sabato 21 gennaio 2012

l’Unità 21.1.12
Il delirio liberista della falsa sinistra
di Paolo Bonaretti


Tra le patologie che si diffondono in questo periodo di crisi, vi è la singolare attitudine di una falsa sinistra, in realtà ultraliberista, a farsi paladina delle peggiori ricette della destra neothatcheriana e reaganiana, sepolte da oltre un ventennio perché drammaticamente fallite.
Proprio di questo fallimento, peraltro, stiamo oggi vivendo la fase più acuta e le conseguenze più nefaste. Il conato ideologico di Alessandro De Nicola su Repubblica di ieri, in forma di peana delle privatizzazioni (anzi di intimazione a vendere tutte le più importanti imprese di proprietà pubblica), appartiene a pieno titolo a questa patologia.
Nessuna persona dotata di raziocinio e in buona fede può in questi giorni proporre una campagna di privatizzazioni forzate di una parte così significativa dell’apparato finanziario e industriale strategico del Paese. L’Italia sta con fatica riconquistando un peso e un ruolo in Europa e nel mondo, e l’economia italiana ha bisogno di grandi imprese nazionali capaci di stare sui grandi scenari globali, capaci di trainare politiche industriali, per l’energia, le infrastrutture, l’innovazione tecnologica. Eni, Finmeccanica, Fintecna costituiscono punti fermi su cui appoggiare una strategia di rilancio industriale del Paese, sono tra le aziende che sviluppano la maggior intensità di ricerca, assorbono grandi numeri di capitale umano ad alta qualificazione, partecipano ai grandi programmi di ricerca e di infrastrutture a livello europeo ed internazionale. Costituiscono in sintesi uno strumento essenziale per la capacità negoziale e di crescita del Paese a livello globale.
Mettere oggi in stallo, e dunque in crisi prospettive e governance, queste imprese, semplicemente per fare cassa, costituisce un rischio sistemico inaccettabile. Che poi le privatizzazioni generino in sé efficienza è tutto da dimostrare: esistono aziende pubbliche efficienti e ben governate ed esistono aziende private inefficienti e viceversa. L’idea che la tipologia della proprietà determini in automatico la qualità dell’impresa è infondata, specie in mercati complessi dove si giocano interessi strategici nazionali. Fortunatamente il presidente Monti sa ben distinguere tra liberalizzazioni e concorrenza da un lato e privatizzazioni e ideologia mercatista dall’altro. Oggi la reputazione, la credibilità del Paese (finanche lo spread!) dipendono dalla dimostrazione della nostra capacità di crescere, di generare e distribuire ricchezza. In questo quadro le politiche economiche e industriali debbono dare quadri stabili di riferimento, puntando sulle grandi imprese nazionali come fattore di accelerazione della crescita e dell’innovazione anche del nostro sistema di piccole e medie imprese.
La privatizzazione forzata del sistema delle utilities frenerebbe invece la crescita costante e graduale di sistemi locali di imprese nel campo delle tecnologie e dei servizi energetico-ambientali e metterebbe in ginocchio la finanza locale, già fortemente colpita, mettendo in crisi il livello dei servizi alle famiglie e in definitiva la coesione sociale. Sulla privatizzazione selvaggia e senza regole dei sistemi di trasporto, il disastro del caso inglese si erge di fronte a noi, monito imperituro.
Quanto poi all’idea che tutto questo sistema di imprese in mano privata generi sviluppo ed efficienza, e addirittura aumenti di stipendi dei dipendenti (sic!), attraverso la salvifica virtù della mano invisibile del mercato è palesemente senza fondamento. Del resto deve trattarsi della medesima mano che in tutti questi anni, visti gli effetti nefasti e distorsivi, deve essere rimasta in tasca, presumibilmente dedita a pratiche onanistiche, con evidenti effetti di cecità ideologica in alcuni economisti liberisti.
Oggi abbiamo bisogno di sostenere la ricerca, lo sviluppo di economia sostenibile, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Strutture come Cassa Depositi e Prestiti, Sace e altri (che De Nicola invece invita a vendere) sono essenziali oggi per sostenere politiche di incentivazione dei programmi e lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi
(e già in parte lo fanno).

l’Unità 21.1.12
Intervista a Donald Sassoon
Capitalismo in crisi
«È fallito un modello che pareva invincibile»
Parla lo storico inglese: in Italia il dibattito è condizionato da un pensiero debole, e quindi subalterno. Tempo fa non sarebbe accaduto, il Pci era più cosmopolita
di Umberto De Giovannangeli


Studioso del movimento operaio e del Labour
È autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui «Togliatti e la via italiana al socialismo» (Einaudi) e «Cento anni di socialismo» (Editori Riuniti)

Le cose vanno chiamate per ciò che sono, e analizzate per la loro portata, evitando di restare prigionieri, sia sul piano politico che su quello culturale, di un pensiero così debole da apparire subalterno. Non c’è dubbio che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea, e mi riferisco in particolare ai Paesi dell’eurozona. E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e studiosi della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra. Profondo conoscitore della realtà, politica e intellettuale, italiana, Sassoon ricorda, da storico, che «con la fine del Pci è tramontata una certa visione cosmopolita, che alcuni avevano bollato come velleitaria. Ma è bene avere una intelligente presunzione cosmopolita, perché ciò resta il migliore antidoto ad un realismo provinciale, miope, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, tanto non può incidere...».
Professor Sassoon, nel mondo, a partire dall’America, si discute della crisi del capitalismo, argomento che appariva tabù...
«Andiamo con ordine. Da storico vorrei far notare che di crisi del capitalismo ce ne sono state altre. Non vorrei che quelli che si considerano “nemici del capitalismo” cantassero vittoria. Perché a me sembra che ciò che è accaduto negli ultimi tempi dimostri al contrario il “trionfo del capitalismo”...».
Affermazione forte...
«Vede, un sistema economico-sociale ha veramente vinto non quando va tutto bene, bensì quando è in crisi e tutti quanti, da destra a sinistra passando per il centro, cercano in ogni modo di salvarlo. Certo, su come salvarlo esistono differenze, ma nessuna forza significativa porta avanti un’alternativa di sistema. I riferimenti continui che si fanno alla crisi del ’29 ci ricordano che negli anni Trenta esisteva un punto di riferimento “altro” sul piano sistemico: il comunismo e l’Urss. Oggi invece abbiamo lo spettacolo assolutamente sorprendente che 20-30 anni fa nessuno si sarebbe sognato di prevedere dei dirigenti del Partito comunista della Repubblica popolare cinese che fanno la predica ai dirigenti americani perché costoro non si preoccupano abbastanza delle sorti del capitalismo mondiale. Nella stessa direzione va il cancelliere dello Scacchiere britannico quando offre la City, e dunque il mondo finanziario britannico, come principale punto di riferimento per una avanzata globale del capitalismo cinese».
Restiamo sul dibattito internazionale. Secondo lei è appropriato, sul piano analitico, parlare di modello in crisi o di fallimento del neoliberismo?
«Assolutamente sì. Questa crisi mette in discussione il modello di deregulation che fu portato avanti principalmente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e in Gran Bretagna sia dai conservatori che dai laburisti. La questione cruciale oggi è definire una “regulation” che non può che essere internazionale, e qui le cose si complicano, perché a questo livello mancano le istituzioni adeguate, istituzioni che abbiano legittimità politica. Quanto ai concetti “forti”, non si devono avere remore nel definire le cose per quel che sono: il capitalismo occidentale è in crisi, e lo è sia nella sua versione americana che in quella europea. Come ci ricordano i marxisti, le crisi sono occasioni per un rimescolamento generale delle carte. Il gioco continua ma non necessariamente con gli stessi giocatori».
Un gioco che in Italia appare quanto meno titubante, rispetto a quello che si è aperto negli Usa, in Gran Bretagna e in Francia. Cosa nasconde questa incertezza, professor Sassoon? «Vede, nei Paesi che lei ha citato, se non necessariamente a livello della politica ma di certo nell’intellighenzia, si è abituati a pensare in modo globale. Per la Francia e la Gran Bretagna l’epoca degli imperi è finita da molti anni, ma la pratica dell’impero lascia una mentalità che porta a guardare a ciò che accade nel mondo come a qualcosa sulla quale occorre ragionare e, forse, intervenire. Un esempio recente: la Libia. Quando è cominciata la lotta armata contro Gheddafi, Londra e Parigi si sono subito chieste se intervenire o no. Nessun altro Paese, neanche l’Italia che pure aveva un rapporto storicamente e geograficamente stretto con Libia, si è posto questo problema con la stessa determinazione».
Mentre nel mondo si discute nel merito, in Italia il solo parlare di crisi del capitalismo è un tabù che in pochi osano infrangere.
«Lungi da me passare per un nostalgico del tempo che fu, tuttavia ricordo che quando c’era il Pci, i congressi del partito o le riunioni del comitato centrale, si aprivano sempre con una discussione sulla situazione mondiale, quasi come se facesse parte della politica quotidiana il chiedersi e ragionare sul rapporto che esisteva tra ciò che succede nel mondo e l’Italia. È come se con la venuta meno del Pci sia tramontata questa visione cosmopolita, che alcuni hanno frettolosamente liquidato come velleitaria. Ma l’esercizio di una critica fondata, di programma e progetto, allo stato di cose esistente resta, a mio avviso, una sfida irrinunciabile, affascinante. Se non si vuole restare prigionieri di un certo provincialismo succube, spacciato per realismo, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, e nemmeno provi a darne una lettura sistemica, tanto su quella realtà non può incidere. Ma questo non è realismo, è subalternità culturale oltre che politica. Ogni tanto vale la pena essere intelligentemente presuntuosi. E questo è il momento di provare ad esserlo».

Corriere della Sera 21.1.12
Neo-statalista, rigido, legato al potere, il capitalismo ha cambiato anima?
Mentre in Asia (e altrove) trionfa il modello cinese, in Occidente le maxi-imprese sono salvate dai governi
di Danilo Taino


Non ha mai avuto una faccia tanto brutta e incattivita come oggi, il capitalismo. In pochi anni, è invecchiato e si è irrigidito. Un tempo sollevava speranze, oggi non attrae più e qualche volta repelle. Non è che sia in crisi. È che è così potente da essere insopportabile. Vittima del suo stesso successo, dilagante dopo il crollo del socialismo reale, è diventato il contrario di ciò che ha sempre predicato: invece di liberare forze, come spesso nella storia ha fatto, oggi tende a schiacciarle, a limitare lo sviluppo del nuovo oppure a mangiarselo subito. La crisi finanziaria esplosa nell'autunno del 2008 è stata probabilmente la porta che lo ha introdotto in una sua fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza.
Le proteste più evidenti contro il capitalismo di questo inizio di secolo sono quelle dei movimenti Occupy… Wall Street, la City e tutti i simboli del denaro. E quelle delle manifestazioni dei cosiddetti 99% che si oppongono alle ricchezze, ai privilegi, alle stock option dell'1% che è la classe globale, il cosiddetto Davos-Man cosmopolita, molto ben connesso con il potere, con le sue belle case, i jet privati e le mogli-trofeo. Ma, dietro le manifestazioni pubbliche, il disagio dell'Occidente contro i nuovi capitalisti è molto più vasto: perché, per la prima volta, la classe media sente che le ricchezze accumulate e le differenze sociali sono ingiuste, non meritate, non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro. Se il capitalismo diventa un club chiuso, ha finito di essere la forza motrice del mondo che è stato per decenni.
La consapevolezza di questa nuova fase storica è forte soprattutto nei santuari del capitalismo moderno, anglosassoni. Da alcuni giorni, il quotidiano finanziario della City di Londra, il Financial Times, dedica articoli e articoli a un dibattito che va sotto il marchio Capitalism in Crisis. Ieri, il settimanale che in oltre 200 anni di storia si è caratterizzato come il maggiore sostenitore del liberismo, il londinese Economist, ha dedicato la copertina alla crescita del capitalismo di Stato. Succede che i vecchi paradigmi sui modelli di capitalismo si sono come dissolti, sembrano non avere più senso: contrapporre il modello anglosassone a quello renano, di gran moda fino per vent'anni, fa sorridere, oggi che sulla scena il modello crescente è quello centralizzato cinese. In discussione è l'anima stessa del capitalismo. E la domanda che sale, a Occidente come a Oriente, è questa: c'è ancora una relazione creativa tra capitalismo e mercato oppure il primo ha appiattito se non azzerato il secondo?
La globalizzazione ha portato sotto l'ombrello capitalista gran parte del mondo: la Cina, l'India, il Vietnam e quasi tutta l'Asia, oltre che molti altri Paesi un tempo attratti dalle economie pianificate o da modelli caotici, dal Sudafrica al Brasile. In questi Paesi, però, non è stata l'economia aperta a trionfare, il libero gioco degli individui che alla fine risulta nella benefica mano invisibile del mercato. Per costruire le loro economie, spesso gli ex Paesi poveri ricorrono alla creazione di enormi aziende controllate dallo Stato — o dal regime come nel caso della Cina. Potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per farsi spazio nelle economie domestiche e internazionali. Sono le società dell'energia come la saudita Aramco, la russa Gazprom, l'iraniana Nioc, la Qatar Petroleum, la Petrochina che ormai dominano il business del greggio e del gas. Sono le telecom, le imprese di costruzione, le banche, le società minerarie dei Paesi emergenti che, appoggiate e finanziate dai loro governi, stanno dando l'attacco ai mercati internazionali a suon di acquisizioni.
Il fenomeno non è in sé nuovo. Anche la East India Company britannica fu, più di tre secoli fa, sostenuta dalla corona britannica nella sua espansione in Asia e fu funzionale alla nascita del capitalismo. Nuovo è il fatto che queste portentose imprese — capitaliste nella logica ma di Stato nella proprietà — stiano attaccando il modello privato conosciuto finora. E con notevoli successi. A livello globale, nell'energia oltre il 65% delle imprese (in valore) è controllato dallo Stato; nei servizi come acqua, telefoni, luce, oltre il 50%; in finanza il 35% e via dicendo. Tra i maggiori dieci gruppi internazionali per capitalizzazione, già quattro sono controllati da governi: la cinese Sinopec, la China National Petroleum Corporation, la rete elettrica della Cina, le Poste giapponesi. L'80% del valore della Borsa cinese è fatto da imprese pubbliche. In Russia siamo al 62% e in Brasile al 38%. Il legame tra capitalismo e privato, in altri termini, non è più un fatto scontato, anzi: nei Paesi emergenti il capitalismo è una delle facce dello Stato (spesso totalitario). Non solo: il modello cinese sta prendendo piede in molte altre parti del mondo, per esempio in Africa e nell'America Latina.
Il fatto più straordinario è però che lo Stato sia sempre più determinante anche in quella che una volta era la terra del libero mercato, l'Occidente. La crisi finanziaria ha mostrato al mondo l'esistenza di imprese — soprattutto banche ma non solo — così grandi, intrecciate a infiniti settori dell'economia e così potenti da rappresentare elementi di sistema, cioè qualcosa che è privato nella forma (e nei profitti) ma ha una caratteristica pubblica, perché se fallisce crea disastri a tutti. Sono le cosiddette imprese too-big-to-fail, troppo grandi per fallire, che di fatto hanno imposto a tutti l'obbligo di salvarle con denaro dei contribuenti anche quando dovrebbero finire a gambe all'aria.
In altre parole, il capitalismo è sempre più intrecciato allo Stato, a Oriente come a Occidente, nei Paesi poveri come in quelli ricchi. Ciò significa, nella grandissima parte dei casi, corruzione, scambi di favori tra politica e business, formazione di élite cooptate e non fondate sul merito e soprattutto pratiche brutali per tenere fuori dagli affari chi non ha protezioni, con conseguenti barriere alte all'ingresso e limitazioni della creatività e dell'innovazione. In sintesi, nei Paesi emergenti il modello cinese avanza. E nei Paesi ricchi siamo di fronte a un capitalismo che premia poche oligarchie, cresce sulle rendite e così facendo distrugge il capitale, cioè il lavoro, tanto che la quota di reddito che va ai salari rispetto a quella che va alle rendite è in costante calo (in America al 58%, dal 63% medio dei 65 anni precedenti). Un capitalismo che ha sempre meno consenso, che ha perso parte del suo ruolo di arricchimento della società e dunque anche in Occidente ha bisogno dello Stato e della politica per mantenere le sue caratteristiche. Brutto e invecchiato, appunto: se continuerà su questa strada, non riuscirà più a produrre le meraviglie di Google, Apple, Facebook. E spudoratamente anti-mercato.

TamTam

Corriere della Sera 21.1.12
La scelta dei democratici: distanziarsi dall'esecutivo
Ma i veltroniani: appoggio totale e congresso a maggio
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è un sondaggio che inquieta il Pd. C'è un sondaggio dietro la decisione di Pier Luigi Bersani di non nominare mai il nome di Mario Monti nella relazione con cui ha aperto la due giorni dell'assemblea nazionale del Partito democratico. Oltre il 70 per cento crede che nel 2012 la situazione nel nostro Paese l'Italia peggiorerà. L'11 per cento delle famiglie italiane ha già avuto un componente che ha perso il lavoro. La fiducia nei partiti si attesta attorno al 12 per cento. Cresce solo il consenso nei confronti del sindacato, perché, spiegano gli intervistati, sono gli unici che difendono i lavoratori.
Sono dati che fanno accapponare la pelle ai dirigenti del Pd. Tant'è vero che Rosy Bindi nel presentare i lavori del parlamentino del Partito democratico non riesce a non lasciarsi sfuggire un «Il Pd non è il governo Monti». Bersani, ovviamente, è più cauto. Ma non si spinge ad abbracciare in tutto e per tutto la politica del premier. Non solo, il segretario del Pd, nel suo discorso, fa una premessa che la dice lunga: «Non tutto è nelle nostre mani, siamo minoranza in Parlamento». Come a dire, anzi, a ribadire, che non esiste una maggioranza di governo, ma solo un'aggregazione di partiti che in questa fase contingente appoggiano lo stesso governo.
Insomma, il Pd non vuole metterci la faccia. Non sa come andrà a finire l'avventura del nuovo esecutivo e non intende pagare tutte le conseguenze di un eventuale insuccesso. Non si può dare per scontato che tutto quello che farà il governo piacerà al Pd. «E quando accadrà lo diremo», dice senza problemi Bersani. Che, tanto per mettere i puntini sulle «i», avverte: «Basta con le manovra d'aggiustamento, all'Italia non si può chiedere di più». Ma la vera delusione per Bersani riguarda il capitolo liberalizzazioni: «Si può fare di più e di meglio. E con maggiore immediatezza. Mi riferisco in particolare a quelle materie che incidono direttamente sulle tasche dei cittadini, dei pensionati, delle famiglie numerose: parlo quindi di farmaci, parafarmaci, gas, assicurazioni e banche. Bisognerà tornare a discuterne in Parlamento».
Effettivamente il Pd si aspettava di più. Lo ammette il responsabile economico del partito Stefano Fassina: «Su alcuni punti ci sono stati dei passi indietro». Lo conferma la responsabile Impresa Paola De Micheli: «Il nostro messaggio è chiaro: Monti, ti incalzeremo: non essere timido perché se vai avanti, noi ti seguiremo».
Ma c'è un altro elemento di diffidenza che si è insinuato tra il gruppo dirigente del Pd e il governo. Spiega Bersani: «Siamo la forza principale: nessuno potrà pensare di prendere alle spalle il Pd in un passaggio delicatissimo per il Paese». Per dirla in breve: prima o poi toccherà a noi governare. Non la pensano nello stesso modo i veltroniani, che stanno con Monti «senza se e senza ma» e che immaginano così il futuro: «Bisognerà fare un'alleanza tra il Pd e il Terzo polo, candidando alla presidenza del Consiglio un esponente dell'attuale governo». Bersani tace ma non acconsente. E aspetta al varco gli avversari interni. Alcuni di loro chiedono il congresso nel prossimo maggio. Il leader ha una road map diversa: le assise nazionali si terranno dopo le elezioni politiche.

il Riformista 21.1.12
De Benedetti e i partiti
di Emanuele Macaluso


Ieri il Fatto ha pubblicato una pagina con le anticipazioni del libro di Marco Damilano, Eutanasia di un potere, consistenti nell’intervista data da Carlo De Benedetti all’autore.
Ne parlo nell’editoriale di questo giornale perché affronta un tema, il rapporto tra partiti e Poteri più o meno forti, cui parla l’editore dell’Espresso e di Repubblica, riferendo fatti che si sarebbero verificati negli anni settanta-ottanta. C’è un pezzo dedicato a Craxi che l’ingegnere considerava «un bandito con atteggiamenti fascistoidi» a cui però negli anni 80 era «difficile dare torto nell’esigenza di modernizzazione», parla delle tangenti che lui e altri erano «costretti» a pagare all’amministratore del Psi, Balzamo. E accenna come cinicamente Craxi si fece largo tra Pci e Dc. Racconta anche di una riunione, fatta in casa Formenton con il ministro democristiano Marcora, «con Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese» per discutere la candidatura a segretario della Dc di De Mita. Il quale udite! udite! quando fu eletto «chiamava Scalfari tutte le mattine: c’era una sudditanza impressionante...». E chiarisce: «Scalfari pensò di potere gestire De Mita e, attraverso di lui, la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci e c’era riuscito». Il Pci di cui si parla era quello con Berlinguer segretario. Chi conosce la storia di quel partito sa bene che questa influenza scalfariana sul Pci fu certo tentata (ne ho parlato anche su queste colonne ricordando le mie polemiche col fondatore di Repubblica negli anni in cui dirigevo l’Unità), ma è ridicolo pensare che Scalfari «gestisse il Pci». Non gestì nemmeno la Dc, anche se ebbe un rapporto forte con De Mita. Dc, Pci e Psi erano partiti forti con un rapporto con i loro iscritti ed elettori, e non potevano essere «gestiti» da altri.
Tuttavia, ecco la ragione per cui scrivo questo editoriale: un ricco signore che in passato, e ancora oggi, esercita un “potere forte” nel mondo economico e in quello dei media, manifesta una concezione padronale della politica, al punto da ritenere che Scalfari (cioè il suo gruppo) «gestisse» la Dc e il Pci.
Il tema, però, è di grande interesse: non solo da un punto di vista storico, ma politico e attuale. In questi anni abbiamo avuto un partito padronale che ha governato il paese. E l’ha governato con la politica e con enormi mezzi usati anche per ottenere, e mantenere, un alleanza (la Lega) e un potere nel mondo dell’economia e dei media.
l caso più evidente e clamoroso, anche perché a un certo punto, nel cuore di una crisi politica, Berlusconi ha operato senza mediazioni, direttamente e personalmente. Ma altri non sono rimasti con le mani in mano come si usa dire. Non penso che il gruppo De Benedetti, in questi anni, abbia «gestito» il centrosinistra, ma l’opera per fornirgli una cultura politica, e a volte di suggerire comportamenti e iniziative, non è mancata.
I partiti oggi sono fragili, i gruppi dirigenti deboli per acquisire e mantenere una forte autonomia. Ma il problema posto, quello del ruolo dei partiti e del loro rapporto con i poteri più o meno forti, è aperto. Anche perché nonostante la crisi un partito con un forte padrone c’è ancora.

l’Unità 21.1.12
Intervista ad Anna Finocchiaro
«Cancellare subito la vergogna delle dimissioni in bianco»
La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare l’articolo 18
Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra dovrà cedere all’indignazione»
di Maria Zegarelli


Un appello alla ministra Elsa Fornero lanciato da 14 donne e subito sottoscritto da altre 188, proprio il numero di quella legge contro le dimissioni in bianco che il governo Berlusconi ha cancellato. E poi, un passaggio del discorso del segretario Pd, durante l’Assemblea di ieri, affinché sul tavolo di lavoro per la riforma del mercato entri in primo piano anche il ripristino di quelle norme di civiltà spazzate via proprio mentre la crisi, che il centrodestra ha negato fino alla scorsa estate, logora posti di lavoro e quelli delle donne un po’ di più.
Anna Finocchiaro, capogruppo dei democratici al Senato dice che la questione «non è tornata al centro dell’attenzione, perché per il Pd c’è sempre stata».
Presidente, tante dichiarazioni di intenti, ma la legge ancora non c’è. Adesso l’appello trasversale di moltissime donne al ministro. E il Parlamento?
«Questa è una battaglia che noi democratici non abbiamo mai abbandonato. La reintroduzione del divieto di dimissioni in bianco è stata oggetto di nostri interventi in Aula, di emendamenti, sempre bocciati dal centrodestra, e proposte di legge sia alla Camera sia al Senato. Sono state soprattutto le senatrici e le deputate a tenere sempre alta l’attenzione su questo tema e lo dico non per fare una rivendicazione fine a se stessa, ma per ribadire che questa battaglia, che ritorna oggi di attualità sui media, grazie anche a questo appello di tante donne impegnate in politica, nel sindacato, nel mondo dello spettacolo e della cultura, che io stessa ho sottoscritto, il Pd non ha mai smesso di combatterla».
Non ripristinare quella legge potrebbe essere ancora più drammatico per le donne, ma anche per gli uomini, con l’acuirsi della crisi e la recessione in atto. Perché aspettare?
«Di fronte all’incalzare della crisi e all’ulteriore mortificazione dei diritti del lavoro, la questione è di assoluto rilievo. Per evitare la pratica delle dimissioni in bianco non ci vogliono meccanismi complicati né costi aggiuntivi. Lo strumento c’è, è quello sperimentato nel 2006 dal governo Prodi: le dimissioni vanno compilate in moduli con numeri progressivi e non possono avere una data che vada più indietro dei 15 giorni dal momento della presentazione. Non c’è motivo per rinviare, la discussione della norma va messa immediatamente all’ordine del giorno sia alla Camera che al Senato».
La domanda è: perché il centrodestra dovrebbe dire sì oggi quando ha detto no fino a ieri?
«Perché potrebbe cominciare a vergognarsi se non lo facesse e a far crescere il senso di vergogna sarebbe quel sentimento di indignazione che sta crescendo tra gli uomini e le donne di questo Paese. Quella norma, infatti, riguarda tutti e aggiungo che lo strumento delle dimissioni in bianco è un modo di aggirare l’articolo 18».
Il governo dice che per ora l’articolo 18 non è all’ordine del giorno. Se dovesse tornarci, il Pd riuscirebbe a trovare una sua posizione?
«Per quanto riguarda il Pd l’articolo 18 non è in discussione e non è discutibile. Io starei però attenta perché, mentre vedo che monta il dibattito su una presunta e ipotetica volontà del governo di modificarlo, non noto altrettanta attenzione alle decine e decine di posti di lavoro che saltano ogni giorno».
Il Pd appoggia questo governo con lealtà senza rinunciare a dire la propria, ha spiegato Bersani. Insomma, ci siete ma non siete il governo. «Noi siamo leali e lo dimostriamo ogni giorno in Parlamento. Lo siamo soprattutto perché non rinunciamo, nelle sedi appropriate, a rappresentare le nostre posizioni, i nostri rilievi e la posizione del nostro partito sulle questioni che stiamo affrontando e che affronteremo in futuro. Né, d’altra parte, ci si può aspettare di meno dal più grande partito italiano e da una forza seria e responsabile che appoggia questo governo ma che si candida a guidare il prossimo». Con chi lo guiderete? Bersani su questo non si è sbilanciato.
«Noi lo guideremo, questo è sicuro perché nessuna alleanza si crea a prescindere da noi. Vediamo chi vorrà condividere il nostro progetto di Paese».
Però nel Pd c’è chi chiede un congresso anticipato per decidere la linea politica anche in vista delle elezioni.
«Non vedo dove sta il problema. Un congresso del Pd non è come un congresso della Lega, siamo abituati a farli e se la maggioranza lo chiede non vedo perché non si dovrebbe fare. Mi fa aggiungere un’ultima cosa?».
Cosa vuole aggiungere?
«Osservo che i congressi servono anche a consolidare le leadership che già ci sono, non soltanto a crearne di nuove».

La Stampa 21.1.12
Castellucci: contro di me una fatwa cristiana
Il regista del discusso “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” “Non mi interessa lo spettacolo, è l’atmosfera che mi spaventa”
di Francesco Bonami


Romeo Castellucci (foto sotto), classe 1960, vive a Cesena, il suo buen ritiro, da dove con la oramai storica Societas Raffaello Sanzio progetta le sue travolgenti tappe europee e mondiali : il suo ultimo spettacolo «Sul concetto di volto nel figlio di Dio» (foto a sinistra) dovrebbe andare in scena a Milano al Teatro Franco Parenti martedì prossimo

Avevamo intervistato Romeo Castellucci in occasione delle violente proteste contro il suo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio in Francia. Oggi però la situazione sta assumendo tinte molto più cupe dopo che anche il Vaticano si è schierato a favore di gruppi che Castellucci non ha timore a definire con amarezza «fascisti e antisemiti». Abbiamo raggiunto il regista a Cesena, il suo buen ritiro, da dove con la Societas Raffaello Sanzio progetta le sue travolgenti tournées. E’ forse l’unico vero erede di Carmelo Bene ma l’impatto internazionale del suo teatro è di gran lunga superiore a quello dell’insuperabile maestro.
Castellucci, come si spiega una reazione così dura?
«Quando lo spettacolo aprì a Parigi tutti giornali hanno diffuso notizie false dicendo che si gettavano veri escrementi sull’immagine di Cristo. Cosa assolutamente non vera, veniva usato semplicemente colore».
Ma Parigi è acqua passata, adesso addirittura il Papa ha preso posizione contro lo spettacolo.
«Ci troviamo davanti ad una specie di “fatwa” cristiana e la cosa è gravissima. Una cultura che vuole tornare all’inquisizione e alla censura dell’arte. Dello spettacolo non me ne frega niente, è l’atmosfera che mi spaventa.
Un’atmosfera che vuole la morte dell’arte dimenticando che arte e religione sono nate mano nella mano. L’arte è nata come gesto sacro. E’ grave che le autorità ecclesiastiche ascoltino la voce di gente che sta facendo il processo alle intenzioni, attaccando violentemente attori, spettatori, minacciando la libertà di pensiero. Rifiutando il dibattito. Considerando nemici tutti coloro che parlano del volto di Cristo fuori dagli stereotipi. Perchè il Vaticano non accetta il confronto e l’incontro con chi parla una lingua diversa da quella dogmatica? Io sono disponibile. In un momento in cui la le religioni hanno acquistato una potenza identitaria così forte, negare la sua interpretazione da parte dell’arte è pericolosissimo».
C’è chi dice che tutto questo le fa pubblicità.
«Non è questo tipo di attenzione che mi interessa e che cerchiamo».
L’arte, il teatro, possono aiutare a ritrovare immagini sacre per la nostra società?
«Certo. C’è infatti questa gelosia, invidia, per arte che è in grado di produrre immagini spirituali, immagini che ti possono ancora mettere in crisi».
Una crisi che sfocia in violenza «Si è scatenata una campagna violentissima come si era già avuta, qualche anno fa, davanti alla fotografia Piss Christ dell’artista Andreas Serrano».
Una provocazione ?
«Assolutamente no. Il problema è che la gente non sa più riconoscere un immagine assolutamente cattolica, che passa attraverso il corpo, che fa parte della passione. Non c’è più nulla di blasfemo nell’urina e nelle feci una volta che Gesù ha deciso con l’Eucarestia di passare dal nostro corpo».
La religione che fa scandalo e che è attaccata dal fondamentalismo religioso, una contraddizione.
«Una contraddizione enorme fra questa vena iconoclasta e la foga di apparire della Chiesa. Ma quando la Chiesa abbraccia la comunicazione è il segnale di una malattia terminale».
Quale dovrebbe essere la risposta della Chiesa al nostro tempo?
«Piuttosto il silenzio. Non certo le dichiarazioni e gli slogan» Cosa muove le persone che ti attaccano?
«Sono manipolati da qualche politico molto scaltro. Ma la cosa lugubre è che sono diciottenni vestiti benissimo. Qualcosa che ricorda la gioventù nazista .. Nessuno si capacita di questa violenza non solo verbale. A Rennes la polizia ha dovuto chiudere il centro. In sala hanno trovato cinque coltelli».
Hai paura?
«Moltissima. Gli attori però sono i veri eroi quando salgono sul palcoscenico».
Una reazione molto simile a quella dei fanatici islamici.
«Assolutamente simile. Infatti in Francia i fondamentalisti islamici si sono uniti ai giovani cattolici perché secondo loro offendevo anche il profeta Issa che poi è Gesù».
La sindrome di Salman Rushdie «Un po’ quel rischio c’è. Mi mandano link con immagini di veri cadaveri, dicono che mi uccideranno».
Ma cosa ci sarebbe di blasfemo nel tuo spettacolo?
«Nulla di blasfemo. Il nome di Dio è blasfemo per l’Antico Testamento. Per l’arte condanna o redenzione è la stessa cosa. Ma l’assurdo è chi attacca lo spettacolo non lo ha neanche visto».
Ce lo spieghi lei.
«Un piano sequenza, questo padre incontinente e il figlio che gli cambia il pannolone tante volte. Sullo sfondo il famoso Cristo di Antonello da Messina. A poco a poco il salotto è invaso da pannoloni. C’è un aspetto iperrealista con anche l’odore. L’equazione: feci=Gesù ha scatenato reazioni violentissime».
Si meraviglia?
«Ma la “merda” è la materia per antonomasia, ciò che rimane».
C’è anche una metafora politica.
«Sicuramente. Quando lo abbiamo presentato ad Atene gli spettatori lo hanno visto come l’eredità lasciata dai padri ai figli costretti a pulire la loro merda economica e sociale».
«E’ come se Gesù appartenesse a questa gente. Sarebbe bello poter liquidare il tutto con una risata ma non si può» I media da che parte stavano in Francia?
«Dalla parte della libertà di espressione ma in modo ambiguo. Tutti sanno che non sono un provocatore. Ma faceva notizia e comodo continuare a portare avanti questa immagine falsa della provocazione. Ho sentito l’impotenza di dire la verità. Una tragedia della comunicazione. Ma la buona notizia è che ancora è possibile fare uno spettacolo teatrale che scuota l’attenzione dell’opinione pubblica».
Cosa vuol dire fare cultura ?
«Scegliere. Scegliere di guardare. Quando si fa cultura si sceglie di stare con gli altri».

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Ama il prossimo tuo Il decimo comandamento che illumina «tutta la Legge e i Profeti» secondo Enzo Bianchi e Massimo Cacciari
Con l’agape l’impossibile è la misura dell’amore
di Federico Vercellone


Enzo Bianchi Massimo Cacciari AMA IL PROSSIMO TUO Il Mulino, pp.141, 12

C'è un comandamento che riassume compiutamente l'insegnamento di Gesù, ed è l'ultimo: «Ama il prossimo tuo». Il decimo comandamento realizza il mandatum novum, suggella il nuovo patto tra Dio e il suo popolo. Quello che così si configura è un cammino che travolge i confini. Su questa via il cristianesimo si configura come religione universale.
A ricordarcelo sono Enzo Bianchi e Massimo Cacciari in Ama il prossimo tuo, il magnifico libretto dedicato al decimo comandamento che hanno scritto per Il Mulino. Il volume si compone di due saggi. Il primo, di Enzo Bianchi, è intitolato Farsi prossimo come amore, e il secondo di Cacciari, Drammatica della prossimità. I testi compendiano il versante storico-religioso e teologico e quello filosofico della questione.
Enzo Bianchi ci guida attraverso la tradizione ebraica e quella cristiana. Il decimo è un comandamento che suona sempre come una sfida; e lo è forse a maggior ragione in un'età come la nostra che è stata definita anche come l'epoca della «morte del prossimo». L'amore, ricorda Enzo Bianchi, è un appello costante a uscire da se stessi; e il comandamento ammonisce, come ricordava già S. Girolamo, che ogni uomo va considerato prossimo per l'altro uomo. L'insegnamento ad amare il prossimo come te stesso, nell'Antico Testamento, compare nel Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Non abbiamo a che fare con una concezione individualistica dell' amore, poiché, come si evince dal contesto, l'intento del passo del Levitico è quello di fare di Israele una comunità giusta e solidale fra i suoi membri. Ciò nondimeno avviene nel quadro di un'equilibrata interazione tra responsabilità individuale e dimensione collettiva
Al di là del modo in cui si può intendere nella Bibbia ebraica il comandamento, non è possibile non riscontrare come il mandatum novum rappresenti una delle grandi fratture prodotte da Gesù nei confronti del giudaismo, uno dei punti in cui egli si allontana dalla religione dei padri per esprimere una nuova interpretazione della Legge fondata sull'ermeneutica dell' amore. Come insegna il Vangelo di Matteo, il decimo comandamento diventa il punto di vista attraverso il quale bisogna leggere la Bibbia, un fuoco che illumina «tutta la Legge e i Profeti», un esempio incarnato da Gesù che fa della sua vita un capolavoro d'amore. «Da questo», dice il Vangelo di Giovanni, «tutti sapranno che siete miei discepoli».
Tutto ciò è assolutamente drammatico. Abbiamo a che fare, come magistralmente sottolinea Massimo Cacciari, con un sentimento del tutto paradossale, «con una compassione che non conosce gelosia, e che non ha altro scopo che liberare l'amato». Ogni traduzione risulta arrischiata nel confronto con il contenuto assolutamente paradossale del messaggio evangelico. Con il decimo comandamento si va ben oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo. Con il cristianesimo abbiamo a che fare con un passo che va decisamente oltre ogni amore antico. Quello che qui si annunzia è l'agape, l'amore che non ha innanzi tutto da fare con le relazioni umane ma con il rapporto che Dio intrattiene con se stesso attraverso il Figlio. In quanto il Padre si realizza nell'unità con il Figlio abbiamo a che fare con un amore che sfonda ogni limite, per accogliere entro di sé la sofferenza che affligge l'amato. E' un amore che sceglie dunque l'impossibile come propria misura. E mostra così che l'amore è ogni volta un obolo infinito che riconosce l'altro prima di noi stessi. Che lo assegna alla sua singolarità assoluta. Realizzandosi l'amore del prossimo si dimostra di volta in volta come il più potente degli impossibili. "Un appello costante a uscire da se stessi, ogni uomo considerato prossimo per l’altro uomo Oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo"

l’Unità 21.1.12
I nazisti di oggi? Quell’1% di ricchi
Art Spiegelman A Torino una lezione sul fumetto del creatore del celebre «Maus»: «Ogni volta che c’è una crisi economica comincia a soffiare
il vento dell’antisemitismo e del razzismo: è il socialismo degli idioti»
di Silvio Bernelli


Che diavolo è successo al fumetto? È questa la domanda che Art Spiegelman, il celebrato creatore di Maus, pone alle sue legioni di lettori. Un modo per dire che il mondo dei fumetti è radicalmente cambiato negli ultimi anni, da quando insomma il graphic novel, la narrazione per immagini, è stata finalmente riconosciuta come forma autonoma d’arte. Un’affermazione critica che deve molto proprio al suo Maus: un graphic novel in cui Art Spiegelman metteva in scena la storia personale del padre Vladek imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz, raffigurando gli ebrei come topi e i nazisti come gatti. Oggi sono passati venticinque anni dalla sua pubblicazione e l’autore ha deciso di portare in giro per il mondo una lezione per immagini, intitolata appunto What the %@&*! Happened to Comics? L’unica data italiana di questo evento, un vero tour cronologico nella storia del fumetto, nonché un grandioso successo di pubblico, è stata giovedì scordo al Circolo dei lettori di Torino.
MENTE, PAROLE E IMMAGINI
Giaccia spigata grigia in tono con la camicia, i capelli lunghi degli ex ragazzi degli anni ’60, Spiegelman si presenta come un uomo gentile ma deciso, sottilmente spigoloso. Soprattutto, ci tiene ad essere un uomo di questi tempi. «Benché sia un disegnatore, non rifiuto il mondo della tecnologia. Potete vederlo anche dalla sigaretta elettronica che tengo tra le dita. E anche i comics sono moderni. Sono il collegamento tra il mondo dello scorso secolo e questo, proprio perché utilizzano simultaneamente diversi strumenti di comunicazione, come il disegno e il racconto. Negli Stati Uniti, dove oggi le case editrici sono terrorizzate dall’affermazione dell’ebook e di internet, la sezione fumetti è quella che spesso registra il maggior successo di vendite. D’altronde i comics sono il mezzo più semplice per entrare nel cervello delle persone: noi infatti pensiamo per immagini, e anche i nostri pensieri sono delle piccole esplosioni di parole». Gran parte della chiacchierata con Spiegelman è dedicata al suo famosissimo Maus, con il quale rivela di avere un rapporto impegnativo e complesso. «So che grazie a Maus vengo considerato il padre del graphic novel, ma sto ancora chie-
dendo la prova del dna... A parte gli scherzi, bisogna tenere presente che graphic novel è una definizione data dal marketing, non riguarda l’essenza del lavoro. L’Europa è da sempre ostaggio di alcuni vecchi concetti, legati alla purezza dell’opera d’arte. Oggi però siamo entrati in una nuova era e possiamo vedere come una forma narrativa che comprenda sia l’aspetto del disegno sia quello della scrittura, non sia più da considerarsi una forma narrativa inferiore. Detto ciò, non so se riuscirò mai a togliermi la maschera di Maus, ma continuerò a provarci. Giusto due mesi fa ad esempio è uscito questo libro complesso, MetaMaus (la storia della sua creazione, ne ha scritto in queste pagine Sara Antonelli ndr.), e quando ne parlo so che indosso la maschera di me che viene fuori da MetaMaus. Diciamo che ogni volta quando torno a casa, nel mio studio, sta a me vedere cosa è rimasto sotto la maschera». Un grande artista, sicuramente, ben conscio che il suo capolavoro ha una portata che va molto al di là del racconto per quanto spiazzante e originale dello sterminio degli ebrei. «Oggi i nazisti e i topi, gli aguzzini e le vittime di Maus, non sembrano più divisi per categorie razziali, quanto più per categorie economiche. Da una parte ci sono i ricchi, i gatti, che sono l 1’% della popolazione; dall’altra i poveri, i topi, che sono il 99%. Ciascun paese oggi sembra avere le proprie vittime. Negli Stati Uniti sono i neri e gli arabi, in Italia probabilmente gli abitanti del Sud. È vero comunque che in giro si respira una brutta aria di antisemitismo, lo stesso di sempre. Un vento che soffia ogni volta che c’è una crisi economica. Anche il campo di sterminio di Auschwitz è in fondo figlio del crollo di Repubblica di Weimar e della crisi economica degli anni ’30. Le tragedie però tendono tristemente a ripetersi. Dopo i campi di sterminio nazisti si era detto: “Non deve succedere mai più”, poi c’è stato il massacro tra Tutsi e Hutu, quello tra serbi e bosniaci... L’antisemitismo e il razzismo sono sempre il socialismo degli idioti». Esauriti i temi più politici del suo lavoro, Spiegelman confessa quanto nasca da lontano la sua passione per il fumetto. «Io sono cieco da un occhio, mi è stata negata la visione tridimensionale. Il mondo bidimensionale delle tavole disegnate per me è la realtà. Quand’ero bambino non potevo andare a giocare a baseball con gli amici, non vedevo la palla che arrivava, non valutavo la profondità degli spazi. Appena uscivo da scuola andavo di corsa in biblioteca a leggere fumetti e romanzi». Poi il piccolo Art tornava a casa. E, con un occhio solo o no, disegnava. Per fortuna.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
L’Europa non volle vedere il treno per i Lager
di Elena Lowenthal


Auschwitz è il buco nero della nostra storia: una voragine cieca e incolore dopo la quale nulla è più come prima. Ma non è uniforme, l’oscurità di questo non luogo che sta dentro il nostro mondo, abita la nostra civiltà anche se preferiremmo tutti sbarazzarcene, fare come se non fosse mai successo. Il male non è mai uguale a se stesso, ha fantasia. Sorprende prima ancora di spezzare: sfida l’umanità a inventare. Auschwitz non è il male assoluto perché, e forse purtroppo, il male assoluto non esiste - c’è sempre qualcosa che è peggio, più crudele, più basso. E il buio di quel luogo, di quel tempo, di quell’orrore, conosce un’infinità di sfumature: come se il nero non fosse assenza di luce e colore, ma una gamma inesauribile di oscurità.
Perché Auschwitz è stato il campo di sterminio, è stato le camere a gas, sono stati i forni crematori e l’umanità sfigurata nelle baracche e nelle adunate del mattino. I cumuli di capelli e di denti e di scarpe. Ma è stato anche altro. Non si può dare un voto al dolore e dire: questo è il più terribile, questo è peggio. Ma accostare, sì. Provare a immaginare. Immedesimarsi, malgrado una distanza abissale. Sapere che quell’inferno aveva molte facce, non una soltanto.
Auschwitz, dunque, è stato non solo laggiù, nella campagna polacca sulla quale la cenere dei forni ha continuato a depositarsi per molto tempo dopo, ancora. E’ stato anche nei luoghi di raccolta, meta dei rastrellamenti. Nei vagoni merci che attraversavano l’Europa in lungo e in largo, si fermavano nelle stazioni. Volendo, fra le fessure del legno, attraverso gli spioncini, si sarebbero visti occhi, scampoli di facce. Volendo, si sarebbero potuti ascoltare i lamenti, le voci. E invece, l’Europa si è fatta attraversare da questi treni come una pista di ghiaccio dove i pattini passano e lasciano una minuscola riga, che subito sparisce.
Sono tanti, i luoghi di mezzo della Shoah: là dove lo sterminio era presagio e certezza al tempo stesso. Là dove Auschwitz era ancora soltanto un’ombra, eppure pesante e feroce. Anticamere dell’inferno, ma anche inferni essi stessi. Ne Il vagone (Mondadori, traduzione di Marco Bellin, pp. 152, 10) Arnaud Rykner prova a fare il viaggio: accompagna l’ultimo treno di deportati in direzione Dachau, giorni e giorni di un tragitto che durerebbe molto meno, prolungato per seminare morte e sofferenza sui binari. La sua è un’operazione letteraria ardua, ai limiti dell’impossibile. Difficile dire se ci sia riuscito o meno. Come si fa a immaginare - e raccontare - quello che si è provato lì dentro? Rykner riesce soprattutto a dar conto dell’assurdo isolamento di quei convogli: se Auschwitz è un altro mondo, quei treni erano ancora in questo. Questo mondo li ha vergognosamente fatti passare, li ha digeriti nello stomaco della propria storia.
Prima dei vagoni merci, ci sono stati i rastrellamenti. Abbiate Pietà di mio Figlio (a cura di K. Taieb, D. Missika, Sperling e Kupfer, pp. 210, 17; pubblicato sulla scia del romanzo La chiave di Sara, di Tatiana de Rosnay, Mondadori, pp. 321, 17, ora anche film) riporta le lettere di alcuni fra gli ebrei rinchiusi al Vel d’Hiv a Parigi. Fra il 16 e il 17 luglio del 1942, 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (sì, bambini) vengono rastrellati e rinchiusi qui dal governo di Vichy, in attesa di essere deportati. Queste diciotto lettere sono piene di paura e raccomandazioni, di testamenti e quotidianità. E’ un libro terribile perché toglie il velo a una pagina francese rimasta piuttosto taciuta. «Miei cari Roland, Annie e Paule. Sono le 4 del mattino. Sono venuti a prenderci. Vi dico addio, mi pento di tutto il male che potrei avervi fatto e delle preoccupazioni che vi ho procurato. Sappiate che vi ho amato sopra ogni cosa, anche se non ho potuto dimostrarlo». Ancora una volta, al Vel d’Hiver la civile Europa mostra di cosa è stata capace: e mica solo i nazisti occupanti. No, non solo loro.
Ma prima di Auschwitz, prima dei treni della morte, prima dei rastrellamenti nelle metropoli d’Europa, c’è stata l’emarginazione. Due erano gli obiettivi: «tenere pulita» la società evitando il contatto con la stirpe «infetta». Ma soprattutto rintracciare gli ebrei più facilmente, uno ad uno. L’emarginazione è stata davvero l’anticamera dello sterminio. Anche se a volte, da quei luoghi recintati in cui gli ebrei furono rinchiusi, l’orrore sembrava lontano. Come allo Joods Lyceum di Amsterdam, dove Theo Coster è tornato qualche anno fa con un documentario e ora con un libro, "Dall’infame governo di Vichy a una gita scolastica con il cuore e la memoria insieme a Anna Frank", Rizzoli, pp. 178, 17,50. Ma perché omettere del tutto il nome del traduttore?). Una specie di gita scolastica con il cuore e la memoria, insieme ad Anne Frank e ai compagni che non ci sono più. E’ un libro quasi sereno, questo, ad ogni riga animato da un’assenza: quella di lei, in cui tutti i sopravvissuti si rispecchiano. Ma proprio questa apparente serenità, questi ricordi di scuola così simili a tanti altri eppure così immensamente distanti da una rievocazione «normale», fanno presto schiantare il lettore contro la realtà della storia, il silenzio di chi non c’è più.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
L’immagine della Shoah
La vita è bella ha banalizzato i campi di sterminio?
di Marco Belpoliti


Da qualche anno il tema della memoria è diventato centrale in ogni discussione culturale e politica. Da quando le memorie offese di popoli, minoranze, gruppi, individui, sono balzate al centro del dibattito pubblico, è subentrata la sensazione che esista, oltre che un uso, anche un abuso della memoria stessa. Valentina Pisanty nel suo libro, Abusi della memoria (Bruno Mondadori, pp. 152, €16) affronta di petto il tema. E lo fa mettendo alla prova la questione che ha prodotto sia l'uso che l'abuso: la Shoah. Inoltre, se si considera che questo tema è legato, dopo il processo a Eichmann nel 1961, all' identità dello Stato di Israele, alla sua creazione ed esistenza, si comprende come un groviglio di problemi agiti il dibattito in Europa come in Israele, come mostra il recente libro di Idith Zertal (Einaudi).
Pisanty è una semiologa e affronta la questione con i suoi strumenti, cercando di individuarne le contraddizioni. Tre sono gli ambiti che esamina: il negazionismo, la banalizzazione e la sacralizzazione della Shoah. L'autrice si arma d'intelligenza, buon senso e un innegabile bisturi illuminista, sezionando e definendo i temi che si agglutinano. Holocaust, il film televisivo che cambiò la percezione della Shoah nel mondo occidentale, e La vita è bella di Benigni, banalizzano o no la vicenda degli ebrei gasati ad Auschwitz? E il fatto che scrittori come Elie Wiesel abbiano fatto dell' Olocausto un elemento sacro della identità ebraica, che effetti produce? Banalità e sacro sono davvero l'uno l'altra faccia dell'altro?
Questioni intricate che il libro affronta con lucidità e correttezza, mettendo bene in luce il paradigma vittimario che si è prodotto nel corso degli ultimi quarant'anni intorno allo sterminio, e che ha contagiato molti altri episodi tragici della storia passata e recente, così da diventare una questione politica di grande evidenza: cosa significa essere una vittima? Quali problemi crea la figura della vittima nel raggiungimento di una verità e di una giustizia definitiva? Il tema della banalizzazione è la chiave della questione, che oggi ha sostituito il dibattito tra storici e testimoni sulla determinazione della verità degli avvenimenti, una volta che si è concluso che esiste una indubbia divergenza tra ciò che si è vissuto e ciò che è effettivamente accaduto, a vantaggio degli storici, ma senza obliare i testimoni.
Così resta problematico definire cosa significa «banalizzare». Se il banale è ciò che si oppone al «distinto», come ha precisato una volta Stefano Bartezzaghi a proposito di Queneau e dei suoi Esercizi di stile, non è facile isolare la banalità: «la banalità è come una macchia lattiginosa che circonda gli oggetti della nostra attenzione», così che più ci concentriamo sulla macchia più la togliamo dalla sua banalità.
Pisanty accosta l'argomento, per mostrare la banalizzazione della Shoah da parte di film come Portiere di notte della Cavani o al porno-nazi di Brass, ma di fronte al lavoro di Begnini si trova in difficoltà, e anche l'uso del Kitsch, un tempo strumento sicuro per individuare la banalizzazione, non è così semplice oggi da manovrare dopo trent'anni di televisione berlusconiana e di rivalutazione del pop. Abusi della memoria è un bel libro che apre problemi che vanno oggi affrontati in modo urgente, anche per uscire dalla stagnazione culturale attuale. La Pisanty ha dunque aperto la strada a un ripensamento importante. "Il saggio di Valentina Pisanty tra cinema e romanzi affronta il tema dello sterminio e delle «trappole» che contiene"
Valentina Pisanty, Abusi della memoria, Bruno Mondadori, pp. 152, 16

Corriere della Sera 21.1.12
Kertész, fuga senza fine da Auschwitz
La ferita del lager non si può rimarginare nel diario-romanzo del Premio Nobel
di Giorgio Pressburger


Bompiani pubblica Io, un altro di Imre Kertész, lo scrittore ungherese, Premio Nobel nel 2002. (Il precedente stampato dallo stesso editore si intitolava Il vessillo britannico).
Molti ricorderanno anche l'impareggiabile Essere senza destino (Feltrinelli) premiato col «Flaiano», un anno prima del Nobel. Sì, Imre Kertész è uno dei maggiori scrittori viventi e alcuni suoi libri sono all'altezza di Primo Levi, al quale si può paragonare per la somiglianza di temi e di esperienze umane fatte durante la Seconda guerra mondiale. In un'epoca in cui dominano i romanzi «rosa», o polizieschi, e pare che per altri generi non ci sia spazio, l'apparizione di questo libro piccolo, 135 pagine, vivace e dolente, ma anche umoristico, è un vero regalo. Testimonianza del fatto che esistono altre letterature, altri gusti, anche se occorre pazientemente cercarne le tracce.
Il volumetto di Kertész parla di un tema che ci porta nel sottosuolo, negli abissi dell'animo e del destino. Si tratta del vagare di un sopravvissuto ad Auschwitz nei Paesi centrali dell'Europa, negli anni dell'apertura dei confini, la caduta del muro di Berlino. Un cammino solitario, compiuto per la prima volta in libertà, su inviti di associazioni letterarie e religiose, di amici dell'Europa occidentale. Ma com'è questo viaggio, per chi si è salvato ad Auschwitz e finalmente è fuori anche dalle galere staliniane? È come vedere le cose essendo diventati completamente «altri», estranei a sé stessi e al mondo, alla propria vita precedente? È come risvegliarsi sotto l'effetto di una metamorfosi totale. Ma non è la crisalide che si trasforma nell'angelica farfalla come nella Divina Commedia di Dante, o nella poesia del giovane poeta di Gorizia Carlo Michelstaedter vissuto all'inizio del Novecento, (Il canto delle crisalidi). Non è in qualcosa di nuovo e promettente che la crisalide si trasforma qui, bensì in un essere estraneo a tutto, a tutti, a se stesso e all'intero Universo. La piaga inferta dall'orribile esperienza di Auschwitz e poi dalla dittatura staliniana non si rimarginerà più, perché anche quella del mondo nuovo, sempre più conformista e violento, indifferente, vuoto, avido, non sembra più guarire. Lo scrittore, nel suo pellegrinaggio in questo paesaggio deserto, come la Waste land di Eliot, a volte sovraffollato, luccicante, cerca con tutte le forze un appiglio alla vita, a qualche parvenza di esistenza sopportabile. Incontri fugaci, viaggi in automobile con donne mai nominate, nottate allucinanti in edifici vuoti nell'ex Germania dell'Est, costellano questo diario della metamorfosi. Sprazzi di veri sentimenti umani baluginano nell'oscurità, per un attimo si presentano anche momenti di felicità, ma tutto è rivolto verso una meta dove esistono soltanto i grandi interrogativi sullo scopo di vita e morte. L'ultima immagine del libro può rammentare una delle figurine umane di Giacometti: un uomo cammina con un piede già alzato e la testa rivolta all'indietro. Il passo condurrà alla morte ma lo sguardo è ancora affisso sulla vita.
Come tutti i libri di Kertész, Io, un altro è pervaso da un sentimento di acuto pessimismo, ma analogamente non è affatto distruttivo. Anzi. Vi sono molti riferimenti a celebri brani musicali e a opere di grandi narratori e poeti; qui non si tratta, come in molti libri che vogliono compiacere il lettore e il mercato, di puri elenchi di azioni e sensazioni. Si parla, in modo chiaro e semplice, anche se a volte addolorato, di smarrimenti, riflessioni, rimpianti, disperazione.
Eppure la lettura dà un certo slancio a chi la compie (in due ore al massimo), come capita soltanto con i grandi autori. Giacché di fatto si scopre un senso, in questo vuoto, in questa violenza e volgarità. In vari episodi narrati, come in quello dell'incontro con un barbone antisemita e ubriaco a Berlino, c'è una forma di umorismo tanto sottile e solare come è impossibile trovare nelle opere scritte per distrarre o intrattenere.
E a proposito di antisemiti: proprio nell'Europa centrale, dove è nato ha vissuto (e ha sofferto) Kertész, si stanno ridestando, nemmeno tanto nascosti, sprazzi di razzismo d'antico stampo. Questo libro parla anche di questi fenomeni, senza enfasi né esagerazione, ma con attonita obbiettività, come del resto in Essere senza destino. Direi che quel tono, quell'approccio alle grandi tragedie del Novecento ha trovato una voce, oltre a quella di Primo Levi e del poeta tedesco Paul Celan, soltanto nelle opere di Kertész.
La grandezza consiste soprattutto in questo: c'è molto di più della pura tragedia, c'è l'apparente considerazione dell'orrore come cosa che avviene in modo naturale, quasi logica, giustificata per la sua ineluttabilità sotto gli occhi di un ragazzo di 15 anni.
Del resto Kertész negli altri libri descrive con identico piglio le orrende angherie a cui quel ragazzo, ormai uomo di mezza età, viene sottoposto nell'Ungheria stalinista. O in quella d'oggi, nel ridestarsi di vecchi sentimenti razzisti che, all'epoca del conferimento del Nobel a Kertész, hanno fatto dire a qualche sciagurato collega che l'Ungheria non poteva vantarsene, giacché Kertész non è ungherese ma ebreo.
Oggi Imre Kertész ha scelto di vivere in Germania, a Berlino, dove ha cominciato a essere noto prima che altrove, prima della sua patria stessa. In Germania i suoi libri sono stati acquistati da un considerevole numero di lettori, discussi in conferenze, incontri e convegni. La vita in qualche modo premia chi riesce a sopportarne le prove più terribili, come è capitato a Kertész o al triestino Boris Pahor, anche lui reduce da vari lager. Il fatto che comincino a essere letti e stimati da un vasto pubblico quasi come eroi vittoriosi può essere considerato un segno incoraggiante: il lettore non è ridotto al livello di un cane da carezzare e consolare con uno zuccherino. Sopporta l'immersione nelle profondità e nella sofferenza altrui, non solo in quella esibita come oggetto di spettacolo. Kertész ha 82 anni, Pahor 99. Li conosco tutti e due, con Kertész ci si può dire amici. È un uomo solare, benigno. Non si lamenta mai. Chi come me ha vissuto da bambino o vive oggi esperienze in qualche modo simili alle loro si aggrappa al ricordo della loro vittoria, come nel Processo di Kafka chi canta in coro si aggrappa alla voce dei cantanti più vicini.

Corriere della Sera 21.1.12
Fosse Ardeatine, ritrovata la lista originale
di Paolo Fallai


Una scoperta, una conferma, una infamia. L'eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, col massacro di 335 civili a opera dei nazifascisti, non finisce di riservare sorprese. Negli archivi del Museo storico della Liberazione a Roma — che ha sede in via Tasso nell'ex carcere «politico» da cui partirono molte delle vittime — sono state trovate due pagine, che insieme a una terza esistente rappresenterebbero la lista originale di detenuti prelevati dal carcere di Regina Coeli. Due elementi sono chiari: la presenza del numero di cella, che rimanda appunto al carcere, e la firma del compilatore, Heinz Thunath, Obersturmfuehrer, incaricato di prelevare i prigionieri. Un documento prezioso perché ancora oggi non è chiaro come i nazifascisti, su ordine di Kesselring e del generale Maeltzer, siano arrivati al numero di 335. Una prima lista di 270 comprendeva detenuti di Regina Coeli e di via Tasso. Ma per arrivare all'agghiacciate proporzione «1 a 10» con cui i nazisti volevano vendicare i 32 morti dell'attentato partigiano di via Rasella, vennero aggiunti 55 nomi, preparati dal questore fascista Pietro Caruso. Anche questi non bastarono e dieci vittime non sappiamo ancora oggi come vennero rastrellate e portate a morire.
La conferma viene proprio dal nome del compilatore Heinz Thunath, figura minore del processo Kappler. Solo pochi giorni fa il settimanale «Der Spiegel» ha ripreso il lavoro di uno storico tedesco, Felix Bohr, sulla corrispondenza tra i ministeri degli Esteri di Roma e Berlino nel 1959, da cui emerge la comune volontà di nascondere i nomi e i recapiti dei complici di Kappler. In questa corrispondenza compare il nome di Heinz Thunath, con l'annotazione di tacere il suo indirizzo.
La scoperta, a via Tasso, è stata compiuta dalla responsabile degli archivi, Alessia Glielmi: «Le fonti — conferma — contengono nome, cognome, data e in alcuni casi luogo di nascita e numero di cella dei detenuti. Ma ora sarà necessaria la comparazione analitica con gli altri documenti». Alla fine di questo lavoro potrebbe esserci, a 68 anni di distanza, la possibilità di ricostruire per intero i 335 nomi: ne mancano ancora dieci, mentre l'esame del Dna, solennemente promesso un anno fa dall'allora ministro della Difesa La Russa, non ha dato risultati.
L'infamia è sempre la stessa. Perfino i nazisti processati e condannati all'ergastolo per le 2.273 stragi nazifasciste compiute in Italia fra il 1943 e il 1945, non hanno pagato. Il giornalista Franco Giustolisi nel suo libro L'armadio della vergogna (Edizioni Beat) ne ha elencati 21, con nomi e cognomi. Sarebbero sedici quelli ancora vivi. Ma lo Stato italiano non li cerca. E non si è mai posto il problema di far riconoscere alla Germania le sentenze pronunciate in Italia.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Gli Anni 60. Bruno Cartosio ricostruisce i movimenti culturali della sinistra Usa che cambiarono stili, valori, sentimenti della società ma non riuscirono a vincere in politica
L’America mise fiori e dubbi nei cannoni del Vietnam
di Massimiliano Panarari


Bruno Cartosio I LUNGHI ANNI SESSANTA Feltrinelli, pp. 398, 25
Hippies, Malcolm X, movimenti beat, deliri rivoluzionari L’onda lunga è arrivata a Obama

Bruno Cartosio, nato nel 1943, insegna storia dell'America del Nord all'Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti. E’ autore, tra l’altro, di «New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917)»

Il potentissimo (e tremendo) fondatore dell’Fbi, il J. Edgar Hoover mostrato dall’ultimo film di Clint Eastwood, li detestava con tutte le sue forze, considerandoli, nelle loro varie metamorfosi, i nemici dell’America. Erano (e tuttora sono) i radical, sintesi a stelle e strisce di «bolscevichi», anarchici e comunisti, i cui eredi (diciamo così) seppero, manifestandosi in forme e mediante organizzazioni diverse, incarnare lo spirito dei tempi di tutta una stagione, I lunghi anni sessanta che danno il titolo all’ultimo voluminoso libro dell’americanista Bruno Cartosio, uno dei massimi esperti della sinistra d’Oltreatlantico. Un testo ricchissimo e che fa punto e a capo su un periodo storico di grande vivacità politica e intellettuale (anche quando discutibile), le cui propaggini si spingono fino a noi, perché, a mezzo secolo di distanza, le primarie del Partito democratico sono state, non a caso, combattute da un afroamericano e da una donna. Lo scontro (poi ricomposto al governo) tra Barack Obama e Hillary Clinton, in definitiva, quale straordinario, ancorché travagliato, approdo di un «più che decennio» molto intenso, iniziato negli Anni Cinquanta con le rivendicazioni dei diritti civili per la popolazione di colore e prolungatosi fino ai Settanta del femminismo.
A fare la propria ricomparsa sul proscenio della vita pubblica statunitense, in un’epoca di grande affluenza, fu così la «critica al sistema», ossia la messa in discussione del modello di vita e, soprattutto, economico e produttivo della prima potenza planetaria. Una situazione insospettabile dopo le durissime campagne di repressione del dissenso da cui era stata sostanzialmente estirpata la sinistra antisistema, che mostrò come il rigetto dell’American way of life covasse non soltanto al di là dell’oceano, ma anche in quelle tremende no man’s land che erano i ghetti delle metropoli. A fare da detonatore all’esplosione delle proteste ci pensò l’escalation della guerra in Vietnam, con le mobilitazioni studentesche che divennero, infatti, sempre più intense a partire dal marzo del 1965, saldandosi alle manifestazioni di piazza e alle rivolte urbane delle minoranze etniche. L’effetto finale fu quello di far saltare per aria il progetto della Grande società di Lyndon Johnson, fondata sull’idea del «burro» (e dei consumi) in patria e dei «cannoni» in politica estera, come rilevò, tra le pochissime voci fuori del coro dell’establishment, il senatore J. William Fulbright, preoccupato del fatto che l’estensione del conflitto nel Sud-Est asiatico e i «costi di mantenimento dell’Impero» avessero fatto ammalare la società Usa e scatenato una guerra intestina.
Dal Free Speech Movement ai Diggers (i pionieri del movimento hippie del quartiere di Haight-Ashbury a San Francisco), dall’estetica della controcultura alla Beat generation, dalla retorica di Martin Luther King a quella di Malcolm X (sul quale è uscita poco fa, da Donzelli, l’ultimativa biografia di Manning Marable), dalla Summer of Love del ‘67 alle anime della New Left, il libro di Cartosio offre una panoramica impressionante sul Movimento, i suoi protagonisti e le sue componenti, e su di un periodo che ha, da molti punti di vista, cambiato gli Stati Uniti (e il mondo), fornendo un palcoscenico alla prima gigantesca esplosione di soggettività della storia. Senza, però, naturalmente, riuscire a vincere in politica, come sottolinea a più riprese questo volume dichiaratamente «di parte» e simpatetico con il proprio oggetto di indagine. Un decennio di luci, e anche di ombre, come i deliri rivoluzionari dei «partiti armati» e di gruppi terroristici quali la Weather Underground Organization, l'Esercito di liberazione simbionese o le Pantere nere, spesso sconfinanti nella criminalità comune.
A sterilizzare la carica dirompente di quella stagione ci penseranno il neoliberismo e l’edonismo reaganiano che convertiranno alcune delle sue rivoluzioni di costume in (concrete o immateriali) merci postmoderne e in accessori della società spettacolo; ma anche, paradossalmente, talune vittorie, come l’attrazione esercitata dal movimento delle donne sulle esponenti delle classi alte, chiaramente interessate a rivendicazioni settoriali ma non a mettere in discussione la società nel suo complesso, cosa che decreterà la fine del femminismo radicale.
Oltre alla political correctness, insomma, negli Anni Sessanta lunghi del Secolo breve c’è stato anche (e molto) di più.

La Stampa TuttoLibri 21.1.12
Underground Dal 1964 al 1974, un racconto corale degli anni «gioiosamente ribelli della controcultura», tra concerti e sit-in
E in Italia si sognava cantando «peace & love»
di Giuseppe Culicchia


C'è stato, su questo pianeta, un tempo nemmeno troppo lontano eppure distantissimo dal nostro, in cui l'India era l'Altrove e l'Afghanistan un fiabesco paese medievale. In entrambi i luoghi, ignari della globalizzazione e delle guerre a venire e affollati di santoni e monaci e spacciatori, si arrivava da Brera in autostop o a bordo di pulmini Volkswagen, magari strappando il passaporto in qualità di cittadini del mondo: una Brera e un mondo va da sé assai diversi dalle attuali versioni 2.0. In Sicilia, la comune di Terrasini era una sorta di tappa propedeutica sulla via per gli Ashram di Poona. A Torino Gianni Milano si faceva conoscere come «il maestro beat». A Roma, il solito Giuliano Ferrara si esibiva al Piper in veste di cantante e ballerino in un'opera insieme lirica e pop ispirata alle canzoni di Bob Dylan e naturalmente alternativa, non solo al «potere costituito», come si diceva allora, ma alla famiglia in quanto istituzione e alla società borghese, messe in discussione a San Francisco come a Trastevere dai cosiddetti capelloni, o se preferite dal movimento hippy. Intanto, Marcello Baraghini apriva le porte della sede del Partito Radicale ai ragazzi che con i loro sacchi a pelo si davano appuntamento sui gradini di Piazza di Spagna. Anita Pallenberg e Gabriella Ferri, due matte scatenate, frequentavano in minigonna il giro degli artisti al Caffè Rosati. Romina Power scopriva come tanti Gibran e Hermann Hesse. Quanto a Fernanda Pivano, invitava tutti nel suo salotto di design, lì dov'erano appena passati Jack Kerouac e Allen Ginsberg, a dire di alcuni «un po' guardona».
Fa una certa impressione, oggi che l'India è una potenza nucleare e in Afghanistan si viaggia a bordo di mezzi blindati leggere Underground Italiana, racconto corale degli anni «gioiosamente ribelli della controcultura», curato da Matteo Guarnaccia e ottenuto dalle voci di chi all' epoca, più o meno ventenne, sognò di cambiare il mondo all'insegna dello slogan «peace & love», anche precipitandosi a Firenze per dare una mano all'indomani dell'alluvione: salvo poi dover fare i conti con la realtà, e dunque non solo con le retate della polizia ma anche con il servizio d'ordine di Lotta Continua e con l'eroina. Tra concerti pop e feste macrobiotiche, sit-in di protesta contro l'intervento americano in Vietnam e orge lunghe tre giorni corredate da cataloghi di droghe, i ricordi si affollano: chi a causa della chioma veniva sospeso da scuola, chi strafatto di Lsd badava ai bambini in un asilo autogestito, chi faceva ritorno dall'India con i pidocchi e la dissenteria e dieci chili in meno, chi scappava di casa e fondava una comune di fronte a San Vittore, chi finiva nel carcere omonimo.
Tra i sostantivi e i nomi ricorrenti, energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, Re Nudo, amore libero, libertà. E ovviamente 68. Dinni Cesoni, ex attivista del Movimento delle Comuni, tira le somme: «ci hanno ucciso con una overdose di consumismo e ideologia, ci hanno fatto credere che tutto era moda. Hanno fatto in modo che parole come hippy, India, underground diventassero impronunciabili. Poi ci si sono messi anche i compagni che in un delirio di follia hanno iniziato ad ammazzare la gente. Per il potere, da un certo punto in poi, tutti erano brigatisti e hanno spazzato via tutto».
Underground Italiana è il racconto del decennio 1964-1974 visto attraverso gli occhi di chi credeva che la sola vera ricchezza fosse avere il tempo per vivere le proprie esperienze. Tra tenerezze e rivendicazioni, nostalgie e paraculaggini assortite, molti di quelli ancora in vita devono dire oggi di essere finiti in un «bad trip». "Energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, viaggio, Re Nudo, amore libero..."