva contare sulla solidarietà della microtribù, ma chi si feriva a una gamba sapeva di non avere chances. Non riuscire a camminare significava essere abbandonati al proprio destino.
Quelle menti erano increspate da fremiti di sensibilità e da refoli di pensiero simbolico. Sebbene non si siano trovate pitture parietali (l’arte in cui i Sapiens avrebbero dimostrato di eccellere), i neanderthaliani si decoravano il corpo di piume e se lo dipingevano con pigmenti colorati. Suonavano (forse) flauti d’osso e seppellivano i morti, anche se è controverso che lasciassero fiori sui cadaveri. Quanto al fatto che credessero o no a un oltretomba, non c’è risposta.
L’attenzione, perlopiù, era rivolta alla brutalità del qui e ora. Oltre che dogmatici, gli avversari degli umani erano degli stoici, capaci di sopportare privazioni e dolori per noi inaccettabili. Di rado superavano i 35 anni e in genere non più di due generazioni vivevano assieme. Il limite deve aver compromesso le possibilità di progresso materiale e intellettuale, forgiando caratteri introversi e scarsamente curiosi.
Piccoletti ma muscolosi, spesso biondi e rossi, secondo Svante Pääbo del Max Planck Institute condividevano con noi il 99,8% del Dna. Non solo si sono incrociati con i Sapiens, ma sostiene Peter Parham della Stanford University ci hanno regalato l’immunità da alcune malattie. L’ultimo grande mistero resta la loro scomparsa. L’ipotesi più inquietante è quella di Jared Diamond: li abbiamo sterminati noi, applicando il primo paleogenocidio. Così riuscito da prenderci gusto.
La Stampa TuttoScienze 1.2.12
“I Maya fuggirono in Georgia. Ecco la loro città segreta”
L’archeologo Thornton: ho trovato qui la Yupaha della leggenda
di Luigi Grassia
Svaniti I centri più importanti della civiltà centroamericana dei Maya sono stati abbandonati durante il IX secolo d. C. Il motivo resta ancora controverso: epidemie? Carestie? Guerre? I reperti Una ricerca sistematica condotta in Georgia ha identificato con certezza centinaia di tumuli di varie dimensioni: sarebbero stati realizzati dai Maya La leggenda Il sito potrebbe corrispondere alla mitica città di Yupaha che Hernando de Soto non riuscì a trovare nel 1540 quando attraversò il Rio Grande e viaggiò in lungo e in largo nel territorio meridionale degli attuali Usa Punto panoramico Brasstown Bald è la località più elevata della Georgia e si trova all’estremo Nord dello Stato: lì ci vivevano in antico i Cherokee e c’è chi crede che vi siano arrivati anche i Maya
Se gli antichi testi dei Maya al giorno d’oggi ci sembrano piuttosto autorevoli nella loro profezia di fine del mondo (o qualcosa di simile) entro il 2012, è anche perché loro, i Maya, di catastrofi se ne intendevano eccome, avendone sperimentata qualcuna (forse più d’una) sulla loro pelle. I centri più importanti della civiltà centro-americana dei Maya sono stati abbandonati durante il IX secolo dopo Cristo e di sicuro, da quelle parti, in quel torno di tempo, dev’essere successo qualcosa di molto brutto, per quanto nessuno di noi oggi sappia esattamente che cosa.
Epidemie? Carestie? Guerre? Non ci sono prove sicure a suffragare alcuna ipotesi. E che fine hanno fatto gli abitanti originari dopo la misteriosa catastrofe? Tanto per cominciare, non è detto che siano davvero «finiti» nel senso letterale del termine. La civiltà dei Maya non è scomparsa del tutto: alcuni centri hanno continuato a prosperare fino all’arrivo dei Conquistadores spagnoli. E adesso nella zona di antico insediamento vivono delle popolazioni indie che oltre allo spagnolo parlano anche dialetti di ceppo maya come lingua madre; è ragionevole arguire che questa gente sia imparentata con gli antichi Maya delle piramidi, però niente ci garantisce che si tratti proprio dei discendenti diretti di coloro che nel nono secolo abbandonarono le più grandi città. Forse quegli specifici Maya, che erano i più evoluti, sono stati sterminati e non hanno lasciato eredi. O può darsi che per sfuggire a un oscuro pericolo siano scappati via. Dove? Forse nelle foreste, in mezzo ai giaguari. O forse più lontano. Chissà, molto più lontano.
Un paio di studiosi credono di aver trovato tracce di transfughi maya, particolarmente ardimentosi, addirittura nella lontanissima Georgia (lo Stato degli Usa con capitale Atlanta, per intenderci, quello di Rossella O’Hara e di «Via col vento»), migliaia di chilometri più a Nord delle terre di origine dei Maya. Al principio degli Anni 90 un ingegnere locale di nome Carey Waldrip, girando per i boschi della zona di Brasstown Bald, si è imbattuto in alcuni tumuli di pietra e in terrazzamenti di origine sconosciuta. In seguito è stata fatta una ricerca sistematica, che ha identificato con certezza 300 di questi manufatti umani, più altri 200 deteriorati. Adesso un architetto e urbanista di nome Richard Thornton, che si è specializzato in archeologia al Museo Nacional de Antropologia di Città del Messico, ha comunicato al mondo, tramite la rivista online Examiner. com, che quelle misteriose costruzioni rivelano la mano degli antichi Maya, e sono coeve del disastro a cui andò incontro quella civiltà.
Thornton, per quanto biondo, è un pellerossa della tribù Creek, e ha studiato in Messico con il professor Roman Pina-Chan, che è di origine maya. I due hanno individuato nella toponomastica della zona di Brasstown Bald alcune assonanze coi dialetti maya; fra l’altro, i Creek chiamavano una certa località Itstate, che nella radice è simile a Itza, il nome con cui i Maya definivano se stessi.
Queste similitudini fonetiche si associano con le analogie delle tecniche costruttive; Thornton si spinge a dire che «il sito ritrovato in Georgia potrebbe corrispondere alla mitica città maya di Yupaha, che Hernando de Soto non riuscì a trovare nel 1540». Il riferimento è alla spedizione di un famoso conquistador spagnolo, che attraversò il Rio Grande e viaggiò in lungo e in largo nel territorio meridionale degli attuali Stati Uniti.
Che dire? L’archeologo Mark William dell’università della Georgia smentisce seccamente Thornton: «Non c’è alcuna prova dei presenza dei Maya in Georgia». Un altro, Johannes Loubser, dice che «questi siti appartengono a nativi americani della Georgia preistorica. Probabilmente li hanno realizzati gli antenati della tribù Cherokee».
Prudenza. A noi profani i mucchi di pietre della Georgia mostrano pochissima somiglianza con le piramidi dei Maya. Ma vediamo che succede.
Corriere della Sera 1.2.12
La difficile sfida degli eroi agli dèi tiranni dell'Olimpo
Achille, Ulisse, Eracle in bilico tra fama e senso del destino
di Pietro Citati
Il mito greco, a cura di Giulio Guidorizzi, è un libro bellissimo. Il primo volume, Gli dèi, è uscito nel 2010: il secondo, Gli eroi, è in uscita (I Meridiani, Mondadori). Non saprei se elogiare di più la conoscenza illimitata della letteratura greca e latina, che Guidorizzi possiede, o la sapienza nella costruzione del libro, divisa in parti mentali, o la bontà della maggior parte delle traduzioni, o la precisione delle note, o la liquidità e l'eleganza dello stile, che cercherò di imitare. Ciò che incanta i lettori è poter percorrere il libro non come un manuale, sia pure ottimo, come quello antico dello Pseudo-Apollodoro o quello moderno di Karl Kerenyi: ma come un corpo vivo, che vibra, si muove, ha echi e aloni, dove la Grecia racconta se stessa e la sua sterminata fantasia mitica.
La mitologia greca non è una costruzione sistematica: non lo è almeno nei grandi poeti, come Omero e Ovidio; se mai, lo è soltanto nei tardi (e spesso eccellenti) mitografi, che razionalizzano ciò che non dovrebbe venire razionalizzato. Non si può immaginare una costruzione più mobile e vasta. Tutti gli dèi ed eroi hanno rapporti con altri dèi ed eroi: ogni personaggio ed evento trova un'eco in una parte lontanissima della costruzione; e persino ogni figura è mobile, perché si presenta in molte forme e varianti, che posseggono tutte lo stesso grado di realtà e verità, non importa se registrate in un grande poema o in un meticolosissimo manuale come la Guida della Grecia di Pausania o in uno scolio in margine a un testo minore. Le vicende e i personaggi hanno conosciuto dapprima una lunga esistenza orale, poi una lunghissima esistenza scritta. Non sono state raccolte per essere credute (non esiste una fede negli dèi greci), ma per venire raccontate senza interruzione, con sempre nuove aggiunte e metamorfosi. Sono trascorsi più di tremila anni dalla mitologia del periodo miceneo; eppure tutto vive, muove, palpita, si agita, si esibisce, si contraddice, come nel libro di Guidorizzi che ricostruisce così fedelmente il mito greco.
Sia gli ebrei sia i cristiani hanno dedicato un culto ai primi capitoli della Genesi, che raccontano la creazione dell'universo, la separazione delle cose, la doppia creazione, spirituale e fisica, dell'uomo, quella della donna, e il peccato di Adamo ed Eva, che generò una specie di seconda creazione. Nella mitologia greca, non esiste nulla di simile alla creazione biblica originaria: esistono creazioni o ricreazioni successive, come quella di Deucalione e Pirra, mirabilmente raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Ma i rapporti tra dèi, eroi e uomini sono complicatissimi. Da un lato, la distanza tra loro resta incolmabile: dall'altra, sebbene non sia stato creato dagli dèi, l'uomo e tanto più l'eroe è una creatura nobilissima, che leva lo sguardo verso il cielo e le stelle; mentre gli dèi osservano le sue vicende, vi partecipano con passione, lo proteggono, lo guidano, lo sorreggono, lo condannano, talvolta senza ragione o per ragioni che ci restano incomprensibili.
Nei tempi più antichi, gli dèi, gli eroi e gli uomini vivevano insieme. Discendevano dalla stessa razza: conducevano un'esistenza comune; avevano comuni «le mense e i concili». Allora gli uomini vedevano gli dèi nel loro «sembiante» e nel loro «splendore». Ancora ai tempi dell'Iliade e dell'Odissea, popolazioni arcaiche, gli Etiopi e i Feaci, vivevano insieme agli dèi, banchettavano con loro, e li guardavano nel loro «sembiante». Il più famoso tra gli eroi greci, Achille, forma un caso particolare. Come dice il primo verso dell'Iliade, che è al tempo stesso il primo verso della letteratura greca, viene posseduto da una passione, la mènis, l'ira, che appartiene soltanto agli dèi: è una parola tabù che né gli dèi né gli uomini possono pronunciare. Questa passione, in Achille, esclude tutte le altre, ed egli non può trascurarla o dimenticarla un solo istante. Omero considera la mènis con un doppio sguardo. Da un lato, essa rivela lo splendore divino di Achille: la sua identità con gli dèi; e Omero, come tutti i greci, venera la rivelazione divina negli spiriti eroici e umani. D'altra parte, Omero sa che gli eroi e gli uomini non sono dèi e non possono nutrire i loro stessi sentimenti: quindi la mènis incombe su di lui come una colpa sinistra, una catastrofe.
Se dèi e uomini appartengono alla stessa razza, tanto più gli eroi sono affini alla natura umana. Non posseggono poteri soprannaturali, non sono polimorfi, non compiono nulla che un uomo non possa compiere, sia pure con le sue forze limitate. Poche generazioni separano l'eroe capostipite dai suoi discendenti, che nei tempi storici abitano la città. Dal profondo della tomba, gli eroi emanano le loro forze sotterranee: proteggono il territorio, guariscono, compiono miracoli, rendono oracoli: ma possono anche inviare malattie e punire gli empi. In primo luogo, gli eroi sono dei mediatori. Sebbene la differenza tra mondo divino e umano sussista, gli uomini entrano in rapporto con gli dèi attraverso il riflesso, il barlume, il profumo che colma il mondo eroico. Col passare del tempo, gli eroi si trasformano: i guerrieri di Omero, dominati dal senso della gloria e dell'onore, diventano, nella tragedia classica, uomini lacerati e sofferenti. Così Eracle arcaico è colui (come dice Bacchilide) che mai nessuno vide asciugarsi una lacrima: mentre l'Eracle tragico esperimenta nella propria anima i morsi del dolore, che piega l'uomo più forte e temprato.
Infine, avviene la totale separazione tra i mondi. Il sacro diventa proibito. Se qualcuno compie la follia di fissare gli dèi negli occhi si perde senza rimedio. Con l'Odissea, gli dèi si allontanano, si ritirano, abbandonano la terra: nessuno li vede più nella loro figura, ma soltanto nella loro maschera umana. Quando appare Ulisse, l'eroico si scioglie completamente nell'umano: egli è l'ultimo degli eroi, il primo degli uomini. Non appartiene né al mondo degli dèi, come Achille con la sua mènis, né a quello per metà utopico dei Feaci. Vuole essere uomo: nient'altro che uomo: uomo effimero; sebbene il suo orizzonte sia attraversato dalle lampeggianti rivelazioni divine. Nemmeno noi uomini, che non discendiamo come lui da Ermes, possiamo rinunciarvi. La nostra vera esistenza consiste in questi bagliori, che ci giungono dall'alto.
Come racconta Angelo Brelich in un libro famoso, la luce radiosa o sinistra dell'eccezionale avvolge spesso gli eroi greci. Talvolta sono reietti: figli di amori irregolari, bambini abbandonati, rischiano di venire uccisi appena nati, oppure sono salvati e sopravvivono in modo prodigioso. Alcuni sono segnati, mutilati: zoppi o ciechi, o portano nel corpo l'impronta di una ferita, come Ulisse, o punti vulnerabili, come Achille; oppure la loro mente è visitata da una follia intermittente o continua. Non sono virtuosi. Compiono incesti o parricidi o matricidi o stupri o assassinii: o massacrano i figli. Sempre, o quasi sempre, sono vittime della hybris: si scontrano contro i limiti del destino, della natura o degli altri esseri umani; e lo scontro è così terribile, che ne vengono travolti: travolti dagli altri, ma in primo luogo dalle forze immense che portano dentro se stessi. Tutto, in loro, è eccessivo: passioni, imprese, io, destino. Cercano di realizzare l'impossibile, e talvolta, attraverso strade straordinarie, ci riescono. Così diventano i grandi colpevoli, e debbono venire purificati dagli dèi, che spesso, come Apollo, hanno conosciuto le loro stesse colpe. Nemmeno la loro morte è comune: fulminati, smembrati vivi, inghiottiti dal terreno.
Non tutti gli eroi sono guerrieri, come insegna persino l'Iliade. Tra di essi, ci sono inventori, medici, sciamani indovini, profeti; Palamede inventa le leggi scritte, le lettere, i metri e le misure, il numero, i segnali di fuoco, i dadi, gli scacchi. Alcuni, tra i più venerati, fondano città: vengono da molto lontano, fuggiaschi o esiliati, e portano con sé il ricordo di un delitto compiuto, o il presagio di sciagure nelle quali saranno coinvolti. Appena giunti sulla nuova terra, aboliscono il passato: i criminali diventano prescelti, i perseguitati indossano le vesti dei re; e la terra selvaggia e incolta riceve una legge, un ordine, un'armonia.
Tutti gli eroi greci, senza eccezione, desiderano la gloria, nella quale vedono il solo compimento e la sola giustificazione della loro esistenza terrena. In primo luogo, la ama Achille: con la stessa purezza e intensità con cui la amava Hölderlin. Come a esaudire la sua attesa, l'ultimo libro dell'Odissea gli edifica il supremo monumento. I Greci lo piangono: dal mare vengono la madre e le ninfe marine, gridando: le Nereidi gemono: le nove Muse intonano il lamento, «per diciassette giorni e diciassette notti ininterrottamente»; e la diciottesima notte i Greci lo ardono insieme a pecore e buoi. Achille viene cremato: bagnato di unguento e di miele; le sue ossa sono raccolte nel vino e chiuse in un'anfora insieme a quelle di Patroclo. Infine i Greci innalzano sopra di esse un tumulo nell'Ellesponto:
«perché da lontano fosse visibile agli uomini in mare,
a quanti vivono ora, e a quanti vivranno in futuro».
Come vuole la legge della gloria, il tempo è vinto, l'immortalità conquistata. Eppure Achille, che ama ed esalta la gloria e in apparenza non può fare a meno di lei, denigra la religione della gloria nella quale credono gli eroi greci. «Che peso hanno — dice nell'Iliade ai messi di Agamennone — la gloria, la ricchezza, lo splendore? Ciò che conta è soltanto la vita: questa cosa così fragile e leggera: dura un istante: esce così presto dalla bocca; vale così poco davanti alla forza e alla bellezza degli dèi — ma niente vale la vita. Nulla può pagarla, o sostituirla o farla dimenticare». Questo è il più sublime paradosso della civiltà eroica greca, che Giulio Guidorizzi ha così accortamente fatto rivivere.
Corriere della Sera 1.2.12
Il vicolo cieco del marxismo
Augusto Del Noce denunciò l'approdo nichilista delle ideologie che promettono il paradiso in terra
di Paolo Gheda
Se nell'attuale società post ideologica ha ancora un senso chiamare in causa il pensiero nella formulazione di un progetto politico, la riflessione di Augusto Del Noce, nel suo radicalismo, si potrà amare o detestare, ma non potrà lasciare indifferenti in un mondo assetato di scampoli di verità.
Di lui si sono spesso enfatizzati criticamente i passaggi attraverso diversi fronti culturali, a partire dal Sessantotto, l'ingresso nel mondo accademico con la cattedra romana, il successivo avvicinamento a Comunione e Liberazione e, infine, la stagione parlamentare. Eppure, tali accostamenti potrebbero considerarsi quali articolazioni esperienziali di una visione che, in realtà, si presentava negli anni Cinquanta in sostanza già compiuta.
La sua riflessione è stata infatti attraversata da una domanda di senso ultimo, nel costante confronto con la concezione gramsciana dell'intellettuale organico, procedendo dalla convinzione che l'onesta sequela di una «filosofia cristiana» debba necessariamente condurre alla «politicità» del cristianesimo in quanto tale. La sfida di Del Noce è consistita proprio nell'individuare una via nuova per affermare nella storia, e attraverso la modernità, la verità del cattolicesimo da lui interiormente creduta; un percorso che però a suo avviso non sarebbe dovuto cadere né in atteggiamenti di carattere antiquario-tradizionalista, né all'opposto arrendersi al paradigma razionalista-positivista — allora predominante — accettando di ridurre la fede alla funzione storica descritta dal pensiero materialista. Vi fu in lui la convinzione che il cattolicesimo sia per sua natura chiamato a una testimonianza politica diretta, evitando però di scivolare negli atteggiamenti difensivi del conservatorismo religioso, come pure di contro a seguire una politica solo nominalmente cristiana, che nella enunciazione dei propri principi e nella realizzazione della propria agenda prescinda dalla dimensione trascendente del credere.
L'approccio politico di Del Noce resta comunque quello di un filosofo, come dimostra la sua intensa riflessione volta a recuperare la «radice» del reale, verificando la coerenza delle due strade da lui intese come radicalmente contrapposte, quella immanentistica e quella trascendentalistica: un'indagine che non fu comunque mai fine a se stessa, perché si dirigeva primariamente sulla morale, traducendosi così in un richiamo all'esercizio responsabile del governo.
Il «progetto» del cristianesimo, del resto, era avvertito da Del Noce come opposto a quello della rivoluzione francese: l'esito di quest'ultima starebbe tutto nel tentativo di «fondere» filosofia e politica all'interno della storia, seguendo una parabola che collega Rousseau a Marx; al culmine di questo ribaltamento valoriale si collocherebbe l'elevazione operata da Hegel del pensiero umano a nuovo assoluto, un «Dio sulla terra», per giungere infine alla totale dissoluzione del soggetto profilatasi nell'orizzonte nietzschiano.
L'ateismo intrinsecamente presente in questa posizione sarebbe emerso proprio dalla negazione delle radici cristiane dell'Occidente, opponendovi la lotta di classe teorizzata da Marx, in cui il pensatore cattolico leggeva peraltro una trasposizione ideologica della Redenzione evangelica; in tale prospettiva, l'umanità sarebbe stata liberata dalla storia e nella storia, cancellando l'idea di un Dio creatore, e lasciando però l'uomo solitario e disperato nell'universo.
Nella critica al materialismo storico sta forse il momento più profondo della riflessione delnociana, quando egli afferma che la rivoluzione, culmine di tale processo, sarebbe stata destinata inevitabilmente al fallimento per via di una radicale contraddizione interna. Se il movimento rivoluzionario, nella sua dimensione negativa, aveva tentato di storicizzare il cristianesimo spogliando le sue identità primarie — la famiglia, la proprietà, lo Stato — di ogni valore assoluto, considerandole cioè destinate a essere trasformate e negate dal divenire storico, tale spinta relativizzante sarebbe stata destinata a ritorcersi contro se stessa. Infatti la rivoluzione necessitava di offrire un contributo positivo alla società per potersi affermare, promettendo la realizzazione nella storia di quel «paradiso» che la religione colloca nell'aldilà atemporale, ma tale positività si sarebbe ultimamente dissolta, secondo Del Noce, di fronte alla carica nichilistica rivoluzionaria che nella sua assolutezza avrebbe annullato ogni propria istanza costruttiva, vanificando pertanto la sua «utilità» sociale.
Contro questo profondo «nemico» ideologico, l'immanentismo, Del Noce fu convinto assertore della tesi che proprio l'intelligenza debba guidare l'uomo a superare la sfera dei sensi per riconoscere una verità più larga, quella trascendenza già evocata da Pascal e prospettata in termini di provvidenza storica da Vico. Se allora il suicidio della rivoluzione può considerarsi l'idea centrale del pensatore cattolico è proprio in quanto, lungi dal limitarsi a costituire una riflessione teorica, tale interpretazione lo spinse a rivalutare il significato del cattolicesimo politico e a «discendere in campo» per sostenere la decisività del contributo dei credenti al governo del Paese.
Nelle definizioni di comodo che spesso attraversano l'odierna cultura italiana, Del Noce viene ancor oggi sommariamente inquadrato tra i massimi esponenti dell'«ala destra» del pensiero cattolico. E lo stesso si potrebbe dire, in ambito ecclesiastico, del cardinale Giuseppe Siri: singolarmente, entrambi morirono nel 1989, proprio quando un sistema di contrapposizioni tra due modelli antitetici di interpretazione della società — capitalismo-socialismo — si stava sgretolando come i mattoni del muro di Berlino. Ma a prescindere da ogni riduzione tranchant del suo pensiero, coloro che oggi si impegnano per restituire una posizione influente, magari unitaria, al cattolicesimo politico non potranno eludere la sfida di Del Noce, un intellettuale che fu «organico» solo alla sua fede.
Corriere della Sera 1.2.12
Dal cristianesimo di sinistra alla sintonia con Cl
Domani va in edicola con il «Corriere della Sera» il volume Il suicidio della rivoluzione, che raccoglie alcuni scritti del filosofo Augusto Del Noce (1910-1989) con prefazione di Ernesto Galli della Loggia. In particolare la raccolta comprende una serie di articoli sulla situazione politica italiana dell'immediato dopoguerra e il capitolo finale del libro di Del Noce intitolato appunto Il suicidio della rivoluzione, uscito nel 1978. Si tratta della quattordicesima uscita della collana «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», in vendita ogni giovedì con il «Corriere» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Vicino in gioventù alla sinistra cristiana, da cui sarebbe sorto il movimento dei cattolici comunisti, Del Noce se ne distaccò per avviare una riflessione incentrata sul problema della secolarizzazione e dell'ateismo. Si schierò negli anni Settanta contro la legge sul divorzio e giunse alla conclusione che il neoilluminismo borghese individualista avrebbe contagiato anche i comunisti, fino a togliere a quel partito tutta la sua carica rivoluzionaria. Si avvicinò quindi al movimento di Comunione e Liberazione, del quale apprezzava soprattutto il forte richiamo all'identità religiosa cattolica e la risolutezza nell'affermarla in ogni contesto. La collana si conclude la prossima settimana con la quindicesima uscita: si tratta del libro Passaggi di Vittorio Foa, con prefazione di Corrado Stajano, in edicola con il «Corriere della Sera» giovedì 9 febbraio.