Il Corriere della Sera 25.11.2011
La blogger arrestata: «Braccia rotte e molestie sessuali»
Il racconto del dramma su Twitter
di Viviana Mazza
Si è fatta viva su Twitter alle 4 del mattino: «Arrestata picchiata al ministero dell'Interno», scritto in fretta, senza punteggiatura, grazie ad un cellulare datole in prestito mentre era in arresto. Poi, silenzio.
Alle 10:30, dopo aver annunciato a caratteri cubitali «sono libera», la giornalista e blogger egiziana 44enne Mona El-Tahawy, che da poco ha ricevuto anche la cittadinanza americana, ha raccontato in dettaglio le sue 12 ore di detenzione. Ha narrato la vicenda con una raffica di brevissimi messaggi di 140 caratteri ciascuno, in cui accusa poliziotti in uniforme di averla picchiata (con bastoni di legno, fino a fratturarle il braccio sinistro e la mano destra, spiegherà alla stampa), e di averla aggredita sessualmente.
Si trovava in via Mohammed Mahmoud, strada ormai nota per gli scontri, vicino a piazza Tahrir: «Buio pesto, si vedevano solo le luci intermittenti delle ambulanze, l'aria era zeppa di gas», ha raccontato su Twitter. «In cinque o sei mi hanno circondata, mi hanno messo le mani addosso e sul seno, mi hanno afferrato nella zona dei genitali e ho perso il conto di quante mani hanno cercato di infilarmi nei pantaloni». Li chiama «animali», «cani», e peggio. Dopo una visita in ospedale, e le radiografie, ha pubblicato una propria foto con entrambe le braccia ingessate.
El-Tahawy, nata in Egitto, è una ex corrispondente dal Medio Oriente della Reuters, pluripremiata. Si definisce «musulmana liberale», ha scritto contro l'estremismo islamico dopo l'11 settembre e vive in America dal 2000. Ha seguito e appoggiato la rivoluzione egiziana.
Dopo gli abusi da parte dei poliziotti, l'intelligence militare - ha scritto - l'ha portata via. «Loro non mi hanno picchiata né aggredita, ma mi hanno bendata per due ore, dopo avermi tenuta ad aspettare per altre tre. All'inizio ho risposto alle domande, perché non avevo il passaporto con me, ma poi ho rifiutato in quanto civile». Gli attivisti hanno accusato l'esercito di aver sottoposto 12 mila civili a processi militari. La giornalista si ritiene fortunata: «Dio solo sa cosa sarebbe accaduto se non avessi la doppia cittadinanza». Dopo la sua scomparsa, il dipartimento di Stato aveva espresso preoccupazione su Twitter, per lei come pure per una documentarista egiziana-americana, Jehane Noujaim, ancora in arresto da mercoledì con il cameraman Magdy Ashour.
Non sono gli agenti i soli responsabili delle violenze. Caroline Sinz della tv France3 ha raccontato ieri all'Agence France Presse di essere stata malmenata da una folla di giovani e adulti: «Mi hanno strappato i vestiti», ha detto, «hanno proceduto a palpeggiamenti che rispondono alla definizione di stupro», «il tutto è durato circa tre quarti d'ora. Ho creduto di morire». È stata salvata da un gruppo di egiziani. Un'aggressione simile l'aveva subita la giornalista americana Lara Logan durante la rivoluzione di gennaio.
L'organizzazione Reporters sans frontières ha consigliato ai media internazionali di non inviare donne in Egitto, dichiarazione subito criticata da diverse giornaliste. Altri 17 reporter sono stati aggrediti dalle forze di sicurezza negli ultimi giorni, secondo l'organizzazione Usa Committee to Protect Journalists: la maggioranza sono egiziani, e uomini.
«Hanno rotto le mie braccia ma non il mio spirito», ha detto ieri Mona El-Tahawy. «Per tutto il tempo, pensavo all'articolo che avrei scritto...»
Il Corriere della Sera 25.11.2011
I generali chiedono scusa alla piazza
di Giuseppe Sarcina
L'Egitto si prepara al voto, mentre i generali dopo i giorni della repressione chiedono scusa al popolo. In piazza Tahrir, uno dei simboli della primavera egiziana, qualcuno ha appeso un cartello scritto
a mano sulla statua di Omar Makram, leader della resistenza contro le truppe napoleoniche: «Questa Piazza è una fabbrica di eroi». Egitto, scuse dei generali per i «martiri» in piazza
La giunta sceglie un ex di Mubarak come premier.
CAIRO — È il giorno delle scuse e di un nuovo primo ministro, Kamal Ganzouri, 78 anni, che viene dal passato non troppo remoto dell'era Mubarak. Dopo un'altra notte di scontri, la giornata di ieri è cominciata con un inedito annuncio sulla pagina Facebook dell'esercito egiziano: «Il Consiglio supremo delle Forze armate si rammarica e offre profonde scuse per la morte dei martiri che facevano parte dei figli leali dell'Egitto, durante i recenti eventi in piazza Tahrir». E in tarda serata il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, il leader dell'autorità militare, ha completato la manovra, ripescando Ganzouri e affidandogli la guida di un governo di transizione. La notizia ha riacceso la tensione nella piazza della protesta. I giovani scorrono il curriculum del nuovo arrivato e fanno notare che per Ganzouri è la seconda volta da premier: peccato che la prima, tra il 1996 e il 1999, sia stato al servizio del presidente-dittatore cacciato a febbraio. Nello stesso momento i commentatori più bendisposti facevano notare che il prescelto dai militari non sembra coinvolto nella corruttela del vecchio regime e che, anzi, nel corso del suo mandato aveva cercato di riformare il sistema e modernizzare l'economia.
Si capirà oggi quale sarà la reazione di piazza Tahrir, dove sono attese centinaia di migliaia di persone. Per tutta la giornata di ieri ha retto la tregua. I soldati hanno rilevato i poliziotti antisommossa nella prima linea di scontro: c'è stata anche l'occasione per scambiare qualche parola amichevole con i ragazzi imbandierati con i colori dell'Egitto.
Nel frattempo il maresciallo Tantawi lavorava al suo schema. Martedì il maresciallo aveva offerto una scadenza certa per le elezioni presidenziali (entro giugno 2012). Ma la situazione non era affatto migliorata, tanto che mercoledì notte la nube dei gas lacrimogeni oscurava ancora la luna del Cairo. Ieri mattina «le scuse» via Internet, condite con un po' di retorica nazionalistica («i martiri», «i figli leali dell'Egitto»). Poi, verso mezzogiorno, chiuso il computer, gli alti gradi dell'esercito hanno convocato una conferenza stampa, da cui sono emersi sostanzialmente un paio di passaggi. Il capo di Stato maggiore Mokhtar al Mullah ha sostenuto che piazza Tahrir non rappresenta la maggior parte dei cittadini che, invece, appoggia l'operato dell'esercito. E quindi ha rilanciato la proposta di un referendum per stabilire come e quando il Consiglio supremo si dovrà fare definitivamente da parte. Infine lo stretto collaboratore di Tantawi ha escluso il rinvio delle elezioni: si parte lunedì 28 novembre, con un percorso che durerà tre mesi.
L'intera operazione (scuse ai manifestanti, urne aperte e nuovo premier) sembra essere il risultato di una doppia pressione. Gli americani, per cominciare. Gli Stati Uniti considerano tuttora l'Egitto partner vitale dell'area e, anche dopo la cacciata di Mubarak, hanno continuato a staccare l'assegno di aiuti (1,3 miliardi di dollari all'anno). Per Washington è essenziale che il Paese risolva politicamente i suoi problemi, lasciando da parte fucilate e gas lacrimogeni (per altro «made in Usa»). Poi, naturalmente, c'è il fronte interno. La leadership dell'esercito non ha intenzione di bloccare il processo democratico. Tantawi, invece, sta negoziando con i partiti anche un pacchetto di richieste. Alcune esplicite: mantenere i privilegi economico-sociali. Altre inconfessabili: ottenere l'impegno a non essere processati per i misfatti dell'era Mubarak.
L'interlocutore principale del maresciallo è il movimento dei Fratelli musulmani, da cui trae linfa il partito «Libertà e giustizia», accreditato dai sondaggi di un 35-40% di voti. Esercito e islamici si sono trovati d'accordo sulla necessità di affidare il governo di transizione a una personalità «neutra». Per due giorni si è girato intorno alle due sole figure dotate di caratura internazionale: Mohammed ElBaradei, ex direttore generale dell'Agenzia Onu per il controllo dell'energia atomica (Premio Nobel 2005) e Amr Moussa, già numero uno della Lega araba ed ex ministro degli Esteri con Mubarak. Ma i Fratelli musulmani esigevano il rispetto della regola fissata fin dall'inizio della rivoluzione: chi fa parte dell'esecutivo provvisorio non può correre per la carica di presidente. ElBaradei e Moussa, che si sono candidati per le presidenziali, hanno risposto «no grazie». E Tantawi ha tirato giù dalla soffitta l'ex premier Ganzouri.
La Repubblica 25.11.2011
LE FORZE NUOVE DEL MONDO ARABO CHE HANNO TRAVOLTO I REGIMI
Sono stati i giovani, le donne e Internet ad aver distrutto la paralisi nei Paesi musulmani
di Jacques Le Goff
Quello che più stupisce nelle attuali rivolte arabe è il loro carattere quasi globale, dal momento che investono pressoché l´intero mondo musulmano, dal Maghreb al Medio Oriente. Questi movimenti, sia pure con esiti diversi, lasceranno senza alcun dubbio tracce profonde. Il mondo musulmano, a lungo immobile, da ora in poi non lo sarà più. Ovviamente, questa trasformazione avrà ripercussioni a livello planetario.
Vedo la nascita, nel mondo musulmano, di quelle che definirei "forze nuove", perché hanno un nuovo impatto politico e culturale. Le "forze nuove" all´opera sono tre: i giovani, le donne e Internet. Anche se in parte repressi, insieme questi elementi stravolgono la paralisi del mondo musulmano, dove fino a ieri c´erano soltanto quattro poteri dominanti.
Anzitutto c´erano i dittatori. Ma di loro, oggi resta soltanto quello siriano, il cui destino appare del resto sempre più minacciato. Altrove, in Libia, Egitto, Tunisia, e adesso perfino nello Yemen, sono stati tutti detronizzati. Tra le altre forze in gioco che limitano la speranza di cambiamento e che sembrano sostituirsi con lo stesso potere di dominio alle deposte dittature, c´è poi l´esercito. È il protagonista di quanto sta accadendo in Egitto e di quanto accade da anni in Algeria, dove non ci sono state rivolte proprio perché i militari gestiscono il potere con sufficiente durezza.
Il terzo potere è rappresentato dagli islamici, che sotto le dittature erano spesso imbavagliati e strettamente sorvegliati, e la cui ascesa sembra adesso inarrestabile. Infine, c´è la forza dei mullah iraniani, caso unico ma di una importanza strategica sempre fondamentale. In quel mondo, non va neanche dimenticata l´opposizione crescente tra sciiti e sunniti: le rivolte di questi mesi, lungi dall´indebolirla, sembrano piuttosto averne liberato la violenza. Sbaglia chi asserisce che si tratta soltanto di movimenti di liberazione: c´è infatti il rischio che la sola cosa che questi producano sia la sostituzione di una dominazione oscurantista con un´altra altrettanto retrograda.
In questa "primavera" ci sono però diverse "primavere", che differiscono in base ai Paesi dove esse avvengono. Agli occhi di un democratico europeo, un caso positivo è la libertaria Turchia, che, per esempio, lavora alacremente affinché ci sia un´intesa obbiettiva e sempre più larga tra la Lega araba e i Paesi occidentali. La globalizzazione non va per forza bocciata, soprattutto quando porta al riavvicinamento di poteri e culture diverse. C´è poi il Libano, segnato dalla diversità dei suoi popoli e dall´instabilità dei suoi governi. C´è il Marocco, dove è lecito chiedersi se la monarchia riuscirà a moderare la sua repressione per dare ascolto al popolo. Ci sono due Paesi il cui futuro è molto incerto: l´Iraq, dove l´intervento statunitense ha prodotto frutti ancora immaturi e quindi difficilmente giudicabili; e l´Afghanistan, dove nessuno sa quello che potrà accadere tra pochi anni soltanto.
E che cosa dire dell´Arabia Saudita, Paese sconcertante dove vige uno dei regimi più oppressivi del pianeta ma che gode di un prestigio enorme perché è la terra dove sorge il luogo sacro dell´Islam, la Mecca? Sbalordisce inoltre che, malgrado la totale mancanza di libertà interna, l´Arabia mantenga ottimi rapporti con gli Stati Uniti. Ora, questo Stato perverso finanzia fuori dalle sue frontiere i movimenti islamici più ambigui e nefasti.
Quali sono gli altri fattori che possono determinare il successo o il fallimento di queste rivolte? Elementi decisivi possono essere il conflitto tra Israele e i palestinesi, o anche le ricchezze petrolifere di alcune regioni. Ma temo che nella maggior parte di questi Paesi non si produrranno autentiche rivoluzioni. Al momento possiamo dire che è stato avviato un processo di cambiamento, e che la maggior parte di questi popoli è giunta a un bivio, foriero di grandi speranze. Ma sarebbe ingenuo e illusorio aspettarsi che i risultati positivi delle rivolte arabe arrivino in fretta.
La Repubblica 25.11.2011
Violenza in Egitto, l´esercito si scusa
Confermate le elezioni. Ma una giornalista denuncia: "Io, picchiata e molestata"
L´ex premier Ganzuri formerà il governo. Ma la folla protesta: "Oggi un milione in piazza"
di Fabio Scuto
IL CAIRO - È l´incertezza a dominare in Egitto. A tre giorni dalle prime elezioni libere dalla caduta della monarchia più di cinquant´anni fa, il Paese è scosso fin nelle sue fondamenta. La protesta contro la Giunta militare è andata avanti per il quinto giorno non solo al Cairo ma in tutte le principali città egiziane, con un tragico bilancio che ha raggiunto i 38 morti e oltre 4000 feriti. La Giunta militare annuncia che il voto si terrà regolarmente lunedì, ma i partiti e le coalizioni che partecipano al voto esprimono forti perplessità sulla possibilità di tenere elezioni in queste condizioni e sono favorevoli a un rinvio di due settimane.
Gli unici sostenitori del voto subito sono i Fratelli Musulmani che con il loro Partito per la Libertà e la Giustizia si aspettano una grande vittoria. Ma il popolo di Piazza Tahrir non ci sta. Ieri notte era ancora affollata da migliaia e migliaia di persone che chiedevano ai militari di passare la mano a un governo di unità nazionale che gestisca il lungo percorso elettorale per rinnovare l´Assemblea Legislativa e la Shura (la Camera alta consultiva), in una babele di votazioni che durerà quattro mesi.
Per oggi è stata convocata un´altra grande manifestazione, un´altra "one million march", forse la prova di forza decisiva per spingere i militari a farsi da parte e rinviare le elezioni. Fra le personalità favorevoli al rinvio il premio Nobel Mohammed El Baradei, indicato da molti come il premier di un esecutivo di salvezza nazionale che può gestire questo difficile momento. Anche se ieri sera, in un disperato tentativo, la Giunta militare ha nominato l´ex premier Kamal Ganzuri per provare a formare un nuovo governo.
Ieri mattina la Giunta ha chiesto scusa pubblicamente per le vittime degli scontri di questi giorni. «Tenere le elezioni adesso è il modo migliore per aiutare il Paese in questi tempi difficili», ha detto in una conferenza stampa il capo di Stato maggiore, il generale Mokhtar al-Mullah. Al suo fianco il presidente della Commissione elettorale Abdel Moez Ibrahim assicurava: «Siamo pronti a far svolgere le elezioni a prescindere dalle circostanze». Affermazione difficile da sostenere, non un solo seggio è stato allestito finora né sono stati convocati gli scrutatori. Ieri sera in Piazza Tahrir giravano migliaia di volantini firmati da 65 fra movimenti, partiti politici, e personalità egiziane che recavano il calce queste parole: «Non vogliamo le scuse dei militari, tenetevi le vostre condoglianze e tornate nelle caserme».
Ieri i militari hanno anche negato che siano stati usati proiettili veri per reprimere le manifestazioni di piazza, nonostante le centinaia di bossoli raccolti nelle strade attorno a Piazza Tahrir e le centinaia di feriti da arma da fuoco curati dai medici volontari. La polizia anti-sommossa ha usato la mano pesante, violenze pestaggi e abusi non si sono mai fermati. Fra i "bersagli" preferiti i giornalisti. Due reporter del quotidiano Al Ayoum sono stati feriti da pistolettate, altri di Al Ahram malmenati e poi arrestati. Della violenza degli uomini in divisa ha fatto le spese anche Mona El-Tahawy, blogger e giornalista con nazionalità egiziana e americana, arrestata mercoledì notte vicino piazza Tahrir. Oltre al pestaggio, la giornalista - che è stata rilasciata ieri pomeriggio - ha denunciato anche pesanti aggressioni sessuali nel posto di polizia dove era stata portata.
È notte quando su via Mohamed Mahmoud, la strada verso la cittadella del potere egiziano, arrivano i camion dell´esercito. Scaricano rotoli di filo spinato e blocchi di cemento mentre i blindati si parcheggiano nelle vie adiacenti. Non è un buon segno.
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
EGITTO, TREGUA E (QUASI) NUOVO PREMIER
I militari incaricano Kamal Ganzuri già primo ministro di Mubarak
di Francesca Cicardi
Il Cairo - L’odore acido e fastidioso dei gas lacrimogeni rimane ancora nell’aria intorno a via Mohammed Mahmud ieri al tramonto anche se gli scontri si sono fermati molte ore prima, dopo 5 giorni di violenza senza sosta. E in serata i vertici dell’Esercito hanno deciso: Kamal Ganzuri, 78enne, premier già con Mubaraknegli anni ‘90, dovrà formare un nuovo governo, così come annunciato dalla tv statale egiziana e da al Jazeera. Un’altra delusione per i rivoluzionari: “Non cambia nulla”. In piazza Tahrir una parete di grandi blocchi di cemento, un nuovo muro consegnato da ieri alla Storia, è sul fronte di battaglia tra i rivoluzionari e i militari. In mancanza di feriti, i medici volontari fanno le sentinelle sul muro e i comitati rivoluzionari cercano di evitare che i manifestanti più violenti e gli adolescenti annoiati si avvicinino e provochino il nemico dall’altra parte. “La strada è sicura, la rivoluzione è in piazza”, cantavano. Una vittoria per Tahrir, che però si prepara a continuare la guerra contro i militari con un’altro grande venerdì di protesta, oggi, che si prevede partecipato e si vorrebbe pacifico. I rivoluzionari non lasceranno la piazza fino a quando l’Esercito non consegnerà il potere a un’autorità civile, non compro-messa con il vecchio regime, e gridano “fuori, fuori”, così come 10 mesi fa, sotto lo stesso fantoccio impiccato al semaforo all’entrata della piazza: questa volta ha un’uniforme militare, non più la faccia dell’ex presidente Mubarak. Da parte loro, i generali non si arrendono, e anche se si sono detti dispiaciuti per le oltre 30 vittime mortali, non si assumono alcuna responsabilità. In conferenza stampa assicurano che non tutto l’Egitto sta in via Mohammed Mahmud.
Ma anche oltre, nel quartiere di classe alta di Zamalek, in uno dei saloni di bellezza più chic della capitale, l’odio per i militari non si nasconde più. La situazione attuale – che colpisce gravemente l’economia – non piace agli egiziani benestanti, ma persino loro ammettono che l’Esercito ha perso la legittimità.
Anche dall’altra parte del Nilo, nel poverissimo quartiere di Shubra, cominciano a rendersi conto che i militari non sono dalla loro parte: “Non so chi ci sta attaccando e ammazzando, se i poliziotti o i soldati, ma entrambi sono dei figli di cane (insulto gravissimo per i mussulmani, ndr)”, Samia, donna analfabeta di 50 anni, per la prima volta non ha paura di alzare la voce contra le autorità che si sono imposte dopo la caduta di Mubarak lo scorso febbraio.
Il Consiglio Supremo delle Forze Armate assicura che le elezioni parlamentari, che dovrebbero prendere il via lunedì prossimo, si terranno “in qualsiasi condizione”, rassicurando ancora una volta che non ha intenzione di rimanere al potere. I militari sono sottoposti a sempre più forti pressioni, e infastiditi dal fatto di dover dare spiegazioni, ieri si sono anche difesi dicendo che nessun attivista è stato arrestato per le sue idee ma per i suoi atti. Non certo la giornalista, blogger e femminista Mona El Tahawy, catturata mercoledì notte, picchiata e molestata sessualmente dalla polizia, così come lei stessa ha raccontato su Twitter dopo essere stata rilasciata ieri a mezzogiorno. Dodici ore di inferno in mano ai “bastardi delle Forze della Sicurezza Centrale”, gli stessi che poco prima caricavano brutalmente i giovani di Tahrir.
Sempre più egiziani si chiedono perché l’Esercito sta permettendo questo comportamento da parte della polizia: non riesce a controllarla – quindi incapace – o gli agenti sono ai loro ordini? In entrambi i casi, la rabbia aumenta e il popolo ha capito che la rivoluzione non è compiuta.
Il Corriere della Sera 25.11.2011
Settemila detenuti: abusi e torture nella nuova Libia
di Alessandra Muglia
Le prigioni libiche sono di nuove piene: usciti i detenuti politici dell'era Gheddafi, sono entrati i seguaci dell'ex raìs o presunti tali. Non stupisce, visto che la «nuova Libia» nasce sulle ceneri di una guerra civile. Sorprende però il numero dei «nuovi» reclusi vittime di ogni genere di ritorsioni: 7 mila in poche settimane, tra cui donne e bambini. Finiti dentro per mano delle milizie ribelli senza un processo, «in assenza di una forza di polizia e di un sistema giudiziario che funzionino», denuncia un rapporto Onu che sarà presentato lunedì in Consiglio di sicurezza. Il testo documenta una serie di violenze, torture e abusi «degni» del vecchio regime. Con neri immigrati per lavoro dall'Africa subsahariana maltrattati per il colore della pelle e presi per «mercenari» di Gheddafi; donne poste sotto le grinfie di «secondini» maschi; bambini tenuti in cella con gli adulti. Nel mirino dell'Onu ci sono le «brigate rivoluzionarie»: create su base tribale per combattere il regime, esercitano ancora un forte potere nelle loro regioni. Il Cnt ha sì iniziato ad assumerne il controllo ma non è nella posizione migliore per fermare le purghe visto che molti dei suoi membri hanno loro stessi paura di essere accusati di legami con la dittatura.
La caccia ai gheddafiani è spietata: a Sirte, città natale del raìs, la gente vive nel terrore. Il rapporto Onu cita anche il caso degli abitanti di Tawergha accusati di sostenere Gheddafi durante l'assedio di Misurata: prelevati dalle loro case, alcuni sarebbero stati torturati o giustiziati in cella. Per mano di miliziani spesso accecati dalla vendetta, avendo avuto parenti uccisi sul campo o in prigione.
Ma c'è anche chi ne approfitta per accanirsi contro quanti provengono da città o clan nemici: in un Paese lacerato da 42 anni di dittatura, l'accusa di legami col vecchio regime può essere usata anche per screditare i rivali.
La Repubblica 25.11.2011
Marocco al voto dopo le riforme "Ma trenta partiti non ci servono"
Incognita astensionismo sulle elezioni anticipate volute dal Re
Giovani salafiti lanciano per le strade volantini con il simbolo di Giustizia e sviluppo
Il partito dell´Islam moderato è favorito. Ma per governare servirà una coalizione
di Giampaolo Cadalanu
RABAT - Si danno la mano a due a due i ragazzi nelle vie di Sale, poco lontano dal centro di Rabat. Un amico con l´altro, fra maschi, come è comune nei paesi islamici, oppure due amiche. Il quartiere è la roccaforte dei salafiti marocchini, anche i comportamenti privati sono rigorosi. Eppure molte ragazze espongono tranquille i capelli, solo qualcuna sceglie il tradizionale niqab, che comunque lascia il viso scoperto. Ci sono pochi giovani in giro fra le viuzze: qualcuno è in centro, a sventolare la bandiera nera del movimento 20 febbraio e a gridare «Mamsawtinch», non voteremo, in dialetto marocchino. Qualcuno, come Zakarias, contesta direttamente l´idea del multipartitismo: «L´Islam è uno solo, non servono tanti partiti, basta che si segua la parola del Profeta e dei suoi contemporanei, i Salaf».
Mentre il giovane salafita parla e mostra orgoglioso sul telefono cellulare un video dei suoi bambini che imparano i versetti del Corano, da una vecchia Mercedes una ragazza velata si sporge gridando «Votate» e lancia in aria centinaia di piccoli volantini con il disegno di una lampada. Simboleggia la luce della fede, presa in prestito per il partito Giustizia e sviluppo, la formazione islamica moderata di Abdelilah Benkirane che viene considerata favorita per le elezioni parlamentari di oggi.
Il partito rappresenta gli islamici più "tranquilli", quelli che già in partenza riconoscono un ruolo preminente del re anche nella fede. Accettano che Mohamed VI si definisca "Amir al Mouminine", cioè comandante dei credenti, e dunque di fatto non mettono in discussione il sistema marocchino. Ben diversa è la posizione di "Giustizia e carità", l´associazione islamica non riconosciuta, ma tollerata, guidata dallo sceicco Yassine, un oppositore storico, più volte incarcerato, che contesta i richiami al voto e chiama al boicottaggio, sia pure da posizioni molto più moderate rispetto ai fondamentalisti salafiti.
Le elezioni anticipate volute da re Mohamed VI che si terranno oggi arrivano pochi mesi dopo le riforme costituzionali approvate con una valanga di "sì" nel referendum del primo luglio: sono ritocchi che limitano in misura modesta i poteri del sovrano e concedono riconoscimenti ai berberi - il cui idioma diventa lingua ufficiale accanto all´arabo - e alle donne, con il riconoscimento della loro uguaglianza non solo politica ma anche "civica e sociale". È un voto che lascia poche incertezze: il vero dubbio non riguarda chi - sugli oltre cinquemila candidati presentati in 1.546 liste per 34 partiti - otterrà uno dei 395 seggi della Camera, ma su quanti andranno alle urne, in un paese di affluenza sempre molto bassa. Se gli islamici moderati vinceranno, come sembra prevedibile, il re sceglierà un primo ministro nelle file del partito Giustizia e Sviluppo. Il premier dovrà formare una coalizione con altri partiti, molto probabilmente con quelli dell´Alleanza per la democrazia, considerati "vicini" al sovrano. Dopo di che, dice Zakarias, «non cambierà niente. Perché a votare vanno le persone ignoranti, quelli che si entusiasmano per il re, ma non capiscono nemmeno quello che succede».
Il voto marocchino non potrà essere paragonabile a quello tunisino, né servirà a comprendere le dinamiche negli altri paesi del Maghreb: qui la spinta studentesca e borghese delle manifestazioni non corre il pericolo di essere monopolizzata dagli islamici, come in una certa misura sta succedendo in Egitto e soprattutto in Tunisia, per il semplice motivo che la monarchia marocchina ha la guida religiosa. Al di là dei salafiti, anche le altre frange radicali dei movimenti di contestazione, gli studenti, i marxisti e i gruppi berberi hanno chiamato al boicottaggio. Ieri sono scesi in piazza ancora una volta, gridando «non voteremo» e sfidando gli assalti dei baltajia, i picchiatori pagati per impedire le manifestazioni. Secondo Human Rights Watch, sono centinaia i militanti che diffondevano volantini contro la partecipazione al voto e si sono visti accompagnare in caserma ed interrogare dalla polizia. I testimoni sottolineano comunque che si è trattato di un atteggiamento di intimidazione, più che di violenza.
La Repubblica 25.11.2011
LA SFIDA DEMOCRATICA CON L´INCUBO ISLAMISTI
di Tahar Ben Jelloun
Dal momento che in Tunisia Ennahda ha vinto le elezioni per l´assemblea costituente, dal momento che in Egitto i sondaggi danno vincenti i Fratelli musulmani, gli osservatori sono convinti che il Marocco non sfuggirà all´ondata islamista. Non c´è nessun effetto domino, semplicemente perché sono situazioni diverse, storicamente e politicamente. In Marocco non ci sono state rivolte sanguinose che hanno rimescolato tutti i dati strutturali del Paese. Il re Mohamed VI ha avuto l´intelligenza di anticipare il movimento storico e prendere le redini del cambiamento, proponendo delle riforme, e queste riforme si sono tradotte in una nuova Costituzione e in elezioni anticipate. Malgrado le continue proteste organizzate da elementi laici dell´estrema sinistra da una parte ed esponenti dell´estrema destra religiosa dall´altra, i marocchini non vedono il loro avvenire in verde (il colore dell´islam).
Certo, gli islamisti concentrati nel Pjd (Partito per la giustizia e lo sviluppo) hanno un forte radicamento nel Paese e sono sicuramente in grado di far sentire la loro voce. È il partito meglio organizzato fra tutti i movimenti politici. Si definisce «moderato» e accetta di giocare secondo le regole della democrazia; alle elezioni del 2007 è arrivato secondo dietro il partito dell´Istiqlal, formazione conservatrice che condivide alcuni valori con gli islamisti. Un candidato del Pjd promette «un buon punto per il paradiso» a chi voterà per lui. Confonde il piano temporale e quello spirituale, mescola tutto, ma è un genere di confusione che funziona. La carta più importante di questo partito è la sua volontà di stroncare la corruzione, la sua proposta di un risanamento politico e morale del Paese. Apparentemente è su posizioni morbide, ma si sa che non esistono «religiosi moderati». Se questo partito arriverà al potere sarà una catastrofe per l´economia del Marocco, che nel 2011 ha avuto una crescita del 4,7 per cento: niente più turismo, niente più investimenti, questo i marocchini lo sanno. Ecco perché voteranno per questo partito, ma non gli metteranno in mano tutto il potere. C´è da dire che il ministero dell´Interno ha ritagliato i collegi elettorali in modo da impedire che il Pjd riesca ad avere la maggioranza dei seggi. È un´arma legittima. È stato fatto lo stesso in Francia per impedire all´estrema destra del Fronte nazionale di conquistare deputati in Parlamento.
Il Marocco ha sempre avuto relazioni pacifiche con la religione islamica. Le confraternite religiose sono sempre state libere di dibattere, discutere e contestare. I marocchini sono gente a cui piace vivere, che amano la loro religione, ma diffidano di quelli che vogliono immischiarsi nella loro vita. Il problema del Marocco è la corruzione, in particolare nella giustizia. C´è la disoccupazione, c´è l´analfabetismo, ci sono disuguaglianze sociali scandalose (il 15% della popolazione è al di sotto della soglia della povertà). È su questo che giocano gli islamisti, ma non hanno una bacchetta magica per trovare soluzioni a problemi tanto gravi. Il re ne è consapevole. Lavora per dotare il Paese di infrastrutture fondamentali e per mettere in piedi un sistema politico che vada in direzione della democrazia. Perché la democrazia è una cultura e ha bisogno di tempo e di pedagogia. Se gli islamisti dovessero uscire vincitori da queste elezioni, sarebbe una sconfitta per il Marocco e per la democrazia.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 25.11.2011
LA VIOLENZA SULLE DONNE
La polemica - Se una donna su tre è vittima di violenze
di Michela Marzano
Non sono in tanti a saperlo o a ricordarselo. Ma il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. È stata l´Assemblea Generale dell´Onu a istituirla nel 1999, invitando i governi, le organizzazioni internazionali e le ong ad organizzare ogni anno incontri ed eventi per sensibilizzare l´opinione pubblica nei confronti di questo dramma.
Perché è assurdo che, ancora oggi, tante donne siano il capro espiatorio dell´aggressività maschile. E che in molti non ci facciano nemmeno più caso, come se si trattasse di un problema minore, che concerne solo alcuni Paesi, determinati ambienti sociali, poche persone insomma. E invece no! Nonostante i progressi nel campo dell´uguaglianza di diritti dei due sessi, il rapporto che gli uomini intrattengono con il mondo femminile resta estremamente complesso. E la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. Secondo il Consiglio d´Europa, sono proprio le violenze fisiche, sessuali e psicologiche che subiscono le donne una delle cause principali della mortalità femminile negli Stati membri. In Italia, secondo gli ultimi dati dell´Istat, una donna su tre è stata vittima della violenza di un uomo, almeno una volta nella propria vita. Chi sono allora questi uomini violenti? Perché non si riesce ancora a far prendere coscienza a molte persone della gravità del problema?
Grazie a numerosi studi sociologici, oggi sappiamo che "l´uomo violento" non è più solo un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un contesto sociale povero e incolto. L´uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Non conta il lavoro che si fa o la posizione sociale che si occupa, ma l´incapacità ad accettare l´alterità e l´autonomia femminile. Si tratta per lo più di uomini che diventano violenti per paura di perdere il controllo e il potere sulla donna. E che percepiscono il proprio atteggiamento come "normale": fa parte del copione della virilità cui in genere aderiscono profondamente. Anche se la maggior parte delle volte sono uomini insicuri e che hanno poca fiducia in loro stessi. Uomini che, invece di cercare di capire cosa esattamente non funzioni nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Talvolta fino al punto di trasformare la vita delle donne che li circondano – mogli, madri, sorelle o figlie – in un incubo. Come racconta la filosofa americana Susan Brison in un bellissimo libro autobiografico, la violenza che una donna subisce dall´uomo distrugge l´essere stesso di chi le subisce, perché elimina ogni valore, distrugge ogni riferimento logico. È proprio questo il messaggio del 25 novembre: far capire che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, parlare di ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi "pezzi di vita" all´interno di un racconto coerente. Soprattutto quando l´autore è il padre o il marito. Per poterlo fare, c´è bisogno che qualcuno ascolti veramente, senza pregiudizi e senza diffidenza, anche quando i ricordi paiono incongrui e l´atteggiamento nei confronti dei carnefici sembra ambivalente. Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l´ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall´odio, dall´invidia, dalla volontà di dominio. Ma il carisma e l´autorità non hanno mai bisogno di utilizzare la prevaricazione e la violenza. Al contrario. La vera autorità è sempre calma, senza per questo essere debole.
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
LIBERALI E RADICALI
RIVEDERE LA “LINEA” SUL LAVORO: NON C’È PACE NEL PD
di Stefano Caselli
Divisi sugli applausi a Mario Monti, uniti su quelli al ministro del Welfare Elsa Fornero. Si chiude così, per il momento, l’affaire Fassina nel Pd, cominciato con la richiesta di dimissioni, firmata da alcuni esponenti “liberal”, del responsabile Economia e Lavoro del partito, il bersaniano (e bocconiano, come di questi tempi si conviene) Stefano Fassina. L’iniziativa di Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Mar-cucci e Luigi De Sena, che rimproveravano a Fassina di “criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla banca d’Italia e poi dalla Bce” e di “bollare come ‘liberiste’ posizioni ‘liberal’ come quelle del senatore Ichino”, prospettando “soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato” (in poche parole, troppo “di sinistra”), è stata prima disconosciuta dallo stesso Ichino (“Non faccio parte di questo gruppo e non ho firmato quella lettera – ha dichiarato il senatore a “La telefonata” di Maurizio Belpietro su Canale 5 – perché ho sempre sostenuto che non bisogna personalizzare i problemi politici”) e poi liquidata dal segretario Pier Luigi Bersani, che ha definito la vicenda “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Parole pronunciate a margine dell’annuale assemblea della Cna, la stessa a cui è intervenuta anche Elsa Fornero. Il neo ministro del Welfare, dopo aver parlato di Fiat, di sicurezza sul lavoro e aver indicato in “rigore finanziario, equità e crescita” i principi fondamentali dell’azione del ministero, è intervenuta soprattutto sul tema pensioni: “La riforma è già stata largamente fatta – ha dichiarato in video-conferenza – ma necessita di tempi più accelerati”, aggiungendo che “i sacrifici devono essere calibrati alla capacità di singoli e gruppi di supportarli, perché non possono essere più essere i deboli a sopportarne la parte peggiore” . Parole che sono piaciute molto non solo a Bersani (“Il primo intervento del ministro è stato davvero notevole sia nel merito che nei toni”), ma anche ai due duellanti (più o meno reali) Ichino e Fassina.
Superata la questione dimissioni del responsabile Economia (non senza qualche imbarazzo tra i promotori “liberal”, criticati anche aspramente un po’ da tutti) rimangono gli interrogativi sulla linea del partito. Ignazio Marino, Giorgio Tonini e Pippo Civati invocano una direzione nazionale per un chiarimento: “Basta con questo clima da derby – dichiara Civati – si convochi una direzione e si discuta il merito delle questioni”. Ma intanto Bersani ha convocato un’assemblea nazionale a Roma per il 16 e il 17 dicembre.
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
Sul Web vince Fassina
di ste.ca
I“liberal” del Pd che volevano la testa di Stefano Fassina non ci hanno fatto una gran figura. Almeno in rete. La bacheca Facebook del responsabile Economia e Lavoro del partito è da due giorni piena di messaggi di affetto e sostegno, non senza una buona dose di sarcasmo: “Rimani al tuo posto – scrive Argentino – si dovrebbero dimettere i firmatari del documento. Non se ne accorgerebbe nessuno”; “Siamo con te – posta Mario – almeno tu non porti bigliettini sul tavolo di nessuno”; “Piuttosto che gli scimmiottatori dei liberal americani – è l’opinione di Eugenio – mi tengo Piero Gobetti e la rivoluzione liberale”; “Secondo me ti hanno fatto un piacere – interviene Alfredo ora sei un riferimento per tanti che non ti conoscevano”. Opinione condivisa da Luca: “Ammettilo – sorride – li hai pagati per farlo”. Commenti di “amici” Facebook, certo, ma non sempre – soprattutto nel caso di politici – gli amici sono naturalmente benevoli. E che Stefano Fassina esca bene dalla querelle lo dimostra anche il dibattito che si è aperto su ilfattoquotidiano.it a margine della notizia: 184 commenti, in buona parte favorevoli (ma non mancano posizioni diverse) al 45enne bersaniano, condensati dalle parole di Pericle: “E se si dimettessero loro? Ma io mi domando: perché queste persone non seguono le orme di Rutelli? Non volete stare in un partito di sinistra (malgrado tutto il Pd tale è e tale rimane, perché un partito non può andare contro la sua base)? Andatevene, seguite Rutelli, fateci questa grazia”.
La Repubblica 25.11.2011
Fassina: "Capisco Ichino ma è il 2% del Pd"
Tirare per la giacca
Lo sfogo del responsabile economico di Bersani dopo la richiesta di dimissioni: "Per me il caso è chiuso, tutti mi hanno difeso"
Il governo Monti non è il governo del Pd: fanno danni quelli che tirano per la giacca il premier cercando di caratterizzarlo politicamente
di Goffredo De Marchis
ROMA - Niente di personale, dice Pietro Ichino. Niente di personale, replica Stefano Fassina, responsabile economico del Pd di cui i liberal hanno chiesto la testa per le posizioni sul mondo del lavoro e sulle ricette economiche dell´Europa. Fassina, anzi, ringrazia il giusvalorista per aver sgombrato il campo dalla polemica sulle dimissioni. Ognuno resta al suo posto. «La vicenda è chiusa. Hanno parlato i vertici, i segretari regionali, i militanti. Tutti mi hanno difeso», sottolinea Fassina.
Meglio così. Restano però le linee opposte all´interno del Partito democratico. E prima o poi, quando il governo comincerà a muoversi sul terreno delle riforme, questa divisione emergerà di nuovo. Ichino predica una rivoluzione del mercato del lavoro che coniughi la massima flessibilità e la massima sicurezza del lavoratore. Fassina immagina una rivoluzione contraria considerando fallimentare il ventennio di precarizzazione dell´impiego, bocciando il modello Pomigliano e difendendo la Fiom. «Non voglio alimentare la polemica, siamo un partito serio, guardiamo avanti e io sono concentrato sulla nostra assemblea con il mondo del lavoro e con le piccole e medie imprese di domani a Monza. Verranno tutti gli invitati». Le sue dunque sono solo precisazioni, ragionamenti. «Nel Pd ci sono due linee su questi temi», ammette Fassina e Ichino sottoscrive. Entrambe hanno diritto di cittadinanza. Però c´è un orientamento prevalente. Di gran lunga prevalente. «Una linea ha il 2 per cento, l´altra il 98 per cento», sottolinea Fassina. «Io capisco Ichino. Lui rappresenta quel 2 per cento e per farlo valere, per difenderlo ha bisogno di andare sui giornali tutti i giorni». Ma la rotta è un´altra, questo dicono i numeri.
Il punto è che il governo tecnico sembra pronto a sposare la linea Ichino. «Questo è vero solo in parte - precisa Fassina -. Ho ascoltato il primo intervento pubblico del ministro del Welfare Fornero. Non ho trovato elementi in contrasto con le nostre idee. Ha detto che interverrà sulla vicenda Fiat, che serve un confronto tra le parti, che i diritti dei lavoratori sono una conquista. Mi è piaciuta moltissimo». E comunque, continua Fassina, «il governo Monti non è il governo del Pd. Ci convivono forze politiche con idee e culture contrapposte, su cui il governo è chiamato a trovare un bilanciamento. Tenere chiaro il profilo del Pd è la migliore assicurazione per la durata di Monti. Così si capirà quali sacrifici fanno i partiti nell´interesse del Paese. Mi sembra che facciano più danni quelli che tirano per la giacca il premier cercando di caratterizzare politicamente il governo». Ma la sua profezia sui tempi non garantisce lunga vita all´esecutivo: primavera 2012. «Era una battuta, detta prima della sua nascita. Quando ho visto che non c´erano politici e la caratura dei ministri, ho condiviso le parole di Bersani: nessun paletto sulla durata».
Il Corriere della Sera 25.11.2011
Nel Pd resta la tentazione delle urne
Malumori per il ritorno della «diarchia» Veltroni-D'Alema
di Maria Teresa Meli
ROMA — Nichi Vendola ha fatto una scommessa. Politica, si intende. Il leader di Sel è convinto che il governo Monti non avrà vita lunga. E aspetta al varco della (secondo lui) inevitabile alleanza Bersani, con cui continua a mantenere rapporti stretti. I calcoli del governatore della Puglia si basano su diversi fattori, due dei quali riguardano il Pd. Primo, la Cgil ha fatto sapere riservatamente alle forze politiche di «riferimento» che su pensioni e mercato del lavoro non mollerà. Secondo, all'interno dello stesso Pd i mal di pancia per questa avventura governativa sono sì minoritari, ma si avvertono quasi tutti nell'area della maggioranza interna che fa capo al segretario.
Nei prossimi due mesi si capirà se la scommessa di Vendola ha un fondamento. Ma anche se il leader di Sel dovesse perderla, le fibrillazioni nel Pd non cesserebbero. Infatti se per un anno e mezzo non si vota, il mondo della politica assisterà alla lunga campagna congressuale del partito, di cui ci sono già le prime avvisaglie. E a quel punto, le assise nazionali potrebbero tenersi prima delle elezioni, e da quell'appuntamento potrebbe scaturire un nuovo partito e nascere un nuovo leader. È uno scenario ancora lontano, ma ben presente a tutti i «Democrats». Come testimoniano le parole pronunciate ieri, nel corso della trasmissione «Un giorno da pecora», da Enrico Rossi. Il presidente della Toscana, senza troppe diplomazie, ha invitato Veltroni e D'Alema a farsi da parte. Già, perché Rossi ha capito (e non solo lui), che il Pd è tornato nelle mani dei due leader di un tempo. Sono loro che hanno fortissimamente voluto questo governo, sono loro che hanno spinto Bersani a rinunciare alle elezioni e al progetto di candidarsi, e sono ancora loro che cercano di preparare il partito del futuro e di gestire questa lunga campagna congressuale. Ma ecco le parole del governatore toscano, chiare come non mai: «Veltroni è uno che il Pd l'ha pure costruito, ma dovrebbe capire che ora è arrivato il momento di farsi da parte. Aveva detto che sarebbe andato in Africa… Ma anche D'Alema dovrebbe capire che un'epoca si è chiusa: probabilmente avrà dei ruoli internazionali, però basta». Più esplicito di così… Eppure sono proprio l'ex segretario e il presidente del Copasir la migliore assicurazione sulla vita del governo Monti. Entrambi sono determinati a far sì che non si vada a votare prima del tempo.
La rinnovata diarchia D'Alema-Veltroni è uno dei nodi che il Pd deve sciogliere. Ma ce ne sono anche di più urgenti. Per esempio, il nodo della linea economica, riassumibile in questa domanda: la linea è quella di Enrico Letta o quella di Stefano Fassina? Bersani, finora, ha coperto da tutti gli attacchi il «suo» responsabile economico, anche se in privato lo ha invitato a diminuire il numero delle esternazioni. Servirà l'assemblea nazionale del 16 e 17 dicembre a sciogliere questo ed altri nodi? Difficile, perché le fibrillazioni provocate da un confronto interno potrebbero farsi sentire sul governo. Molte delle critiche alla linea Fassina, infatti, sono in realtà critiche alla linea Bersani.
Ma c'è una parte del Pd che ritiene che sia ora più che mai necessario sciogliere i nodi, per evitare che con il passare del tempo si trasformino in un groviglio inestricabile, che potrebbe essere di nocumento al partito e al governo. Fioroni, per esempio, la pensa così: «Siamo arrivati al momento della verità: dobbiamo sostenere lealmente Monti, fugare le titubanze di alcuni, e fare chiarezza su cosa intendiamo per Pd, che deve essere un soggetto politico riformatore e innovatore e non un partito della sinistra. L'esperienza di questo governo è importantissima perché salverà l'Italia dalla crisi e rilancerà il Pd».
I sondaggi sembrano dare ragione a Fioroni. Il Pd aumenta i consensi da quando Monti è a Palazzo Chigi. E che non sia un caso è convinzione di Gentiloni: «La fronda da sinistra al governo è speculare a quella di una parte del Pdl: sono cose senza senso. Se il Pd sosterrà le scelte di Monti cambierà pelle. In meglio». A questo punto, però, una notazione è doverosa, la fa un bersaniano, stufo del tiro al segretario: «Se il partito sale nei sondaggi sarà anche merito di chi lo guida».
La Repubblica 25.11.2011
Nuovo summit nella notte a Palazzo Giustiniani. Sul tavolo le misure del governo e il caso Finmeccanica
Vertice segreto della maggioranza Monti con Bersani, Alfano e Casini
Berlusconi indispettito per l´assenza di contatti e pensa al voto in primavera
di Francesco Bei
E, davanti al premier, affrontano tutti insieme la questione dei sottosegretari. La grana infatti è lungi dall´essere risolta, soprattutto perché il Pdl non può permettersi l´ingresso di alcun politico o ex politico nel governo. Al contrario, il Pd e il terzo polo spingono perché qualche "tecnico d´area" entri fra i magnifici trenta. Monti vorrebbe invece che a scegliere fossero i suoi ministri e si riserva comunque l´ultima parola sulle rose ricevute dai partiti. Insomma, un caos dal quale non si riesce a venir fuori e che ha richiesto, appunto, un lungo screening collegiale delle liste con i nomi. Così le nomine slittano alla prossima settimana, con la conseguenza di bloccare ancora il lavoro delle commissioni parlamentari.
Ma tra il Professore e suoi "azionisti" quella dei sottosegretari non è l´unica frizione. Superato lo sbandamento dei primi giorni, provocato dalla caduta del Cavaliere, il Pdl infatti sta iniziando ad assumere un atteggiamento sempre più insofferente nei confronti del governo dei tecnici. Berlusconi, raccontano, è una pentola a pressione pronta ad esplodere. A farlo imbestialire è l´assoluta mancanza di comunicazioni con il governo, tanto che ieri ha dovuto spedire a palazzo Chigi il suo migliore ambasciatore, Gianni Letta, per farsi anticipare qualcosa da Monti sulla successione a Finmeccanica, sul vertice con Merkel e Sarkozy e, soprattutto, sulle misure economiche in gestazione. Berlusconi sembra che sia rimasto molto stupito riguardo all´esito della trilaterale a Strasburgo. «Monti - ha riferito ai suoi - si è limitato a discutere del programma che il mio governo ha portato avanti in Europa, nulla di nuovo».
Il Cavaliere è in fibrillazione. Chi lo ha incontrato l´ha trovato che si rigirava tra le mani l´ultimo sondaggio della fidata Alessandra Ghisleri. Con un dato cerchiato in rosso: il 45 per cento degli elettori del Pdl si pronuncia già oggi contro il governo Monti. «Cosa accadrà - si chiede un ex ministro del Pdl - quando Monti presenterà la purga con l´Ici, la patrimoniale e le pensioni?». Berlusconi sta a guardare, finché dura la luna di miele non può fare altro. Ma a questo punto torna ad affacciarsi l´ipotesi di un voto anticipato in primavera. L´innesco potrebbe essere un´eventuale decisione della Consulta di ammettere il referendum sulla legge elettorale. «Anche nel Pd - si ragiona a via dell´Umiltà - Bersani potrebbe trovare conveniente andare alle urne in primavera. Avrebbe la certezza di essere lui il candidato». Persino Casini, con la strada per palazzo Chigi insidiata da una futura candidatura di Corrado Passera, potrebbe considerare l´utilità di abbreviare la durata del governo. Sono scenari che, almeno ufficialmente, nel Pd e nel Terzo Polo vengono respinti con decisione. Walter Veltroni invita a «non inseguire lucciole, visto che sarebbe una follia andare alle urne con la tempesta che c´è sui mercati: la gente cercherebbe coi forconi chi si assumesse questa responsabilità». Ma nel Pdl il governo dei tecnici è sopportato a stento. E non è solo l´ala dura di Santanchè o Brunetta. «Abbiamo accettato il sacrificio di Berlusconi - osserva Ignazio La Russa - perché era diventato il capro espiatorio e, se fossimo andati al voto, la campagna elettorale sarebbe stata tutta contro di lui. Ma adesso è chiaro che Berlusconi con lo spread non c´entrava nulla». Inoltre il referendum è un fantasma che spaventa i partiti più dello spread. L´unica alternativa, per chi si oppone al ritorno del Mattarellum, sarebbe il varo di una legge elettorale per evitarlo. A meno che, come spiega il costituzionalista Pd Stefano Ceccanti, «il rimescolamento delle carte dovuto al governo Monti non spinga Casini ad aprire con Alfano il cantiere dei moderati. A quel punto anche il referendum avrebbe un effetto stabilizzante sulla legislatura visto che tutti diventerebbero bipolaristi».
La Repubblica 25.11.2011
L´ultimo giorno di Termini ai cancelli operai disperati "Hanno ucciso il futuro"
Dopo 41 anni chiude la fabbrica siciliana
Un presidio blocca l´uscita delle auto 800 Lancia Ypsilon prodotte negli ultimi giorni
Politici, all´ultima manifestazione davanti l´ingresso dello stabilimento, non se ne sono visti
di Emanuele Laria
Termini Imerese - È arrivato anche un parroco a celebrare il funerale di quella che un tempo, quando c´era anche la Regione a pompare soldi pubblici, si chiamava Sicilfiat. Don Ciccio Anfuso si è fatto largo fra le tute blu riunite in assemblea, è salito sul palco di fortuna trainato da un´auto Nissan - l´ultimo sfregio dei dipendenti - e ha pronunciato il suo requiem guardando il colle che degrada sullo stabilimento: «Quando Agnelli si affacciava da lì, dalla Tunnaredda, rimaneva incantato da questa terra bellissima. Sfruttata per 41 anni e adesso abbandonata dalla Fiat». Dice «buon lavoro», il sacerdote, ai lavoratori rimasti senza impiego, nell´ultimo giorno di attività della fabbrica. Un incoraggiamento che cade nel vuoto, che si spegne in una rassegnazione più forte della rabbia in questa mattinata di umori tristi come il cielo sopra Termini. È Roberto Mastrosimone, delegato della Fiom e uno dei volti più noti della battaglia (perduta) per non far chiudere la Fiat a Termini, ad annunciare la linea della resistenza a oltranza. La strategia è quella del picchettaggio: da ieri sera un presidio di operai blocca l´uscita delle ultime 800 Lancia Ypsilon prodotte nella fabbrica. «Non ci muoveremo finché non sarà firmato un accordo con Dr Motor che garantisca tutti i lavoratori», dice Mastrosimone. Dando corpo alle incertezze che i leader nazionali di Fiom, Fim e Uilm non nascondono, arringando la folla: l´ultimo vertice di mercoledì al ministero ha prodotto un nulla di fatto che tiene in bilico il futuro di oltre duemila dipendenti (indotto compreso). Dr Motor è pronta a reimpiegarne 1.312. Altri settecento, i più anziani, dovrebbe essere accompagnati alla pensione con incentivi che costerebbero 17 milioni. Ma il Lingotto non ha intenzione di accollarsi questa spesa, se non in parte. E senza un´intesa sugli incentivi, spiega dal palco Bruno Vitali della Fim, «salta tutto l´accordo». E allora giù contro «l´arroganza di Fiat, che non vuole applicare per Termini - afferma il leader della Fiom Maurizio Landini - le tabelle utilizzate per Pomigliano e Cassino». Via con le accuse di discrimazione: «In Sicilia siamo figli di nessuno», afferma il sindaco Salvatore Buffafato che giudica la via di un boicottaggio dei prodotti Fiat come «una libera risposta alle provocazioni subite».
Ma politici, nell´ultima manifestazione davanti ai cancelli Fiat, non se ne vedono. Eppure vengono evocati come principale bersaglio dalle tute blu: Filippo Battaglia, 35 anni di servizio alle spalle, se la prende senza distinzione con l´ex ministro Scajola, con Berlusconi, Fini e Di Pietro, per concludere «con i 60 parlamentari siciliani che abbiamo mandato a Roma e non hanno fatto nulla per evitare questo disastro». Poco distante Calogero Volante, 64 anni di cui trenta trascorsi in catena di montaggio, ha gli occhi lucidi: «Volevamo lasciare un segno del nostro lavoro, qui invece presto sparirà tutto». La preoccupazione è della generazione di mezzo. Vincenzo Pasquale, 48 anni, due figli e una moglie insegnante precaria «vittima della Gelmini», dice di essere «troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per affacciarsi con successo al mercato del lavoro. Ma i dubbi sul futuro - afferma - sono leciti: Dr attualmente produce poco più di tremila auto l´anno, quanto noi produciamo in una settimana». Ma sono i giovani operai i più spaesati. Francesco ha 27 anni, era entrato in Fiat da poco come «carrellista»: «Finalmente un posto fisso dopo occupazioni saltuarie da barista. Ora tutto mi crolla addosso. E oggi, a differenza di 30 anni fa, la crisi elimina pure la via d´uscita dell´emigrazione».
Si affacciano sul palco i rappresentanti di un indotto che conta quattrocento operai, ai quali non basta l´impegno dei vertici Dr di prorogare i contratti di fornitura in essere con la Fiat. «Hanno ucciso la speranza», grida Marco Costantino, uno dei 50 addetti della società di pulizie che da gennaio non avranno neppure la cassa integrazione. Voci da un pezzo di Sicilia che - prima del commiato di Fiat - ha visto declinare la produzione di yacht, la lavorazione degli agrumi, persino gli studios televisivi di "Agrodolce". Svanito il sogno dell´industrializzazione, è difficile anche il ritorno fra i campi: lontani i tempi in cui gli operai Fiat svolgevano il doppio lavoro e venivano chiamati «metalmezzadri»: «Il territorio è stato devastato dal cemento e oggi la fanno da padroni gli extracomunitari che raccolgono le arance per 20 euro a giornata», dice Francesco Conte, operaio della Lear, azienda che produce sedili: «Mi auguro che Marchionne - conclude - provi il dolore nel cuore che stiamo vivendo in questo momento».
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
ULTIMA FERMATA TERMINI
Chiude la fabbrica Fiat, ma gli operai bloccano i cancelli Scontro sui 6 milioni che Marchionne vuole risparmiare
di Giorgio Meletti
Il suo fantasioso contributo alla coesione nazionale alla fine Sergio Marchionne l'ha dato. Inchiodando la trattativa per la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese sulla pretesa estrema di risparmiare anche gli ultimi 6 milioni di euro, è riuscito a ricompattare lavoratori e sindacati. Contro di lui. Così ieri sera l'ultimo giorno di produzione ha visto la malinconia sovrastata dalla rabbia. Allo scoccare delle 22, mentre chi era in turno usciva per l'ultima volta dai reparti, gli operai della Fiat e dell'indotto si sono piazzati davanti ai cancelli per bloccare l'uscita della merce, quel migliaio di Ypsilon pronte sui piazzali interni. La decisione è stata presa ieri mattina da un'affollata assemblea fuori dai cancelli della fabbrica. “Facciamo pressione sulla Fiat perché modifichi le sue posizioni”, scandisce dal palco il leader della Fiom-Cgil Maurizio Landini. La speranza è che la Fiat molli almeno sui 6 maledetti milioni di euro. “Non passerà uno spillo fino a mercoledì prossimo”, annuncia Roberto Mastrosimone della Fiom, operaio e leader storico delle lotte di Termini che per almeno dieci anni hanno cercato di fermare o ritardare il disastro. Il 30 novembre è fissato il prossimo round di trattativa a Roma.
“Ci ho pensato, ma onestamente non trovo nessuna motivazione per la mossa della Fiat, se non la semplice arroganza” , riflette a bassa voce Landini al termine dell'assemblea. Un intreccio di recriminazioni e minacce si alternano sul palco dell'assemblea, provenienti da voci di ogni tipo, il giovane e l'anziano, il diretto Fiat e il lavoratore dell'indotto, il duro della Fiom e il conciliante della Cisl: appare evidente che per Marchionne il ricompattamento del fronte sindacale non è un problema, e se lo è vale comunque meno di 6 milioni di euro.
E COSÌ ecco Landini assieme a Bruno Vitali della Fim-Cisl, divisi e a volte contrapposti in tante recenti battaglie, spiegare con una voce sola agli operai che questa volta a Marchionne non gliela possono far passare. E li convincono con la stringente logica dei fatti. I 1300 posti di lavoro promessi dalla Dr Motor di Massimo Di Risio, che rileverà con soldi pubblici lo stabilimento realizzato 41 anni fa sempre con contributi statali, sono sufficienti a sistemare tutti, compresi quelli dell'indotto, solo se la Fiat mette sul tavolo 24 milioni di euro di incentivi all'esodo e non i 18 su cui si è impuntata finora. “Un accompagnamento dignitoso”, lo definisce Vitali. Sono quei 32 mi-la euro a testa con cui aiutare i più anziani ad affrontare gli anni della “mobilità” a basso reddito che li porteranno all'età pensionabile. “I 32 mila euro non sono una nostra pretesa, sono scritti nelle tabelle Fiat utilizzate in tutti i casi analoghi”, protesta Landini, “e stavolta invece non ce li vogliono dare. Prima chiudono la fabbrica e poi fanno ai lavoratori questo estremo sfregio, questo sberleffo, questa assurda pretesa di trarsi d'impaccio dicendo che regalano la fabbrica a Di Risio, come se non fosse stata costruita con denaro pubblico”. Incalza Mastrosimone: “Il piano di Di Risio, da uno a cento, lo valuto uno, va bene? Però questo ci hanno dato, e almeno facciamolo partire”.
LA DIFFERENZA tra 18 milioni e 24 milioni equivale a quella tra 550 e 750 avvii alla mobilità. Duecento in meno verso la pensione, duecento posti di lavoro in meno per i giovani e quelli dell'indotto. Ed eccoli uniti: quei 6 milioni di euro servono a tutti, anche all'operaio che afferra il microfono e grida: “Non ci voglio andare a casa a dire a mia figlia che non sono più un operaio metalmeccanico”. Anche a Mastrosimone, che incenerisce con lo sguardo gli operai che disturbano, e poi li avverte: “La nostra storia la conosciamo bene, la verità è che siamo stati sempre divisi, tra giovani e vecchi, diretti e indotto, operai e impiegati. Ma oggi è l'ultima occasione”. Poi grida: “Per una volta! Per una volta! Per una volta facciamo una cosa tutti insieme, anche gli impiegati!”. Applauso.
CERTO che è l'ultima occasione. Non solo perché la Fiat ieri sera ha chiuso e adesso porta la Ypsilon nello stabilimento polacco di Tichy, ma anche perché stavolta l'hanno capito tutti che quando Marchionne dice che la partita è finita non si salva nessuno. L'operaio Filippo Battaglia sale sul palco e lo spiega con amarezza beffarda: “Anche i dirigenti con gli occhiali hanno fatto la fine del sorcio”. Tutti figli “di una terra sedotta e abbandonata”, recrimina don Ciccio Anfuso, arciprete della Chiesa Madre di Termini alta, giunto a portare agli operai in assemblea un saluto e un monito: “Un uomo senza lavoro non è solo senza soldi, ma anche senza dignità”.
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
STRANIERI IN PATRIA
SULLA STRADA CON ZARMANDILI
di Daniela Padoan
«IL VECCHIO e la ragazza camminano discosti l’uno dall’altra. Lei qualche passo indietro, lui assorto e distante, come fosse l’unico superstite sulla terra dopo il finimondo». È il 26 dicembre 2003 e la città di Bam, nell’Iran meridionale, è stata distrutta da un terremoto. La tredicenne Hakimé – taciturna creatura dagli occhi verdi, occhi zagh, visitati da incubi e visioni – e suo nonno Agha Soltani, dietro di sé hanno solo rovine e distruzione. Proprio come l’Angelus Novus di Benjamin, posto significativamente in esergo, il vecchio Agha Soltani vorrebbe «trattenersi, destare i morti, ricomporre l’infranto», ma un vento lo spinge verso il futuro, verso il deserto e il mare, in un mondo dove i venti hanno nomi e sono capaci, come il Bad-e-saba e il Bad-e-margh, di portare amore, morte, follia, devastazione. Agha Soltani lascerà l’ordine ormai frantumato della sua vita, i figli seppelliti sotto le macerie, per assumersi la responsabilità della nipote, presenza perturbante, familiare ed estranea al tempo stesso, con la sua bellezza, le sue mani che disegnano voli d’uccelli, la sua ossessione per il sangue. Questa indimenticabile coppia di superstiti incontrerà uomini capaci della più intima condivisione e uomini pronti a vedere l’altro come cosa: mercanti di bambini, di bambine, piccoli orfani ghermiti nel momento del disastro. Non l’esotismo dei predoni del deserto, delle fanciulle per gli harem, ma la cifra del nostro mondo, dove la vita è merce, spesso di poco valore e talvolta addirittura di nessun valore, eliminabile industrialmente. Visto da Bijan Zarmandili – scrittore nato a Teheran ed esule in Italia, capace di una mitezza efferata e di un italiano così sontuoso da poter essere asciugato fin quasi ad apparire scarno, così da lasciare che la bellezza e l’incanto emergano come un’evidenza dimentica del proprio autore – il terremoto di Bam non può che rappresentare la distesa di macerie del Novecento: il secolo che ha visto masse di individui trasformati in profughi, esuli, Displaced Persons; il secolo che il grande scrittore e sopravvissuto di Auschwitz Imre Kértesz, nel suo discorso del Nobel, definì «lo stadio terminale della grande avventura cui l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura etica e morale». La peregrinazione del nonno e della nipote diventa allora un tentativo di riscrivere questa cultura, di ricominciare a tessere i fili spezzati delle relazioni, in cerca del volto dell’Altro.
Agha Soltani è un uomo che a settant’anni decide di ripensare la propria vita, di ricominciarla assumendo i suoi lutti, i suoi fallimenti, facendo un inventario di ciò che resta, di ciò che ha valore: delle scelte ancora da compiere, come si potesse ancora e sempre imparare – quando non si rimanga imprigionati da se stessi, dalla propria esistenza – e trovare un nuovo sguardo nutrito dalla libertà, dall’amore e dall’accettazione del caos. Dopo il terremoto, «la vecchiaia a lungo preparata si è trasformata in un fardello senza senso, ingombrante»; resta invece la vita, e la possibilità di fare di se stessi un varco. La piccola Hakimé, alla fine di un’avventura che, per quanto violenta, non è stata in grado di toccarla, aprirà uno spiraglio nel muro che la tiene separata dal mondo: «Portami a casa, nonno». E non importa che non esista più una casa, perché Agha Soltani si è fatto egli stesso il luogo del ritorno. È la fine dell’esilio: la scoperta chela fine dell’esilio è dentro di sé.
Bijan Zarmandili, I demoni del deserto, Nottetempo, pagg. 260, • 16,00 eur
Il Fatto Quotidiano 25.11.2011
E il fascismo sparì dal dizionario
Una parola abusata per troppo tempo, che qualcuno ha proposto di abolire. Ma si può censurare la realtà storica?
di Emilio Gentile
MISONE IL CHENESE, annoverato da Platone fra i sette saggi dell’antica Grecia, era un filosofo contadino che l’oracolo di Delfi aveva detto essere il più saggio fra i Greci. Tuttavia, pochissime tracce del suo pensiero sono state tramandate. Ma fra le pochissime, ve n’è una che conferma la sua saggezza: «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole». Più che ai filosofi, la massima di Misone dovrebbe attagliarsi agli storici, che studiano la genesi e lo svolgimento delle esperienze umane del passato, alle quali sono quasi sempre associate parole nuove – qui diremo i concetti – usate da coloro, che quelle esperienze vissero, per denominarle e definirle lasciandole poi in eredità ai posteri. Le cose e le parole tramandate dalla storia sono l’oggetto della ricerca e dell’interpretazione degli storici. Ma gli storici non sono sempre concordi nell’interpretare le esperienze del passato come non lo sono nel definire il significato dei concetti ad esse associati. Un caso fra i più recenti, universalmente noto, è la parola “fascismo”. La parola ebbe origine in Italia da un movimento politico, la cui esperienza iniziò, si svolse e si concluse fra il 1919 e il 1945. Durante lo stesso arco di tempo, la parola “fascismo” fu applicata ad altri movimenti politici sorti fuori d’Italia negli anni fra le due guerre mondiali, per essere poi ulteriormente estesa, dal 1945 ai giorni nostri, a movimenti, ideologie, regimi, mentalità, costumi e comportamenti i più svariati e i più disparati, disseminati in ogni parte del mondo, e persino in tempi e luoghi precedenti di molti anni la comparsa del fascismo in Italia. Con l’inflazione del termine, anche il suo significato è stato continuamente elasticizzato fino a perdere ogni consistenza propria e ogni attinenza con il fenomeno storico da cui ebbe origine.
La stessa sorte è toccata ad altre due nuove parole, “totalitario” e “totalitarismo”, che fecero la loro comparsa nella storia dopo l’ascesa del fascismo al potere alla fine del 1922. Le due parole furono coniate fra il 1923 e il 1925 per definire la natura e l’originalità del partito fascista, la sua organizzazione, il suo modo di agire e il nuovo regime politico cui esso diede origine. Dopo il 1926, la parola “totalitarismo” fu adoperata per definire altri nuovi regimi politici, che nell’organizzazione e nei metodi del potere avevano somiglianza con il totalitarismo fascista, come il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo . Poi, dal 1945 ai giorni nostri, anche l’uso del termine “totalitarismo” ha subito una dilatazione inflazionistica, essendo applicato a movimenti, regimi, ideologie, mentalità e comportamenti i più vari e diversi, al punto da far perdere il significato storico originario del termine e la sua connessione con la “cosa” dalla quale aveva avuto origine.
Quasi novant’anni sono passati dalla comparsa nella storia del fascismo e del totalitarismo. Almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, l’associazione fra fascismo e totalitarismo è stata considerata evidente. Invece, a partire dagli anni Cinquanta, ci sono stati studiosi i quali, pur senza avere un’adeguata conoscenza né della storia del fascismo né delle origini del totalitarismo, hanno negato l’associazione fra fascismo e totalitarismo, sostenendo, come fece la filosofa Hannah Arendt nel 1951, che il fascismo non fu totalitario, e che pertanto non aveva senso parlare di “totalitarismo fascista”, riservando l’uso del concetto di totalitarismo esclusivamente per lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Altri studiosi hanno invece sostenuto che neppure questi due regimi possono essere definiti totalitari, giungendo quindi alla conclusione che il totalitarismo non è mai esistito, e che pertanto il concetto stesso non ha alcuna utilità. Esempio estremo di questa negazione è stata la proposta, formulata nel 1968 su un’autorevole enciclopedia di scienze sociali, di bandire il concetto di “totalitarismo” dalla storiografia e delle scienze sociali. Un’analoga proposta fu formulata nello stesso anno per il termine “fascismo”, adducendo come motivo l’uso spropositato del termine stesso.
Non mi risulta sia mai accaduto, nella storiografia e nelle scienze sociali, che la controversia su un concetto scaturito dalla realtà storica abbia indotto gli studiosi a concludere con la richiesta della sua messa al bando, cioè ad operare una operazione di censura, solo perché è stato usato a sproposito o perché gli studiosi non sono giunti a darne una definizione unanime. se tale condizione fosse sufficiente per decretare la messa al bando di un concetto storico, dovrebbero essere eliminati dalla storiografia e dalle scienze sociali concetti altrettanto controversi e di uso altrettanto spropositato, come despotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, rinascimento, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, comunismo, socialismo, conservatorismo, radicalismo, e tutti gli altri ismi della storia. Quali conseguenze potrebbe avere un siffatto “negazionismo concettuale” per la storiografia, è facile immaginarlo.
Anticipiamo uno stralcio del contributo dell’autore alla raccolta Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, Il Mulino, pagg. 543, eur 37,00, in libreria dal 1° dicembre
La Repubblica 25.11.2011
Quei valori non negoziabili della chiesa
di Corrado Augias
Caro Augias, l'incontro a Todi di varie componenti cattoliche ha avuto conseguenze, il nuovo governo ne risente in modo evidente. Niente da eccepire sulla capacità di gestire l'emergenza; qualche dubbio invece sul ticket da pagare alle gerarchie vaticane sui cosiddetti "valori non negoziabili" che, stringi stringi, sono testamento biologico, aborto e Pacs. Non vedo come si possa trovare un accordo: o si ribadisce il diritto individuale su inizio e fine vita fondato su una definizione precisa su cosa sia o non sia la vita o si cade ineluttabilmente nel fatto che qualcuno si arroga il diritto di decidere per gli altri su basi confessionali. Stesso discorso sul matrimonio: o è un contratto, e quindi le parti contraenti sono due cittadini davanti a un pubblico ufficiale, o è un sacramento, e allora parla la fede. O decide lo Stato o decide la Chiesa. In un caso c'è la cultura laica che non impone a nessuno di divorziare, né di abortire, né di sposarsi con chi non si vuole e nemmeno di decidere che il proprio tempo è finito. Dall'altro quella religiosa che invece impone a tutti di "non" divorziare, di "non" abortire, di "non" sposare chi si vuole e di rimanere "in vita" anche quando, ormai, di vita umana non c'è più niente. Dov'è il compromesso possibile?
Fabio Della Pergola
Il punto infatti è delicatissimo e segna il confine tra uno Stato laico e uno Stato confessionale. Stato laico significa che le leggi devono rispondere a criteri di bene comune, il che esclude sia leggi studiate ad personam , di cui abbiamo fatto ripetuta e triste esperienza, sia leggi che riposino su un dogma di fede e dunque escludano o confliggano con la coscienza di chi a quella fede non appartiene. Questo è il punto ripeto delicatissimo. Infatti è su questo punto che Romano Prodi, definendosi a suo tempo «cattolico adulto», perse l'appoggio della gerarchia vaticana. Mancato appoggio che gli è stato fatale così come lo è stato poche settimane fa, per diverse ragioni, a Berlusconi. Come ricordava domenica Eugenio Scalfari, «la gerarchia» vaticana «è un potere esterno rispetto allo Stato laico e democratico». La Chiesa può esortare chi si dice suo fedele a non divorziare (con risultati peraltro non brillanti, come s'è visto) ma non può costringere i cittadini a non divorziare ostacolando il varo d'uno strumento legislativo che lo permetta. Può suggerire a chi crede certe norme per la fecondazione assistita, ma non può costringere un intero Paese dentro le maglie di un provvedimento ideologico (Legge 40/2004), infatti largamente disatteso, come ognun sa. Dov'è il compromesso possibile? chiede il signor Della Pergola. È nella coscienza dei politici di fede cattolica ai quali, da cittadini, spetta l'onere di farsi carico anche della coscienza di chi cattolico non è.
La Repubblica 25.11.2011
Il neurobiologo Alberto Oliverio
"La specie umana vive per la società"
ROMA - «È la conferma di quel che sosteneva il filosofo Jon Elster: la passione romantica e la tossicodipendenza seguono meccanismi comuni» commenta Alberto Oliverio, che insegna neurobiologia all´università La Sapienza di Roma ed è ricercatore dell´Istituto di neuroscienze del Cnr.
In realtà lo studio distingue fra i neurotrasmettitori legati all´amore e quelli legati all´amicizia.
«Non sono completamente d´accordo. Resto convinto che i due tipi di relazione siano legati da meccanismi comuni e che la relazione romantica sia semplicemente caratterizzata da un attaccamento maggiore».
Gli oppioidi sarebbero i responsabili di questo senso di attaccamento?
«Sono neurotrasmettitori capaci di darci un senso di benessere. Servono a rinforzare quei determinati comportamenti che l´evoluzione vuole premiare. Non è un caso che tutti gli atti legati alla sopravvivenza della nostra specie siano accompagnati da una sensazione di soddisfazione, in primis il cibo e il sesso. Le sostanze stupefacenti che si assumono dall´esterno si appropriano dello stesso meccanismo. Finiscono col produrre una sensazione di appagamento da cui non ci si riesce più a staccare».
Perché l´evoluzione avrebbe deciso di premiare l´amicizia?
«Perché questo sentimento favorisce la cooperazione e la distribuzione tra gli individui. E quella umana è una delle specie sociali per eccellenza». (e. d.)
Il Venerdì di Repubblica 25.11.2011
Uno scrittore notturno e poetico di nome Freud
Gli scritti più “letterari” dell’inventore della psicoanalisi tornano in libreria e pongono la questione della “natura” della scienza dell’anima. Ne parliamo con Massimo Recalcati
di Matteo Nucci
Sigmund Freud fu uno scrittore straordinario. Chiunque legga oggi i suoi scritti, anche quelli in forma meno narrativa, rimane sorpreso dagli improvvisi guizzi, le ambiguità, le calcolate omissioni. Talento, eleganza di stile, consuetudine con la lettura non vennero mai meno, nonostante in parte, durante gli anni più prolifici, lo scienziato avesse fatto di tutto per combattere la letterarietà di quanto scriveva. Le cause di uno sforzo simile affondavano le proprie radici nel giudizio liquidatorio di chi, di fronte agli immensi spazi di novità aperti dalla psicoanalisi, si chiuse a difesa della scienza e condannò Freud come il semplice autore di «una favola scientifica».
Tuttavia i tentativi di trovare una forma espressiva consona e non relegabile tra le favole della letteratura spinsero Freud su una strada che lo avrebbe portato a produrre opere di una modernità disarmante, ben al di là delle forme classiche dettate dai tradizionali canoni aristotelici.
È quanto sostiene Mario Lavagetto nel suo importante studio introduttivo a una nuova edizione dei famosi “Casi clinici”, stavolta raccolti assieme a tre altri scritti, decisivi per calibrare un giudizio sul Freud scrittore. Il progetto di Lavagetto, infatti, punta a sottolineare un aspetto che, forse soprattutto per volontà dell'autore stesso, è stato a lungo sottovalutato. Non a caso, l'edizione s'intitola stavolta “Racconti analitici”
(Einaudi, pp. LXVI e 809, euro 85, traduzione di Giovanna Agabio, note e apparati di Anna Buia) e ci accompagna nei territori più oscuri del nostro essere con una sapienza scrittoria che lascia davvero a bocca aperta. «E dire che nella storia della cultura occidentale, Freud rischia di diventare, per usare un'espressione di Marx, "un cane morto"!» sbuffa Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano e docente all'Università di Pavia.
«Oggi assistiamo al ritorno di una cultura iperpositivista, scientista, fondata sull'impero del numero, della quantità. Freud appare come un uomo dell'Ottocento, un pensatore che ha fatto il suo tempo, buono solo per essere ammirato in qualche museo delle cere. E invece basterebbe anche solo ripensare alla sua grandezza di scrittore. In Freud convivono due anime. Da una parte c'è lo scienziato, teorico dell'inconscio, figlio della Vienna positivìsta, animato dall'esigenza di costruire una teoria riconosciuta dal mondo accademico, dall'altra parte c'è l'anima goethiana, romantica, l'elemento notturno, poetico, onirico del suo lavoro. Freud scriveva di notte perché come tutti gli analisti, di giorno vedeva i suoi pazienti e credo che questo influenzasse il modo in cui scriveva. Da una parte, dunque, l'ideale della psicoanalisi come scienza dell'inconscio, dall'altra l'amore per i poeti, per i Presocratici, Leonardo da Vinci, Shakespeare, Dostoevskji. Ma proprio in questa doppia anima consiste la sua potenza».
Potenza che sgorga da un'unità che a livello narrativo è molto sofferta. È l'esito di un lavorio costante, una sfida che viaggia sulla necessità di raccontare alcuni casi esemplari di analisi, senza cadere nella noia, dunque evitando una sorta di cronistoria. Al tempo stesso però evitando anche i tranelli della «bella esposizione» che finirebbe per ridurre o vanificare la complessità del reale. «Proprio così. Quel che Freud scrive» spiega Recalcati «punta a raggiungere una forma universale, valida per tutti, come è tipico del sapere scientifico. Però il soggetto sul quale egli lavora è un soggetto irriducibile al numero e alla quantificazione oggettiva. Ciò che interessa Freud è il particolare più bizzarro e scabroso, irriducibile all'universale, è l'inconscio che affonda le sue radici nella vita, nella storia, nella biografia. È questo che rende affascinante la sua scrittura; come l'universale entri in gioco attraverso un particolare caotico e bizzarro com'è quello di ogni biografia».
A livello di scrittura, tutto ciò, stando almeno alla lettura che ne offre Lavagetto, spinge Freud a ridiscutere i rapporti tra vero e verosimile, finendo per andare molto più in là dell'ideale che Freud stesso riteneva canonico, ossia l'ideale classico d'impronta aristotelica. È per questo che Freud non attribuiva una piena letterarietà ai suoi scritti ed è per questo che invece quegli scritti seducono tanto noi, che i canoni classici ormai li abbiamo quasi dimenticati.
«Credo che si tratti in fondo» commenta Recalcati «della nota polemica con i surrealisti. Breton e i suoi compagni avevano identificato Freud con il loro padre spirituale. Freud si era sottratto: "Non sono vostro padre" aveva risposto. Ma, alla luce di quello che leggiamo, avevano ragione loro. Freud coltiva l'ideale aristotelico dell'opera e del soggetto come unità, ma quel che emerge dalla sua scrittura è un'opera divisa e un soggetto frammentato, onirico, surrealista».
Dunque, un Freud più scrittore che medico, più surrealista che scienziato. La morte della scienza? La fine della psicoanalisi? «Per nulla» risponde Recalcati «pensiamo all'importanza dell'anamnesi nella nostra pratica. Si tratta di un motivo che ispira anche la clinica psichiatrica. In primo piano è la storia del paziente, le sue pieghe più intime. Oggi molte psicoterapie sembrano fare a meno dell'anamnesi, sembra cancellino l'importanza della storia singolare di una vita. Ma è proprio attraverso i cosiddetti casi clinici che la psicoanalisi si rivela quello che è, e cioè una scienza storica che non rinuncia affatto alla categoria di causalità. Solo che questa causalità non è più oggettiva, non è più organica, ma ha a che fare con il senso, con la verità, con la mediazione del soggetto. Dunque, in fondo, con il linguaggio».