l’Unità 22.1.12
Bersani: «Sostegno a Monti ma senza tacere le nostre idee»
Dal Pd «precisi emendamenti» al decreto. «Il Porcellum? Va abolito»
Bersani chiude l’Assemblea nazionale del Pd ribadendo il sostegno a Monti «senza se, senza ma e senza tacere le nostre idee». Appello al gruppo dirigente: «Basta umore fragile, trasmettiamo serenità e tenuta».
di Simone Collini
Con Monti, senza tacere le nostre idee. Pier Luigi Bersani chiude la prima Assemblea nazionale Pd del post-Berlusconi ribadendo la linea. Se torna sul rapporto tra il suo partito e il governo è perché la lettura che alcuni quotidiani hanno dato della prima giornata di lavori non è piaciuta affatto al segretario dei Democratici. «Io avrei preso le distanze da Monti?», domanda retoricamente dal palco della nuova Fiera di Roma. La richiesta di «fare di più» e di «stringere» i tempi sulle liberalizzazioni resta, perché il timore è che alcune misure entreranno effettivamente a regime solo dopo l’approvazione di decreti presidenziali o nuovi contratti che chissà se e quando arriveranno. E per questo il Pd presenterà «precisi emendamenti» in Parlamento. Ma ciò non vuol dire freddezza: «Siamo a sostegno del governo Monti senza se e senza ma e senza tacere nostre idee».
A FIN DI BENE
Al premier, racconta Bersani, ha promesso «sincerità e trasparenza», oltre a dargli il consiglio di non pensare che chi lo loda di più sia «un amico vero» («spesso l’encomio smisurato che ti fanno è la condizione dell’oltraggio che vogliono fare alla politica»). «Noi diremo la nostra a fin di bene». Perché a creare problemi al governo semmai, sostiene il leader del Pd, è chi fa pressioni per limitare l’impatto reale delle liberalizzazioni o per tener fuori dall’operazione lobby ben precise. Per questo critica la «processione a Palazzo Chigi» che c’è stata la sera prima del Consiglio dei ministri, guidata da Gianni Letta, Massimo Corsaro, Maurizio Gasparri. I prossimi mesi saranno duri anche dal punto di vista della tenuta sociale, è il suo ragionamento, e non si può far pagare tutto il peso della crisi ai soliti noti.
Il Pd è «entusiasta» di quanto deciso dal governo ma vuole «incalzare» perché se non si fa chiarezza e se non si stringono i tempi il rischio è alto. E Bersani lo ribadisce anche dopo che Monti sconsiglia «variazioni». Dice il leader del Pd: «Guai se si scoprisse che i 500 notai in più sono ancora quelli del 2009, se si scoprisse che non c’è più l’equo compenso per i praticanti, che si separa la rete e il gas solo dopo un decreto che dovrebbe arrivare, che quando si mettono a concorso le nuove farmacie un farmacista che ha lavorato in una parafarmacia prende il 70% dei punti di chi ha lavorato nelle farmacie. Cos’è, abbiamo i farmacisti negri?». Bersani rivendica il diritto di intervenire su questo punto (ed è un po’ anche una risposta a certi commentatori che lo hanno criticato per aver chiesto «di più» sulle liberalizzazioni) ricordando che quanto fatto in Italia su questo fronte è tutta opera del centrosinistra. Un centrosinistra che, per dirla con Matteo Colaninno, domani dovrà governare «non più per interposta persona».
SOLIDARIETÀ E BASTA UMORE FRAGILE
Per Bersani l’«orizzonte» rimangono le prossime elezioni e un «patto di legislatura» tra forze progressiste e moderate «per la ricostruzione». E passata l’emergenza, la responsabilità maggiore spetterà a quello che oggi è il primo partito, che deve essere orgoglioso di quanto «seminato» e di quanto «può raccogliere». «Togliamoci un difettuccio che è la fragilità d’umore è l’esortazione che lancia al gruppo dirigente dobbiamo trasmettere un minimo di serenità, di tenuta, perché noi siamo non solo un partito ma un’idea di democrazia, noi siamo la politica possibile di domani, e nonostante i nostri difetti dobbiamo trasmettere solidità e fiducia, anche mettendo a frutto un’accresciuta solidarietà fra noi».
IL DIRITTO ALLA BIRRA
Chiusi i lavori, il commento di Bersani è positivo, anche se c’è chi parla di assemblea poco partecipata (c’è anche chi nota che anche questa volta Matteo Renzi non si sia fatto vedere) e di scarso entusiasmo. «È stata una bella discussione.
Quando non ci sono di mezzo posizionamenti riusciamo ad essere un gruppo dirigente. È stata un’assemblea senza lazzi, frizzi, ricchi premi e cotillon. Qui non facciamo comizi né cabaret, si discute per dare la strada giusta a un grande partito». L’unica battuta che si concede è sull’ormai famosa “foto con birra”: «In nome della comune umanità degli uomini e delle donne, anche di quelli che fan politica, non mi rassegno all’idea che si possa bere una birra in pace. L’importante è dire che la birra l’ho pagata, con lo scontrino».
l’Unità 22.1.12
Intervista a Susanna Camusso
«Vogliono fare i liberisti colpendo il costo del lavoro»
Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei servizi pubblici
Si torni a parlare sul serio di occupazione»
di Oreste Pivetta
Che cosa chiederete al governo? Susanna Camusso, segretario della Cgil, “accantona” un attimo il tema liberalizzazioni e riprende la questione del lavoro che non c’è: «Chiederemo al governo di operare perché venga ripristinata una condizione in cui i giovani e i cinquantenni lasciati a casa dalle loro aziende in crisi non siano costretti a imboccare la via crucis della precarietà. L’abbiamo detto tante volte: rimettere al centro il lavoro».
Le liberalizzazioni non creeranno appunto lavoro?
«Intanto bisognerebbe conoscere il testo. Intanto andrebbero ridimensionati certi entusiasmi. L’enfasi mi sembra eccessiva. Non credo che liberalizzando si dia via libera a quell’aumento pronosticato dei salari del dodici per cento. Magari diminuirà qualche prezzo. Non credo neppure a certi automatismi, che prometterebbero aumento dell’occupazione, anche se ovviamente c’è del buono nel decreto legge. Un esempio? La separazione tra il soggetto che fornisce il gas e quello che gestisce la rete distributiva».
Il cattivo sta forse nell’ennesimo attacco al contratto nazionale, questa volta quello dei ferrovieri, con l’idea di favorire la concorrenza?
«Quando si parla di Ferrovie o di Poste bisognerebbe sempre pensare che si tratta di servizi pubblici, che devono quindi rispondere alle necessità della collettività, necessità che nel caso dei treni si chiamano mobilità, economicità, sicurezza. Da qualsiasi luogo, per qualsiasi luogo. Smobilitare il contratto nazionale ha un senso allora? Non c’è il rischio di peggiorare tutto? Vogliamo costruire una concorrenza che concorre solo agendo sulla voce costo del lavoro? Non mi sembrerebbe un gran segnale. Proviamo a prendere consiglio da chi con le liberalizzazioni e con le privatizzazioni s’è sperimentato prima di noi. E non certo con risultati brillanti».
Ma i privati come li mobilitiamo?
«Il governo dovrebbe chiamare i venti più importanti attori dell’economia italiana, chiedere loro che strategie si danno, chiedere loro progetti concreti, proporsi con autorevolezza per discuterli e, se sono validi, per agevolarli, secondarli, contribuire. Non si tratta di dare quattrini. Si tratta di garantire condizioni favorevoli, di coordinare. E in primo luogo chiamare alla responsabilità davanti a un Paese in crisi: chi può, faccia. Ovviamente se è capace...».
Le agenzie di stampa hanno riferito una sua affermazione: «Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai». Conferma?
«Come può capitare, s’è colta una battuta sottraendola al suo contesto. Torno all’osservazione di prima: eccesso di entusiasmo. Le liberalizzazioni non sono tutto e qualche volta sono sbagliate».
Si riferiva agli orari dei negozi, ai taxi?
«In un caso bisognerebbe pensare alla qualità della vita in Italia, piuttosto che sognare l’America, consentire la vita a una rete commerciale che significa anche socialità e non consegnare tutto alla grande distribuzione, valutando i costi sociali non solo economici di aperture lunghe, che costringerebbero probabilmente molti a rivalersi sui prezzi oppure a chiudere. A danno dei cittadini, comunque, di una cultura, di una tradizione che non sono sempre da buttare. Per quanto riguarda i taxi, riflettiamo sulle origini: in partenza ci sono le licenze, non possiamo pensare di cancellare di colpo quell’investimento. Magari le resistenze appaiono eccessive. Bisogna discutere per raggiungere un punto di equilibrio. In primo piano dovrebbero stare i bisogni reali. Altrimenti si fa solo vecchia ideologia».
Liberista: come nel caso delle municipalizzate?
«Certo, perché alla fine si trascura quello che dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale: l’efficienza e quindi la bontà del servizio. Aggiungo che in alcuni casi, come quello delle farmacie, siamo solo ad un ampliamento della base. Ci saremmo attesi altre novità».
Dunque altro che “albero scosso”, bell’Italia dell’immagine dell’Italia che cambia. Domani il tavolo sulle questioni del lavoro. Lei raccomanda di non aver fretta...
«Di non aver la fretta con la quale si è chiuso il capitolo delle pensioni, capitolo che non riteniamo assolutamente chiuso, perché troppe ingiustizie sono rimaste e in particolare è rimasta quella ingiustizia che colpisce appunto quella generazione di ultracinquantenni che ha risposto ad una crisi aziendale progettando un altro futuro con le carte in regola per la pensione entro pochi mesi o anni e che si è vista cancellare un diritto acquisito. Più in generale la garanzia di una vecchiaia decente riguarda l’intera società. Quindi credo che la discussione sulle pensioni vada ripresa con grande serietà. Qui parlerei anche di flessibilità».
Che cosa vi aspettate che vi dica il professor Monti?
«Il governo finora non ci ha detto nulla. In compenso ha letto di sicuro il documento di Cgil Cisl e Uil, in cui si chiedono investimenti per creare l’occupazione, che non cresce smobilitando le regole. Abbiamo apprezzato che siano stati sbloccati investimenti, abbiamo apprezzato l’attenzione sul Mezzogiorno. Abbiamo apprezzato molto quanto è stato realizzato nella lotta all’evasione. Ma vorremmo che questa volontà s’applicasse anche nei confronti del lavoro sommerso».
Altra “voce”, di cui molto si è discusso, anche nel Partito democratico: gli ammortizzatori sociali. Si andrà a un cambiamento?
«Siamo in un Paese in recessione e dobbiamo rispondere all’emergenza. Non ci sono soldi per grandi riforme, per modelli danesi o altro. La cassa integrazione è peraltro un istituto di grande valore, anche ideale: è nata per mantenere un legame tra lavoratore e posto di lavoro. Il dovere è di garantirla a chi ne è privo. Prima di parlare d’altro».
il Fatto 22.1.12
Il licenziamento invisibile
di Silvia Truzzi
Certo che ti assumo. E non con un co.co.co. Con un contratto vero, sicuro, a tempo indeterminato: un sogno. Prima però ci sarebbe una cosetta, una formalità. Un’altra firmetta. Sulle dimissioni in bianco. Un auto-licenziamento? Un martirio volontario? No, no. Molto di più, molto peggio: un ricatto che costringe chi ha bisogno di uno stipendio a consegnarsi mani e piedi al datore di lavoro. Il quale nove volte su dieci naturalmente non è San Francesco, altrimenti quella letterina non si sarebbe mai sognato di proporla. Così un esercito di Bob Cratchit (l’impiegato maltrattato del “Canto di Natale” Dickens) aspetta invano, nell’Italia del XXI secolo, una conversione dei propri padroni. Siccome però la realtà è piuttosto lontana dai romanzi e non è il caso di affidarsi agli spiriti, sarà bene che il governo tecnico, tecnicamente si adoperi in fretta per abolire quest’orribile consuetudine. L’Istat ha svelato che fra il 2008 e il 2009 sono state licenziate con questo sistema 800mila persone. Il 15 per cento degli assunti a tempo indeterminato ha tra le mani un contratto “corretto” (o meglio, corrotto) dalle dimissioni in bianco. Trattandosi di una pratica illegale, i dati sono chiaramente approssimativi. E a guardarli bene, svelano una realtà ancora più feroce che costringe le donne a scegliere tra il lavoro e la maternità: i casi di dimissioni forzate riguardano il 13,1% delle donne nate dopo il 1973, percentuale che scende in maniera inversamente proporzionale all’età della lavoratrice. Fino ad arrivare al 6,8% per le assunte nate tra il 1944 e il 1953. Il licenziamento estorto riguarda, nel 90% dei casi, donne che hanno appena avuto un figlio. Per fortuna viviamo in un paese cattolico dove la “famiglia” è al centro dell’attenzione quando si parla di etica e valori, un po’ meno se si stratta di diritti. La morale di questa disgustosa prassi è: se vuoi lavorare non fare un bambino. E cerca anche di non ammalarti troppo, di ubbidire, di non creare problemi: altrimenti, basta solo mettere una data su un foglio già firmato. Il governo Prodi aveva approvato una legge intelligente (la 188 del 17 ottobre 2007) che imponeva per le dimissioni volontarie un modulo con numeri progressivi e una scadenza di quindici giorni. Con questo semplice accorgimento, il sistema delle dimissioni in bianco firmate contestualmente all’assunzione veniva neutralizzato. Naturalmente, appena tornato a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi (primo onorevole atto del ministro Sacconi) si è precipitato ad abrogare la norma che dava tutela ai lavoratori più esposti. Il provvedimento (ma come abbiamo fatto a tenerci un governo così?) s’intitolava “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica”. Come se la possibilità di cacciare su due piedi una dipendente incinta, fosse utile allo sviluppo economico o alla competitività dell’Italia. In questi giorni blog e social network chiedono il ripristino della legge 188. E anche il partito democratico, bisogna dirlo, si sta muovendo. Il ministro Fornero, interpellata dai sindacati, ha promesso che si occuperà urgentemente della questione, già nell’agenda dell’esecutivo Monti. Ci crediamo: si mise a piangere pronunciando la parola “sacrifici” durante una famosa conferenza stampa. E certo scegliere tra un figlio e il lavoro rientra a pieno titolo nella categoria “sacrifici”. Aspettiamo con fiducia, ministro.
Repubblica 22.1.12
Un New Deal per il lavoro
di Luciano Gallino
Ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L´altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro. Rientrano palesemente nella prima le misure predisposte dal governo che sono entrate in vigore a gennaio.
La più rilevante sta nell´articolo 2: prevede, per le imprese che assumono a tempo indeterminato giovani sotto i 35 anni, una deduzione Irap di 10.600 euro per ogni neo assunto, aumentata della metà per le imprese del Meridione.
C´è una obiezione di fondo alle misure del governo: le politiche fiscali presentano una serie di inconvenienti che ne limitano molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare più utile creare occupazione. Un nuovo assunto è un disoccupato in meno, però sarebbe meglio per l´economia se l´assunzione riguardasse un centro di ricerca invece che un fast food, scelta che non si può fare con incentivi del genere. In secondo luogo bisognerà vedere se le imprese aumentano realmente il personale grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, oppure se ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto. Un´impresa che sa di fruire entro l´anno fiscale di uno sgravio di imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno; con il risultato che, ove decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte di 7 milioni di disoccupati e male occupati in attesa.
Veniamo alla seconda strada. Dagli Usa provengono due casi che attestano, da un lato, la scarsa efficacia delle politiche fiscali per creare occupazione; dall´altro, il ritorno dell´idea che il modo migliore per farlo consiste nel creare direttamente posti di lavoro. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere. Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni, mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la disoccupazione avrebbe toccato al massimo l´8% a metà 2009 per scendere presto al 7. In realtà i posti di lavoro persi dopo l´entrata in vigore della legge hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato il 10%.
Forse scottato dall´insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti "per creare posti di lavoro adesso" (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.
Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l´anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un´alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l´idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un´Agenzia per l´occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l´impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.
La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l´uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l´anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l´idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull´idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all´economia decine di miliardi l´anno. John M. Keynes - al quale risale l´idea di un simile intervento - diceva che l´essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l´ingegno, i mezzi li trova.
l’Unità 22.1.12
Capitalismo in crisi /1
«L’Italia è ferma da 20 anni, si torni all’economia mista»
Parla lo storico dell’industria: «Ovunque si discute di intervento pubblico Pure Marchionne senza i soldi della Casa Bianca avrebbe potuto ben poco»
di Rinaldo Gianola
Le stagioni migliori del capitalismo italiano, del nostro sviluppo, hanno sempre visto l’intervento e la presenza strategica dello Stato accanto alla mobilitazione delle imprese private. Questo modello ha accompagnato la crescita del Paese, non senza problemi e contraddizioni, ed è stato abbandonato vent’anni fa assieme alla distruzione del sistema politico della Prima Repubblica. Bisognerebbe fare una valutazione storica profonda su questa esperienza, sulle cause della crisi, sul ridimensionamento della grande industria e sulla possibilità di recuperare, aggiornato, quel modello».
Giuseppe Berta, storico dell’industria, già responsabile dell’Archivio Fiat, docente all’Università Bocconi, interviene nella discussione aperta dall’Unità sulla crisi del capitalismo concentrandosi sulle difficoltà del nostro sistema, sui ritardi anche culturali delle imprese, sulla carenza di leadership e sul ruolo dello Stato e della politica. Professor Berta, in che condizioni si trova il capitalismo italiano?
«Vorrei usare l’esempio della corsa alla presidenza della Confindustria per spiegare i mutamenti del nostro sistema. I candidati in pole position sono Squinzi e Bombassei, due industriali di medie imprese, diventate grandi in nicchie importanti di mercato. Due lombardi simili, noti nel giro degli addetti ai lavori ma certo non popolari nell’opinione pubblica. Difficile trovare rilevanti differenze: Squinzi si muove più nel solco della continuità con la presidenza Marcegaglia, Bombassei potrebbe invece modificare la rotta. Ma non ci sono rivoluzioni in vista. In più, caduto Berlusconi, è venuto meno il vincolo politico e per la prima volta non c’è la Fiat». Dove vuole arrivare?
«Voglio dire che siamo di fronte alla progressiva scomparsa delle grandi imprese in Italia, quelle che una volta stabilivano le regole, indicavano le linee di sviluppo, facevano pesare i loro interessi e le loro fabbriche. Il capitalismo industriale ha abdicato o è scappato, bisogna distinguere i casi, ma non esiste più come lo abbiamo conosciuto. Saranno contenti gli amici di Mediobanca guidati dal dottor Coltorti che da tempo studiano questo fenomeno. È un cambiamento epocale che ci impone alcune domande. Con questa architettura industriale il Paese regge? Con imprese brillanti ma fragili ce la possiamo fare?». Si dice che la proliferazione delle piccole imprese è un segno di vitalità.
«Certo. Il problema è che non ci sono quelle grandi. E bisogna stare attenti quando si parla di dinamismo. Sto terminando una ricerca per conto delle Camere di commercio di Milano e Torino sulle modifiche del tessuto economico sull’asse delle due capitali dell’industrializzazione del Paese. Uno dei dati che emerge è che la dimensione delle imprese è sempre più piccola, c’è una polverizzazione del tessuto economico. Ma il fenomeno non è un sintomo di una nuova stagione di sviluppo. I nuovi imprenditori sono oggi ex operai o impiegati che sono stati licenziati e che non trovano un altro posto e quindi s’inventano l’aziendina».
Proposte?
«Dobbiamo far crescere le medie imprese, dobbiamo farle diventare protagoniste assolute sui mercati. Dobbiamo riprendere il comando in qualche settore. È necessario che Mapei, Brembo, Zegna, Carbonato e gli altri diventino più forti, che facciano il lavoro di innovazione, investimento, ricerca, anche di confronto con la politica e il governo che una volta svolgevano le grandi imprese».
Qual è il limite del capitalismo italiano? Familismo? Paura? Mancanza di leadership? Assenza del sistema?
«I problemi sono diversi. Prendiamo un’impresa eccellente come la Ferrero. Ha sei miliardi di euro di ricavi. Ci sembrano tanti se guardiamo ad Alba, ma non sono nulla se li confrontiamo con i 93 miliardi di Nestlè. Ferrero avrebbe potuto conquistare la britannica Cadbury oppure prendersi Parmalat. Ma non lo ha fatto, ci hanno pensato altri concorrenti internazionali. Ferrero è grande, forte, ma fino a quando potrà resistere? Oggi in Italia arriva un investitore russo e si compra la Gancia, una piccola azienda ma con una lunga storia, senza opposizioni. Non riusciamo a difendere nulla».
Da tempo l’Azienda Italia non è una fortezza e chi osa difendere l’italianità passa per matto...
«Un conto è l’internazionalizzazione delle imprese, un altro è subire l’egemonia dei francesi nel lusso e nella moda dove eravamo noi a dettare legge. È assurdo perdere un primato come quello che avevamo nella moda o nell’agroalimentare. C’è poco da essere ottimisti. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso la Montedison, l’Olivetti, c’è stato un ridimensionamento della Pirelli. E la tendenza generale del nostro capitalismo industriale è quella di diventare più piccolo. Così non andiamo lontano».
Come ne usciamo?
«Dobbiamo ripensare il nostro modello economico. L’Italia è cresciuta, si è sviluppata, quando si è affidata a quella formula mista di interventi dello Stato e di mobilitazione di energie private. Così siamo diventati un grande paese industriale. Il matrimonio pubblico-privato, con tutti i suoi difetti e patologie, ha segnato le migliori stagioni della nostra economia».
Quando è morto questo sistema?
«Vent’anni fa. Gli anni 90 hanno visto la crisi dei grandi gruppi industriali, la fine di quell’economia mista che aveva caratterizzato il dopoguerra, il crollo della classe politica della Prima Repubblica. Mani pulite denunciò i gravi fenomeni di commistione tra politica e impresa, la degenerazione dei rapporti tra pubblico e privato. Non si poteva andare avanti così. Ma da storico mi pongo il problema di capire come mai da vent’anni questo Paese non cresce più, perde posizioni, non produce nuovi leader imprenditoriali di livello mondiale».
Come possiamo ripensare il ruolo dello Stato in economia? Da noi è un argomento tabù.
«In tutto il mondo si discute dell’intervento pubblico. Lo Stato ha salvato banche, assicurazioni e anche Wall Street in questi anni. Il premio Nobel Paul Krugman, sul suo blog, sta dicendo che il debito pubblico non è un vincolo terribile, che si deve pensare anche al patrimonio, alle attività che ogni Paese indebitato possiede. La questione dell’intervento pubblico è centrale. Personaggi come Valletta, Olivetti e Mattei avevano ben chiara la loro missione imprenditoriale e quali interessi tutelare, ma nessuno di loro si è mai sognato di sminuire il ruolo della politica e di fare a meno dello Stato. Ezio Vanoni propugnava la cooperazione virtuosa tra lo Stato e le forze private dell’impresa».
Ma oggi lo Stato, i partiti sono osteggiati. Vanno forte i liberisti della “mano invisibile” che risolve tutto o manager come Sergio Marchionne che sbatte la porta. «Marchionne è il simbolo del successo dello Stato in economia. Ha potuto fare quello che ha fatto alla Chrysler perché la Casa Bianca gli ha concesso i soldi. Chrysler è viva perché ci sono Obama e i sindacati. Se avessero vinto i repubblicani la Chrysler sarebbe già morta e sarebbe morta pure la General Motors perché in campagna elettorale volevano abbattere le fabbriche fallite di Detroit. Questa è la realtà».
Forse l’Europa ci può spingere a cambiare?
«Non ci giurerei. Guido Carli ripeteva che solo il vincolo esterno avrebbe potuto salvarci dai nostri difetti e dai nostri ritardi. Non era vero. Nessun vincolo esterno può funzionare se la volontà di cambiamento non viene interiorizzata dal Paese».
Per la verità anche Mario Monti richiama il vincolo esterno come motore del cambiamento.
«Vedremo. Le liberalizzazioni ci faranno cambiare? Certo un po’ di concorrenza fa bene, è una ricetta che, in linea teorica, funziona per tutti. Però non vedo una specificità italiana in questa manovra».
l’Unità 22.1.12
Capitalismo in crisi /2
Turbo-liberisti senza benzina
Ormai c’è evidenza statistica: i sei Paesi europei con il Pil più alto sono quelli dove c’è più equità
di Nicola Cacace
Nel dibattito sulla crisi emergono con chiarezza i due principali fattori che l’hanno determinata, gli eccessi della finanza che hanno drogato un’economia basata su consumi e debiti, un calo della domanda da grandi diseguaglianze.
La svolta della crisi è datata anni 80, con la vittoria della filosofia iperliberista avviata da Reagan e Thatcher. Tra i primi a denunciare i pericoli del nuovo corso va ricordato uno studioso non di sinistra, Edward Luttwak, che nel suo Turbo-Capitalism (1998) avvertiva: «Lo chiamano libero mercato ma io lo definisco turbo capitalismo perché del tutto diverso dal capitalismo controllato che ha prosperato sino agli anni Ottanta... Ciò che i profeti del turbocapitalismo predicano è che l’impresa privata sia completamente liberata da regolamentazioni governative, senza intromissioni da parte dei sindacati e senza precisare nulla sulla distribuzione della ricchezza. Permettere al turbo capitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élite di vincitori e masse di perdenti». E oggi, quando tutti parlano di crescita oltre al rigore, dobbiamo ripensare una crescita ispirata alla qualità più che alla quantità, perché «crescere diversamente significa tentare di creare nuove condizioni ispirate a nuovi valori, in cui l’acquisizione quantitativa non esaurisce l’intera esperienza umana» (Mauro Magatti).
Per uscire dalla teoria, faccio alcuni casi concreti: l’eguaglianza, la produttività, la centralità del valore lavoro, i tempi di lavoro e di vita, le delocalizzazioni. C’è evidenza statistica che l’eguaglianza è anche fattore di crescita. I sei Paesi europei a minor diseguaglianza, Germania, Olanda e i quattro Paesi scandinavi, sono i Paesi europei a più alto Pil procapite. Da anni la produttività in Italia non cresce (al pari del Pil), rispetto al 2 per cento l’anno medio di crescita in Europa. Come dimostrato anche dai ricalcoli Istat sull’export, la produttività cresce quando la qualità migliora. E più qualità si ottiene con più formazione da lavoro stabile, più istruzione, ricerca e sviluppo e soprattutto con misure di politica economica che stimolino l’innovazione. Nel periodo della ricostruzione post-bellica il valore è stato riconosciuto nell’obiettivo ricostruzione e nella centralità del lavoro. Chi non ricorda il Piano del lavoro Cgil di Di Vittorio?
A partire dagli anni 80 il consumo e l’arricchimento individuale hanno dominato, e ciò è dimostrato anche dai diversi andamenti dei tempi di lavoro e di vita. Mentre prima la settimana lavorativa si era accorciata da 48 a 40 ore, successivamente il trend si è invertito, gli orari sono aumentati. Grazie (purtroppo) alla defiscalizzazione degli straordinari oggi in Europa l’Italia è, con la Grecia, il paese col tasso di occupazione più basso e gli orari più lunghi. A differenza di Germania ed Olanda orari più corti e occupazione massima che, giocando su riduzioni di orario e contratti di solidarietà, hanno aumentato l’occupazione anche in presenza di Pil negativo.
Le delocalizzazioni non sono sempre da condannare, la «distruzione creatrice» è necessaria in periodi di veloci cambiamenti. Sono però da condannare le delocalizzazioni decise non per perdite di bilancio ma per puro obiettivo di massimizzazione dei profitti, come hanno fatto Omsa e molte altre imprese. Un capitalismo moderno è anche quello dove le imprese tengono conto degli interessi di tutti gli stakeholder. Perciò il nuovo modello di sviluppo deve puntare sulla qualità, non solo dei prodotti e dei servizi ma anche delle imprese e favorire quelle che, al pari delle cooperative, sono attente agli interessi intergenerazionali di tutti i fattori, lavoratori, azionisti, territorio, ambiente.
l’Unità 22.1.12
Cambiare il Porcellum è la priorità, poi si parlerà di primarie
Alla Fiera di Roma il confronto su riforma e candidature Finocchiaro: no a competizione interna a ridosso del voto Franceschini: cambiare sistema elettorale, più proporzionale
di Maria Zegarelli
L’Europa, certo, e poi l’appoggio al governo Monti, «senza se e senza ma» come dice il segretario Pd, eppure è soprattutto un altro il tema che tiene banco in questa seconda e conclusiva giornata di Assemblea nazionale dei democratici: la legge elettorale, con relativo strascico polemico sulle battute finali. Tutti d’accordo su un punto: la riforma per mandare in soffitta il Porcellum è prioritaria, irrinunciabile, vitale per il futuro assetto politico.
La polemica nasce su altro: se discutere ora delle primarie per scegliere i candidati nel caso in cui naufragasse nel mare dei veti incrociati il tentativo di cambiare la legge elettorale. Sarebbe come dare per persa la battaglia prima ancora di iniziarla.
Ma c’è un’altra preoccupazione che aleggia. La palesa Anna Finocchiaro durante il suo intervento: quanto rischioso potrebbe essere per il Pd andare ad una competizione interna in tutta Italia proprio a ridosso delle elezioni politiche. Rischio altissimo, proprio ora che il partito rivendica una insolita unità e un prezioso pluralismo, entrambi riconosciuti anche da Giorgio Tonini, veltroniano doc, spesso critico con i vertici del Nazareno. «Sarei molto preoccupata di dover effettuare le primarie in tutta Italia prima della campagna elettorale, avrebbero un costo troppo alto e non solo economico», dice raccogliendo un applauso la capogruppo Pd al Senato. Per questo l’obiettivo deve essere quello di portare a casa la riforma, possibilmente «un sistema più proporzionale», come dice il presidente dei deputati Dario Franceschini, «senza per questo rinnegare il passato».
La polemica nasce quando Salvatore Vassallo e Pippo Civati presentano un odg per decidere il regolamento delle primarie e la presidente Rosy Bindi, in sintonia con Bersani, decide di non metterlo ai voti. Nel mezzo della decisione, Nico Stumpo, statuto Pd alla mano, sostiene che comunque non si potrebbe votare, come dimostra l’articolo 19.
Spetta a Bindi spiegare. Il voto, dice, non serve perché l’Assemblea ha «assunto» l’impegno di modificare la legge elettorale. «Pro-tempore faccio il segretario e se ho detto che do per assunta la cosa, è così», scandisce Bersani, ribadendo che «nella malaugurata ipotesi che si arrivasse a votare con la legge attuale noi faremo le primarie per i parlamentari». E Civati, fischiato per aver detto che in sala non erano presenti più di 200 persone, commenta che in questo partito «non si vuole mai arrivare al voto, ma se il segretario dice “fidatevi di me”, noi cosa dobbiamo fare?».
«Non parliamo di primarie dice Franco Marini altrimenti diamo per scontato che falliremo nel cambiare la legge. Noi dobbiamo farlo per gli italiani. Il Porcellum è una legge contro la Costituzione». Priorità assoluta, insiste Franceschini, «noi pensiamo che una conferenza dei capigruppo congiunta di Camera e Senato possa servire a registrare se c’è un'intesa politica per cui il Senato fa le riforme istituzionali e la Camera quella elettorale».
Un sistema «più proporzionale», propone, e se è vero che il «Pd sopravvive con qualunque legge elettorale», bene sarebbe che si presentasse «con il proprio simbolo, in un sistema con i collegi uninominali e non con le preferenze che portano sprechi e corruzione». Dunque, il mandato è questo: riforma subito. Anche perché se così non fosse sotto elezioni, avverte Bersani, tornerebbe «l’indignazione per una legge elettorale devastante». Apre l’Idv purché non ci siano «giochi al ribasso o agli egoismi di bottega di questo o quel partito, ma ecco Fabrizio Cicchitto dal Pdl che stoppa i propositi del Pd: «Prima le riforme istituzionali», poi il resto.
Repubblica 22.1.12
Pd, salta il voto sulle primarie nuovo rilancio sul proporzionale
Bersani: cambiare il Porcellum, se no consultazioni
Ritirato l’ordine del giorno che introduceva il voto sui candidati al Parlamento
Sulla riforma elettorale restano divisioni, nel partito si avvia un tavolo di confronto
di Giovanna Casadio
ROMA - L´idea delle primarie per i parlamentari salta, se ne riparlerà in seguito. Ma quando accadrà, sarà una cattiva giornata: sarà il segnale che il Pd è stato sconfitto e la legge porcata non si è riusciti a cambiarla. Sulle primarie ci sono momenti di tensione all´assemblea nazionale del Pd. Pippo Civati e Salvatore Vassallo, che fino alla fine hanno insistito, ritirano l´ordine del giorno pro primarie. «E come avremmo potuto fare diversamente, dal momento che Bersani ha posto la fiducia su di sé, e ha dato la sua parola che non resterà lettera morta?», si sfoga Civati. E infatti Bersani s´impunta: «Perbacco, sono il segretario, sia pure pro tempore, se assumo l´impegno che quelle primarie le facciamo nel caso in cui non si riuscisse a cancellare il Porcellum, è così. Però chiedo: se nell´altro giro, avessimo fatto le primarie, con Berlusconi che vince e porta in Parlamento i nominati, in che cosa sarebbe cambiato il destino dell´Italia?».
L´assemblea è alla sua prima convocazione nell´era del governo Monti. Dal febbraio 2011, i delegati democratici non si riuniscono, Berlusconi è il passato, «l´incubo», lo chiama D´Alema. Però non ci sono «frizzi, lazzi, e cotillon ma una discussione pacata», come sintetizza il segretario. Preoccupata soprattutto, nell´inverno "caldo" che aspetta il paese, di sostenere Monti e al tempo stesso di non perdere l´anima. Civati, accettando di soprassedere, attacca: «Oltretutto con un´assemblea di così poche persone...». Contestazioni, qualche fischio. D´Alema si avvicina a Franceschini con la fotocopia di un quotidiano pugliese in cui si parla di infiltrati nelle primarie del centrosinistra a Lecce. Però tutto resta «nel solco». Lo rivendica il segretario. Il solco è due cose: «Appoggio a Monti "senza se e senza ma" e anche senza tacere sulle nostre idee»; pancia a terra per la legge elettorale. La riforma del Porcellum viene prima «delle nostre "robine". E quindi noi ci puntiamo con ogni mezzo». D´Alema è in platea e ha ribadito che «le riforme costituzionali sono necessarie, mentre la legge elettorale è un obbligo morale». Invece di «contare i minuti al governo Monti, la politica usi quest´anno e mezzo per riscrivere le regole del gioco», dichiarerà poi Veltroni.
I tempi? Brevissimi. Bastano tre mesi per Enrico Letta. Franco Marini alza i toni, ma si prende anche gli applausi: «Il Porcellum è il distillato del metodo anti democratico, se non si riesce a cambiarlo, significa che il discredito della politica è assoluto». Le primarie? Ora non c´entrano. Adesso si tratta di vedere le carte di Alfano, Casini, ma anche Bossi e Di Pietro. Franceschini, il presidente dei deputati pd, è già andato avanti con il lavoro. Annuncia la svolta proporzionale del partito e chiede una conferenza congiunta dei capigruppo: «Il Pd sopravvive a qualsiasi sistema elettorale; si vada senza timori verso un sistema proporzionale di collegi uninominali, no alle preferenze che portano corruzione, e il Pd correrà con un proprio simbolo». Il veltroniano Tonini gli dà l´alt in nome del bipolarismo. Franceschini lo invita al tavolo che il Pd ha creato per trovare la quadra nel partito. Contatti già ci sono stati con il Pdl. Inciuci? No, basta fare in fretta. Per le riforme istituzionali invece ci si può prendere più tempo.
Con franchezza Anna Finocchiaro afferma che le primarie dei parlamentari la preoccupano: bisogna investire tutto sulla legge elettorale. Rosy Bindi rinvia alla direzione. La legge elettorale si trascina il tema delle alleanze e della premiership. Vendola, che oggi riunisce Sel, commenta: «C´è un rilancio dell´alleanza del centrosinistra». Per Enzo Bianco invece si guarda ai moderati. Bersani dice di avere parlato chiaro. Su tutto - ironizza -«nonostante la birra» (la foto impazzava su twitter): «L´ho pagata e ho anche lo scontrino».
...ma Nichi “gesucristo-moscacocchiera” Vendola non è d’accordo...
La Stampa 22.1.12
Vendola: legge elettorale? Ora non si può cambiare
Il leader Sel: questo Parlamento non ha voglia né titoli morali
intervista di Riccardo Barenghi
Pensa che questo Parlamento non abbia «né la voglia né i titoli morali» per cambiare la legge elettorale. Sottolinea il cambiamento di stile dell’attuale governo rispetto a quello di Berlusconi, la capacità di ascolto da parte dei ministri che non si comportano come i loro predecessori in «modo gaglioffo o sadico», ma sul piano politico Nichi Vendola non è tenero verso Monti.
Neanche le liberalizzazioni le sono piaciute?
«E’ la montagna che ha partorito il classico topolino. Direi che si tratta di un provvedimento positivo soprattutto per le cose che non ci sono ma che erano state minacciate, tipo la possibilità di trivellare liberamente il mare o la privatizzazione dell’acqua malgrado il referendum. Mancano poi interventi seri nei confronti di coloro che ipotecano la nostra economia, le banche e le assicurazioni».
Quasi tutti i partiti applaudono.
«Io penso che le lenzuolate di Bersani all’epoca del governo Prodi fossero liberalizzazioni molto più corpose e radicali, oggi vedo provvedimenti modesti accompagnati da un’enfasi propagandistica che mi ricorda il nostro recente passato. Tuttavia qualcosa di positivo c’è sulle farmacie e i notai. Ma si può fare molto di più e soprattutto colpire molto più in alto».
E il suo giudizio complessivo sul governo attuale?
«Al netto dello stile che apprezzo, penso che Monti rappresenti la più onesta, alta e illuminata variante di un’Europa che sta morendo. Nella corsa affannosa verso il pareggio di bilancio viene schiacciata l’erba buona dei diritti sociali, vengono calpestati sentieri delicati come il welfare. Per salvare l’euro rischiamo di distruggere l’Europa».
Un’opera sostenuta però dal suo principale alleato del futuro, il Pd. Sarà ancora possibile una coalizione con Bersani e Di Pietro?
«Oggi alla nostra assemblea nazionale che si svolge a Roma dirò che la politica deve uscire da questa sorta di astinenza che si è autoimposta. Io sostengo il primato della politica sulla tecnica. Ai soggetti politici con i quali vorrei allearmi dico che la crisi è figlia della destra mondiale. E che di conseguenza non esiste una via d’uscita che non passi per un programma di sinistra. Ho definito la scelta del Pd di sostenere il governo Monti un atto di generosità, ma ora è il momento di indicare una prospettiva politica, elettorale e di governo. Ho apprezzato il fatto che Bersani abbia riparlato di centrosinistra, seppur mettendolo dentro un’alleanza tra progressisti e moderati. Vorrei che si camminasse in quella direzione piuttosto che celebrare l’autoabolizione della sinistra. Quando sento Enrico letta sostenere che il governo Monti è la nostra primavera, allora non so più cosa pensare. Mi conforta il fatto che il popolo di centrosinistra non sia affatto d’accordo con Letta».
Però nel Pd non sono pochi quelli che vorrebbero mollare lei e Di Pietro per allearsi con il Terzo Polo inglobando Monti e qualche suo ministro.
«Proprio per questo lavoro per evitare una prospettiva che considero letale per la sinistra. In ogni caso, il Pd deve sapere che se scegliesse la strada della primavera tecnocratica, rompendo con Sel e l’Idv, noi non ci rinchiuderemmo in un recinto identitario ed estremistico, non faremmo una nuova Rifondazione comunista. Al contrario tenteremmo di costruire un’alternativa di sinistra, politica e di governo, sfidando il
Pd e contando sui loro elettori. I quali, ne sono sicuro, sarebbero molto interessati a questa prospettiva».
Ma lei pensa sul serio che se voi andaste al governo col Pd e Di Pietro riuscireste a invertire la rotta del mondo occidentale? Bertinotti sostiene che non c’è alcuna possibilità di «rompere il recinto liberista».
«Io, al contrario di Fausto, penso invece che dobbiamo provarci. Condivido la sua analisi ma sono convinto che la conseguenza non sia quella di una lunga traversata nel deserto, bensì la costruzione della politica giusta per rompere quel recinto. Governando il Paese».
il Fatto 22.1.12
Laurea straccia
Monti toglie il valore legale al titolo di studio e darà 5,5 miliardi in Btp alle imprese
di Stefano Feltri
Il governo promette che il decreto liberalizzazioni regalerà all’Italia una crescita quasi cinese: + 11% di Pil, +8% di occupazione, +12% ai salari. In quanto tempo? “Nel medio periodo”, spiega il comunicato della presidenza del Consiglio.
MA LA PRIMA reazione delle imprese, che di quella crescita dovrebbero essere protagoniste, è stata di delusione: non un euro per pagare i crediti dello Stato verso le aziende. Una montagna da 70 miliardi, soldi dovuti che molte imprese non incasseranno mai perché falliranno prima, prive di liquidità. In conferenza stampa Mario Monti non ha neppure accennato al tema e all’ipotesi di pagare parte del dovuto con Btp o altri titoli di debito pubblico. La ragione però, secondo quando spiega una fonte governativa al Fatto, è che la ragioneria generale dello Stato stava ancora cercando le coperture. Doveva finire tutto nel decreto semplificazione in arrivo e invece entrerà nel decreto liberalizzioni quasi pronto per la firma del Quirinale. Almeno per gli interessi sui crediti ora i soldi ci sarebbero. La versione definitiva del testo, come sollecitato dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera e approvato dal viceministro dell’Economia Vittorio Grilli, prevede quindi 5,5 miliardi di Btp da dare alle imprese per rimborsare i loro crediti verso l’amministrazione pubblica. Poi le aziende potranno venderli e avere soldi freschi per pagare dipendenti e fornitori. Sono solo una piccola parte dei 70 miliardi non saldati ma, notano dal governo, quasi un quinto di quelli dovuti dallo Stato centrale. Si vedrà, ormai le imprese credono a questi annunci soltanto se li vedono nero su bianco in Gazzetta ufficiale.
C’È UN ALTRO punto nell’agenda del governo ancora riservato ma che da lunedì susciterà una certa attenzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Nel consiglio dei ministri si è discusso se inserirlo nel decreto liberalizzioni ma poi si è preferito aspettare il decreto semplificazione che sarà annunciato nei prossimi giorni. Monti finora non ha voluto rivelarne i contenuti – “vedrete” – perché sa quante polemiche possono derivare da questa mossa invocata da anni dai liberisti. Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo è da sempre sostenitore dell’abolizione. Il suo portavoce, interpellato dal Fatto, non smentisce che la modifica arriverà col prossimo decreto.
Il progetto c’è: sarà una rivoluzione nel settore pubblico. Nei concorsi la laurea, il celebre “pezzo di carta”, perderà il valore legale. E succederanno cose oggi impensabili, per esempio che economisti vincano concorsi per la Corte dei conti, cosa finora impossibile (e osteggiata dalle associazioni di categoria dei giuristi). Secondo i critici, visto che si valuteranno solo le competenze l’abolizione del valore legale favorirà la nascita di poli universitari di eccellenza (probabilmente costosi) contrapposti ad altri economici ma scadenti. “Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai”, avverte Susanna Camusso della Cgil, che ha sopportato il decreto di venerdì senza troppe proteste soltanto perché la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro sta entrando nella fase più delicata. E abolire il valore legale del titolo di studio è quasi come toccare l’articolo 18, per una parte della sinistra. “Qualcuno ha detto che avrei preso le distanze da Monti: mi scuso se non stato chiaro. Siamo a sostegno del governo Monti senza se e senza ma e senza tacere nostre idee”, ha detto ieri il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Nel partito qualcuno spera di emendare il decreto liberalizzazioni in Parlamento ma Monti intima: “Il Parlamento è sovrano ma sconsiglieremmo di fare variazioni che dovessero far venir meno la logica di insieme”. Messaggio anche al Pdl che prepara qualche imboscata su taxi e professioni. É bellicoso Maurizio Gasparri, presidente dei senatori Pdl: “Ascolteremo categorie e mondi produttivi per migliorare il testo in Parlamento, con l'obiettivo della crescita e dell’equità”. Fine del primo round. Da domani comincia il secondo.
il Fatto 22.1.12
Università. Se il diploma non vale più
Con l’espressione “valore legale del titolo di studio” si indica l’insieme degli effetti giuridici che la legge ricollega ad un titolo scolastico o accademico, rilasciato da uno degli istituti (sia statali che non), autorizzati.
Il titolo di studio è il requisito per l’accesso alle professioni regolamentate e agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni. Ovvero un “marchio di qualità” concesso dallo Stato agli atenei: lo Stato garantisce ai cittadini la qualità della formazione universitaria imponendo vincoli sull’organizzazione didattica, governando così lo sviluppo delle competenze professionali ai fini delle carriere. I cittadini che si servono di professionisti, le imprese e il settore pubblico che assumono laureati, dovrebbero essere garantiti sulla qualità della formazione di quelle persone in base a curricula “certificati”.
Quindi l’esistenza del valore legale ha tre effetti: la necessità per un lavoratore di possedere un titolo proveniente da una scuola riconosciuta dal ministero per accedere a certi settori del mercato del lavoro, la necessità per chiunque voglia istituire una scuola o università privata di ottenere la certificazione ministeriale e la parificazione nei concorsi della qualità dei titoli di studio che contano tutti allo stesso modo.
Il dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo divide mondo economico e mondo accademico: senza l’imposizione del valore legale si eliminerebbe un ostacolo alla concorrenza tra atenei, e le lauree non sarebbero più tutte uguali (ma nemmeno i costi d’iscrizione). Ci sarebbero quindi università di serie A, come in America, e di serie B, fino ai diplomifici. Rischio dal quale i paesi anglosassoni si sono tutelati con apposite leggi. Il mercato del lavoro ne riceverebbe una liberalizzazione, ovvero non servirebbe più una laurea corrispondente all’esame di Stato che ci si appresta a fare. Un geometra o un medico potrebbero presentarsi all’esame da avvocato e competere solo con la propria preparazione. Circostanza ovviata in alcuni casi negli Usa con apposite scuole di formazione (per avvocati, medici, ecc.) che conferiscono un titolo con valore legale.
Una “terza via” fra abolizione e mantenimento è quella dell’introduzione dell’accreditamento dei corsi, al quale la Conferenza dei Rettori sta lavorando con il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che nel lungo periodo potrebbero portare, grazie alla valutazione, a un’automatica e graduale eliminazione del valore legale del titolo.
il Fatto 22.1.12
I totem di “Repubblica”
Privatizzare pallido e assorto
L’esperienza mostra che mettere sul mercato beni pubblici porta solo benefici e che i rinvii pesano sull’incasso finale”. Chi l’ha detto? Monti? Sbagliato. Passera? No, parola di “Repubblica”. “Troppi freni alle privatizzazioni”, il titolo a tutta pagina. E ancora: “Le imprese che escono dal controllo pubblico aumentano efficienza, fatturato e utili. Anche i dipendenti ottengono retribuzioni più alte”. L’articolo è un “dossier”, quindi indica la linea del giornale. Due pagine che snocciolano i vantaggi delle privatizzazioni. Perfino Telecom: “Un enorme successo”. Scusate, ma il disastro delle ferrovie inglesi? Chi avanza perplessità esprime “ragionamenti che suonano un po’ datati”. La parola d’ordine è vendere, anche la Rai, “con tutti i benefici dal punto di vista della libertà di espressione e concorrenza”. Già, vedi Mediaset. E poi, chissà, magari toccherà alle spiagge, per finire con la sanità. Ma se lo dice “Repubblica”…
il Fatto 22.1.12
Svolta leninista
Rizzo lancia il comunismo dei forconi
Nel giorno del novantunesimo anniversario della scissione di Livorno e della fondazione del Partito comunista d’Italia, Marco Rizzo, seppure “sommessamente”, annuncia “un processo valutato a lungo nel nostro comitato centrale”. Il centro congressi di via Cavour non è il teatro San Marco ma l’obiettivo è lo stesso: “Costruire un nuovo Partito comunista”. E non per andare alle elezioni. No, mettere “l’avanguardia del Partito” alla guida del movimento dei forconi in Sicilia e di quello nazionale dei tassisti sarebbe molto meglio di dieci o venti deputati in Parlamento. Il processo cui si riferisce Rizzo, già Pci poi Rifondazione e Comunisti italiani, oggi leader della Sinistra popolare, è infatti rivoluzionario. Costruire un partito leninista organizzato è l’unico modo per abbattere il capitalismo, prima del suicidio di una terza guerra mondiale.
AL CONGRESSO di Rizzo ci sono anche i rappresentanti di cinque “Partiti” fratelli: Spagna, Francia, Grecia, Cuba e Corea del Nord. La divisione è tra chi sogna la rivoluzione e chi invece l’ha fatta e la difende dalle “bugie mediatiche” dell’imperialismo. E così, di fronte alla crisi mondiale e dopo la controrivoluzione nell’universo sovietico, il marxismo-leninismo è la sola risposta della Storia. Ogni intervento dei compagni “fratelli” viene salutato da applausi e pugni chiusi. Il compagno greco del Kke, Panos Rentzelas, difende il sistema dell’Urss e denuncia: “La plutocrazia greca e l’Unione europea conducono una guerra senza fine contro la classe operaia e i ceti popolari, sfruttando la scusa della crisi per tenere alti i loro profitti”. Un’ovazione accoglie Ri Kwang Hyok, consigliere dell’ambasciata della Corea del Nord, e Vladimir Perez Casal, consigliere politico dell’ambasciata cubana. Il compagno Astor Garcia Suarez del Partito comunista dei popoli spagnoli è categorico: per spezzare le catene ingorde del capitalismo sono necessari il centralismo democratico e la dittatura del proletariato. Quest’ultima, per inteso, “è la più estesa forma di democrazia che l’umanità conosca” (dal programma della Sinistra popolare). Il Pc che vuole Rizzo è leninista ma anche stalinista, contro opportunismo, revisionismo, riformismo e socialdemocrazia, a partire dalla “cricca di Krusciov”. Ed è lui a concludere i lavori della sessione dedicata ai “Partiti fratelli”. Alla fine, tutti in piedi a cantare “Bandiera rossa”, compreso il grido finale: “Viva Marx, Engels, Lenin e Stalin”.
il Fatto 22.1.12
C’è chi evoca l’omicidio di Barack Obama
Il direttore di una rivista di Atlanta: “Ucciderlo per il bene d’Israele”
di Giampiero Gramaglia
Tre morti ammazzati (e un quarto, Reagan, rischiò grosso), quattro deceduti durante il loro mandato: fare il presidente degli Stati Uniti è un mestiere pericoloso, quasi una volta su cinque non ne esci vivo. Così, non c’è da stupirsi che qualcuno abbia pensato di uccidere Barack Obama: aeroplanini contro la Casa Bianca, matti scatenati che attraversano pezzi di Stati Uniti armati di tutto punto per arrivare a Washington e giustiziare il comandante in capo, esaltati che scavalcano la cancellata tutto intorno alla residenza presidenziale. Anche le cronache di Clinton e di Bush jr sono piene di scampati pericoli, a volte amplificati dall’efficienza dei meccanismi di sorveglianza.
Senza contare gli intrighi internazionali, veri o presunti che siano mai stati. Quella ora portata in primo piano dall’Huffington Post, in piena campagna elettorale Usa 2012, è una storia che mette insieme il fanatismo degli estremisti d’America e i temi più incendiari della politica internazionale, il Medio Oriente, la sicurezza di Israele, il ruolo Usa in quell’area. Andrew Adler, il proprietario di una pubblicazione della Georgia, l’Atlanta Jewish Times, ha suggerito al governo israeliano di prendere in considerazione l’assassinio di Obama. Un articolo di Adler, scritto all’inizio dell’anno, parte dalla necessità di proteggere il popolo di Israele dalle minacce rappresentate dai palestinesi di Hamas e dai libanesi di Hezbollah e indica che Israele ha sostanzialmente a disposizione tre opzioni: 1) attaccare Hamas e gli Hezbollah; 2) ordinare la distruzione delle installazioni nucleari iraniane a ogni costo; 3) uccidere Obama.
L’impressione è quella di avere a che fare con un esaltato, che non gode di contatti particolari e che non è l’emissario di qualcuno. Né si capisce come l’uccisione di Obama migliorerebbe la sicurezza di Israele, in un momento in cui l’importante sembrerebbe non fare nulla che comprometta gli equilibri della regione, già traballanti per gli incerti esiti della Primavera egiziana e dalla situazione in Siria. A Obama, con cui ha rapporti freddi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu rimprovera l’apertura al dialogo con l’Islam e un’amicizia per Israele meno acritica di quella dei suoi predecessori, ma di qui a farne un “nemico pubblico numero 1” nel mirino del Mossad ce ne corre.
ADLER in una dichiarazione rilasciata venerdì alla Jewish Telegraphic Agency, fa una marcia indietro totale: “Me ne pento molto, vorrei non averlo mai scritto”. Episodio chiuso? Fin qui, la ricostruzione sull’Huffington Post. Certamente, non è la prima volta, e neppure, probabilmente, la più pericolosa che Obama è finito sotto tiro per la sua politica mediorientale, o per altri aspetti della sua politica estera, pensiamo solo al Pakistan, che molti suoi critici considerano eccessivamente passiva. Ma l’episodio acquista rilievo nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 6 novembre, mentre gli aspiranti alla nomination repubblicana, che sabato si sono affrontati nelle primarie in South Carolina, appaiono divisi su tutto, meno che nell’attaccare il presidente proprio sulla politica estera. Quello lo fanno tutti, sia pure da angolature diverse. Un iper-conservatore come Newt Gingrich e un moderato cone Mitt Romney – i due favoriti in South Carolina – concordano nel contestare Obama: gestirebbe male le minacce provenienti da nazioni ostili agli Stati Uniti, specie l’Iran. E secondo The Hill, una rivista di Washington, più d’un aspirante repubblicano pensa che il presidente sia troppo duro con Israele e non lo sia abbastanza con i nemici di Israele. Parlando a dicembre a un forum di ebrei d’America repubblicani, Romney disse: “Obama appare più generoso con i nostri nemici che con i nostri amici”. Secondo Michelle Bachmann, una candidata già uscita di scena, “il presidente ha confuso l’impegno con la pacificazione e ha così dato corda ai nemici di Israele”. Eppure, la popolarità di Obama nella comunità ebraica americana, importante ai fini della sua rielezione, pare tenere bene: Forward, un sito ebraico, scrive che i principali finanziatori ebrei della campagna 2008 restano accanto al presidente, e soprattutto continuano a foraggiarlo, in questa campagna.
LO STESSO Obama, in un’intervista a Time, ha respinto le accuse repubblicane alla sua politica estera: “L’America è più forte”, dice. Certo, ha eliminato Osama bin Laden e altri suoi accoliti, ha portato a casa i ragazzi dall’Iraq e si appresta a cominciare a ritirarli dall’Afghanistan, riduce la presenza militare in Europa. E si sente così sicura da abbassare (un po’) la guardia alle frontiere e da puntare sul turismo per rilanciare l’economia.
Corriere della Sera 22.1.12
I vescovi Usa contro Obama
«Un attacco alla libertà religiosa e di coscienza». Così i vescovi americani qualificano la decisione dell'amministrazione Obama (foto) di obbligare gli ospedali, anche cattolici, a fornire contraccettivi e terapie abortive. Ieri il Papa, ricevendo un gruppo di prelati Usa in Vaticano, ha invitato a vigilare contro «il secolarismo radicale, che trova sempre più espressione nelle sfere politiche e culturali».
il Fatto 22.1.12
Shoah: la storia e la memoria
di Furio Colombo
Dal viaggio della memoria non si esce indenni”. Comincio con questa frase il testo che sto dedicando alla Shoah (il 27 gennaio è il Giorno della Memoria) perché l'ho ascoltata con emozione in un film nuovo e diverso che proprio in questi giorni si può (si deve) vedere in Italia. Cito altre frasi: “Se una storia non viene raccontata diventa qualcos'altro. E così ho scritto per te nella speranza che questa storia accompagni anche te. Siamo tutti figli della nostra storia”. Il film è La chiave di Sara, l'autore è il poco noto Gilles Paquet-Brenner, che qui si rivela un grande regista, la storia si svolge in Francia nel 1942. E oggi, mentre guardiamo il film, la domanda non è “che cosa avresti fatto allora” (che, certo, ricorre continuamente) ma è: “che cosa farai adesso”, dopo avere saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto. L'originalità della domanda fa del film un esperimento unico. Per arrivare a quell'espediente e ricollegare i tranquilli cittadini di oggi a un giorno dimenticato, anzi insignificante per quasi tutti (Parigi, 11 luglio 1942) basta la banale vicenda di un appartamento da ristrutturare. Ci pensa con bravura il marito architetto mentre la moglie, giornalista, ha da fare con la frase di un discorso dell'allora presidente Chirac. Deve ricostruire per il suo settimanale d'attualità il riferimento di Chirac al Vél d'Hiv e ai fatti tremendi che in quel Velodromo si sono all'improvviso verificati, portando arresti di massa di intere famiglie, detenzione, violenza, deportazione, una tragedia priva di senso che ha sconvolto, travolto e in gran parte ucciso, attraverso la deportazione, diecimila persone, un terzo bambini.
“La chiave di Sara” e la rimozione francese
LA GIORNALISTA del film nota alcune cose: nessuno dei suoi giovani e abili colleghi sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d'Hiv (come i parigini hanno a lungo chiamato per brevità il Velodromo d'inverno della città, fino alla dismissione). Non esiste una sola fotografia di diecimila persone ammassate per giorni, con i loro vecchi e i loro bambini, in uno stadio senza acqua e senza servizi igienici. Non esistono targhe o monumenti visibili (bisogna sapere e cercare). E una volta informati, i giornalisti nella redazione del settimanale di attualità, condannano la “cattiveria dei nazisti”. Tocca alla collega più anziana informarli: non i nazisti, i francesi. “Noi, siamo stati noi”. È un delitto francese, e per questo Chirac chiedeva scusa. Chiedeva scusa a chi? Intanto il marito architetto sta ristrutturando a regole d'arte l'appartamento, che è sempre appartenuto ai suoi genitori e ai suoi nonni. Sempre? Bastano due generazioni per risalire a chi sapeva, e non ha mai pronunciato il nome ebreo di chi era stato strappato da quell'appartamento, rendendolo libero all'improvviso, in tempo di guerra, in piena Parigi. È il segreto del film La chiave di Sara che ha questo di grande: il gioco terribile del “tu che cosa avresti fatto? ”si gioca adesso, e vi partecipa una famiglia parigina in cui nessuno è fascista e nessuno è antisemita, eppure deve decidere: si abita in quella casa espropriata con l'espediente della deportazione al Vél d'Hive poi ad Auschwitz, da cui, forse, nessuno di quella famiglia è tornato vivo? Non vi dirò di più del film (c'è di più e per questo va visto). Ma i lettori si saranno accorti che, per la prima volta dopo dieci anni e tante discussioni (alcune nobili, alcune colte, alcune difficili da condividere) mi sono imbattuto in un regista e uno sceneggiatore che hanno proposto la domanda: perché il Giorno della Memoria? E hanno dato una risposta: Perché il giorno della memoria è adesso. Per spiegare il mio sollievo devo riferirmi al saggio appena pubblicato da Valentina Pisanty, Abusi di Memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pag. 137, euro 16) a cui Il Fatto ha dedicato una pagina nei giorni scorsi. La Pisanty scrive in apertura del suo saggio: “Da dove derivano tanto il fastidio che taluni provano nei confronti del Giorno della Memoria, quanto la carità pelosa con cui altri lo celebrano? Il difetto, si direbbe, sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. E ciò, si badi bene, non a ridosso degli eventi, quando gli italiani avrebbero potuto attingere ai ricordi vivi di uno sterminio appena perpetrato per interrogarsi sulle proprie responsabilità dirette, ma a distanza di decenni, quando la comunità commemorante cominciava a sentirsi sufficientemente estranea agli eventi in questione da poterli chiudere in una teca da museo. Come ha spiegato Maurice Halbwachs (1950) la memoria collettiva è sempre funzionale agli interessi, alle sensibilità, e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dai pensieri dominanti delle società a cui fanno capo”. Questa lunga e disturbante citazione mi serve per far notare la vistosa incoerenza con quanto si può leggere, appena poche righe prima, nello stesso capitolo (il primo) del libro della Pisanty. Cito: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso frutto di incosciente faciloneria, piuttosto che una reale e diffusa intenzione omicida, ma un crimine anche italiano che, per decenni, gli italiani hanno spazzato via a copi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in Parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”. Valentina Pisanty è studiosa al di sopra di ogni dubbio quanto alla qualità scientifica e alla integrità morale, più che mai sul tema della Shoah. Ma il problema è logico. Quando ho scritto e proposto la legge sul Giorno della Memoria (che ovviamente sarebbe stato stravagante chiamare “il Giorno della Storia”) ero esattamente, per età e generazione, una delle persone giovani (nel mio caso al tempodelliceo) che, “aridossodegli eventi” aveva chiesto invano agli insegnanti, tutti membri del Cln o di diverse componenti della Resistenza) di parlare della Shoah come “delitto italiano”.
Ho raccontato questo colpevole vuoto nella mia introduzione al primo testo americano sulle leggi razziali e la persecuzione italiana (Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, University of Nebraska Press, 1987,1992). E appena eletto deputato (1996) ho fatto ciò che non ho potuto fare a “ridosso degli eventi”. L’ho fatto ai nostri giorni, contro notevoli resistenze.
Il delitto italiano e la responsabilità
AVRÒ ESPRESSO “gli interessi della cultura dominante” o piuttosto l' ossessione che non mi aveva mai abbandonato su ciò che potevo ancora testimoniare del tempo in cui ero vissuto, e soprattutto su ciò che avrebbero potuto fare i pochi sopravvissuti che erano ancora in grado andare nelle scuole a raccontare, a consegnare ai più giovani la loro “chiave di Sara”, come faranno anche alcuni di loro venerdì prossimo? Ho detto ai miei colleghi deputati, nell'intervento finale con cui ho cercato di ottenere l'unanimità, che la Shoah era un delitto italiano, e l’ho fatto con la intenzione di negare per legge la presunta estraneità italiana allo sterminio degli ebrei. Ho chiesto ai deputati di ricordare che in quegli stessi banchi, in quella stessa Camera, centinaia di deputati italiani avevano votato all'unanimità le peggiori leggi razziali d'Europa, firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo. Dov'è l'errore se dico che mai Storia e Memoria hanno coinciso in modo così netto, facendo insieme da impedimento a un vuoto che molti vorrebbero ancora?
Repubblica 22.1.12
Giornata della memoria
Una tazza di tè con gli ultimi sopravvissuti della Shoah
di Enrico Franceschini
Sembra un centro anziani come tanti Ma Eva, David, Bella e gli altri trecento soci dell´Holocaust Survivors di Londra in comune non hanno soltanto l´età. Turchi, ungheresi, polacchi, sono ebrei passati per i campi di sterminio. E qui con fatica hanno imparato a non vergognarsi di essere stati salvati
I nostri racconti Nessuno voleva sentire la nostra esperienza Quando raccontavo dei campi, la gente si ritraeva spaventata Ma forse era vergogna
Perché non io? Ho perso la mia migliore amica che è stata catturata dalla Gestapo e spedita a Auschwitz. Lei è morta io sono sopravvissuta Perché lei e non io?
Il dottor Mengele Avevo due fratelli gemelli Il dottor Mengele li usò per i suoi folli esperimenti Mio fratello divideva il letto con un nanetto del circo, anche lui una cavia
Credi in te stesso Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, dicevo Sopravviverò, gridavo silenziosamente. E sono sopravvissuto. Ma tanti cedevano e sono morti
LONDRA «Io mi dicevo: sopravviverò. Sopravviverò! E sono sopravvissuto. Ma tanti accanto a me si lasciavano vincere dalla fame, dal freddo, dal dolore, e dicevano: moriremo. E sono morti». Isaac mi stringe il braccio, mentre ricorda, poi d´improvviso gli vengono gli occhi lucidi. «Scusi», dice, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Anche i miei genitori sono morti nei campi. Ho dato a mio figlio il nome di mio padre, a mia figlia quello di mia madre. È importante per noi. È importante ricordare». Stringe più forte il mio braccio, e continua a piangere.
S´avvicina il Giorno della Memoria, la giornata della rimembranza dell´Olocausto, quando Israele e gli ebrei di tutto il mondo e tutto il mondo civile commemorano la pagina più nera del Novecento, forse la più atroce nella storia umana. Ci sono tanti modi per evocarla. Uno è venire in quello che sembra un normale centro per anziani, in un quartiere della Londra nord, dove tanti nonnini e nonnine si ritrovano a seguire lezioni di cucina e danza, a giocare a carte e cantare, a guardare vecchi film e conversare, a pranzare e a prendere il tè. Scherzano, ridono, hanno l´aria di divertirsi. Ma non è un centro per anziani come gli altri, perché ognuno dei suoi trecento soci ha un segreto in comune: è un sopravvissuto ai campi di sterminio, al progetto nazista di cancellare un intero popolo dalla faccia della Terra. Si muovono con delicatezza, come preoccupati di andare in pezzi, qualcuno con le stampelle, hanno volti pieni di rughe, schiene curvate dagli anni (quasi cento per il più longevo, quasi settanta per la più giovane), ma occhi che brillano. Sono quelli che lo storico israeliano Tom Segev, con un´espressione poetica e agghiacciante, definì «il settimo milione»: gli ultimi rimasti nell´Europa del 1945, i superstiti al genocidio ebraico. Sediamoci a tavola con loro, per qualche ora. Ascoltiamo le loro storie. Prendiamo un tè con la Shoah.
L´Holocaust Survivors Centre di Hendon, una manciata di chilometri da Buckingham Palace, è l´unico centro di questo genere esistente al di fuori dello Stato ebraico. Funziona con i finanziamenti di Jewish Care, la maggiore organizzazione di beneficenza ebraica nel Regno Unito. Aprì una ventina d´anni or sono, per rispondere alle esigenze del gran numero di sopravvissuti dei lager hitleriani che vivono da queste parti. È diventato un modello per reintegrare anche altri rifugiati, altre vittime: compreso un gruppo di musulmani bosniaci, accolti di recente. È in un´anonima palazzina di mattoni: nulla, non un cartello, non un campanello, indica da fuori di cosa si tratta. Riservatezza, precauzione, bisogno di sicurezza, un po´ di tutto questo: comprensibilmente, la mia guida chiede che io presenti passaporto e tessera stampa, prima di entrare. Un po´, mi sembra di essere tornato a vivere in Israele, di sentire lo stesso senso di minaccia incombente, di accerchiamento. «L´Olocausto lascia un segno indelebile, anche quando uno non ci pensa più», spiega Judith Hassan, fondatrice del Centro. «Un trasloco, qualsiasi cambiamento, può risvegliare incubi che uno credeva di avere sepolto». Il Survivors Centre offre assistenza, terapia, il supporto di una seconda famiglia, oltre a quella che molti di loro hanno, talvolta anche folta. Ma figli e nipoti non vengono dalla Shoah. Gli arzilli vecchietti con cui prendo il tè, sì. Tra loro, si capiscono al volo. Un segreto li unisce.
«All´inizio nessuno voleva sentire parlare della nostra esperienza», dice Bella, ebrea polacca. «Quando raccontavo che ero stata nei campi, la gente si ritraeva, come spaventata. Ma forse non era paura, era vergogna: vedere noi sopravvissuti significava confrontare l´idea che l´uomo ha potuto fare questo a un altro uomo, ammettere di che cosa è stata capace la nostra specie. E dunque provare vergogna per se stessi. Perciò preferivano non ascoltarci, girare la testa dall´altra parte. E anche noi ci vergognavamo quasi di essere vivi, come di avere partecipato a qualcosa di mostruoso, sia pure nella parte delle vittime».
A volte erano loro stessi a non volerne parlare. «La mia vita fino al 1945 è stata una fuga senza fine», racconta Eva, ebrea turca. «Dalla Germania sono scappata in Belgio, dal Belgio alla Francia, dalla Francia alla Svizzera e di nuovo alla Francia. Ho militato nella Resistenza, fabbricavo documenti falsi. Sono stata arrestata tre volte e due volte sono scappata. Ho perso la mia migliore amica perché un giorno abbiamo tirato a sorte, lei ha preso una strada, io un´altra, lei è stata catturata dalla Gestapo e spedita subito ad Auschwitz, io sono riuscita a rifugiarmi in un convento di suore cattoliche. Lei è morta, io sono sopravvissuta. Perché lei e non io? Continuo a chiedermelo anche ora. Le suore ci facevano pregare tanto, ma quando la Gestapo venne a cercarmi perfino in convento fecero vestire da suora anche me, mi fecero cantare con loro l´Ave Maria davanti all´altare e mi salvarono. Sapevo che la Gestapo sarebbe tornata, fuggii anche da lì e infine mi presero. Quando i russi ci hanno liberati, mi sono ricongiunta con il mio fidanzato: lui era stato a Birkenau, era sopravvissuto perfino in quell´inferno. Era sopravvissuto per rivedermi, questo lo aveva tenuto in vita e fatto resistere. Così mi disse. E più tardi, la notte prima di sposarci, annunciò: stanotte ti racconto tutto quello che mi è accaduto laggiù, poi non ne parlerò più, mai più. E così ha fatto, fino al giorno della sua morte».
David, ebreo ungherese, invece parla: «Quando i tedeschi occuparono il mio paese, la mia famiglia perse tutto e ci rifugiammo nel ghetto. Poi vennero a prenderci anche lì e ci portarono via. Io ero forte, fui spedito in un campo di lavoro vicino al fronte russo, da cui ci ritirammo un po´ per volta fino a Berlino. Mia madre finì ad Auschwitz e non ne è uscita viva. Ma avevo due fratelli gemelli più piccoli, un maschio e una femmina, e a loro si interessò il dottor Mengele per i suoi folli studi e i suoi esperimenti, perciò furono trattati un po´ meglio degli altri e sopravvissero. Li ho reincontrati dopo la guerra, mio fratello mi ha raccontato che divideva il letto con un nano, un nanetto del circo, anche lui cavia per la curiosità di Mengele: era stato lui a salvarlo, portandogli sempre qualcosa extra da mangiare».
Anche Isaac, ebreo rumeno, era un ragazzo forte, si capisce pure adesso che ha più di ottant´anni. Lo rinchiusero in un campo di lavoro in Germania. «Al mattino una tazza di caffè acquoso, per pranzo un pezzo di pane e un´orrenda zuppa, ma io sbafavo tutto in una volta, senza mettere niente da parte, per il timore che la mia razione andasse perduta o rubata: dentro lo stomaco almeno era al sicuro. Non era un campo di sterminio con i forni per ridurci in cenere, ma se ti ammalavi o diminuivi il ritmo di lavoro, il giorno dopo sparivi e non tornavi più. Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, mi dicevo. Sopravviverò, mi dicevo. Io sopravviverò! Lo gridavo silenziosamente a me stesso. Sopravviverò, sopravviverò. E sono sopravvissuto. Ma tanti altri cedevano alla fame, al freddo, al dolore, allo sconforto e dicevano, qui moriremo, se non oggi domani, e sono morti. Non bisogna mai arrendersi». Asciuga le lacrime. Si scusa per essersi commosso. Mi stringe il braccio, poi lo carezza, dolcemente. «Verso la fine della prigionia, i russi e gli americani bombardavano il campo tre volte al giorno, suonava l´allarme, i tedeschi scappavano come topi nei rifugi, e noi prigionieri uscivamo all´aperto, momentaneamente liberi, io guardavo il cielo, vedevo le sagome dei bombardieri, respiravo la libertà. Sopravviverò, mi dicevo, ebbene sono sopravvissuto. Nel ´48 sono arrivato dopo un´odissea in Palestina, ho combattuto nella guerra d´indipendenza per Israele, sono stato ferito, decorato al valore, ecco, vede qui il segno del proiettile? Da giovane non ero religioso, ma poi a Tel Aviv ho cominciato ad andare in sinagoga ogni sabato, e lo faccio ancora. Non perché io sia un credente, non ci vado per pregare, ci vado per onorare la nostra tradizione. Ci vado per ricordare, capisce cosa intendo?».
Ci alziamo in piedi, ci abbracciamo, ci diciamo shalom. Ho preso un tè con i sopravvissuti della Shoah, le interviste sono finite, e adesso torno in ufficio a scrivere. Loro restano qui, ciascuno con i propri fantasmi.
Repubblica 22.1.12
Ai Weiwei
Diario d’artista "Sono tutto quello che ho"
Era l´archistar di regime, orgoglio dell´espansione di Pechino nel mondo. Finché un giorno chiese la verità sul terremoto in cui morirono migliaia di bambini e accusò la corruzione dei politici Da allora il suo blog è stato chiuso e lui vive sotto sorveglianza. Adesso esce in Italia un libro con i suoi post, dai pensieri intimi alla ribellione
La democrazia, la ricchezza materiale e l´educazione universale sono il terreno di coltura del modernismo. In Cina questi sono scopi puramente idealistici
Costruire non è un gesto naturale, è qualcosa che il genere umano fa per il proprio bene. La funzione utilitaria è dettata dal modo in cui usiamo qualcosa, e il modo in cui lo usiamo allo stesso tempo determina chi siamo e le implicazioni della nostra esistenza. I modi di costruire sconcertano le persone. Giudicare pensieri ed emozioni, superare ostacoli materiali, penetrare o prolungare sentimenti può far sì che le cose materiali diventino fattori psicologici e permettano agli oggetti materiali di trascendere se stessi. Desiderio di chiarezza, semplicità, esattezza e franchezza negli edifici. Oltre a "è" e "non è", esistono anche "se", "o", "altro" e "anche".
13 gennaio 2006
Una volta che la fotografia si è allontanata dalla sua funzione originaria come tecnica o strumento di documentazione, diviene semplicemente uno stato effimero dell´esistenza trasformato in possibile realtà. È questa trasformazione che rende la fotografia una sorta di movimento e le fornisce il suo significato distintivo: è semplicemente un tipo di esistenza. La vita è solo un fatto indiscutibile, e la produzione di una realtà alternativa è un altro tipo di verità che non intrattiene alcun rapporto autentico con la realtà. Entrambe attendono che accada qualcosa di miracoloso - il riesame della realtà. Come intermediaria, la fotografia è un medium che non fa che spingere la vita e le azioni percepite verso questo conflitto.
16 gennaio 2006
In Cina manca ancora un importante movimento modernista, perché alla base di un simile movimento dovrebbero esserci la liberazione dell´umanità e l´illuminazione portata dallo spirito umanistico. La democrazia, la ricchezza materiale e l´educazione universale sono il terreno di coltura del modernismo. Per la Cina in via di sviluppo, questi sono scopi puramente idealistici. Il modernismo non ha bisogno di maschere o titoli: è il frutto immediato dell´intuizione, l´idea definitiva del significato dell´esistenza e delle difficoltà del reale, è la presa sulla società e sul potere, è l´assenza di compromessi, il rifiuto di collaborare. L´illuminazione viene conquistata tramite un processo di autoriconoscimento, ottenuta attraverso una sete bruciante e la ricerca di un mondo interiore, raggiunta attraverso dubbi e interrogativi interminabili. La realtà disadorna, il vuoto e la noia esibiti da molte opere moderniste nascono da questa verità senza sconti. Non è una scelta culturale, perché la vita non è una scelta: è la preoccupazione per la propria esistenza, la pietra miliare di tutte le attività mentali; l´obiettivo finale è la conoscenza.
23 febbraio 2006
Scrivere i propri sentimenti è semplice, ma può essere anche difficile, per le seguenti ragioni:
1. Non puoi essere sicuro del fatto che sia realmente ciò che stai pensando.
2. Se scrivi una cosa, non potrà mai essere qualcos´altro.
3. È difficile mantenere una buona postura da scrittore dall´inizio alla fine.
22 maggio 2006
Silenzio per favore, niente clamore. Lasciate che la cenere si posi, che i morti riposino in pace. Dare una mano a chi è in pericolo, soccorrere chi rischia la vita e aiutare i feriti sono forme di umanitarismo che non hanno niente a che fare con l´amore per la patria o per il popolo. Non sminuite il valore della vita: essa richiede una dignità più vasta, più equa. In questi giorni di lutto i cittadini non hanno bisogno di ringraziare la madrepatria e i suoi sostenitori perché non è stata capace di offrire una protezione migliore. Né è stata la madrepatria, alla fine, a permettere ai bambini più fortunati di sfuggire al crollo delle loro scuole. Non c´è bisogno di elogiare i politici, perché queste vite in pericolo hanno molto più bisogno di mezzi di soccorso efficaci che di lacrime e discorsi di solidarietà. E c´è ancor meno bisogno di ringraziare l´esercito, perché ciò significherebbe che mobilitandosi per il disastro i soldati abbiano fatto di più che svolgere semplicemente il loro giurato dovere. Siate tristi! Soffrite! Sentitelo nei recessi del vostro cuore, nella notte spopolata, in tutti i posti senza luce. Portiamo il lutto soltanto perché la morte è parte della vita, perché le vittime del terremoto sono parte di noi. Solo quando i vivi continuano a vivere con dignità, i morti possono riposare con dignità.
22 maggio 2008
Se mai ci dovesse essere un giorno in cui i bambini puri e innocenti comincino a non avere più fiducia nel mondo e a diffidare della sua gente, quel giorno sarebbe oggi. Venti giorni fa, quando una calamità naturale ha causato il crollo di migliaia di scuole nella zona del terremoto, si stima che sotto i mattoni e il cemento siano rimasti sepolti seimila alunni. Oggi quegli edifici in rovina nascondono corpi di bambini che non saranno mai scoperti, perché i soccorritori hanno smesso di cercare, con il cuore ormai triste e pieno di disperazione. Non siate così impazienti di declamare che i disastri fortificano la nazione, o di elogiare «l´unione senza precedenti», e non usate parole arroganti per coprire i freddi, duri fatti. Per prima cosa, tirate fuori quel che resta dei corpi smembrati dei bambini dalle macerie, ripuliteli, trovate un posto tranquillo, e seppelliteli in profondità.
Sono passati venti giorni dal terremoto, e ancora non esiste un elenco preciso degli scomparsi, né è stato fatto un conteggio accurato dei morti. I cittadini ancora ignorano chi siano questi bambini defunti, chi siano le loro famiglie, chi ha mancato di rinforzare la struttura delle scuole con l´acciaio e chi ha preparato un calcestruzzo di qualità inferiore per le fondamenta e i pilastri quando sono stati costruiti. Il destino dei bambini è quello della nazione, il loro cuore è quello della nazione. Non ce ne può essere un altro. Che i responsabili possano vivere gli anni che restano loro nella vergogna. Al di là degli incarichi, della posizione, dell´onore, per una volta nella vita alzatevi e assumetevi le vostre responsabilità. Comportatevi come se aveste una coscienza e delle spalle capaci di sopportarne il peso. Nemmeno questo, tuttavia, basterebbe ad alleviare il nostro senso di vergogna. Non sono state solo quelle scuole malferme a crollare, è stata la buona coscienza e l´onore dell´intera nazione a sgretolarsi con loro. In questo giorno la bellezza è morta. Non avete notato l´assenza di tutte quelle voci che ridono?
1 giugno 2008
«Attenzione! Sei pronto?» Sono pronto. O meglio, non c´è nulla per cui essere pronti. Una persona. È tutto quello che ho, è tutto quello che qualcuno potrebbe ottenere ed è tutto quello che posso consacrare. Non esiterò nel momento del bisogno, e non mi distrarrò. Se ci fosse qualcosa di cui avere nostalgia, sarebbero i miracoli che la vita porta con sé. Questi miracoli sono gli stessi per ognuno di noi, un gioco dove tutti sono uguali, come le illusioni e la libertà che lo accompagnano. Considero ogni genere di minaccia a qualsiasi diritto umano come una minaccia alla dignità e alla razionalità umana, una minaccia al potenziale della vita. Voglio imparare ad affrontarla. Rilassatevi, io imparo presto, e non vi deluderò. Non molto tempo fa, le morti collettive di quei bambini mi hanno aiutato a comprendere il significato della vita individuale e della società. Rifiutate il cinismo, rifiutate la collaborazione, rifiutate la paura e rifiutate di bere il tè, non c´è niente di cui discutere. È sempre lo stesso detto: non venite a cercarmi di nuovo. Non collaborerò. Se dovete venire, portate con voi i vostri strumenti di tortura.
28 maggio 2009
Repubblica 22.1.11
Dal Nido d’uccello al Sichuan
di Giampaolo Visetti
Da archistar del potere a simbolo del dissenso contro la dittatura del Partito comunista. La parabola di Ai Weiwei si è consumata all´improvviso, tra il 2008 e il 2011, mentre l´artista cinese più famoso al mondo era al vertice del successo. La svolta si è compiuta quattro anni fa. Per le storiche olimpiadi di Pechino Ai Weiwei, 54 anni, aveva collaborato al progetto del "Nido d´uccello", lo stadio divenuto icona dei giochi e dell´irresistibile ascesa dell´economia nazionale. Poche settimane prima, il disastroso terremoto nel Sichuan aveva però svelato la corruzione dei funzionari pubblici cinesi, causa di migliaia di morti nelle scuole costruite con materiali scadenti. Ai Weiwei a sorpresa si era mobilitato a favore della verità, contro l´insabbiamento dello scandalo da parte dello Stato: è stata la scelta che ha deciso la sua vita. Da allora è entrato nel mirino delle autorità, inaugurando l´era del nuovo dissenso mediatico che tanto allarma i regimi dell´Asia. Il profeta delle rivolte online, autore di opere-denuncia esposte nei più importanti musei del pianeta, era del resto un predestinato. Suo padre, il famoso poeta Ai Qing, era stato perseguitato da Mao Zedong, deportato, incarcerato e riabilitato solo dopo la morte del Grande Timoniere. Anche il figlio è divenuto oggetto di aggressioni, arresti, persecuzioni e infamanti accuse pubbliche. Due anni fa la polizia gli ha spaccato il cranio a Chengdu, mentre Ai Weiwei, affetto da una grave forma di diabete e di ipertensione, si apprestava a testimoniare al processo per le vittime del terremoto. Pochi mesi dopo un ordine di demolizione ha distrutto il suo nuovo atelier di Shanghai, che le stesse autorità gli avevano chiesto di realizzare in vista dell´Expo. L´8 ottobre di due anni fa, Ai Weiwei fu tra i primi a ricorrere al suo blog per esprimere la speranza dei cinesi che non rinunciano alla libertà, dopo l´assegnazione a Lui Xiaobo del premio Nobel per la pace. E la sua voce è tornata a farsi sentire un anno fa, quando il vento delle rivoluzioni mediterranee sembrava dove soffiare anche sulla Cina. Per il potere in allarme è stato l´ultimo affronto. Arrestato in aprile, rilasciato a fine giugno, accusato di evasione fiscale e di reati sessuali, Ai Weiwei vive sotto sorveglianza e non può lasciare Pechino. Su di lui pendono una multa che non può pagare e la spada di Damocle di una condanna a 14 anni. L´isolamento in un´invisibile prigione senza sbarre: la pena per chi osa criticare l´autoritarismo dei tecnocrati del dopo-Tienanmen.
Repubblica 22.1.12
Massacri e ingiustizie ora l’Australia si scusa "Pari diritti agli aborigeni"
Il governo annuncia un referendum costituzionale
di Gianni Clerici
L´annuncio del premier Julia Gillard: "Un futuro di unità e di riconciliazione"
Due secoli e mezzo di discriminazioni per le popolazioni colonizzate nel tardo XVIII secolo
MELBOURNE - E finalmente, dopo due secoli e mezzo di stermini, ingiustizie, discriminazioni, il gran giorno è arrivato. Essere un aborigeno, uno di quelli che per quarantamila anni abitò questo continente, è permesso.
Lo ha dichiarato ufficialmente il primo ministro, guarda caso donna, Julia Gillard, seduta fianco a due personaggi che parevano inventati da un buon sceneggiatore: alla sua destra, con un barbone bianco e un cappellaccio multicolore, l´aborigeno Patrick Dodson, e alla sinistra, Mark Leibler, discendente ebreo di una famiglia belga che emigrò alla vigilia della seconda Guerra Mondiale per sfuggire i nazisti. Una commissione di ben ventidue membri, tra i quali indigeni, uomini politici e esperti legali, ha presentato un progetto di legge, che dovrebbe sanare una piaga sempre più vasta e purulenta dal giorno in cui la nave dell´ammiraglio Cook mise l´ancora in quello che era allora chiamata Porth Phillip, e di dove oggi vi scrivo, comodamente seduto nel più moderno e vasto tennis club del mondo. Nel ricevere la richiesta che ponga, almeno ufficialmente, termine all´umano disastro, la signora Gillard ha affermato che «un referendum ci consentirà di avere coscienza del nostro passato, di permettere una modifica costituzionale, per un futuro unito e più riconciliato che mai».
Le vicende degli aborigeni, sino a ieri spregiativamente chiamati "abos", mi hanno afflitto non meno di quelle degli ebrei dal giorno in cui qui sbarcai, giovane cronista, proprio a Melbourne. I poveri discendenti dell´etnia che aveva vissuto secondo strutture mentali e religiose del tutto estranee agli invasori, non facevano che mendicare in qualche periferia degradata, o si poteva vederli mentre tendevano la mano per una bottiglia di birra. Decimati non solo dall´alcol, ma da batteri con i quali gli invasori li avevano mortalmente contagiati.
Durante le ripetute visite in questo paese ebbi anche l´occasione di un viaggio aereo in un villaggio, e non finii di inorridire, alle condizioni di vita nelle quali vidi costretti gli abitanti.
La loro storia attraversò varie fasi, che passarono traverso un iniziale acquisto delle loro terre, seguito da autentici espropri, e da più di un massacro, quando qualcuno di loro si permise un tentativo di resistenza. Esemplare tra tutti, il caso della Tasmania, in cui la reazione di un aborigeno in difesa di una donna portò alla costituzione di una catena di coloni che, dal sud al nord, setacciò l´intera isola, uccidendo quasi tutti gli aborigeni, ad eccezione di una loro rappresentante, Treganini, che divenne una sorta di reperto vivente, mostrata quasi fosse la tigre della Tasmania, un animale ormai scomparso.
Attraverso maggiore comprensione, senso di colpa, iniziative parlamentari e lobby umanitarie, la storia della sventurata etnia ha subito una pur lenta evoluzione positiva, scandita da successi di personaggi pubblici, quali il pittore Namatjira, il primo a figurare nell´elenco degli australiani celebri, senza paradossalmente possederne la nazionalità. E, in seguito, dopo la concessione del diritto di voto, nel 1967, sono giunte le affermazioni della tennista Evonne Goolagong, vincitrice a Wimbledon e, della medaglia d´oro delle Olimpiadi di Sydney, Kathy Freeman. Si qui, forse, l´istante più significativo della triste storia era rappresentato dalle pubbliche scuse del premier Kevin Rudd, nel 2008.
Le risultanze, e l´attuale proposta della commissione diretta da Liebler e Dodson, sottolineano che centododici anni sono trascorsi dall´attuale Costituzione, forse un po´ obsoleta, in cui si menzionava la volontà di sei Stati australiani di formare una nazione. «Nel servire al meglio la maggior parte degli australiani, ha fatto torto agli aborigeni», afferma il documento.
C´è ora da sperare che non sia necessario un referendum per far sì che l´unica etnia, quella degli antichi padroni del suolo detto australiano, venga dichiarata ufficialmente comproprietaria del continente.
il Riformista Ragioni 22.1.12
Palermo e Budapest. Due storie lontanissime, un timore comune
Un filo lega quello che sta capitando in tante diverse plaghe d’Europa. Finora abbiamo cercato di spiegare questi fenomeni usando la categoria del populismo. Non è servito a niente
di Paolo Franchi
qui
il Riformista Ragioni 22.1.12
L’inverno ungherese: la libertà in pericolo il paese in bilico
di M. Benedettelli e A. Grimaldi
qui
il Riformista Ragioni 22.1.12
Forconi di Sicilia Chi c’è dietro?
No, cosa c’è davanti
di Giuseppe Provenzano
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il Riformista Ragioni 22.1.12
Urss, perché il partito non fu mai in discussione
di Sergio Bertolissi
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Corriere della Sera 22.1.11
La proprietà? è un furto, il socialismo di Proudhon
risponde Sergio Romano
Margaret Thatcher, Deng Xiaoping, Ronald Reagan, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Tony Blair, Peter Mandelson e forse anche Massimo D'Alema sono alcuni personaggi politici che hanno contribuito a sdoganare, anche a sinistra, l'idea che essere ricchi è cosa buona e giusta. Sbaglio o adesso, almeno in Occidente, sta tornando di moda Proudhon?
Giancarlo Sallier de la Tour
Caro Sallier de la Tour,
Suppongo che lei alluda implicitamente a una famosa frase, spesso considerata la sintesi del pensiero politico e filosofico di un intellettuale francese, Pierre-Joseph Proudhon, che fu negli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento uno dei maggiori avversari di Karl Marx. Alla domanda «Che cosa è la proprietà?», formulata nel 1840 sulla copertina del suo primo saggio politico-economico, Proudhon rispose seccamente: «La proprietà è il furto». Ma quella definizione non gli rende giustizia. In altre circostanza disse che «la proprietà è libertà» e sostenne che era condannabile soltanto quando diventa «potere dell'uomo sull'uomo».
Piuttosto che economista Proudhon fu un filosofo e un moralista. Credeva nel diritto al lavoro, nella giustizia, nel rispetto dell'individuo, nella «eguaglianza delle intelligenze», nel «livellamento delle condizioni», nel federalismo, nella progressiva scomparsa dello Stato. Il suo grande sogno fu quello di una economia cooperativa in cui tutti i lavoratori avrebbero condiviso gli oneri e i benefici dell'impresa. Nel gennaio del 1849, dopo i grandi moti rivoluzionari dell'anno precedente, fondò una Banca del popolo che avrebbe dovuto funzionare senza capitali grazie al semplice scambio di carta moneta. Scrisse libri, articoli, saggi, fu brevemente deputato, venne condannato per «incitazione all'odio e al disprezzo del governo», passò tre anni in prigione, fu esule in Belgio all'epoca del Secondo Impero e amnistiato da Napoleone III nel 1860. Uno dei suoi libri più noti, «La filosofia della miseria», provocò una sferzante e sarcastica reazione di Marx intitolata «La miseria della filosofia». L'intellettuale tedesco trattava l'intellettuale francese alla stregua di pasticcione romantico, incapace di interpretare freddamente e realisticamente le leggi della storia. L'ultimo capitolo del duello fra Proudhon e Marx andò in scena in Italia quando Bettino Craxi, il 27 agosto 1978, pubblicò su l'Espresso un lungo articolo («Il Vangelo socialista») in cui fece dell'intellettuale francese un antenato del Psi e gli attribuì il merito di avere previsto gli errori del comunismo e gli orrori del regime bolscevico.
Un'ultima osservazione, caro Sallier de la Tour. Proudhon fu contrario alla creazione dello Stato italiano. Scrisse che Mazzini «si era fatto propagandista d'un sistema falso nel suo principio e funesto nelle sue conseguenze: l'unità d'Italia». Disse che non sapeva più se credere «alla sincerità di Garibaldi o alla sua perfidia». E concluse: «Credete forse al civismo intelligente dei pugnali siciliani, dei coltelli trasteverini, delle bombe orsiniane, delle baionette garibaldine?». Se il lettore vorrà saperne di più potrà leggere una breve raccolta di scritti di Proudhon, «Contro l'Unità d'Italia», pubblicata nel 2011 dall'editore Miraggi di Torino a cura di Antonello Biagini e Andrea Carteny.
Repubblica 22.1.12
Emerson - Thoreau
"Impariamo a goderci i frutti della vita"
Dialogo su natura, amore e altre meraviglie
Il pensiero dei due filosofi nei diari tenuti per anni
L´urlo della tempesta, il fruscio della foglia: in essi vi è un´armonia essenziale e inesplorata
Un innamorato non nomina volentieri la sua amata poiché ella è sacra
Io non preferisco una religione Amo Brahma e Buddha al pari di Dio
Emerson: È strano come il mondo, che da un punto di vista speculativo e serio noi sappiamo così insoddisfacente e oscuro, ci debba essere tanto caro. Nulla, neppure il suo massimo fulgore, quando la Natura sfoggia il suo abito più bello e l´Arte fa di tutto per dilettare – né lo stesso lucente sole e lo splendente firmamento in cui esso sta come un capo – può impedire a un uomo, in certi momenti, di dire alla sua anima: «È solo vanità». Neppure le più fantastiche ipotesi, né un elaborato ragionamento, possono sostituire questa testimonianza alla familiare verità che lo spirito umano ha origini più alte della materia, una patria più nobile della Terra; che esso è troppo grande per essere ingannato con queste inezie, e troppo eterno per amalgamarsi alla caducità mortale.
La filosofia ha scoperto che la materia luminosa si autoconsuma e, fuor di ogni metafora, ciò è vero per questo mondo splendido che continua a corrompersi ma che ancora ci attrae col suo falso splendore.
16 aprile1822 (19 anni)
Thoreau: La Natura non fa rumore. L´urlo della tempesta, il fruscio della foglia, il picchiettio della pioggia non disturbano: in essi vi è un´armonia essenziale e inesplorata.
18 novembre 1837 (20 anni)
Società
Emerson: La socialità come unione imperfetta. Non è patetico che l´azione dell´uomo sugli uomini sia così parziale? Noi ci tocchiamo solo in certi punti. È possibile che tutto quello che posso fare o essere per il mio simile è leggere il suo libro o ascoltare i suoi progetti in una conversazione? Io mi avvicino a un Carlyle con desiderio e gioia. Di mese in mese sono stato mosso dalla speranza di un qualche totale abbraccio e di una perfetta unione con una nobile mente, e alla fine apprendo che è solo un atto così debole e remoto e irrisorio come leggere uno scritto di Mirabeau o di Diderot, e di pochi altri come loro. Ecco tutto ciò che possiamo ricercare. Di più di quello non saremo l´uno per l´altro. Oh, anima ostacolata! Non che siano il mare e la povertà e la carriera a separarci. Ecco Alcott alla mia porta, eppure l´unione è forse più profonda? No, il mare, la vocazione, la povertà sono solo recinti apparenti, invece l´uomo è un´isola e non può essere toccato. Ogni uomo è un cerchio infinitamente respingente, e in quello stato mantiene la sua essenza individuale.
19 maggio 1837 (34 anni)
Thoreau: L´uomo non è nato subito nella società – a malapena nel mondo. Il mondo che egli è nasconde a un tempo il mondo che egli abita.
La massa non s´innalza mai al livello del suo esponente migliore, ma al contrario si degrada al livello di quello peggiore. Come dicono i riformatori, è un livellamento verso il basso, non verso l´alto. Di qui, società è solo un altro nome per calca. Gli abitanti della terra, riuniti in un unico luogo, costituirebbero il più grande accalcamento.
La massima vicinanza cui gli uomini pervengono tra loro ammonta sì e no a un contatto meccanico. Come quando sfregate due pietre: sebbene emettano un suono che è udibile, in realtà esse non si toccano.
In ossequio a un istinto naturale, gli uomini hanno costruito le loro capanne e piantato il grano e le patate a una distanza tale che gli consentisse di parlarsi tra loro, e in tal modo hanno dato origine a città e villaggi, ma non si sono associati, si sono solo riuniti, e la società ha significato semplicemente un raduno di persone.
Il nostro incontro sia simile a quello tra due pianeti, i quali non si precipitano a mescolare le loro sfere discordi, bensì sono avvinti assieme dall´influsso di una sottile attrazione, per presto roteare distintamente nelle loro rispettive orbite: da ciò il loro perigeo, o punto di massima vicinanza.
La società non sia l´elemento in cui nuotiamo, o in cui siamo sballottati in balìa delle onde, ma sia piuttosto una striscia di terraferma che si protende nel mare, la cui base è lambita ogni giorno dalla marea, ma la cui sommità solo la marea di primavera può raggiungere.
14 marzo 1838 (21 anni)
Amicizia
Thoreau: Ancora una volta mi presento solo a me stesso.
La conversazione, il contatto, la familiarità sono i passi che portano all´amicizia nonché i suoi strumenti, ma essa è davvero perfetta quando quelli non servono più e la distanza e il tempo non oppongono barriere.
Non ho bisogno di chiedere a qualcuno di essere mio amico, non più di quanto il sole abbia bisogno di chiedere alla terra di essere attratta da esso.
Non spetta a lui dare, né a me ricevere. Io non posso perdonare il mio nemico – che si perdoni da sé.
Normalmente noi degradiamo l´Amore e l´Amicizia col presentarli sotto l´aspetto di un banale dualismo.
Il mio amico sarà tanto migliore di me quanto la mia aspirazione è superiore alla mia prestazione.
1839 (22 anni)
Emerson: Un innamorato non nomina volentieri la sua amata – piuttosto parla di tutte le persone e di tutte le cose che la circondano – poiché ella è sacra. Al pari un amico rispetterà il nome del suo amico. Nominalo per inorgoglirtene e vedrai che già smette di appartenerti. L´amante vile e di bassa lega viene ferito nel suo orgoglio dalla naturale dignità della vergine che lo intimidisce e lo sconcerta, faccia pure quel che vuole. Egli desidera possederla, affinché possa almeno riacquistare la lingua e il proprio contegno in sua presenza. In tal modo egli ruba la vittoria, che invece doveva nobilmente guadagnarsi coll´innalzare il proprio carattere al regale livello di quello di lei. La stessa etica vale per l´amicizia. Venera le superiorità del tuo amico. Non augurargliene di meno neppure col pensiero, ma fanne un mucchio e dichiarale tutte a voce: esse sono la forza elevatrice per mezzo della quale t´innalzerai a nuovi gradi di evoluzione.
La fiducia in se stessi traslata su un´altra persona è rispetto, ossia: solo chi rispetta se stesso sarà rispettoso degli altri.
21 giugno 1840 (37 anni)
Amore
Emerson: Nel nostro mondo, la donna nasconde la sua forma agli occhi degli uomini: di essi – pensa correttamente – non ci si può fidare. In un giusto stato di cose, l´amore di una donna, che ciascun uomo recasse nel suo cuore, dovrebbe proteggere tutte le altre donne dai suoi sguardi, come avvolgendole in un impenetrabile velo di indifferenza. L´amore di una donna dovrebbe renderlo indifferente verso tutte le altre, o piuttosto il loro protettore e santo amico, proprio per il bene di lei. Ora, invece, negli occhi di tutti gli uomini vi è un certo lampo maligno, un vago desiderio che li incolla alle forme di molte donne, mentre i loro affetti si concentrano su una sola di esse. Lo sguardo del loro occhio naturale non coincide con quello del loro occhio spirituale.
28 settembre 1841 (38 anni)
Thoreau: Non è facile trovare una persona tanto coraggiosa da giocare al gioco dell´amore da sola con te, ma ha sempre bisogno di una terza persona, o del mondo, che la incoraggi. Mette gli altri di mezzo. L´amore è così delicato ed esigente, che non vedo come esso possa mai iniziare. T´aspetti forse che io ti ami, a meno che tu non ponga il mio amore in cima alla tua lista? Le tue parole mi giungono corrotte, se il pensiero del mondo si è insinuato tra te e il pensiero di me. Non sei abbastanza audace per l´amore. Esso s´avventura da solo, senza paura, nelle terre selvagge.
14 marzo 1842 (25 anni)
Lavoro
Emerson: A giudicare dalla mia personale esperienza, temo che io debba rimangiarmi tutte le belle cose che ho detto a proposito del lavoro manuale dei letterati. Questi dovrebbero essere sollevati da ogni genere di responsabilità pubblica o privata. La cavalletta è un fardello per loro. Io sorveglio i miei umori tanto ansiosamente quanto l´avaro i suoi soldi; poiché lo stare in compagnia, gli affari, le mie faccende casalinghe turbano la mia armonia e mi rendono incapace di scrivere.
4 febbraio 1841 (38 anni)
Thoreau: La maggior parte degli uomini è così presa dalle preoccupazioni e dalle grossolane pratiche della vita, da non poterne cogliere i frutti più delicati. In effetti, chi lavora duramente non riesce a godere giorno per giorno di una vera e propria integrità: non può permettersi di mantenere con gli altri i rapporti più nobili e belli. Il suo lavoro si deprezzerebbe sul mercato. Come può ricordare con chiarezza la propria ignoranza, chi deve così spesso fare ricorso alle nozioni che sa?
Agosto 1845 (28 anni)
Religione
Thoreau: Io non preferisco una religione o una filosofia rispetto a un´altra. Non ho alcuna comprensione per la bigotteria e l´ignoranza che fanno effimere, parziali e puerili distinzioni tra la fede o forma di fede di un uomo e quella di un altro – tra cristiani e pagani, ad esempio. Dio mi scampi e liberi dai pregiudizi, dalla parzialità, dall´estremismo, dalla bigotteria. Per il vero filosofo tutte le correnti, tutte le civiltà, sono uguali. Io amo Brahma, Hari, Buddha, il Grande Spirito, al pari di Dio.
Maggio 1850 (33 anni)
Emerson: In materia di religione, le persone fissano avidamente lo sguardo sulle differenze fra il loro credo e il vostro: mentre il fascino dello studio sta proprio nel trovare i punti di accordo e le identità in tutte le religioni degli uomini.
Sono i trenta milioni di americani, o sono le tue dieci o dodici unità a incoraggiare il tuo animo di giorno in giorno?
Senza data 1869 (66 anni)
L´insegnamento
Thoreau: Per quanto misera sia la tua vita, affrontala e vivila; non evitarla, e non insultarla. Essa non è cattiva come te. Più sei ricco, più povera ti sembrerà. Un brontolone troverà qualcosa che non va perfino in paradiso. Ama la tua vita, per quanto povera sia. Forse puoi trascorrere qualche ora piacevole, eccitante e meravigliosa, anche in un ospizio per i poveri. Il sole che tramonta viene riflesso con la stessa lucentezza dalle finestre dell´ospizio come dalla casa del ricco. In primavera la neve si scioglie altrettanto rapidamente sulla soglia di quest´ultimo.
Non vedo come un animo tranquillo non possa vivere felicemente anche là, all´asilo dei poveri, e dilettarsi con lieti pensieri, come in ogni altro posto; e, di fatto, i poveri del paese sembrano vivere una vita più indipendente di chiunque altro. Forse semplicemente perché sono abbastanza grandi da ricevere senza sentirsi umiliati. Coltiva la povertà come la salvia, come un´erba aromatica del tuo orto.
Non darti pena di ottenere cose nuove, siano esse abiti o amici. È distrarsi. Rivolta quelle vecchie, ritorna a loro. Le cose non cambiano – siamo noi a cambiare. Se per tutta la vita fossi confinato nell´angolo di una soffitta, come un ragno, il mondo per me sarebbe ugualmente grande finché avessi la compagnia dei miei pensieri.
31 ottobre 1850 (33 anni)
Emerson: Tieni attentamente d´occhio i tuoi pensieri. Essi giungono inaspettati, come un nuovo uccello sui tuoi alberi, e, se ti volgi alla tua occupazione abituale, spariscono: e non ritroverai mai più quella percezione; mai, dico – ma magari anni, secoli, e chissà quali eventi e quali mondi potrebbero frapporsi tra te e il suo ritorno!
Nel romanzo, l´eroe incontra una persona che lo sbalordisce dimostrandogli di conoscere perfettamente la sua storia e il suo carattere, e da lui si fa promettere che, in qualunque momento e in qualunque luogo lei lo dovesse rincontrare, il giovane dovrà immediatamente seguirla e obbedirle. Altrettanto vale per te e il nuovo pensiero.
21 ottobre 1871 (68 anni)
il Riformista Ragioni 22.2.12
La forza della poesia, Pound e lo scoglio della sua illusione
di Melo Freni
qui
Repubblica 22.1.12
Giulia Lazzarini fa la rivoluzione con Basaglia e i matti di Trieste
Mariuccia Giacomini era un infermiera dell´ormai famoso manicomio di Trieste. Dopo anni di lobotomie ed elettroshock condivise, prima sorpresa, poi, via via, sempre più convinta, la "rivoluzione" di Franco Basaglia che nel ´78 dette dignità alla malattia mentale. Una testimone eccellente, dunque, la signora Mariuccia, che Renato Sarti triestino, autore e regista di spettacoli di impegno civile, ha usato per il suo Muri, un monologo che lega abilmente (solo qualche tono moralistico nel finale), il percorso umano al percorso politico che impose l´idea di cura come comprensione e rispetto del malato, anche se negli anni, poi, più volte tradita. Cose risapute, d´accordo, ma che qui trovano un nuovo calore, grazie anche al lavoro scenico di Giulia Lazzarini, attrice del teatro di Strehler: davanti a un leggìo, vestita semplicemente, offre una performance espressiva di gran livello, fatta di intonazioni, pause. Sottrazioni. Che è la cifra del recital, a cui avrebbe giovato essere più che una lettura, un vero spettacolo. (anna bandettini)
Corriere della Sera 22.1.12
Il gene che controlla la memoria umana
Nel nostro cervello c'è un controllore superiore della memoria di cui non si sospettava l'esistenza. Scienziati del Mit di Boston hanno scoperto un gene che esercita un ruolo di coordinatore generale delle operazioni compiute dai neuroni quando dobbiamo ricordare.
Il gene (Npas4) è particolarmente attivo nell'ippocampo, una struttura cerebrale caratterizzata nel trattenere memorie a lungo termine.
Il gene individuato accende una serie di altri geni che modificano le connessioni tra i vari neuroni. Gli esperimenti descritti sulla rivista americana Science sono stati condotti sui topi e sono giudicati preziosi anche perché permetteranno di creare una mappa cerebrale con tutte le aree impegnate nel memorizzare i nostri ricordi.
Corriere della Sera 22.1.12
Addio a Cioffi, «nemico» di Freud
Il filosofo statunitense Frank Cioffi, l'epistemologo che ha messo in dubbio la veridicità degli scritti di Sigmund Freud, sostenendo che in più casi il padre della
psicoanalisi avrebbe mentito falsificando i dati dei pazienti, è morto all'età di 84 anni nella sua casa di Canterbury, in Inghilterra, dove si era trasferito dagli anni Novanta.
Corriere della Sera Salute 22.1.12
Farmaci e psicoterapia spesso alleati
F ino a qualche anno fa gli ansiolitici erano ai primi posti fra i farmaci più venduti, venivano prescritti con facilità e assunti a dir poco con disinvoltura. Ora si usano molto meno.
«Oggi i farmaci di prima scelta sono gli antidepressivi serotoninergici: ne esistono molti, con caratteristiche diverse e per ogni paziente il medico può scegliere il più adatto — spiega Liliana Dell'Osso, di cui sta per essere pubblicata un lavoro che fa il punto sulle terapie più efficaci nei disturbi d'ansia —. Si tratta di farmaci efficaci, e più maneggevoli rispetto alle benzodiazepine, i classici ansiolitici. In alcuni casi possono dare tolleranza, ovvero la necessità di aumentare le dosi per avere lo stesso effetto, o perfino dipendenza. Si possono usare in alcune fasi della terapia, ma non a lungo termine. Per di più spesso non sono risolutive, ad esempio in caso di attacchi di panico: attenuano ma non eliminano le crisi di panico, per cui il paziente continuerà a vivere nell'ansia che possano capitargli di nuovo e non guarirà». Purtroppo, molti ansiosi patologici ricorrono al fai da te, scegliendo l'ansiolitico più a portata di mano, l'alcol: «L'alcol rilassa, perciò molti lo considerano una panacea per superare momenti difficili — interviene Laura Bellodi del San Raffaele —. Ma è una bomba a orologeria. Sono tanti gli alcolisti che hanno iniziato a bere per curare da soli un disturbo d'ansia e poi non sono riusciti più a fermarsi».
Il primo passo per un trattamento adeguato è chiedere aiuto: oggi i pazienti lo fanno più spesso rispetto al passato, ma in alcuni casi, ad esempio in coloro che soffrono di fobia sociale, è la malattia stessa a rendere difficile rivolgersi al medico. L'unico, peraltro, che può fare la diagnosi.
«I test fai da te sono sconsigliabili, i pazienti hanno ossessioni e difficoltà che possono perfino essere acuite da domande non mediate da un professionista, che sa come porgerle e interpretarle» sottolinea a questo proposito Liliana Dell'Osso.
Il medico, anche quello di medicina generale, può capire di che disturbo si tratta e soprattutto se dipende da un problema organico.
«Esistono infatti malattie, come il decadimento cognitivo nell'anziano e alcune patologie endocrine o della tiroide, che possono presentarsi con i sintomi di un disturbo d'ansia» avverte Bellodi. «Una volta certi della diagnosi, — prosegue la specialista — spesso è utile associare agli antidepressivi una terapia cognitivo-comportamentale. È fondamentale chiedere che tipo di psicoterapia sarà impostata, perché nei disturbi d'ansia la classica psicanalisi, ad esempio, non è molto utile». «Quel che conta, infatti, — spiega Laura Bellodi — non è indagare la personalità, ma fornire al paziente gli strumenti cognitivi e "pratici" per tornare in una logica di comportamenti sani, che non siano dettati dall'ansia. Una psicoterapia ben fatta garantisce risultati in breve tempo: entro sei, otto mesi si deve vedere un cambiamento, altrimenti vuol dire che quella psicoterapia non è quella giusta».
Ma qual è il disturbo più difficile da affrontare?
«Di certo il disturbo ossessivo-compulsivo — risponde Bellodi, che presiede il comitato scientifico dell'Associazione Fuori dalla Rete per aiutare i pazienti ossessivo-compulsivi —. Ha caratteristiche un po' diverse dagli altri e si è anche ipotizzata una reale compromissione di alcune strutture cerebrali. Tuttora non riusciamo a risolvere quattro casi su dieci. Ma in tutti gli altri disturbi le cure sono quasi sempre risolutive: purtroppo, non tutti i pazienti l'hanno ancora capito. E questo è forse l'equivoco peggiore sui disturbi d'ansia».
Corriere della Sera Salute 22.1.12
Perché ci baciamo resta un mistero
di Marco Rossari
Nonostante sia un gesto comune che per amore o amicizia quasi ogni individuo reitera addirittura su base quotidiana, le opinioni intorno all'«osculazione» divergono. Gli scienziati proprio non sono riusciti a trovare una linea univoca sui motivi che ci hanno spinto a questa pratica bizzarra: sarà un fenomeno naturale o di natura culturale? Derivante dall'istinto o dall'apprendimento? E quali reazioni scatena nel nostro corpo, dalle estremità fino al cervello? Soprattutto: di che diavolo parliamo quando alludiamo all'atto definito da questo termine infelice? Parliamo di bacio, semplicemente. Questo gesto, che innesca una forte reazione emotiva e ha un palese significato evolutivo, ha spinto Sheril Kirshenbaum, giornalista scientifica dall'anima pop, a indagare con l'aiuto della biologia e dell'antropologia, delle neuroscienze e della psicologia, quella che l'attrice Mae West, primo sex symbol del cinema americano, chiamava «la firma di un uomo».
O di un animale, tanto per cominciare. Perché quando Darwin si convinse che l'uomo fosse il solo a sapere baciare prese un abbaglio grande come una casa. Anche se parrà un brano partorito dalla fantasia di Gianni Rodari, oggi sappiamo che le talpe si strofinano il muso, le tartarughe si danno qualche colpetto con la testa, i porcospini si sfregano il naso (altre parti libere, d'altro canto, non sarà facile trovarne), i criceti si piazzano faccia a faccia, i gatti si leccano, le giraffe intrecciano il collo e diverse specie di pipistrelli usano perfino la lingua. D'ora in poi, vietato affermare: "Baci come un animale". Potrebbe essere scambiato per un complimento.
P iù complesso determinare come la prassi si sia affermata fra gli esseri umani. Le teorie sono tante. Secondo il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran, i nostri antenati, una volta suggestionati a puntare sul colore rosso a caccia di cibo (leggi: i frutti maturi in mezzo al fogliame), hanno applicato quell'istinto all'anatomia femminile, passando dalle zone intime alla bocca, che già il celebre etologo Desmond Morris definiva "un'eco genitale". A quest'ultimo si deve anche la seconda teoria, che collega in modo ragionevole la sensazione di benessere alla fase dell'allattamento.
Sempre all'infanzia si fa risalire la terza ipotesi, quella sulla "premasticazione", un metodo essenziale da che esiste il genere umano per svezzare bambini ancora non autosufficienti.
Se ci rivolgiamo all'anatomia potremo invece scoprire che non c'è alcuna relazione tra la mano con la quale scriviamo e il fatto di inclinare la testa a destra nel corso di un bacio. Anche qui le opinioni divergono: c'è chi sostiene che la faccenda abbia inizio nell'utero e chi con l'allattamento
Di sicuro, per quanto poco sexy, sarà istruttivo sapere che lo zygomaticus major, lo zygomaticos minor e il levator labii superior lavorano di concerto a sollevare il labbro superiore, mentre il depressor anguli oris e il depressor labii inferioris spostano quello inferiore. A quel punto entrano in gioco le terminazioni nervose: le minuscole ma alacri connessioni mandano una cascata di segnali alla corteccia somatosensoriale e al sistema limbico. Così gli impulsi neurali spingono il nostro corpo a produrre una serie di neurotrasmettitori e ormoni, tra cui dopamina, ossitocina e serotonina. Crederete di aver baciato il principe azzurro o la donna ideale, ma in verità siete solo manovrati da una cascata di endorfine prodotte dalla ghiandola pituitaria e dall'ipotalamo. Forse non sembrerà molto romantico, ma l'amore ha un nome ed è epinefrina (più nota come adrenalina).
C erto, se diamo retta ai biologi potremmo invece farci l'idea che a spingerci a baciare siano soprattutto i nostri germi, smaniosi di fare a cambio con i loro consimili. Negli anni Cinquanta un ricercatore del Baltimore City College stabilì che due individui innocentemente dediti a sdilinquirsi nelle ultime file di un drive-in si scambiano 278 colonie di batteri, per quanto innocui al 95%, e questo perché la nostra saliva contiene cento milioni di germi al centimetro cubo. Sarà da qui che avrà origine la cosiddetta filematofobia, ossia "paura del bacio", dietro la quale si nasconde il timore per l'Herpes o per il virus Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi o "malattia del bacio"?
Nell'ambizione di scoprire quale eco avesse nel nostro corpo lo stucchevole "apostrofo rosa" (così definito da Rostand, l'autore del Cyrano), la Kirshenbaum s'è spinta fino al laboratorio di un neuroscienziato cognitivo, per cercare - con risultati poco rilevanti, va detto - di "vedere" grazie a uno strumento di scansione cerebrale, ossia la macchina della magnetoencefalografia, detta affettuosamente MEG, la reazione di un gruppo di volontari alla visione di qualche bacio in fotografia. S'è arresa con un nulla di fatto. Ci vuole anche un briciolo di mistero. O di poesia, se si preferisce. Quella di uno come Edward E. Cummings, ad esempio, che se ne intendeva: "I baci sono un destino migliore della saggezza". Parole sagge che cascano al bacio.
Corriere della Sera Salute 22.1.12
Chi lo teme, chi lo trova osceno e chi preferisce mordicchiare le ciglia
Nel tentativo di capire l'uso del bacio nel mondo, anche gli antropologi ebbero i loro bei grattacapi. Dare per scontato un gesto tanto semplice fu un grave errore e a volte ebbe qualche risvolto grottesco. Nell'Ottocento, ad esempio, l'avventato William Winwood Reade, autore di Savage Africa, decise di provare a baciare la figlia di un capotribù e la ragazza fuggì a gambe levate, spaventata a morte e convinta che il mite studioso volesse divorarla viva. In un altro libro datato 1872, The Martyrdom of Man, lo stesso Reade raccontò il ritorno a casa dei cacciatori in una comunità africana. Venivano accolti con grande affetto, «accarezzandoli in viso, — scrive Reade — dando loro colpetti sul petto e abbracciandoli in tutti i modi, ma senza usare le labbra, perché il bacio è sconosciuto fra gli africani». Non solo, con tutta probabilità avrebbero anche trovato parecchio sgradevole il fiato al dentifricio. Ugualmente spiazzato rimase uno scrittore di viaggio che, nella stessa epoca, fece una trasferta in Finlandia e lì notò che uomini e donne non disdegnavano di fare il bagno nudi tutti insieme, ma consideravano la pratica del bacio oscena oltre ogni dire. «Che ci provi, mio marito — lo avvertì una simpaticona — e gli brucio le orecchie, tanto da fargli sentire la scottatura per una settimana».
Il celebre Bronislaw Malinowski, antropologo polacco naturalizzato britannico, a zonzo per le isole Trobriand, vicino alla Nuova Guinea, notò che durante l'atto sessuale, per qualche inesplicabile motivo, al posto di baciarsi, i trobriandesi si mordevano le ciglia. «Non sono mai riuscito a comprendere — scrisse Malinowski — il meccanismo o il valore sensuale di questo atto».
Farà sorridere invece ricordare che negli anni Venti del Novecento, «Il bacio», statua scolpita da Auguste Rodin (1888-1889), venne esposta a Tokyo, ma con qualche cautela: fu circondata da una cortina di bambù per non offendere il pudore del pubblico.
Corriere della Sera Salute 22.1.12
In rete 150 anni di salute italiana
Interessanti sono le informazioni su sanità e salute contenute nel contributo che l'Istat (Istituto italiano di statistica) dà per celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Il sito appositamente creato (http://seriestoriche.istat.it/) fornisce dati storici che descrivono, iniziando dal 1863, i mutamenti del Paese, compresi quelli che hanno riguardato la salute degli italiani. Scopriamo così che, se appena dopo l'unità d'Italia moriva, entro il primo anno di vita, un bambino su quattro, oggi si è saliti a uno su 100.
Anche l'aspettativa di vita è assai cresciuta e le serie storiche ci descrivono le componenti di questo miglioramento: prima di tutto una riduzione, nettissima a partire dal secondo dopoguerra, delle malattie infettive. Interessante anche la statistica sui posti letto negli ospedali, disponibile dal 1954: descrive una parabola con il suo vertice negli anni 70 (11 posti ogni 100 mila abitanti), poi si registra una contrazione che ha portato a 4 per 100 mila abitanti il numero di posti letto nell'ultima rilevazione del 2006. Altra cifra significativa, la statura alla visita di leva: nel 1872 i ragazzi erano alti in media 1 metro e 62 cm; nel 1998 (ultimo dato) 1 metro e 74 cm.