lunedì 23 gennaio 2012

La Stampa 23.1.12
Intervista
Camusso: “Per noi è no Ma trattiamo su fisco e tempi dei risarcimenti”
«Per finanziare la riforma chiedere di più agli autonomi»
di Alessandro Barbera


I GIOVANI «Non serve un nuovo contratto ne esistono già due, apprendistato e inserimento»
SUI CONTENZIOSI APERTI «Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante dall’Inps»
LE NUOVE GENERAZIONI «Lo ammetto, il sindacato poteva fare di più per organizzarle»

ROMA. Segretario Camusso, il momento è arrivato. Il premier vi chiede di non porre veti.
«Abbiamo detto chiaramente che per noi l’articolo 18 non può essere oggetto di discussione. A meno che non pensino di estenderlo».
All’inizio di una trattativa si dice sempre così. Eppure il governo si siede con l’idea di trovare un compromesso attorno alla proposta Boeri-Garibaldi: in sostanza la tutela dal licenziamento verrebbe garantita solo dopo tre anni di lavoro.
«Si sono costruite aspettative sbagliate. Abbiamo firmato un accordo con Cisl e Uil proprio per sgombrare ogni dubbio. Non c’è bisogno di introdurre un nuovo tipo di contratto. Per i giovani ne esistono già di due tipi, si chiamano apprendistato e inserimento».
E’ opinione di molti che l’articolo 18 sia un elemento di irrigidimento delle assunzioni. Di più: crea un dualismo fra quelle con più di quindici dipendenti e quelle che ne hanno meno. Cosa risponde?
«Se la media delle imprese italiane avesse 14 addetti le direi che ha ragione. Invece i numeri ci dicono che sta fra i tre e i nove. Il problema delle imprese si chiamano credito e capitalizzazione. A giudicare dalle misure prese, mi pare l’abbia capito anche il governo Monti».
Ipotizziamo che io, imprenditore, assuma un dipendente a tempo indeterminato, e che poi quel lavoratore abbia comportamenti che ne meritino il licenziamento. Per ottenere ragione da un giudice devo aspettare in media cinque anni.
«Questa è l’unica questione sulla quale sono d’accordo con le imprese. Di soluzioni al problema ce ne possono essere diverse. Una può essere creare una corsia preferenziale. Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante elaborata dall’Inps».
I numeri dicono anche che siamo uno dei pochi Paesi in Europa in cui non c’è il licenziamento per motivi economici. Non è così?
«In Italia il licenziamento per motivi economici esiste eccome».
Se lei intende con questo la cassa integrazione è a carico dei contribuenti. O no?
«Sistemi come il nostro esistono in Francia e in Germania. E da loro lo Stato ci mette di più, non di meno. Qui semmai è troppo alto il prezzo che si chiede a imprese e lavoratori».
Nel documento unitario chiedete un minor carico fiscale sulle buste paga dei lavoratori. Può essere un elemento di trattativa?
«La manovra di dicembre ha introdotto nuovi sgravi Irap per l’assunzione di giovani e donne al Sud. Stessa cosa si è fatta per l’apprendistato. Questi interventi vanno nella giusta direzione».
Per estendere in via strutturale la cassa integrazione alle imprese più piccole chiedete un ulteriore aumento dei contributi a carico degli autonomi. Ma sono già saliti molto, e il ministro Fornero è contrario.
«Non capisco l’atteggiamento del ministro. A regime, se non ricordo male, i contributi degli autonomi resteranno di nove punti al di sotto dei dipendenti. Mi pare troppo. Io resto convinta che un sistema di previdenza pubblico debba avere forme di solidarietà interne».
Il ministro preferirebbe chiedere di più ai più ricchi. Ma non sarebbe un contributo simbolico rispetto a ciò di cui c’è bisogno?
«Certo, i parlamentari potrebbero dare di più. Ma non credo che quel contributo, per quanto alto, basterebbe a finanziare il sistema».
Direste no anche ad una riforma sul modello danese?
«Abbiamo fatto una simulazione di quel sistema in Lombardia. Costa troppo, non si può fare. Stiamo coi piedi per terra: qui il problema è evitare abusi e rendere il sistema più giusto».
Al tavolo oggi si siedono quattro sindacati che rappresentano lavoratori maturi se non pensionati. Mi dice una ragione per la quale un giovane si dovrebbe sentire rappresentato dalle vostre opinioni?
«In questi anni i giovani sono stati per così dire distratti da un mercato del lavoro che non li ha tutelati. Mi chiede se il sindacato poteva fare di più per organizzarli? Ebbene sì, lo ammetto. Ma credere che togliere tutele a chi un lavoro ce l’ha sia una risposta, beh, non credo nemmeno loro siano d’accordo».
E’ ottimista sull’esito della trattativa?
«Sono seriamente impegnata».

Repubblica 23.1.12
“L’articolo 18 pilastro di civiltà Palazzo Chigi non lo modificherà"
Camusso: la vera occupazione è a tempo indeterminato
di Roberto Mania


Le parole del premier Monti contengono una novità. Per la prima volta parla di negoziato tra l´esecutivo e le parti sociali Finora non si era mai posto in questi termini
Diremo no al contratto unico perché contiene un inganno Introduce solo un nuovo modello senza colpire la proliferazione della flessibilità

ROMA - Segretario Camusso, come replica al presidente del Consiglio Monti secondo cui l´articolo 18 non può essere un tabù?
«Intanto vorrei dire che nell´affermazione di Monti c´è una notizia: per la prima volta, e finalmente, parla di un negoziato tra il governo e le parti sociali. Finora non l´aveva detto».
È vero, ma l´articolo 18 per lei è un tabù?
«Guardi, io penso che dietro questo giochino di dire che l´articolo 18 non deve essere un tabù, si nasconda l´idea, che non condividiamo e non condivideremo, secondo la quale per combattere il dualismo del nostro mercato del lavoro si debba intervenire sulle tutele di chi è già occupato. Noi continuiamo a non essere d´accordo con questa analisi. L´articolo 18 non può essere un tema di discussione né in partenza del negoziato, né a conclusione del negoziato».
Eppure l´articolo 18 si applica solo ai dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti. Per tutti gli altri è previsto un risarcimento monetario, anziché il reintegro nel posto di lavoro, in caso di licenziamento ingiustificato. Perché non si può estendere questo meccanismo a tutti i lavoratori?
«Ormai in Italia si pensa che non si possa licenziare per motivi economici. Invece non è vero. Piuttosto inviterei tutti - anche molti professori che fanno tanti guai - a una lettura collettiva dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una norma che è esplicitamente ed esclusivamente dedicata alla tutela del licenziamento senza giusta causa a carattere discriminatorio. Così chi critica oggi l´articolo 18 dovrebbe avere il coraggio di sostenere che la buona sorte del Paese dipende dalla possibilità o meno di potere licenziare in modo discriminatorio».
D´accordo, ma perché non adottare il risarcimento economico al posto del reintegro?
«Non è casuale che lo stesso Statuto distinse tra grandi e piccole imprese. In quest´ultime una volta che si rompe il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore è complicato tornare indietro. E non dimentichiamoci che lo Statuto nacque in un´epoca in cui c´erano soprattutto grandi imprese».
Sono passati quarant´anni. Perché non si può cambiare?
«Perché l´articolo 18 ha una funzione deterrente. Continuo a pensare che sia una norma di civiltà, anche se a qualcuno dà fastidio. I destini economici di un´impresa si possono affrontare in tante maniere senza intaccare i diritti di chi lavora. L´articolo 18 dice che non si può usare il potere maggiore che hanno le imprese per discriminare le persone».
Se il governo porrà la questione dell´articolo 18, salterà il negoziato?
«Non ho avuto affatto l´impressione che fosse questa la priorità del presidente Monti. Non credo che il governo partirà da lì. Ha detto che intende fare una trattativa e penso che terrà conto delle proposte unitarie di Cgil, Cisl e Uil».
Quante possibilità ci sono che arriviate ad un´intesa con il governo e la Confindustria?
«Posso dire che ci presentiamo al tavolo in maniera molto seria e con le nostre proposte. Mi auguro che lo facciano anche gli altri, governo e imprenditori».
Perché siete contrari al "contratto unico" che nell´arco di un triennio permetterebbe di stabilizzare le nuove assunzioni? Perché la Cgil l´ha definito "un inganno"?
«È un inganno perché parte dall´idea che in Italia, e in Europa, non ci sia già una regola generale sulle assunzioni. Invece, c´è, eccome: è quella secondo cui le assunzioni normali sono a tempo indeterminato. In più aggiunge una nuova forma contrattuale, senza intaccare le cause, anche ideologiche e culturali, che hanno portato al proliferare di decine di tipologie contrattuali».
Ma lei vorrebbe tornare indietro a quando non c´erano i contratti flessibili?
«Non si torna mai indietro. Penso che si debbano fare le cose necessarie per il nostro mercato del lavoro: tornare alla normalità. Per questo pensiamo che vadano incentivate, sul piano fiscale e contributivo, le assunzioni attraverso il contratto di apprendistato e il contratto di inserimento per le donne e gli over 50».
E quali contratti flessibili salverebbe?
«Penso che vada rafforzato il part time, che vada riordinato il lavoro interinale, ma che si debba smettere di considerare le partite Iva come fossero lavoro subordinato».
Lei ha criticato le liberalizzazioni di Monti. Perché è contraria?
«Non sono contraria. C´è, però, un tratto che mi preoccupa molto: quello di intervenire scaricando gli effetti sulle condizioni di lavoro. Penso all´allungamento degli orari dei negozi, penso alla cancellazione per legge (una scelta davvero inaudita) del Contratto nazionale delle ferrovie, penso al riordino dei tirocini senza valutare gli aspetti retributivi, penso, infine, che un orario di lavoro più lungo per i tassisti non dia nemmeno un servizio migliore».

Repubblica 23.1.12
Contratti unici e capitale umano
di Chiara Saraceno


La riduzione dei circa 40 tipi diversi di contratto di lavoro legalmente possibili oggi in Italia, e l´introduzione di un contratto unico con tutele progressive, è sicuramente una proposta attraente dal punto di vista della civilizzazione dei rapporti di lavoro e della riduzione delle disuguaglianze tra lavoratori. Non è affatto sicuro che riduca la temporaneità di fatto dei contratti, che è uno degli obiettivi espliciti dei proponenti.
È vero, infatti, che il contratto unico sarebbe a tempo indeterminato. Ma in cambio di un periodo di prova di fatto allungato fino a tre anni. Durante questo periodo, secondo le proposte in circolazione, il lavoratore può essere licenziato senza vincoli di alcun tipo, salvo quelli che puniscono il comportamento discriminatorio da parte del datore di lavoro. In caso di licenziamento con motivazioni diverse dalla giusta causa, il datore di lavoro è tenuto a pagare un indennizzo, pari a 15 giorni di stipendio ogni trimestre lavorato, secondo la proposta di Boeri e Garibaldi ripresa nel disegno di legge Nerozzi e messa ufficialmente sul tavolo della trattativa. Al lavoratore licenziato senza giusta causa allo scadere dei tre anni spetterebbe un´indennità pari a sei mesi di stipendio. Questo obbligo di indennizzo, oltre ad offrire un cuscinetto di protezione per il lavoratore che perde il lavoro e il reddito, dovrebbe costituire un deterrente ai licenziamenti, divenuti costosi per il datore di lavoro. La proposta prevede anche l´impossibilità di ricorrere al trucco, molto utilizzato da diversi imprenditori, di licenziare e riassumere, per impedire sia la maturazione dei tre anni, sia di raggiungere il massimo dell´indennità. Ad ogni riassunzione si parte dal livello di anzianità di servizio raggiunto prima del licenziamento.
In un Paese con una classe imprenditoriale matura, che investe nella propria forza lavoro e che considera uno spreco di risorse un turn over troppo accentuato della propria forza lavoro, questo modello contrattuale apparirebbe ragionevole ed equilibrato. Le aziende, avendo un periodo di prova lungo in cui valutare, ma anche formare, chi hanno assunto, a meno che proprio non ne abbiano più bisogno per motivi economici e di mercato, se li terrebbero per non vanificare l´investimento fatto. Proprio i comportamenti delle imprese di questi anni inducono invece ad un po´ di pessimismo. Si pensi all´uso sfrenato che è stato fatto di ogni opportunità di utilizzo usa e getta della forza lavoro, anche di quella più qualificata, alla rincorsa che c´è stata alle forme contrattuali più precarie, al punto che in alcune zone oggi non si fa più neppure il contratto a tempo determinato, o stagionale, ma si utilizzano i buoni lavoro, che non richiedono nessun contratto. Il rischio è che i contratti unici a tempo indeterminato vengano utilizzati invece come contratti a tempo determinatissimo, cortissimo, con un turn over ancora maggiore di quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni: invece di rinnovare brevi contratti a termine alle stesse persone faranno contratti unici che dureranno poco a persone sempre diverse.
Questo pessimismo non deve indurre ad abbandonare la strada del contratto unico. Piuttosto dovrebbe suggerire la necessità di introdurre di vincolo al rapporto tra numero di contratti rescissi e avviati nell´arco di un anno, oltre a qualche controllo su iniziative ben note di imprenditoria creativa, quali la scomposizione di una società in società diverse, in modo che i lavoratori licenziati da una possano essere riassunti da un´altra, figliata dalla prima, interrompendo ogni vincolo di continuità. È già successo per fruire di misure di fiscalità di vantaggio o di incentivi. Può succedere di nuovo per aggirare i vincoli del contratto unico. Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo.

l’Unità 23.1.12
Paura, instabilità, futuro
Ecco la generazione 2.0 che si affaccia al voto
Ottimisti e attenti al «bene comune», ma già condizionati dalle prospettive di precarietà. Sono i ragazzi fra i 17 e i 21 anni che usano il web, comunicano con gli sms e temono di avere nella vita meno opportunità dei loro genitori
di Carlo Buttaroni
, presidente di Tecné

Ottimisti, attenti alle novità, positivamente orientati verso i diritti civili, la convivenza sociale e il bene comune. E naturalmente ipertecnologici. È questa la fotografia dei giovanissimi tra i 17 e i 21 anni. Nel complesso sono soddisfatti del proprio tenore di vita, ma allo stesso tempo, sono titubanti rispetto al futuro, anche perché un giovane su due ha paura di non trovare lavoro. Il 71% è convinto che valga la pena impegnarsi per valori come l’uguaglianza sociale e la solidarietà, piuttosto che puntare sui soldi e sul successo personale. Non si sentono rappresentati nella difesa dei loro diritti, se non parzialmente dai sindacati e dalle istituzioni. Nonostante questo non sono disattenti nei confronti della politica, che seguono prevalentemente attraverso internet o parlandone con gli amici. E, infatti tre giovani su quattro si collocano all’interno di un campo politico, anche se più della metà degli intervistati, se si trovasse davanti la scheda elettorale, non saprebbe quale partito votare.
È la generazione “2.0”, nata dopo la caduta del muro di Berlino, dopo il Caf, gli anni dell’edonismo e del rampantismo. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet di massa, delle classi multietniche. Bambini diventati adolescenti con le note del Grande fratello, i sentimenti compressi in pochi caratteri scritti sul display del cellulare, i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la realtà in videogioco.
Non hanno mai conosciuto la Prima Repubblica. E si sono formati interamente durante gli anni della Seconda. Nonostante questo non hanno mai avuto l’opportunità di eleggere un proprio rappresentante, esprimere un giudizio di merito sui governi che hanno tracciato il loro futuro, dare un indirizzo politico attraverso il voto. Apolidi nella società in cui hanno mosso i primi passi e sono cresciuti.
Troppo giovani per esprimere direttamente una rappresentanza e aver riconosciuto un ruolo. Troppo lontani dal cuore del sistema per dare qualcosa in cambio. Una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla; non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non le tv e i giornali, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali troppo distratti e appagati dai primi tre.
Saranno loro, nei prossimi anni, a pagare i costi di uno sviluppo che insieme all’aria, al suolo, alle risorse naturali, ha consumato quote del loro futuro. In eredità avranno molti debiti e poche certezze, se non quella di condizioni di vita peggiori dei loro padri. Non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del Novecento, ma una post-democrazia, dove i governi nazionali sono condizionati, nelle scelte di politica economica, da una finanza senza regole che distrugge quote di ricchezza reale e quote di democrazia sostanziale.
Vivono gli affanni della precarizzazione che si ripercuote sui progetti di vita. Una percezione che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, con il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente.
Paure che danno origine ad atteggiamenti che appaio contraddittori: da un lato, i giovani, sono portati ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall'altro sono disorientati e lo smarrimento li porta a vivere un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni. Una precarietà che si trasforma nella paura di vivere la vita reale, dando corpo a quella cultura del risparmio emotivo che sembra caratterizzare le loro relazioni. Anche perché, nel frattempo, l’io-ipertrofico che ha nutrito l’adolescenza della generazione “2.0” si è definitivamente ammalato, dopo essersi nutrito dei titoli tossici, del valore della conversione dell’etica in euro, dell’espansione verso nuovi mercati e nuovi individui.
Vivono l’assenza di valori, di mode propositive di costumi edificanti, immersi in una società nella quale predominano gli spazi grigi e la notte della coscienza. Seppur attraversati da nuove forme di coinvolgimento sociale e di partecipazione civile, sembra crescere in loro una nuova forma di malattia sociale: la malinconia.
Ecco allora che i buoni sentimenti si declinano in nuove e differenti attese: il senso di un’identità a cui appartenere e con cui riconoscersi, un “altrove” verso cui dirigersi. E l’assenza di risposte alle loro domande li spinge a gesti di esasperata esaltazione e a macabri rituali di devastazione, non più sostenuti da un modello familiare al cui interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità.
I progetti di vita individuali non appaiono più sufficienti a restituire significato al senso di vuoto che avvolge i loro destini, ma è proprio da qui, dal sentirsi animati da un peso così poco sostenibile, che affiora un sentimento per un cambio di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Reclamano parole sulla vita che viene avanti, risposte che indichino quale sia la via da percorrere, una visione e un agire che restituiscano senso all’intera società.
Dalle istanze che avanzano traspare l'esigenza di affermare una nuova identità, in un percorso reso difficile dal fatto ciò che era prima e i valori in cui si credeva sono messi continuamente in discussione. A tutto ciò si reagisce con atteggiamenti di vera e propria inedita conflittualità, un distacco che si colora anche di insofferenza, quando non addirittura di ostilità in un crescendo di contenuti e toni quanto più si accompagna a reciproci disconoscimenti e incomprensioni.
Andranno alle urne per la prima volta per un’elezione nazionale, l’anno prossimo, avendo maturato i pieni diritti politici. Nel frattempo lo scenario all’interno del quale sono cresciuti è cambiato. È calato il sipario sulla Seconda Repubblica e il Paese vive i fermenti e le tensioni che precedono l’entrata in scena della Terza.
La “generazione due punto zero” vive l’ansia di un credito di fiducia mai pienamente accordato. Esprime una domanda di rinnovamento e di riscatto, attende ma non si affida, ha bisogno di strumenti reali per creare e nuovi luoghi dove produrre, per dare vita a un nuovo patto che permetta ai giovani, di conoscersi, capirsi, collaborare, integrarsi reciprocamente, senza omologazioni e senza perdite d’identità.

La Stampa 23.1.12
Due ragioni per essere ottimisti
di Luca Ricolfi


Con il decreto-legge sulle liberalizzazioni, che il governo preferisce chiamare «pacchetto di riforme strutturali per la crescita», è ufficialmente iniziata la «fase 2» del governo Monti, volta a far ripartire l’economia italiana. Nel giudicare l’efficacia delle misure fin qui delineate, tuttavia, sarebbe bene distinguere nettamente fra effetti a breve termine ed effetti di periodo medio-lungo.
Nel breve periodo sarebbe sbagliato aspettarsi grandi risultati. La realtà, purtroppo, è che la «fase 1» (la manovra di fine anno), con le sue pochissime riduzioni di spesa e i suoi moltissimi aumenti di entrata, ha avuto un impianto fortemente recessivo. Il che significa, in concreto, che le misure della «fase 2», più che far ripartire la crescita, si limiteranno ad attenuare la recessione preparata dalla «fase 1».
Altrettanto sbagliato, tuttavia, sarebbe non vedere la straordinaria opportunità che le misure delineate nel decreto-legge di venerdì scorso offrono all’Italia nel periodo medio e lungo. Se quelle misure non saranno abbandonate o annacquate dal parlamento, e diventeranno invece il primo tassello di una strategia di scongelamento del sistema Italia, i loro frutti potrebbero essere generosi, anche se – realisticamente – credo sarà difficile raccoglierli prima di 2-3 anni.
Che cosa mi induce, contrariamente al mio solito, a un sia pure cauto ottimismo?
Essenzialmente due considerazioni. La prima è che, nonostante le previsioni di crescita dell’Italia nel 2012 si siano ancora deteriorate nelle ultime settimane, passando da –0.5% a –2.2%, il rendimento dei nostri titoli di Stato ha finalmente cominciato a scendere, non solo nel confronto con la Germania, ma anche in quello con paesi europei a noi più comparabili, come la Spagna, la Francia, il Belgio. Da circa due settimane lo spread italiano non si limita a beneficiare della boccata di ossigeno che i mercati stanno concedendo a diversi Paesi dell’area Euro, ma sta migliorando la sua posizione relativa rispetto a diversi paesi. Se anziché calcolare lo spread (rispetto alla Germania) calcoliamo lo «spread dello spread», ossia il nostro grado di penalizzazione rispetto alla media di Spagna, Francia e Belgio, non possiamo non registrare con soddisfazione che nelle ultime due settimane la nostra situazione è migliorata di 54 punti base, che salgono a 76 se il confronto è con la sola Spagna, un Paese rispetto al quale, fino a pochissimo tempo fa, eravamo invece in costante peggioramento. È difficile stabilire con certezza a che cosa si debba questa sorta di inversione del giudizio dei mercati, ma è difficile negare che gli ultimi segnali siano relativamente confortanti: la situazione è sempre gravissima (paghiamo oltre 4,3 punti di interesse più della Germania), ma il trend delle ultime due settimane è decisamente incoraggiante.
C’è anche un’altra considerazione che mi rende meno scettico del solito. Il decreto sulle liberalizzazioni, proprio perché è incompleto, pieno di limiti e di omissioni, offre a tutti gli attori in campo, e innanzitutto ai partiti, la possibilità di scegliere fra due strategie: prendere le distanze dal decreto perché si spinge troppo in là, facendo molto di più di quanto centrosinistra e centrodestra hanno saputo fare negli ultimi 15 anni, oppure andare oltre il decreto, combattere perché lo spettro delle liberalizzazioni sia più completo. Ferrovie, porti, aeroporti, mercato del lavoro, valore legale del titolo di studio, per fare solo qualche esempio, sono tutti ambiti su cui il decreto interviene poco o niente, e che invece meriterebbero di essere investiti da ulteriori ondate di liberalizzazioni.
Il presidente del Consiglio, con la sua dichiarazione di ieri sulla non intangibilità dell’articolo 18, sembra più che mai determinato ad andare avanti nella sfida delle liberalizzazioni, senza cedere alla retorica degli «opposti distinguo», secondo cui «questo si deve fare, quest’altro non è una priorità».
Più difficile è valutare le strategie di Pd e Pdl. Il Pd, almeno a parole, sembra criticare il governo perché non liberalizza abbastanza. Il Pdl, invece, sembra preoccupato che si liberalizzi troppo. Ma entrambi potrebbero scambiarsi i ruoli non appena si parlerà di mercato del lavoro e di articolo 18, con Bersani pronto ad isolare i riformisti à la Pietro Ichino, e Berlusconi tentato di sostenere una riforma radicale del mercato del lavoro.
Vedremo come andrà a finire. Però fin da ora almeno una cosa possiamo dirla. Il peggio per l’Italia sarebbe che i due maggiori partiti cercassero di riconquistare consensi cavalcando il malcontento delle rispettive basi sociali, con Berlusconi che soffia sul fuoco della protesta di taxisti e professionisti, e Bersani che legittima le resistenze sindacali a una riforma vera del mercato del lavoro. Il meglio per l’Italia sarebbe che Monti portasse fino in fondo la strategia delle liberalizzazioni, e i due maggiori partiti raccogliessero la sfida, pungolando il governo a fare di più e non di meno di quello che sta facendo.
Detto in modo più brutale, il peggio per l’Italia sarebbe che Pd e Pdl cercassero di arrivare alle elezioni con l’intento di cambiare nettamente rotta rispetto al governo Monti, interrompendo un’azione che ha disturbato troppi interessi. Mentre il meglio sarebbe che cercassero di arrivare alle elezioni competendo fra loro per portare il più avanti possibile un’opera che ha dovuto attendere la nascita di un governo di professori per essere avviata, ma che alla fine toccherà alla politica portare a termine.

Corriere della Sera 23.1.12
Politica spenta e terza élite
di Giuseppe De Rita


Fra aggiustamenti di convenienza e borbottii malmostosi, le prime settimane di lavoro del «governo dei tecnici» non hanno visto emergere una pacata riflessione sulle ragioni e sugli esiti dell'affidamento a una stretta cerchia elitaria del fronteggiamento della grave crisi che stiamo attraversando.
Forse non è inutile, avviando tale riflessione, rammentare che questa è la terza volta che nella storia repubblicana la dimensione tecnica assume potere e primato sociopolitico. La prima volta fu nell'immediato dopoguerra quando alcuni «tecnici» cresciuti all'ombra di Beneduce (i Menichella, i Saraceno, i Mattioli, i Cuccia) disegnarono sotto traccia significativi programmi di rilancio dell'industria, di liberalizzazione degli scambi internazionali, di sviluppo del Mezzogiorno. Non governarono direttamente perché la politica era allora ben forte e radicata; e perché furono così intelligenti da non sovrapporre la loro cultura e il loro potere ai partiti, che si sentirono così protagonisti della ricostruzione prima e del boom economico poi.
La seconda apparizione della dimensione tecnica nel governo del Paese avvenne nella tanto ricordata crisi del '92-95 sotto la guida di protagonisti decisamente elitari (Amato e Ciampi, e poi Dini) che riuscirono a mettere al governo personaggi altrettanto elitari, da Savona a Maccanico a Guarino a Baratta, solo per fare gli esempi che tornano più facilmente alla memoria. Erano diversi dai «beneduciani» del dopoguerra, ma furono altrettanto decisi nell'affrontare le enormi difficoltà di quel periodo; ed altrettanto discreti (con la raffinatezza un po' occulta dei normalisti pisani) rispetto alla dialettica politica. Ma specialmente essi si qualificarono giuocando la loro forza e il loro prestigio nel perseguire un disegno di futuro: far crescere il processo di unificazione europea (parametri di Maastricht e moneta unica compresi). Nessuno di loro però si rese conto che quel processo andava gestito sia nel governo dell'Europa, per ovviare al vuoto spinto degli organismi comunitari, sia nella gestione delle cose italiane per contrastare il vuoto altrettanto spinto della cosiddetta Seconda Repubblica e del berlusconismo.
È dal contemporaneo non-governo delle vicende europee e delle vicende italiane che nasce la crisi che attraversiamo da qualche mese, crisi che è insieme europea e italiana, quale che siano le reciproche attribuzioni di colpa. L'Europa è fragilissima e l'Italia è sempre più eterodiretta; ed allora ritorna alla ribalta la dimensione tecnica, con una terza stagione elitaria. La compagine è più eterogenea delle due precedenti (l'aggettivazione «bocconiana» le sta stretta visto il peso di alcuni leader cattolici e di alcuni alti burocrati); ma il mandato è praticamente lo stesso: fronteggiare un potenziale disastro («salva Italia») e impostare un possibile futuro («cresci Italia»).
Tale coincidenza, però, non permette di fare previsioni sul destino dell'attuale «terza élite». È possibile pensare che i suoi protagonisti, come fecero i «beneduciani», possano tornare nei riservati luoghi di potere da cui erano usciti; oppure che essi, come i protagonisti della seconda élite, vadano a presidiare luoghi di istituzionale prestigio; oppure che si trapiantino in qualcuna delle forze politiche e parlamentari oggi in via di ridisegno; o che diventino essi stessi, in forme oggi non prevedibili, una componente politica autonoma e competitiva.
Ognuna di queste ipotesi è verosimile, ma la loro attualizzazione dipende da due condizioni fondamentali: la consistenza dello spazio che i protagonisti politici concederanno alla terza élite; e la capacità di essa di restare una entità unitaria. Per la prima condizione, se da un lato si può constatare una dinamica delle forze partitiche molto più povera che sessanta o venti anni fa e quindi la possibilità che si possa creare uno spazio vuoto invitante e tentatore per chi nella terza élite voglia far politica; dall'altro lato è certo che un giorno o l'altro si ritroveranno in campo l'istinto e la voglia di sopravvivenza di una classe politica che può accettare una supplenza temporanea ma non una sostituzione di lungo periodo.
I prossimi mesi ci daranno qualche risposta, anche per la seconda condizione, quella relativa alle strategie della attuale compagine di governo, che è forte nella sua immagine di vertice (in termini di serietà, competenza, ironia, determinazione) ma potrebbe esprimere due debolezze sostanziali: la prima, e più profonda, sta nel fatto che essa non ha per ora espresso un traguardo futuro preciso nei contenuti e coinvolgente per l'emozione collettiva («cresci Italia» è più labile del mito dello sviluppo degli anni 50 e della utopia europea degli anni 90); e l'altra debolezza sta nel carattere composito dell'élite attuale, nella quale a medio termine ci saranno ambizioni diversificate (fare un partito, magari cattolico; sviluppare grande leadership europea; consolidare un ruolo politico nazionale; restare come mitici salvatori della patria; ed altro ancora) e quindi diversificate strategie individuali o di piccolo gruppo. Anche per la terza élite come per tutti noi, il futuro non presenta scelte e vie facili, ma essa non ha la possibilità di sottrarsi ad esse; ne va la sua stessa legittimazione di élite.

Repubblica 23.1.12
Semplificare senza sacrifici
di Stefano Rodotà


Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d´essere sottolineati per il loro notevole significato di principio. Il primo riguarda l´eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il risultato del referendum sull´acqua come bene comune.
Abbandonando questa via pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni, inducendo ancor di più le persone a dubitare dell´utilità di impegnarsi nella politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi. Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere valutata considerando anche l´annuncio del ministro Passera relativo all´assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come "beni pubblici" di cui, dunque, non si può disporre nell´interesse esclusivo di ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.
Questa associazione tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità. Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica e sociale lontanissima da quella che, sessant´anni fa, costituiva il riferimento del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe stata possibile la vergogna del "beauty contest" sulle frequenze. E ci risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.
Tutt´altra aria si respira quando si considera l´articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno, invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l´abrogazione di una serie indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi nell´arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e arbitrari; soprattutto si reinterpreta l´articolo 41 della Costituzione in modo da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L´obiettivo dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge costituzionale sulla modifica dell´articolo 41, ora fortunatamente fermo in Parlamento.
Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all´attività economica "non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l´ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità"; e di divieti che, tra l´altro, "pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate". Tutte le altre norme devono essere "interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale". Non v´è bisogno d´essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l´"interesse pubblico generale" sia identificato con il solo principio di concorrenza, in palese contrasto con quanto è scritto nell´articolo 41. Il sovrapporsi di diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende di imporre i criteri da seguire nell´interpretazione di tutte le norme in materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato da mosse autoritarie, dall´inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si è dovuta respingere più d´una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra i poteri dello Stato.
L´operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere rifiutata perché vuole imporre una modifica dell´articolo 41 della Costituzione, attribuendo valore assolutamente preminente all´iniziativa economica privata e degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Questo capovolgimento della scala dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di fronte a quei "principi supremi" dell´ordinamento che, fin dal 1988, la Corte costituzionale ha detto che non possono "essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale". Certo, invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora, però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po´ di spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del Parlamento.

La Stampa 23.1.12
Esecutivo diviso sull’abolizione del valore legale della laurea
Contrari il ministro Cancellieri e i sindacati dei docenti
di Flavia Amabile


ROMA Se dipendesse solo da lui, per Mario Monti il valore legale del titolo di studio sarebbe già superato. Non tutti all’interno del governo però sono d’accordo e ancora una volta un esecutivo si divide su una questione che da anni è sul tavolo dei ministri dell’Istruzione. Dove però è rimasta, almeno finora. Durante le oltre otto ore di consiglio dei ministri di venerdì scorso se n’è parlato di nuovo quando si è deciso di cambiare le norme sull’accesso dei giovani all’esercizio delle professioni e prevedere la possibilità di svolgere i primi sei mesi di tirocinio già durante la laurea. Monti sarebbe andato oltre, avrebbe rotto gli indugi e agito subito. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, invece, si è opposta, e il ministro della Giustizia Paola Severino ha chiesto gradualità. Ne è nato un lungo dibattito che ha impedito di arrivare ad una soluzione ma ormai l’argomento è fra quelli in discussione e se ne parlerà ancora. Forse un provvedimento potrebbe arrivare già nel prossimo consiglio dei ministri se la fazione pro-abolizione dovesse spuntarla visto che ha fans trasversali e diffusi dal Pdl, alla Lega, al Pd, la Confindustria, la Crui dei rettori italiani, e persino tra i grillini come risulta a ripercorrere indietro il successo del tema fino all’ultima indagine conoscitiva in Senato avviata la scorsa primavera.
La novità a cui si sta lavorando in queste ore prevede un intervento nei criteri di selezione utilizzati nei concorsi pubblici. Dovrebbe cadere il vincolo per il tipo di laurea, fatta eccezione per i settori in cui siano necessarie competenze tecniche specifiche. Il laureato in Lettere potrebbe diventare dirigente di un ente pubblico, purché dimostri di essere in grado di superare brillantemente il concorso, e quindi però dovrebbero anche esserci concorsi in futuro, visto che da tempo non ce n’è traccia. Nemmeno il voto di laurea dovrebbe più avere un peso nella selezione ma diventerebbe importante l’ateneo dove ci si è laureati. E, quindi, un titolo conquistato anche a pieni voti nell’università X non avrebbe valore mentre lo avrebbe un titolo conquistato anche con una valutazione non brillante in un’altra università che abbia requisiti particolari che molto probabilmente verranno definiti sulla base dei parametri individuati dall’Anvur, l’Agenzia per la valutazione a cui il governo Monti proprio venerdì scorso ha attribuito i compiti di certificazione della qualità dei corsi e delle sedi universitarie, una sorta di bollino per far capire dove si studia meglio.
Contrari i sindacati dei docenti, dall’Andu alla Flc-Cgil, la Cisl, la Uil, ma anche la Rete 29 Aprile e le associazioni di base. Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche».
Scandalizzato il Pdci. Riccardo Messina: «Una norma classista, discriminatoria e da un forte retrogusto leghista. Se questo principio venisse approvato, ci sarebbe milioni di studenti tagliati fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente di questo paese solo perché senza risorse economiche o perché nati in zone disagiate».

Corriere della Sera 23.1.12
I dubbi dei rettori sul «federalismo» delle lauree
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Una cosa è dare il giusto valore alle cose, un'altra eliminarlo del tutto». Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano, ha qualche dubbio sugli interventi allo studio del governo per le università. Le ipotesi sono due. La prima è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Se ne parla da anni, Luigi Einaudi ci scrisse un libro, ma cosa vuol dire davvero?
La laurea presa a Milano e quella presa Roma non avrebbero più lo stesso valore per legge ma sarebbe la reputazione delle due università a fare la differenza. Il piano «B» va nella stessa direzione ma in modo soft perché eliminerebbe il voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il ragionamento di fondo è lo stesso: ci sono università buone e altre meno buone, un 110 non ha lo stesso valore se viene preso in un ateneo di tradizione o in una delle tanti sedi distaccate germogliate negli ultimi anni. E allora, pensa il governo, meglio eliminare quella eguaglianza prevista oggi per legge nel settore pubblico. Anche il rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, ha molti dubbi: «In alcune aree, come per i medici e gli architetti, è impossibile perché il valore legale è previsto da norme europee. Ma poi, scusate, non è che così diamo mani libere alla politica che ha l'antico vizietto di mettere le mani sulle assunzioni nel pubblico?». Ma non è sbagliato che chi si laurea in una pessima università, dove prendono tutti la lode, sia alla pari di chi ha faticato in un buon ateneo e si è dovuto accontentare di un 100? «Sì, ma allora è meglio stringere i rapporti con il mondo del lavoro. Noi alla Sapienza abbiamo un accordo per far fare in azienda una parte della tesi. E l'imprenditore uno studente mediocre non lo vuole mica». Il suo collega milanese Decleva, però, vede una prospettiva: «Non buttiamo via il bambino con l'acqua sporca o almeno prima mettiamoci un po' di detergente». Il detergente? «Se eliminiamo il valore legale dobbiamo avere un altro strumento per capire quali sono i corsi buoni e quelli meno buoni. Per questo un anno fa è nata l'Anvur ma credo abbia ancora molta strada da fare». Quanto sia lunga lo chiediamo a Stefano Fantoni che dell'Anvur (Agenzia per la valutazione del sistema universitario) è il presidente: «Dal prossimo anno accademico saremo in grado di fare una prima valutazione dei singoli corsi. Ogni corso dovrà essere accreditato e non diremo un sì o un no secco ma esprimeremo un giudizio». Basterà questo per sostituire il valore legale? «Non lo so, la decisione spetta alla politica. Per arrivare a una valutazione completa dei singoli corsi e delle singole università avremo bisogno di più tempo». Si può fare, allora?
Salvatore Settis è stato per anni direttore della Normale di Pisa, uno dei simboli dell'eccellenza italiana, ma è proprio alla base della piramide che rivolge il suo sguardo: «In linea di principio sarebbe una buona cosa ma c'è il rischio di concentrare le risorse sulle università migliori emarginando tutte la altre. E questo vorrebbe dire introdurre un meccanismo di diseguaglianza tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio. Ma con questa crisi sarà possibile?».

l’Unità 23.1.12
Ecco i Paesi in guerra con le pistole che parlano italiano
Le nostre esportazioni di armi leggere in Stati soggetti a embargo internazionale o teatro di conflitti sono cresciute del 10%. Un affare di oltre 1 miliardo l’anno
tra Congo, Iran, Afghanistan, Yemen e altri. Il rapporto 2011 dell’Archivio disarmo
di Umberto De Giovannangeli


Commerciare armi non è di per sé un reato né un peccato. Ma la questione si fa politica, oltre che etica, quando questo commercio s’indirizza verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi e verso Paesi in cui ci sono conflitti o documentate violazioni dei diritti umani. È quanto emerge dal nuovo Rapporto 2011 dell’Istituto di Ricerche Archivio Disarmo che, facendo seguito ai precedenti rapporti sulle esportazioni di armi leggere italiane leggere ad uso civile, segnala un forte incremento sulle vendite. Nel biennio 2009-2010 l’Italia ha esportato complessivamente oltre un miliardo di euro (1.024.275.398) in armi leggere ad uso civile, precisamente 471.368.727 nel 2009 e 552.906.626 nel 2010 con un aumento di circa il 10% rispetto al biennio precedente. In particolare tra il 2009 e il 2010 la crescita si attesta a circa il 17%.
La ricerca dell’Archivio Disarmo su fonte Istat evidenzia che le esportazioni sono per la maggior parte dirette verso Usa e Paesi dell’Ue. Ma l’aumento più significativo per valore è sicuramente rappresentato dall’Asia passata dall’importazione di circa 28 milioni di euro nel biennio 2007 2008 ad oltre 142 milioni. L’Italia ha esportato armi comuni da sparo anche nel continente africano e nel Medio Oriente dove la situazione di molti Paesi, già critica negli anni passati, nel periodo recente è esplosa con l’ondata rivoluzionaria che ha portato al capovolgimento dei sistemi politici e centinaia di morti e feriti.Emerge l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Congo, Iran, Armenia e Azerbaijan) e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, Congo, Kenya, Filippine ecc.). In particolare dalla ricerca emergono alcuni casi di esportazioni a Paesi in conflitto e dove avvengono gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani.
L’Italia ha esportato armi da fuoco in tutta i Paesi nordafricani interessati quest’anno dalla Primavera araba: l’Egitto, la Tunisia e in particolare la Libia che ha ricevuto oltre 8,4 milioni di euro, totalmente rappresentate da pistole e carabine Beretta e fucili Benelli finite nelle mani del settore di Pubblica Sicurezza del Comitato Popolare Generale (l’istituzione di governo libica), col rischio che possano essere state utilizzate per la repressione in atto negli ultimi mesi. Sono state fornite armi, proiettili ed equipaggiamento militare e di polizia usati per uccidere, ferire e imprigionare arbitrariamente migliaia di manifestanti pacifici in Paesi come la Libia, la Tunisia e l’Egitto e tuttora utilizzati dalle forze di sicurezza in Yemen.
Lo Yemen ha importato dall’Italia una cifra pari a 487.119 euro di armi e oggi versa in una situazione di conflitto che ha provocato centinaia di morti; la dura repressione del governo, nei confronti delle manifestazioni popolari verificatesi a sud del Paese, ha causato molte vittime tra manifestanti e civili. Destano gravi dubbi, per la possibilità che siano usate per compiere violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani, le esportazioni di armi nell’Africa Sub-Sahariana in: Congo (Brazaville), Kenya e verso la Repubblica Democratica del Congo verso cui sono state esportate munizioni per un valore di 81.152 euro malgrado l’embargo di Ue e Onu in vigore dal 1993; nel conflitto tra le vittime si annoverano numerosi civili e gli attacchi indiscriminati da parte di tutte le forze in campo, anche verso la popolazione civile, stanno creando un popolo di sfollati e rifugiati.
La Cina, tra il 2009 e il 2010 ha acquistato dall’Italia armi civili, munizioni ed esplosivi per un valore di oltre 3 milioni, in violazione dell’embargo, imposto dal Consiglio europeo nel 1989 in seguito ai fatti di Piazza Tienanmen, che mira proprio a tutelare i diritti umani. L’Honduras è stato teatro di un conflitto interno durante il 2009 e nella regione dell’Agùan è stato imposto uno schieramento militare permanente a causa delle manifestazioni dei contadini contro aziende agricole private che spesso sono sfociate in episodi di violenza. L’Italia ha esportato verso il Paese più di 600 mila euro di materiali rappresentati da pistole, fucili e loro parti ed accessori.
Dallo studio emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. Spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, bande paramilitari ecc.
Come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare, per i controlli sulle esportazioni, le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle condizioni post-conflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni.
Nota bene: secondo i principi definiti dalla legge 185/90, l’Italia non può trasferire materiali di armamento in Paesi in stato di conflitto armato, in Paesi che conducono una politica estera aggressiva e propensa all’uso della forza, in Paesi sottoposti ad embargo deciso dalle Onu e Ue, in Paesi cui governi sono responsabili di accertate gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani o qualora vi sia in rischio di «triangolazioni». Le autorizzazioni all’esportazione sono coordinate dal ministero degli Esteri e dal ministero della Difesa.

Corriere Economia 23.1.12
Piazza Affari Tutti i treni italiani per andare a Pechino
Campari, Tod's, Luxottica, StM, Ferragamo, Saipem, Tenaris: le società più favorite dalle ultime sorprese di crescita cinese
di Adriano Barrì


La Cina è vicina. Anche a Piazza Affari. L'ufficio nazionale di statistica di Pechino ha stimato per l'ultimo quarto del 2011 un incremento del Pil nell'ordine dell'8,9% in rallentamento rispetto al +9,1% del trimestre precedente, ma oltre le previsioni degli economisti. Un risultato che ha sorpreso anche gli investitori riaccendendo le speranza sulla tenuta del ciclo economico mondiale e quindi dei profitti aziendali.
Caccia
E in un mercato alla ricerca di opportunità e occasioni da sfruttare, ecco che gli investitori si sono messi a caccia delle società più esposte all'economia cinese o in generale a tutta l'area asiatica. In Piazza Affari la pattuglia delle società China-sensitive è abbastanza nutrita, considerato che l'Italia è un Paese produttore ed esportatore di beni molto apprezzati soprattutto nei mercati emergenti. Le buone notizie provenienti dall'Est fanno bene soprattutto a Ferragamo, Tod's, Luxottica, STMicroelectronics, Saes Getters e alle società dell'energia come Saipem e Tenaris. Meno interessate, ma pur sempre legate al ciclo cinese, sono invece Ansaldo STS, Campari, Pirelli e Fiat Industrial.
«Di fronte a un progressivo peggioramento delle prospettive dell'economia in Italia ed Europa — spiega Marco Paolucci amministratore delegato di Luxgest am —, è quanto mai opportuno diversificare il proprio portafoglio in società che offrono maggiori possibilità di difesa grazie alla presenza in un mercato dove il ciclo continua ad essere espansivo. Ma esistono anche aziende italiane che, pur non direttamente presenti sul mercato, traggono comunque un beneficio». Pensiamo ad esempio al prezzo del petrolio che viene sostenuto proprio dai consumi cinesi. Saipem è uno di questi beneficiari indiretti, in quanto continua ad essere vantaggioso investire su impianti in acque profonde. Stessa cosa per Tenaris che rientra tra gli operatori del settore fornendo la propria tecnologia.
Lista
CorrierEconomia ha messo in rassegna le società di Piazza Affari che, a gradi diversi, sono esposte alla domanda di beni e servizi proveniente dall'Asia. I risultati mettono in evidenza una situazione molto eterogenea. Scontata la presenza delle maison del lusso come Tod's, Ferragamo che in Asia crescono costantemente con tassi a due cifre. Luxottica è invece ancora poco presente ad Est, ma sta crescendo rapidamente grazie al forte aumento della domanda di accessori di lusso. Buone prospettive anche per Poltrona Frau, tra i leader mondiali nella pelletteria per la casa. Secondo Mauro Vicini, direttore di Websim.it, «l'Asia rappresenta il 15% circa del fatturato dell'area residenziale dove nel corso del 2011 il gruppo ha annunciato di avere registrato una crescita superiore al 20%. E all'interno di questo segmento la Cina ha fatto addirittura meglio». Su Poltrona Frau l'ufficio studi di Websim.it ha una raccomandazione «interessante» con un target di 1,40 euro. Buone opportunità anche per Pirelli e Campari. La società della famiglia Tronchetti Provera non vanta ancora una presenza significativa in Asia ma, spiega Paolucci, «le prospettive sono molto rosee. La domanda di auto sportive e di lusso in Cina è fortissima. Pirelli è leader nel segmento gomme ad alte prestazioni e nel secondo equipaggiamento. Per cui è lecito attendersi che nei prossimi anni il gruppo porterà a casa dei significativi benefici».
Una scommessa più di lungo periodo è invece quella che si può fare su Fiat Industrial. «La società del Lingotto — continua Vicini — è pronta ad aggredire, attraverso il marchio Cnh, il mercato agricolo cinese non appena gli operatori del locali inizieranno a investire sul rinnovamento del parco macchine e tecnologico». Una scommessa di medio periodo che non ha ancora convinto gli analisti di Websim.it (giudizio neutrale).

Corriere della Sera 23.1.12
La musa segreta di Montale
«Cara Edith, ti voglio bene»: le lettere alla traduttrice americana
di Paolo Di Stefano


U ltime notizie dal pianeta Montale. A quelle di Esterina, Gerti, Liuba, Dora, Clizia, Mosca, Volpe e altre muse già note, bisognerà aggiungere una nuova voce, minore, certo, ma finora ignota. È quella di una signora americana che si chiamava Edith Farnsworth. Come spesso accade per Montale, le presenze femminili incontrate in vita diventano ispiratrici, figure, angeli o fantasmi poetici. Poche notizie biografiche sulla Farnsworth: nata a Chicago nel 1903, laureatasi nella sua città in letteratura inglese e creative writing, diplomatasi al conservatorio in violino e teoria della musica, seconda laurea in medicina, prestigiosa carriera come nefrologa, amante dell'Italia, dove impara la lingua negli anni Venti per perfezionarla quando decide di stabilirsi definitivamente a Bagno a Ripoli, nel 1967. È lì, in Toscana, che si dedica a un'altra sua passione, la traduzione in inglese della poesia italiana. Attività testimoniata da tre volumi pubblicati tra il 1969 e il 1976 con le versioni di Eugenio Montale, di Albino Pierro e di Salvatore Quasimodo.
Con la Farnsworth si propone per il vecchio Montale una situazione analoga a quella che il poeta aveva sperimentato anni prima a Firenze: nell'estate 1933, quando una giovane italianista americana, Irma Brandeis, aveva voluto conoscerlo. Era la futura Clizia delle Occasioni, che una mattina andò a trovarlo al Gabinetto Vieusseux: ne sarebbe nato un amore difficile, pieno di promesse e delusioni. Edith è meno intraprendente di Irma e decide di rivolgersi a conoscenze comuni. L'incontro viene ricostruito da Marco Sonzogni nel saggio «Un'"apparizione meravigliosa, quasi inverosimile": tracce di musa nei versi di In un giardino italiano», apparso nella rivista «Studi d'italianistica nell'Africa Australe». Sonzogni ha reperito, tra le carte della Farnsworth, una lettera non datata di Elena Croce, figlia del filosofo, che sta all'origine della conoscenza tra il poeta e la traduttrice: siamo nel 1968 e la Croce presenta l'«amica» a Montale (che di lei «già sa») come «una donna molto intelligente» («dico proprio molto — perché non è una cosa di tutti i giorni»), che «parla e scrive un eccellentissimo inglese New England, e le sue traduzioni hanno un grande fascino». Siccome Edith è «intimiditissima» dal già senatore Montale, la Croce si propone come mediatrice di un possibile incontro a Roma o a Milano. Da una nota a mano, si intuisce che Elena ha incoraggiato l'amica a scrivere all'indirizzo milanese del poeta per suggerirgli un incontro pomeridiano oppure di cercarlo in Senato.
Gli accenni alla Farnsworth sono molto rari nei carteggi montaliani. E contraddittori, aggiunge giustamente Sonzogni. Si trovano nelle lettere a Gianfranco Contini, di cui l'italianista americana era amica: può dunque darsi che l'incontro sia poi avvenuto, in realtà, tramite i coniugi Contini. Il 20 gennaio 1973, il filologo parla a Montale della Farnsworth come di una conoscenza comune. La risposta di Montale, il 26, è poco lusinghiera: «La Farnsworth è troppo remota e alquanto farneticante, con molte zaganelle (crede di essere una grande violinista)». Se rimane piuttosto criptico il riferimento, sembra invece molto chiaro il giudizio, che però contrasta con le parole che Montale le avrebbe rivolto direttamente per iscritto. Sono cinque le lettere di Montale conservate tra le carte della Farnsworth, due manoscritte e tre dattiloscritte. Una sola è quella indirizzata al poeta, scritta in un quaderno e datata 14 agosto 1974. L'unica datata di Montale (23 settembre 1973) contrasta con i giudizi espressi a Contini pochi mesi prima: il poeta, 77 anni, si scusa con Edith («sono pieno di rimorsi»): motivi di salute gli hanno impedito di raggiungerla. Spera di vederla in futuro e conclude: «Cara Edith ti voglio dire che ti voglio molto bene e che per me sei stata e sei un'apparizione meravigliosa, quasi inverosimile». C'è poi il saluto a una tartaruga, come altrove, e vedremo perché. Un'altra lettera è del 1972, poiché il poeta comunica alla «cara Edith» di essere stato operato alla prostata, sperando di poterle far visita all'Antella e chiedendole il numero di telefono. È probabile, precisa Sonzogni, che quando Montale soggiornava in Toscana, i due cercassero di vedersi. In un'altra lettera, probabilmente degli ultimi mesi del '75, si fa cenno al Nobel: «Io sto in piedi zigzagando e non so come me la caverò a Stoccolma dove devo andare per due o tre giorni. Non sono felice, il Nobel prize non significa più nulla».
Ma in genere, in tutte le missive inviate alla «Cara carissima Edith» e alla «Edith birbona» dal 1970 al '75, Eusebio (il nome con cui il poeta veniva chiamato dagli amici e con cui lui stesso si firma) mostra di provare un affetto non formale per Edith e di frequentarla con piacere: «Ti penso sempre con affetto e nostalgia per Carrot Street e i suoi cani e le sue galline mugellesi. Purtroppo al Forte non trovai il tempo il modo e la persona adatta che mi portasse da te. Ne ho avuto pena e rimorso». Non esita a farle confidenze sul proprio stato di salute non solo fisica: «Non so più nulla di te. Come stai? Io non ti ho più scritto perché mi trovo nelle condizioni in cui mi hai lasciato. Cammino poco e male (con l'aiuto di qualcuno, quasi sempre Gina), non posso salire né scendere scale. Alla meglio posso bere con 4 zampe, e mi arrangio alla meglio col cucchiaio. Non scrivo quasi nulla. Credi che io possa continuare a vivere in simili condizioni?». Come si già è visto, le esprime i suoi sentimenti di affetto senza riserve: «Voglio dirti solo che TI VOGLIO MOLTO BENE e che sono pieno di riconoscenza per il fatto che tu esisti e continuerai (spero) a vivere».
Nelle lettere si trovano anche notevoli osservazioni poetiche, per esempio laddove, in una lettera collocabile all'inizio del '70, illustra alla sua traduttrice, alle prese con La bufera, alcuni elementi lessicali de Gli orecchini: la «spera» non è un cannocchiale, ma «un grande specchio corroso dal tempo, dal salnitro e da altre muffe»; «le èlitre ronzanti non sono mosconi ma aerei bombardieri; siamo in guerra». E conclude con una nuova confidenza sul suo rapporto con le Muse: «Non c'è la fine di un amore perché i miei amori non finiscono mai anzi si accentuano dopo la morte o la scomparsa dell'oggetto amato». Invita poi la «birbona» a procedere nella traduzione «del vecchio poeta / dei cuttlefish», il poeta cioè delle seppie che ora «non trova parole adeguate / ad una Musa rubella /che domina e fa strage sull'Antella». Insomma, toni molto molto diversi da quelli che vengono esibiti con Contini.
All'Antella, esattamente nella villa di Edith, Montale deve essere andato più volte, al punto da ospitare la nuova musa almeno in una poesia, contenuta in Diario del '71 e del '72. Si tratta del componimento In un giardino «italiano», che si apre con una (ennesima) figura da bestiario: «La vecchia tartaruga cammina male, beccheggia / perché le fu troncata una zampetta anteriore». Nel piccolo e anziano animale, che «arranca invisibile in geometrie di trifogli / e torna al suo rifugio», il poeta riconosce una presenza fraterna, al punto da identificarsi nella sua età avanzata e nel suo precario stato di salute. La poesia era intitolata in origine All'Antella, come avrebbe rivelato Contini nel 1981, aggiungendo di conoscere il «padrone» di quel giardino italiano, «una signora americana purtroppo scomparsa da alcuni anni, che è stata la miglior traduttrice di Montale, anche se nessuno se n'è accorto». Il filologo, dichiarando il nome della Farnsworth, precisa che si trattava di una «grande medichessa», che «aveva sfiorato il premio Nobel per una scoperta clinica, poi aveva abbandonato tutto per la poesia e l'Italia», ritirandosi in una villa in Toscana. E la tartaruga, rimasta un enigma anche per i massimi esegeti di Montale? Sonzogni ci tiene a ricordare come il poeta prediligesse «partire sempre dal vero», lasciando poi che figure e presenze si trasfigurassero, acquistando dimensioni altamente simboliche. La tartaruga zoppa è un incontro reale nel «giardino italiano» dell'Antella. Lo dimostra il saluto epistolare di Montale e lo conferma con maggiore precisione l'unica lettera di Edith, dove si parla appunto del povero animale malconcio come di una creatura viva e presente: «La tartaruga, invece, è già sveglia — mi è venuta incontro sul sentiero l'altro giorno, la testina fuori, le tre zampe da rettile portandole avanti con una velocità sorprendente».
In una lettera scritta nel Capodanno 1978, Montale rispondeva agli amici Contini che gli avevano annunciato la morte della «padrona» dell'Antella, sempre cercando in tutti i modi di non tradire nulla di quel sentimento accorato che non molti anni prima aveva ispirato le missive tanto affettuose alla «birbona» e «cara carissima» amica: «La scomparsa di Edith mi ha molto addolorato ma il fatto è che ci siamo visti pochissime volte e questo attutisce il dolore. Forse dico una sciocchezza e dimostro durezza di cuore ma alla mia età non resta altro che indurirsi».

Corriere della Sera 23.1.12
Shoah

I volti degli ultimi testimoni: «La salvezza arrivò per caso»
di Iacopo Gori


«Non c'è una ragione, la salvezza è arrivata per caso, per tutti noi è arrivata per caso». Da queste parole pronunciate con una calma irreale da Goti Bauer, deportata quando era una ragazza di 19 anni, sopravvissuta ad Auschwitz e oggi diventata una paladina della necessità di testimoniare per non dimenticare mai la tragedia dell'Olocausto, è nata l'idea di Salvi per caso. Noi gli ultimi testimoni della Shoah. Ovvero il primo documentario web multimediale dedicato ai sopravvissuti di una pagina tra le più terribili della storia dell'umanità: lo sterminio scientifico di sei milioni di ebrei colpevoli — per la follia nazista — del solo crimine di essere ebrei.
Il docu-web dei giornalisti Antonio Ferrari e Alessia Rastelli da oggi online su www.corriere.it, il sito del «Corriere della Sera», risponde a una duplice necessità: offrire la testimonianza diretta, le parole e i volti di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragedia dello sterminio nazista; garantire che queste testimonianze non vadano perdute, per fare in modo che i giovani sappiano cosa è successo settant'anni fa nel cuore della civile Europa, e che i meno giovani non rischino mai di dimenticarlo.
Antonio Ferrari, ex inviato e oggi editorialista del «Corriere della Sera», da sempre attento studioso della tragedia dell'Olocausto, e Alessia Rastelli, giovane collega della redazione di corriere.it, esperta di giornalismo multimediale, hanno dato vita — con passione e competenza — a questo innovativo documentario per il web navigabile su nove livelli diversi di narrazione («La vita prima», «La cattura», «Il viaggio», «L'arrivo», «La vita nel campo», «Scene dal lager», «Salvi per caso», «La vita dopo», «Riflessioni sulla Shoah»). Il docu-web è composto da 54 videoclip, oltre venti schede dei sopravvissuti e dei campi di concentramento, decine di foto e mappe delle deportazioni: il materiale si snoda tra le testimonianze degli otto superstiti della Shoah che appaiono in Salvi per caso e raccontano davanti alla telecamera la propria esperienza (Nedo Fiano, Liliana Segre, Goti Bauer, Franco Schönheit, Nina Benroubi, Heinz Salvator Kounio, Benjamin Kapon, Rachel Revah).
La fruizione del documentario web è completamente interattiva: è il lettore a scegliere quale storia ascoltare, quali materiali infografici e testuali aprire, quale livello narrativo scegliere. Salvi per caso è stato realizzato da CorriereTv, la web tv del «Corriere della Sera», in collaborazione con La Sarraz Pictures e La Testuggine web design.

Corriere della Sera 23.1.12
Quando il papa fa notizia. La Chiesa e l’informazione
risponde Sergio Romano


Ho letto l'articolo apparso sul Corriere del 31 dicembre in cui lei ha elencato le dieci notizie del 2011 a cui sarebbe stata data, secondo lei, una eccessiva importanza. Le chiedo una delucidazione riguardo ai criteri che l'hanno portata a collocare la visita del Papa a un carcere e, più generalmente, le sue apparizioni addirittura al primo posto delle notizie sopravvalutate (leggere quelle che seguono mi viene la pelle d'oca).
Maria Claudia Giannasi

Fra le altre notizie sopravvalutate ho elencato il matrimonio di William e Kate, i guai giudiziari di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, la nascita della figlia di Sarkozy e Carla Bruni, la immediata «canonizzazione» di Steve Jobs, le svendite di fine anno, il G20 di Cannes, la lunga telenovela americana sull'autenticità del certificato di nascita di Barack Obama, quasi tutti gli anniversari (compreso quello dell'11 settembre) e, infine, la questione delle intercettazioni che molti dichiarano di deplorare e moltissimi leggono avidamente (una contraddizione che complica ulteriormente la soluzione del problema). Mentre le altre scelte non sono state contestate, quella sulle apparizioni papali ha provocato stupore, indignazione e, in qualche caso, una esplicita accusa di anticlericalismo.
Mi è sembrato giusto collocarla al primo posto perché fra gli eventi della lista questo è quello che ha meno carattere di «notizia». Come tutti i monarchi, il papa deve dare continue prove della sua esistenza. Come tutti i vicari di Cristo deve annunciare i principi della fede, ricordare le sacre scritture, esortare i fedeli a rispettare i precetti della Chiesa. Svolge questo compito grazie a un calendario che prevede un certo di numero di apparizioni, udienze, visite pastorali. Ma è inutile aspettare dalla maggior parte delle sue apparizioni una «notizia». La ripetizione è una garanzia di continuità, costanza, fedeltà alla tradizione. Prima ancora di ascoltare il suo Angelus sappiamo che nelle sue parole vi sarà un elenco delle guerre che hanno maggiormente funestato la settimana precedente e un invito alla pace. Sarebbe notizia, se mai, il silenzio su una particolare vicenda che ha particolarmente colpito la pubblica opinione. Sappiamo quale sia l'importanza della sua persona e del suo messaggio per parecchie centinaia di milioni di persone e non possiamo sorprenderci se è accolto in piazza San Pietro e altrove da una moltitudine di fedeli. Sarebbe notizia, se mai, una piazza semivuota. (Ma il cronista della Rai che lo segnala ai suoi spettatori rischia d'incorrere in una sorta di censura).
Beninteso vi sono altre circostanze in cui il papa «fa notizia». È accaduto quando ha evocato, nella lezione di Ratisbona, la discussione fra un imperatore bizantino e un teologo musulmano, quando ha aperto le porte della Chiesa ai cattolici integralisti di monsignor Lefebvre (fra cui un vescovo che negava il genocidio ebraico), quando nomina nuovi cardinali, quando ribadisce o modifica le posizioni della Chiesa su questioni morali particolarmente attuali. Capisco che molti fedeli ricavino conforto dalle sue apparizioni. Ma i notiziari televisivi, i giornaliradio e i giornali d'informazione, pur dando spazio di cronaca alle apparizioni papali, non dovrebbero trattare come notizia ciò che trae la sua forza proprio dal fatto di essere, per quanto possibile, costante e immutabile.

Corriere della Sera 23.1.12
«Ho dimenticato mio figlio in auto. Poi la corsa ma era già morto»
«Il seggiolino spostato, l'insolito silenzio, la mente presa dal lavoro»
«Dalla morte di Bryce ho avuto altri tre figli.
Certo, sono terrorizzata al pensiero di ripetere quello sbaglio»
di Lyn Balfour


Per me è ancora difficile capire che cosa sia realmente accaduto quel giorno di marzo, quattro anni fa. Ricordo che era stata una settimana pesante. Bryce, mio figlio, aveva nove mesi e da qualche giorno era raffreddato e piangeva di notte. Mi sono detta, alzati, affronta la tua giornata, e domani è sabato.
Quella mattina in Virginia il tempo era fresco e coperto. Ho infilato a Bryce una maglietta con le maniche lunghe, i pantaloncini e una giacchina. Non immaginavo che la temperatura sarebbe risalita fino a 19 gradi, un tepore insolito dalle nostre parti negli ultimi anni. Fosse stato il giorno prima, o quello dopo, forse Bryce sarebbe sopravvissuto.
Di solito lasciavo Bryce a casa della babysitter prima di andare in ufficio, ma quel giorno ho accompagnato al lavoro anche mio marito, perché la sua macchina l'aveva presa mia sorella. Sistemavo sempre Bryce nel suo seggiolino, dietro il sedile del passeggero. Quella mattina invece avevo spostato il seggiolino alle mie spalle, fuori dal mio campo visivo.
In macchina, mentre andavo al lavoro, Bryce mi accompagnava cantilenando con la sua vocina, ma quel giorno era assonnato, non dava segno della sua normale vivacità. Ripensandoci, né io né mio marito ricordiamo di aver sentito la sua voce, presumo quindi che si fosse addormentato. Dopo aver fatto scendere mio marito, ho ricevuto un paio di chiamate di lavoro e ho cominciato subito a concentrarmi sui compiti che mi aspettavano in ufficio.
Avevo la netta impressione di aver sistemato ogni cosa. Ho lasciato l'auto nel parcheggio dell'azienda e sono uscita senza voltarmi indietro. È difficile immaginarlo, lo so, ma in quell'istante non sono stata neppur lontanamente sfiorata dal pensiero che Bryce potesse essere rimasto nel suo seggiolino in macchina.
Quel giorno non ho avuto un attimo di tregua. La babysitter deve aver pensato che Bryce fosse rimasto a casa, sapendo che era stato poco bene. Abbiamo tentato, tutte e due, di telefonarci a più riprese, ma le linee erano occupate. Quando alla fine ci siamo parlate, la babysitter mi ha chiesto, «Come sta Bryce?». Non capivo. Ho risposto: «Come sarebbe a dire? Il bambino è da te». Ma lei ha ripetuto, «Lyn, non è qui da me. Non me l'hai portato stamattina».
Sono tornata alla macchina correndo come una pazza. Ripassavo mentalmente il tragitto verso l'ufficio. Ricordavo di aver consegnato Bryce alla babysitter, di averle parlato. Si chiamano «ricordi falsi»: quando ripeti un'azione quotidianamente, ti ricordi di averla compiuta, anche se così non è.
Sono stata colta dal panico, non riuscivo a capacitarmi dell'accaduto. Il solo pensiero che avessi dimenticato mio figlio in macchina mi toglieva il respiro. Ero sconvolta, e speravo, se il piccolo era effettivamente rimasto chiuso nell'auto, di trovarlo stanco, bagnato, affamato, ma niente di più grave.
Solo quando sono arrivata alla macchina e l'ho visto mi sono ricordata com'erano andate realmente le cose. Non lo avevo consegnato alla babysitter. Bryce era nel suo seggiolino, il faccino un po' arrossato. Aveva gli occhi chiusi, non dava segni di vita. Sembrava un bambolotto. Mi sono messa a urlare. L'ho estratto dall'auto e ho cercato di praticargli la respirazione bocca a bocca, poi ho gridato cercando aiuto, chiedendo a qualcuno di chiamare un'ambulanza. Ma lo sapevo che era morto.
Avrei fatto qualunque cosa per essere io al suo posto. Come faccio a dirlo a Jarrett, mio marito, pensavo, come faccio a dirgli che ho ucciso nostro figlio? Che l'ho dimenticato in macchina e che è morto? Come potrà mai perdonarmi?
Era stata una giornata mite, ma all'interno della vettura la temperatura era molto più elevata, sfiorava i 43 gradi. Bryce era morto di ipertermia, il cosiddetto colpo di calore. Speravo, invano, che si sarebbe risvegliato. Ed è questo il pensiero che più mi tormenta: lo rivedevo sveglio, affamato, che mi cercava, e io non c'ero.
Quando Jarrett è arrivato in ospedale, ero fuori di me dal dolore. Gli ho chiesto scusa. Lui si è messo a urlare, Ma quando anche lui ha capito, non mi ha più accusato. Anzi, mi ha sostenuta da quel momento in poi, persino quando sono stata accusata di omicidio colposo, maltrattamenti e abbandono di minore, imputazione poi ridotta a omicidio preterintenzionale. Il processo è stato un vero trauma. Ero di nuovo incinta e la mia vita era appesa a un filo. Quello che più di tormentava era il pensiero di dover lasciare la mia famiglia per scontare la pena in carcere: abbandonare mio marito, un altro figlio di 14 anni, era per me un dolore insopportabile. Alla fine, la giuria popolare ha decretato che si era trattato di un tragico incidente.
Mi sono sentita dire che mai più avrei dovuto mettere al mondo altri figli. La gente non capisce come succedono queste disgrazie, non immagina che possano capitare a chiunque, come le statistiche confermano. L'anno scorso, circa 49 bambini sono morti per un colpo di calore, in America, dimenticati in macchina dai loro genitori. È successo al figlio di un poliziotto, di un'assistente sociale, di uno scienziato.
Dalla morte di Bryce ho avuto altri tre figli. Certo, sono terrorizzata al pensiero di ripetere quello sbaglio. Ma non accetto che quanto è accaduto debba metter fine alla mia vita e annientarmi. Ho sbagliato, lo so, ma voglio continuare a vivere.
(testo raccolto da Sophie Haydock © Guardian News; Media 2012 Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 23.1.12
La disciplina mancata a una mamma
di Federica Mormando


È questione di priorità. Tutto nel nostro stile di vita concorre a farci dare la priorità assoluta a ciò che in quel momento si impone rumorosamente, o incutendo timore: una telefonata, una scadenza. Infatti, dice la madre, il bimbo si era addormentato e non lo si sentiva. La priorità non è interiore, viene dal di fuori. Ma l'attenzione a chi dipende totalmente da noi deve essere interna, senza eccezioni o intervalli. Nello scritto della madre la prima preoccupazione è come dirlo al marito, la perdonerà? Un pensiero ovvio, ma così immediato indica un modo di essere infantile: il timore della punizione, del perdono di un altro, giganteggia subito, come per molti bambini. E, a scusante, la signora porta numeri: 49 bambini in un anno sono morti perché dimenticati in auto. Questa non è una scusante, ma un orribile documento di irresponsabilità criminale condivisa. Sarebbe paradossalmente segno di maggior partecipazione un omicidio volontario. La dimenticanza indica che il pensiero del bambino non è sempre nella mente, come ciò di cui solo noi possiamo e dobbiamo occuparci. Non sto parlando di amore o di sentimenti, ma di dovere e disciplina. Due parole affogate nel lago dei diritti e della confusione della libertà con il fare ciò che viene in mente. Non dimenticarsi un bambino in auto è un dovere. Se te ne dimentichi, è un delitto. La legge condannerà limitatamente, la vita continua, con altri tre bambini ad esorcizzare, ma il giudizio, deve pur essere dato, ed è una constatazione: sei venuta meno a un dovere fondamentale e le conseguenze sono state tragiche.

Repubblica 23.1.12
Howard Gardner
“Un patto fra generazioni ci salverà da falsità e credenze"
In viaggio con lo psicologo fra le idee messe in crisi dal postmoderno
di Franco Marcoaldi


"Il concetto di realtà è stato rimosso E il web prende per buone le cose anche senza prova fattuale"
"Spesso i più giovani non fanno alcuna differenza fra un blog e l´inchiesta di un professionista"

Sono ormai in molti a sostenere che la lunga parabola del postmodernismo è entrata nella sua fase discendente e il dibattito aperto dai filosofi neo-realisti proprio su queste pagine sta a dimostrarlo. Tanto più pressante, dunque, si fa la necessità di ragionare su tutte le questioni che il movimento postmodernista, assieme festoso e sciagurato, aveva disatteso o negato. A cominciare dalla più importante: la ricerca della verità, che poi è sorella stretta del concetto di realtà.
Per farci aiutare in questa indagine, inizieremo dal volume dello psicologo americano Howard Gardner: Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo (Feltrinelli, pagg. 224, euro 20, traduzione di Virginio B. Sala). Famoso per i suoi studi sull´intelligenza, Gardner insegna Scienze cognitive e dell´educazione alla Harvard University, ed è uomo di vastissime letture e molteplici competenze disciplinari.
Professore, proviamo a concentrare l´attenzione sulla verità, la prima delle tre virtù che lei ripropone per il ventunesimo secolo. Tanto più difficili da far proprie, visto il potentissimo incrocio tra postmodernismo e media digitali.
«È proprio da lì che prendo le mosse. Dapprima il postmodernismo ha rimosso il tema della verità, riducendolo a mera preferenza di chi detiene il potere in un dato momento, poi il web ci ha messo del suo prendendo per buono tutto ciò che appare su Wikipedia, senza alcuna prova fattuale. Però, proviamo a vedere la questione da un´angolazione differente. Se la verità è essenzialmente una proprietà degli enunciati, ed esistono diversi metodi per raggiungerla, a seconda delle diverse discipline in campo, oggi è più facile avvicinarsi ad essa rispetto a quanto accadeva in passato. Un tempo avevamo meno informazioni e pochi detenevano quel potere che stabiliva cosa è vero e cosa è falso. Adesso, a meno che lei non abiti nella Corea del Nord, le cose non stanno più così. Naturalmente, se vuole ignorare una certa questione può benissimo farlo, ma se è interessato a sapere come sono andate le cose in Libia o su come vengono effettuati determinati trattamenti medici, avrà a disposizione una massa enorme di dati. Questo non significa che la verità venga automaticamente a galla, ma che abbiamo più armi per trovare una convergenza su ciò che è effettivamente accaduto».
La prima distinzione che lei opera è tra verità della conoscenza e verità della pratica.
«L´uomo della strada, indicando un oggetto, può dire: questo è argento e non oro. Ma se io sono uno scienziato, attraverso un´analisi atomica, posso dimostrare più a fondo il senso di quella differenza. La prima è una verità legata alla pratica, la seconda alla conoscenza. Inutile aggiungere che sia l´una che l´altra non hanno nulla a che fare con la verità di tipo religioso, dove si crede a qualcosa perché qualcuno ce l´ha detto, non sulla base di un test esperienziale o cognitivo».
Torniamo ai media digitali. Come scremare le informazioni che vi sono contenute se non si è sorretti da un´idea condivisa di autorità e di competenza?
«È il problema principale delle generazioni più giovani. Spesso i ragazzi non fanno alcuna differenza tra quanto compare in un blog e l´inchiesta di un reporter professionista. Sia ben chiaro, anche il New York Times compie degli errori, però li riconosce e comunque i redattori sono lì per controllare e vagliare l´articolo che verrà pubblicato. Per questo mi fido del New York Times o del Washington Post. Perché riconosco a tali imprese un´autorevolezza che si tramuta poi in affidabilità. Sia ben chiaro, quanto dico non mi fa dimenticare l´egregio lavoro di tanti blogger, che sovente possono superare in qualità quello dei giornalisti di professione, essendo meno condizionati di loro».
Diverse verità a seconda dei diversi metodi adottati. Prendiamo due discipline agli antipodi: la matematica e la storia.
«Ognuno sa che la verità matematica è la più certa, perché la più logica, la più formalizzata. Indifferente a tutte le variabili del mondo fisico. Però anche qui non esistono verità assolute, perché l´affermazione secondo cui due rette parallele non si incontrano mai vale per la geometria euclidea, non in quella non euclidea. Ma la principale differenza corre tra le ricerche di ambito fisico-biologico e quelle sociali. Nelle prime, gli oggetti di studio non sono soggetti ai risultati della nostra ricerca: le piante continuano a crescere e la rotazione terrestre non muta in relazione ai risultati scientifici ottenuti. Nell´ambito delle scienze sociali, invece, le opinioni che abbiamo di determinati fenomeni modificano i fenomeni stessi, come risulta chiarissimo in ambito economico. Quanto infine alla storia, mentre è evidente che ci sono dei fatti rispetto alla cui veridicità siamo sicuri, come il giorno della morte di John Fitzgerald Kennedy, è altrettanto evidente che ogni generazione riscrive il passato perché lo vede e lo giudica secondo la propria prospettiva. La storia dell´impero romano insegnata oggi in America è senz´altro diversa da quella di ottant´anni fa, non perché si sappia molto di più di quel periodo, ma perché da un certo punto in avanti l´America ha pensato di essere diventata essa stessa il nuovo impero romano».
L´idea iniziale di verità è legata al senso comune. Lei però ne rimarca la costitutiva insufficienza.
«Basta al massimo per la sopravvivenza. Se sono un bambino e cado in un fosso, non per questo apprendo qualcosa in ordine alla forza di gravità. La prossima volta starò più attento soltanto perché non voglio farmi del male. Affidandoci soltanto ai sensi, non possiamo fare molta strada. L´ho scritto nel libro e lo ripeto qui, più o meno con le stesse parole. Il modo migliore per stabilire lo stato di verità in un´era postmoderna e digitale consiste proprio nel mostrare la potenza ma anche il limite della conoscenza sensoriale. Impone di insegnare i metodi adottati dalle varie discipline per arrivare alla loro spiegazione del mondo e alla loro verità. Di illustrare il valore dell´esperienza e della competenza. Così come, per converso, di sottolineare tutte le forme di irrazionalità e pregiudizio degli esseri umani, con tutti i rischi che ne conseguono».
Come si evolve il rapporto con la verità a seconda delle diverse fasi della vita?
«Nel bambino credere in una cosa e contemporaneamente nel suo opposto non costituisce problema. E dunque il ruolo dell´educazione è quello di mostrare come certi convincimenti possono entrare in conflitto tra loro. All´adolescente, invece, la scuola dovrebbe mostrare innanzitutto che le verità incontrate nei testi non vengono dal cielo e non valgono per sempre. Sono soggette a continua trasformazione e sono differenti a seconda delle diverse discipline. La difficoltà, naturalmente, sta nel far convivere tale varietà e mobilità in un quadro unitario, senza cedere alla fiumana di informazioni e sovrapposizioni di un mondo ipersaturo».
Lei sostiene che i giovani sembrano più interessati all´autenticità e alla trasparenza di un messaggio che agli enunciati di verità contenuti in esso. Non è anche questa una prova della costante battaglia tra conoscenza e credenza? La verità rimanda alla conoscenza, ma è molto più facile affidarsi alla credenza.
«Purtroppo è così. Soltanto quando si sbatte personalmente il muso su una pagina del web che dice assolute falsità sul nostro conto, si capisce quanto importante sia la verità fondata sulla conoscenza. Senza dimenticare un altro aspetto del problema. Trent´anni fa non c´era la "familiarità" con i potenti che ci pare di avere oggi grazie ai media. Si ritiene di conoscerli e dunque di poterli giudicare secondo i crismi, per l´appunto, di autenticità e trasparenza. Magari quei tipi sono dei bastardi assoluti, ma se appaiono come persone a modo, ci basta e avanza».
Lei conclude il suo tragitto con una nota ottimistica. La comprensione di postmodernismo e media digitali, scrive, può ironicamente creare la possibilità di una seconda età dell´illuminismo. Perché?
«Credo che il passaggio storico in cui ci troviamo può offrire uno scambio inter-generazionale inedito e utile su entrambi i fronti. Oggi i "nativi digitali" possono insegnare a noi cose che noi non sappiamo, mentre noi possiamo offrire loro una metodologia di cui non dispongono. Malgrado tutto, i valori illuministici della tolleranza, dei diritti universali, della ricerca scientifica, sono validi ancor oggi. Ma oggi più di ieri, grazie a quell´incrocio inter-generazionale, possiamo esaltare un´idea di verità quale somma di proposizioni messe alla prova più e più volte».
(1-continua)

il Fatto 23.1.12
“Nella testa degli adolescenti”
Il cervello dei giovani in un libro

qui

La Stampa 23.1.12
In varie città la polizia usa musica classica per allontanare homeless dai posti pubblici
Se Beethoven diventa uno sfollagente
di Paolo Mastrolilli


Nel loro genio infinito, Mozart o Beethoven non avrebbero mai immaginato che un giorno sarebbero stati usati come manganelli. Spray repellenti per insetti fastidiosi. Eppure così scrive il Washington Post: in vari luoghi del mondo la musica classica viene adoperata dalla polizia per controllare la folla, e tenere lontani dai luoghi pubblici homeless e criminali. Un esperimento cominciato negli Anni 80 dai supermercati 7-Eleven, che sparavano le migliori sinfonie dagli altoparlanti dei propri parcheggi per tenere lontani gli adolescenti molesti, e continuato dagli agenti di West Palm Beach, Portland, Londra e forse New York. La musica classica fa scappare dalla metropolitana gli homeless e tiene a bada i rapinatori per strada. Roba da «Arancia Meccanica», dove il povero Alex finiva per vomitare durante la Nona sinfonia, a causa delle droghe che gli avevano iniettato per guarirlo dagli istinti violenti con la tecnica «Ludovico».
Non ci sono ancora studi precisi che confermino l’efficacia della musica classica come sfollagente, ma esistono un paio di ipotesi contraddittorie. La prima è che sia eseguita così male, da giustificare la fuga. La seconda è che suonare Mozart o Beethoven, in qualsiasi ambiente, ne migliora l’identità. Ascoltandoli, un criminale capisce subito che quella stazione non è casa sua. Scegliamo la seconda spiegazione, per il bene della nostra civiltà.