l’Unità 26.11.11
D’Alema: i partiti si devono rilegittimare
La casta? Copyright Br
Storici e politici al convegno di Italianieuropei, del Gramsci e dello Sturzo L’ex premier elogia gli Occupy: fanno bene a prendersela con Wall Street
di Bruno Gravagnuolo
La casta? È un termine che compare per la prima volta nel lessico delle Br. Conviene ricordarle certe cose...». Battuta urticante quella di Massimo D’Alema, nel cuore del suo intervento conclusivo al Convegno romano alla Sala del Refettorio di Roma della Camera dei deputati: il Contributo dei partiti politici alla formazione dell’identità nazionale. Voluto da ItalianiEuropei, Fondazione Istituto Gramsci, e Istituto Luigi Sturzo. Unico convegno dedicato ai partiti dentro le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Una battuta forte contro «l’antipolitica», temperata da considerazioni altrettanto forti sulle colpe dei partiti: « Esaurita la loro funzione già dagli anni 80 si sono buttati sull’occupazione dello stato, e oggi i costi della politica vanno ridotti chirurgicamente,proprio per rilanciare i partiti e la loro funzione».
Dunque, convegno attualissimo, con una due giorni che cadeva nel vivo del post-berlusconismo, e dell’incipit di Monti. Di là della minuta ricostruzione storica che ne ha segnato i lavori. Di che si trattava? Dei conti col passato. Per ritrovare un ruolo ai partiti, proprio nel momento in cui l’economia travolge la politica, inchiodandola all’impotenza, sotto il vincolo globale esterno. Fino al punto da azzerare provvisoriamente il famoso bipolarismo per cui tanto ci si è spesi. Chi c’era al Convegno? Il meglio della storiografia e della sociologia italiane. E con in più oltre a D’Alema Luciano Violante e Giuliano Amato. Ecco il nocciolo dei lavori e la domanda chiave: che meriti e limiti hanno avuto i partiti nel «fare Italia»? Enormi, hanno convenuto gli storici, che senza nascondersi le ombre, hanno tutti sostenuto che i partiti di massa hanno incluso le masse nello stato anche in versione «reazionaria di massa» e hanno in certo senso creato identità nazionale condivisa, pur nelle grandi divisioni ideologiche. Al centro Psi, Pci e Dc, nonché il Pnf. Non è vero, a riguardo, come ha sostenuto Pasquale Santomassimo, che i partiti di massa italiani del secondo dopoguerra, abbiano copiato il Partito fascista (nota tesi di Sabino Cassese). Al contario. Era stato il Pnf a copiare i socialisti e i popolari. E poi i partiti post-Resistenza erano plurali, dialogici, pedagogici. E hanno contribuito a «soggettivare» e a includere nelle istituzioni i ceti subalterni.
Altro spunto: Pci e nazione. Per Giuseppe Vacca presidente del Gramsci Antonio Gramsci prima, e Togliatti poi, vedevano il movimento operaio radicato in una ben precisa funzione nazionale, e di «grande politica» internazionale. Transizione democratica, pace civile e religiosa. E rifiuto della bolscevica «inevitabilità della guerra», fecero dei comunisti una forza italiana. Che faceva della classe operaia un’erede di Cavour. Segnali di un metodo smarrito, dopo il tracollo del Pci. Incapace di rigenerarsi al tempo di Moro. E, in veste Pds, subalterno per dirla con Violante a «mercato politico» e nuovismo. Più critico sul Pci, Silvio Pons: «Usò l’esclusione dal governo per congelarsi nella sua religione civile, contrapposta a quella democristiana». Ma anche a Pons non sfugge la logica geopolitica, che rendeva impossibile la «terza fase» preconizzata da Moro. Con alternanze e ricambi di governo.
Ancora un altro spunto: la Dc di De Gasperi, col suo «centro» che guardava a sinistra. Dentro le relazioni di Francesco Traniello e Francesco Malgeri (critico quest’ultimo sull’ultima dc: consociata al centro con il Psi e priva di spinta propulsiva). Ma l’elogio imprevisto alla Dc e al suo sistema politico, arriva da Roberto Gualtieri, storico e deputato europeo di matrice Pci: « Basta parlare di democrazia bloccata fino agli anni 90! Era una “democrazia difficile”, ma plastica e in movimento, capace di includere e rinnovare». E i sociologi? Severi sui limiti partitici: spesa pubblica, difficoltà di incontrare i movimenti, sottovalutazione del web, incomprensione del «partito personale», etc. (Donatella Della Porta, Mauro Calise). E il rilancio forte della politica arriva infine da Amato e D’Alema. Il primo ricorda che «senza partiti non c’è democrazia deliberativa, e che il mondo del web è fatto di “monadi” e isolamento, e al massimo “cumula” le proteste». D’Alema invece denuncia liberismo e oscuramento del conflitto sociale: «L’antipolitica viene di lì e fanno bene gli indignati americani a prendersela con Wall-Street: è l’indirizzo giusto». E conclude: «Siamo alla fine di un era selvaggia e personalistica. Il governo Monti deve avere un valore costituente. Per costruire un bipolarismo civile, dove non si distrugga l’avversario». Bipolarismo nuovo. Naturalmente rifondato sui partiti. «Transnazionali» però.
Nuovi italiani
l’Unità 26.11.11
Sono sempre loro
di Moni Ovadia
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una delle più importanti esternazioni degli ultimi anni ha attribuito significativa autorevolezza ad una proposta che da tempo è nell'agenda delle forze politiche più aperte al futuro: il conferimento della cittadinanza ai figli di extracomunitari nati nel territorio italiano e il diritto di voto amministrativo a cittadini stranieri che abbiano avuto regolare permesso di soggiorno per almeno cinque anni.
Come era prevedibile le componenti più retrive del centro destra, segnatamente gli ex post-fascisti e con particolare virulenza i parlamentari della Lega nord hanno alzato gli scudi, i leghisti hanno addirittura minacciato di innalzare le barricate per impedire un provvedimento di legge in tal senso. Hanno addirittura strillato all'attentato alla Costituzione, proprio loro che hanno passato gli ultimi anni di governo a picconarne le fondamenta. Naturalmente non solo c'era da aspettarselo, ma non c'è nulla di nuovo. Questi signori sono gli eredi di ogni pensiero reazionario da sempre nemico del progresso civile.
Furono i nemici dell'emancipazione femminile, del voto alle donne, contrastarono il diritto al divorzio, la legge sull'aborto, oggi discriminano gli omosessuali, vessano i rom, predicano l'islamofobia, respingono esseri umani disperati verso la morte marchiandoli come clandestini.
Trasformano le condizioni esistenziali in crimini, non riconoscono la dignità di ciascun essere umano come valore integro e per ipocrisia ammantano i loro discorsi di discriminazione con argomentazioni pseudo ragionevoli. Fortunatamente la società sa progredire senza di loro.
l’Unità 26.11.11
Da rivoluzionario in Tunisia a clandestino dimenticato in un Cie
Piove dentro, siamo tutti bagnati, senza scarpe e infreddoliti». Sono le parole di uno degli «ospiti» del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria; parole che a stento escono da quelle mura. Qualche giorno fa, a quelle stesse parole sono seguite azioni di rivolta che, nonostante la determinazione con cui venivano compiute, non hanno prodotto l’effetto sperato: ovvero migliori condizioni di soggiorno all’interno della struttura. Uno dei 110 uomini reclusi nel Cie è un giovane di 27 anni che negli ultimi mesi in Italia ha lavorato presso i comitati elettorali, creati per sostenere la formazione dell’Assemblea Costituente del suo paese, la Tunisia. Il percorso che lo ha portato alla reclusione è ha a che vedere con l’assenza di un valido permesso di soggiorno. Nonostante la sua militanza per la ricostruzione della Tunisia non ha ricevuto alcun supporto dai cinque consolati del suo paese in Italia. E così, in un albergo romano, all’alba di un giorno di qualche settimana fa, viene prelevato da due poliziotti e portato prima in una Questura di zona e poi in quella centrale. Da qui, il passaggio a Ponte Galeria si è svolto in un attimo. Un lasso di tempo talmente breve da non permettere allo spaventato giovane di avvertire il proprio avvocato. «Non c’è tempo» gli è stato detto, perché quella telefonata poteva farsi solo all’arrivo in quel luogo dove di tempo ce n’è fin troppo. Lo stesso meccanismo frettoloso l’ha condotto davanti al giudice di Pace per la convalida del trattenimento ancora senza il suo avvocato. E infine ieri, gli è stato chiesto di prepararsi, stava per essere trasferito. Dove? Non c’era tempo di spiegare. La sua conoscenza delle leggi italiane, però, gli ha permesso di imporsi su quella decisione e ora è ancora lì, ad aspettare.
l’Unità 26.11.11
Franco Basaglia
Dimenticato dagli psichiatri, amato dai filosofi
Franco Basaglia cinquant’anni fa assunse la direzione del manicomio di Gorizia ma di quella eredità nei reparti ospedalieri rimane assai poco Invece le domande sulla follia sono ancora terreno d’indagine dei pensatori
di Massimo Adinolfi
FRANCO BASAGLIA
VENEZIA 11 MARZO 1924 – 29 AGOSTO 1980
Per lo psichiatra, cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi, il paziente non è solo una malato ma una persona in tutta la ricchezza.
Chi si ricorda di Franco Basaglia? Nel novembre di cinquant’anni fa, l’anno di Asylums di Goffman e della Storia della follia di Foucault, il giovane psichiatra veneziano assume la direzione del manicomio di Gorizia. Avviando una rivoluzione: dalla riorganizzazione del personale sanitario all’abolizione delle divise per i degenti, dai permessi di uscita alla eliminazione di ogni mezzo di contenzione, Basaglia interverrà su tutti gli aspetti della vita dell’ospedale, trasformandola radicalmente. E accompagnerà questa attività con una formidabile azione comunicativa e un impegno politico inesauribile, il cui ultimo frutto sarà la legge 180 sui trattamenti sanitari obbligatori.
Due anni dopo Basaglia muore, e poco alla volta i riflettori accesi da Basaglia sulla follia si spengono. La legge 180 rimane in vigore, ma le domande sollevate da Basaglia si attutiscono e le battaglie da lui condotte si smorzano fin quasi a scomparire. Chi oggi si chiede ancora se la follia sia (soltanto) una malattia mentale? In realtà, la questione arde ancora nel braciere della filosofia, ma sapere medico e organizzazione sanitaria l’hanno ormai, di fatto, accantonata. E così a ricordarsi di Basaglia finiscono con l’essere quasi soltanto i filosofi o gli psicanalisti (che medici non sono), i quali hanno dedicato un libro alla sua esperienza: Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, a cura di Federico Leoni (Bruno Mondadori). La psichiatria universitaria, invece, forte di solide certezze farmacologiche e di un naturalismo più solido ancora, si tiene parecchio alla larga dall’eredità di Basaglia.
UN CASO TRAGICO
Non è però il solo paradosso. Perché se a suo tempo erano le idee di Basaglia e dell’antipsichiatria a mettere a soqquadro il rassicurante fondamento di ogni umanesimo, la possibilità cioè di tracciare senza incertezze il confine fra il sano e il malato, il normale e l’anormale, l’umano e l’inumano, oggi le distinzioni saltano più facilmente per via della convinzione che tutto l’arcano della follia stia dentro i termini medico-biologici del problema.
Negare alla parola, alle pratiche sociali o al contesto territoriale qualunque presa sulla realtà della follia significa infatti ridurre drasticamente fino a negarlo del tutto l’ambito in cui l’uomo si esprime e viene compreso come un uomo, e ampliare a dismisura quello in cui viene invece compreso e spiegato a partire da ciò che umano non è (ma è biologico o chimico o neurologico).
C’è quindi un motivo teorico di stringente attualità per ricordare Basaglia, ma c’è anche una ragione pratica e politica: basti pensare all’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, costretto per quattro giorni in un letto di contenzione del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania e, a seguito di ciò, deceduto. Non decenni fa, ma due anni fa. Il processo al personale sanitario e agli infermieri è da poco ripreso, e nell’ultima udienza il direttore sanitario dell’Ospedale di Vallo ha avuto l’ardire di affermare che «la contenzione è un sistema di terapia». Sono parole, queste, sufficienti per indignarsi, ed entrare nuovamente con i fari accesi da Basaglia negli ospedali.
l’Unità 26.11.11
«Ma la sua idea di guarigione è parte di tutti noi»
Peppe Dell’Acqua che ha condiviso l’esperienza triestina: molti Paesi nel mondo si ispirano alla nostra 180
intervista di Cristiana Pulcinelli
Peppe Dell’Acqua con Basaglia ci ha lavorato a lungo. Insieme a Trieste hanno condiviso anni di battaglie e sperimentazioni. Poi Dell’Acqua è diventato direttore del Dipartimento di Salute Mentale proprio lì, a Trieste. Fra poco uscirà il secondo volume di una collana che cura insieme a Pieraldo Rovatti e Nico Pitrelli, per Alpha Beta Editore 180 archivio critico della salute mentale”: la sceneggiatura e il dvd del film «C’era una volta la città dei matti», andato in onda sulla Rai nel 2010. «Sono pienamente d’accordo sul fatto che bisogna riaccendere i fari su Franco Basaglia dice ma non vorrei diffondere un’amarezza eccessiva che finisce per coprire e disconoscere una presenza straordinaria e quotidiana di Basaglia. Ovunque si parli di salute mentale nel mondo non si può fare a meno di parlare di Franco Basaglia».
Non potrebbe sembrare un’affermazione apodittica? «Forse, ma basta guardare quello che succede nel mondo. L’Argentina ha fatto una legge sulla salute mentale che riprende molto dell’insegnamento di Basaglia e della legge 180 di cui Basaglia è stato inconsapevole ispiratore. In Brasile sta succedendo la stessa cosa. Ma c’è di più. Se possiamo parlare dell’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni legato a un letto è grazie al fatto che Basaglia è nella testa e nella cultura di ognuno di noi e non solo di chi l’ha conosciuto o ci ha lavorato. Per qualcosa che abbiamo letto, o sentito, o percepito oggi possiamo dire che legare una persona a un letto è un atto criminale. Prima non era così. E molti altri sono morti prima di Mastrogiovanni».
E oggi?
«Oggi ancora ci sono realtà difficili. Proprio recentemente ho saputo di esperienze al Niguarda di Milano che fanno pensare ad epoche passate: porte chiuse, persone legate, maltrattamenti. Accendere i fari su Basaglia oggi significa ricominciare a dire la verità.
E a proposito delle certezze della psichiatria? «Quando Basaglia si pose l’interrogativo “che cos’è la psichiatria?” portava l’incertezza nel mondo delle certezze psichiatriche. Oggi gli psichiatri utilizzano di nuovo le certezze della biologia e delle neuroscienze per spiegare i dogmi. Siamo arrivati a questo punto a causa della prepotenza delle case farmaceutiche e dell’atteggiamento delle accademie. Ma c’è una cosa di cui si deve tenere conto. Quelle certezze sono state messe in crisi. E non sono state messe in crisi dagli psichiatri, ma da una larga popolazione di familiari, utenti dei servizi di salute mentale, operatori. Gli psichiatri oggi non hanno più peso proprio perché si sono rifugiati nella cittadella delle certezze. Ma l’inganno ormai è stato svelato. Oggi genitori mi chiamano da Marsala come da Milano per dirmi: mio figlio deve guarire. Ma da dove hanno preso quest’idea di “guarigione” se non da Basaglia?» Condivide la denuncia di una psichiatria che torna a negare la parola e i diritti?
«Non solo la condivido, ma sono ancora più duro. Quello che accade tra i dannati della Terra nei manicomi giudiziari accade perché la psichiatria si permette di prevedere che la tale persona sarà pericolosa. I giudici non decidono da soli. Ma quello che mi sembra di vedere è che gli psichiatri cercano di stare lontano da Basaglia perché quando si avvicinano al suo pensiero e alla sua pratica vivono la miseria e la pochezza del loro essere. Questi psichiatri cercano l’evidenza, ma non si accorgono che intorno a loro ci sono pratiche rivoluzionarie, come la restituzione del diritto. Non si accorgono che vivono in un mondo in cui tutto è cambiato, in cui i manicomi non ci sono più».
Il Corriere della Sera 26.11.2011
Freud narratore Quando l'isteria diventa romanzo
Così il padre della psicoanalisi trasforma i pazienti in personaggi
di Cesare Segre
N el 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un'acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo — che la gente chiama pessimismo — il Suo essere dominato dalle verità dell'inconscio, dalla natura istintuale dell'uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l'aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un'insolita e inquietante familiarità».
Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall'arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell'amico Nathan Weiss fino al suicidio. Ma dopo aver trovato la strada dell'analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere?
A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell'«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni. E non è narrativa quella che scruta un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L'uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa». Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell'impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent'anni.
È perciò da festeggiare l'ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Sigmund Freud, Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, editore Einaudi, pp. LXVI-812, € 85), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia. In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell'analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell'interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi. La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l'autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto».
Per esempio Dora, nel «Frammento di un'analisi d'isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all'«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità.
Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l'autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell'autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l'espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover'uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L'ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo.
Un'altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell'età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com'era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa.
Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m'ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all'inizio dell'analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell'opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un'informazione sbagliata».
Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell'uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni.
Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale.
Il Corriere della Sera 26.11.2011
Ora la piazza egiziana si sdoppia
Manifestazioni rivali al Cairo: in strada anche i sostenitori dei militari
di Giuseppe Sarcina
IL CAIRO — Giovani con la stessa grinta e lo stesso sorriso. Anche le bandiere sono le stesse, a strisce rosse, bianche e nere, così come i fuochi d'artificio e i venditori ambulanti di ciambelle. Ma al Cairo e in Egitto, in queste ore, si stanno misurando (per ora a prudente distanza) due concezioni del futuro prossimo del Paese.
In piazza Tahrir sono arrivate centinaia di migliaia di persone (il solito «milione», secondo gli organizzatori) che, per il settimo giorno consecutivo, hanno chiesto l'immediato passaggio dei poteri dal Consiglio supremo delle forze armate a un governo di civili.
Ma una decina di chilometri più a est di questa sterminata megalopoli, nel quartiere di Abbasiya dove ha sede il ministero della Difesa, a partire da mezzogiorno si sono ritrovate diverse migliaia di cittadini (circa 50-60 mila nel corso dell'intera giornata, a tarda sera ce n'erano ancora 20 mila circa) schierate a sostegno dei militari. Sul piano dei numeri, come è evidente, il confronto tra Tahrir e Abbasiya non regge. Ma dal punto di vista politico (e sociale) i rapporti di forza in questo Paese da ottanta milioni di abitanti non sono altrettanto scontati. E sarebbe, dunque, sbagliato liquidare frettolosamente il segnale che arriva «dall'altra» manifestazione. Bastava fare un giro e scambiare due chiacchiere con i vari Samir (42 anni), dirigente della Procter & Gamble, Ahmed, 31 anni, gestore di un club di tiro a segno, o Ibrahim, 40 anni, impiegato in un'azienda di forniture medicali, per rendersi conto che Abbasiya non è stato il raduno di comparse prezzolate dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi. Anche se a «intrattenere» i manifestanti si sono presentati personaggi controversi come Tawfik Okasha, conduttore e proprietario del canale televisivo El Farahon, a suo tempo simpatetico con il regime di Hosni Mubarak.
In realtà, i 41 morti dei giorni scorsi (bilancio ancora provvisorio), le migliaia di feriti, le manovre politiche dei militari, culminate l'altro ieri con la nomina di un nuovo premier, Kamal Ganzouri, hanno prodotto una frattura nel movimento popolare che nel febbraio scorso cacciò il presidente-dittatore. Una situazione carica di inquietanti insidie per la stabilità politica ed economica del Paese, a soli due giorni dal primo turno delle elezioni per il Parlamento fissate per lunedì 28 novembre e, notizia di ieri, prolungate al 29.
Non è un caso se gli americani, partner fondamentali dell'Egitto, siano usciti allo scoperto con forza. «Noi crediamo, e questo è molto importante — ha dichiarato il portavoce del presidente Barack Obama — che il trasferimento del potere a un governo civile debba avvenire al più presto, in un modo giusto e pieno, che risponda alle aspirazioni legittime del popolo egiziano». Una posizione pesante, che arriva proprio nel giorno della nomina ufficiale di Al Ganzouri, 78 anni, già primo ministro nell'era Mubarak, dal 1996 al 1999. Ieri il prescelto dei militari ha reagito presentandosi alla stampa. Ganzouri, con i capelli tinti di fresco, ha sostenuto che il nuovo esecutivo avrà «più poteri rispetto ai predecessori».
A questo punto l'impressione è che Tantawi abbia esaurito le carte a disposizione per cercare di svuotare Tahrir senza tornare alle fucilate e ai gas lacrimogeni. Ma anche la piazza potrebbe presto trovarsi a corto di iniziative. La manifestazione di ieri era stata definita quella «dell'ultima chance». A fine serata il tabellone delle presenze riportava una compagnia piuttosto assortita. Per la preghiera di mezzogiorno è arrivato Mohamed ElBaradei, candidato alle presidenziali: è stato accolto con entusiasmo dai giovani. Il premio Nobel del 2005 ha rifiutato l'offerta dei militari di guidare la transizione. «Non ha voluto fare il segretario del maresciallo Tantawi», commentava uno dei suoi collaboratori. Il grande imam Ahmed Al Tayeb, la più alta autorità dei sunniti, due giorni fa aveva chiesto alla giunta militare di non sparare «al petto degli egiziani» e ieri ha fatto sapere ai giovani di «essere con loro». Completano la lista due figure di segno opposto. Hazem Saleh Abou Ismail, leader salafita (islamici radicali), avvistato più volte tra i tappeti per la preghiera e Abdel-Aziz Makkyoun, ex attore e promotore della lista laica Kefaya («Basta!») .
Ma all'appello mancano, ancora una volta, i Fratelli musulmani, il gruppo cardine degli equilibri del nuovo Egitto. Probabilmente anche loro sono divisi. Meno due giorni al voto: l'incertezza e l'inquietudine non si dissolvono.
La Repubblica 26.11.2011
Piazza Tahrir incorona El Baradei
Il Nobel alla testa di un controgoverno. Gli Usa: "I militari via subito"
L´esercito egiziano insiste: elezioni lunedì. Ma ci sarà un giorno in più per votare
di Fabio Scuto
IL CAIRO - Quando arriva per la Dhuhr, la preghiera di mezzogiorno, un boato corre tra la folla di Piazza Tahrir. Circondato da un cordone di sostenitori Mohammed El Baradei, il premio Nobel per la pace nel 2005, uno dei leader dell´opposizione prima a Mubarak e ora alla giunta militare egiziana, è venuto a pregare nella Piazza simbolo della rivoluzione egiziana, dove in centinaia di migliaia si sono trovati ieri per il sesto giorno per dire basta allo strapotere dei generali e chiedere un nuovo calendario elettorale, sotto il tiro dei militari che sono stati schierati nelle strade attorno. «Vado a Tahrir per esprimere il mio rispetto per i martiri. Il loro sacrificio non sarà vano e insieme vinceremo», aveva annunciato El Baradei poco prima del suo arrivo. Attorno al suo nome in questi giorni si è creato un forte consenso come premier giusto per la transizione e in Piazza Tahrir ha avuto l´investitura: i leader di diversi importanti movimenti come il "6 aprile" e la "Coalizione dei giovani della rivoluzione" lo hanno nominato alla guida di un contro-governo, con Abdel Moneim Abul Fotouh, un moderato fuoriuscito dai Fratelli musulmani, come suo vice. Una mossa che si contrappone alla decisione della giunta di chiamare ieri notte Kamal Al-Ganzouri alla guida di un nuovo esecutivo. Una scelta immediatamente respinta da tutti i partiti che partecipano al voto. Inutili le rassicurazioni di Al-Ganzouri, 78 anni, già primo ministro per qualche anno sotto il "Faraone" Mubarak, sull´impegno alla transizione democratica assunto dalla giunta. «Se pensassi che i militari vogliono mantenere il potere non avrei accettato la proposta», dice il primo ministro incaricato. Una nomina che sembra più un gesto disperato che una vera scelta, tanto che Al-Ganzouri ha annunciato che non potrà formare il suo governo prima di lunedì, il giorno di inizio delle elezioni legislative. Elezioni che, giusto ieri sera, ha comunicato improvvisamente la giunta militare si svolgeranno su due giorni invece che in uno soltanto, come previsto inizialmente.
Ieri alla giunta militare è arrivato un secondo monito della Casa Bianca che ha sollecitato «un pieno passaggio dei poteri» a un esecutivo civile, da realizzarsi «il più presto possibile e che risponda alle legittime aspirazioni del popolo egiziano».
I preparativi per questo voto poi – che si svolge su base distrettuale con tre tornate elettorali col doppio turno, tenendo praticamente il paese bloccato per 4 mesi – nonostante l´annuncio della giunta non sono cominciati e la crisi in atto non consente certamente un regolare svolgimento delle elezioni, in un Paese in cui non c´è mai stata finora una sola consultazione elettorale seria. A fianco dei militari nel "voto ad ogni costo" sono rimasti solo i Fratelli Musulmani, i grandi favoriti, convinti di poter assumere per la prima volta un ruolo dominante sulla scena politica. Ma i giovani della Fratellanza contestano la dirigenza e la scelta di venire a patti con i militari, i nemici di sempre. In Piazza Tahrir sono migliaia i ragazzi con le barbe islamiche. E ieri anche Ahmed al-Tayyeb il Grande imam di al-Azhar, la più alta autorità religiosa sunnita, si è schierato apertamente con la Piazza mandando un messaggio attraverso un suo stretto collaboratore che ha annunciato alla folla: «Il grande imam vi appoggia e sta pregando per la vostra vittoria».
Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
L’esercito garantisce governo e voto lungo e così si assicura un futuro di potere in Egitto
di Francesca Cicardi
Stesse rime e stessi slogan a piazza Tahrir, cambia solo il nome: i manifestanti cantavano ieri contro il nuovo primo ministro designato Kamal al Ganzuri, scelto dall’Esercito per guidare un nuovo governo di transizione. Un’altra marionetta in mano ai militari e un’altra “mummia” proveniente dall’era di Mubarak: Ganzuri, di 78 anni, fu primo ministro del’ex dittatore dal 1996 al 1999. “Abbiamo fatto una rivoluzione per scegliere chi ci governa”, dice Siham, una donna velata che come molte altre sono scese in piazza per chiedere al Consiglio Supremo delle Forze Armate – che dirige l’Egitto dalla caduta di Mubarak lo scorso febbraio - di lasciare il potere a un’autorità civile.
Le molestie sessuali degli ultimi giorni a Tahrir non hanno spaventato le egiziane, che sono scese in piazza numerose, così come gli uomini e moltissimi bambini, di tutte le classi sociali e le ideologie. Tutti hanno osato sognare un governo di unità nazionale questa settimana , guidato forse da Mohamed Al Baradei, che ieri è andato a Tahrir a pregare e protestare, davanti a un Esercito inamovibile.
MALGRADO le decine di migliaia di persone, forse centinaia, che hanno riempito il cuore del Cairo e dopo una settimana di rivoluzione nelle strade del paese, l’Esercito continua imperterrito a gestire la transizione e punta dritto alle votazioni di lunedì. Ieri a Tahrir hanno fatto la loro apparizione i primi cartelli contro le elezioni, che per molti non hanno senso e non possono celebrarsi in queste condizioni di caos e di violenza, che ha lasciato al meno 40 morti. A 48 ore dall’apertura dei seggi, l’Esercito imponeva ieri ancora una volta la sua legge: le votazioni, che si terranno in 3 fasi da novembre a gennaio, dovranno durare 2 giorni “in modo da permettere al maggior numero possibile di elettori di partecipare”, annunciava in un comunicato. Intanto, Ganzuri avrebbe ricevuto dai militari deleghe più ampie di quelle dell’esecutivo precedente, ma l’Esercito non arretra di fronte alle pressioni del popolo, appoggiato ieri persino dagli Usa, che hanno sollecitato i generali a dimettersi “il prima possibile” e a cedere il potere reale a un nuovo governo “immediatamente”. I militari non sembrano disposti a farsi rovesciare come Mubarak e contano sull’appoggio tacito dei Fratelli Musulmani, che ieri hanno boicottato la manifestazione di Tahrir e guardano già ai seggi, e oltre, certi della loro vittoria. I rivoluzionari non si arrendono, ma sono ormai rassegnati davanti al fatto che le votazioni avranno luogo.
La Repubblica 26.11.2011
Siria - L´Onu lancia l´allarme "Bambini vittime di tortura"
GINEVRA - «Bambini torturati e mutilati». Il comitato dell´Onu contro la tortura ha denunciato ieri «violazioni flagranti e sistematiche dei diritti umani» in Siria. «Il Comitato ha esaminato numerose informazioni - si legge in una nota - tra i quali casi di maltrattamenti di detenuti e attacchi contro i civili. Preoccupanti quelle su piccoli vittime di tortura e mutilazioni». Ora l´Onu ha chiesto alla Siria di presentare un rapporto sulle misure adottate per garantire il rispetto della Convenzione contro la Tortura.
Sulla Siria è intervenuto ieri anche il ministro degli Esteri Giulio Terzi, dal forum italo-turco di Istanbul. «Il principio della non ingerenza negli affari interni non può avere un valore assoluto - ha detto Terzi - quando è così chiaro che ciò che si sta sviluppando in un paese crea la possibilità di moltiplicare in modo drammatico le spinte all´instabilità». «Vogliamo sottolineare - ha aggiunto - quanto la situazione in Siria ci preoccupa, perché la tragedia continua a colpire la popolazione».
Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
La Ola degli indignados
Dall'esempio cileno si propaga in tutto il Sudamerica il movimento di protesta studentesco
di Manuel Anselmi
Il movimento degli studenti cileni, guidato dalla ormai famosissima Camila Vallejo, ha superato i confini nazionali e la lotta per una educazione gratuita e pubblica ha ormai contagiato molti altri paesi del subcontinente sudamericano.
Dal 12 ottobre scorso in Colombia molte delle università sono occupate. Per le vie di Bogotà sono sempre più frequenti le manifestazioni dei giovani che protestano contro una riforma educativa promossa dal governo in chiave neo-liberale e che punta tutta sulla autonomia degli istituti. Riforma che gli studenti colombiani rifiutano proprio per non doversi poi trovare in una situazione simile a quella dei loro colleghi cileni, in cui vige un mercato delle università e dove la maggior parte della popolazione è esclusa da una istruzione di qualità. “Il modello educativo cileno è un esempio da non seguire” ha affermato esplicitamente Jairo Rivera, uno dei leader degli studenti. “ Uno dei punti più discutibili e di maggiore dissenso è la creazione di università private con una vera e propria finalità di lucro” ha spiegato Moisés Wasserman, rettore dell'Universidad Nacional de Colombia.
IN URUGUAY, alcuni giorni fa più di tremila ragazzi sono scesi in piazza per dimostrare il loro appoggio agli studenti cileni. A Santo Domingo, da alcune settimane un gruppo chiamato “Los libertarios” porta avanti una rivolta contro le politiche educative governative, e rivendicano che l'investimento pubblico sull'educazione sia effettivamente del 4% come previsto dalla legge. Perfino in Venezuela, la gioventù bolivariana vicina al presidente Chávez ha organizzato alcune manifestazioni di solidarietà con i movimenti cileni e colombiani, durante le quali hanno avanzato richieste di miglioramento delle proprie condizioni studentesche.
Qualche giorno fa, durante i Latin Grammy Awards, quando sul palco per ritirare il prestigioso premio è salito Residente, al secolo René Pérez Joglar, cantante del gruppo hip pop portoricano Calle 13, tutti hanno potuto leggere sulla sua maglietta la scritta: “Educaciòn publica gratuita”. Al momento dei ringraziamenti, il cantante non ha esitato a dedicare il prestigioso riconoscimento agli studenti latinoamericani che stanno lottando per una educazione gratuita per tutti.
ATTRAVERSO la musica e le esigenze dei giovani, si sta forse formando una coscienza pansudamericana. Di sicuro, come ha sottolineato il filosofo e scrittore colombiano Oscar Guardiola-Rivera, invitato alla manifestazione di Occupy ad Amsterdam, autore del libro Qué pasaría si América Latina gobernara el mundo? (Che cosa succederebbe se L'America Latina governasse il mondo?). “ Le circostanze specifiche europee non sono le stesse, però ci sono questioni, come questa di un sistema educativo basato sul lucro, in cui l'esempio latinoamericano può essere di monito anche per gli europei”.
La Repubblica 26.11.2011
Bimbi, stranieri, coppie la formula matematica per il condominio perfetto
L´esperimento pilota a Reggio Emilia "In un anno abbiamo assegnato 170 case con questi criteri e i risultati sono positivi"
L´obiettivo è creare microcosmi equilibrati per migliorare la vivibilità
di Stefania Parmeggiani
Il condominio ideale esiste, lo dice la matematica. Un´equazione, per la precisione, un complicato calcolo che prende in considerazione anzianità, provenienza, ambiente e persino le "nevrosi" che ognuno di noi si porta da bambino. Perché scegliersi i vicini - simpatici, disponibili, rissosi, invadenti, rumorosi - non è certo possibile. Ma se non fosse il caso a insediarli sul nostro pianerottolo, alla fine magari una soluzione sulla facciata da ristrutturare o l´ascensore da aggiustare potrebbe risultare più semplice. Certo, probabilmente non diminuirebbe la litigiosità delle assemblee condominiali, ma evitando accumuli di problemi allo stesso numero civico si comincerebbe a invertire la tendenza che negli ultimi anni ha trasformato molte periferie europee in quartieri ghetto.
Dall´idea di rimescolare gli indirizzi per creare microcosmi equilibrati, è nata a Reggio Emilia, tra le stanze dell´assessorato alle politiche sociali e gli uffici dell´Acer (azienda casa dell´Emilia Romagna), la formula del condominio ideale. Un esperimento unico in Europa, che per ora incide nell´assegnazione delle case popolari, ma che può essere utilizzato per migliorare la vivibilità di strade, quartieri e città. Chiavi in mano a chi ne ha diritto, ma l´indirizzo dell´alloggio non più casuale bensì assegnato grazie a quattro nuovi parametri, messi a punto con la collaborazione del Censis e della facoltà di Psicologia dell´Università di Bologna: peso sociale, tipologia delle famiglie, distribuzione etnica e condizioni ambientali.
Il peso sociale misura dipendenze, malattie psichiatriche, problemi comportamentali o sociali, attribuendo a ogni inquilino un punteggio in base a un sistema già utilizzato dai Servizi sociali. Facendo una semplice addizione si ottiene il peso reale, che deve essere confrontato con quello medio degli aventi diritto. Nei condomini in cui la situazione è migliore della media si possono inserire nuovi casi sociali, negli altri no.
Il secondo parametro è la tipologia delle famiglie: più varia è, meglio è. Si parte dall´analisi della società, cioè dal conteggio degli anziani, delle giovani coppie, delle famiglie monoparentali. E si cerca di riprodurre l´equilibrio pianerottolo per pianerottolo. Procedimento analogo per la distribuzione etnica: ogni condominio, per facilitare l´integrazione ed evitare ghetti, dovrebbe riflettere un mondo sempre più vario. Infine il contesto: accessibilità, barriere architettoniche, ambiente salutare. Quest´ultimo parametro verifica il risultato del calcolo precedente, confermandolo o annullandolo. Un esempio concreto: in uno dei condomini studiati, dei 44 appartamenti quasi il 55% è assegnato ad anziani soli a fronte di una percentuale ideale del 24%. Intervenire sull´edificio significa aumentare il numero di famiglie dal 9% al 31%. «In un anno abbiamo assegnato con questa formula 170 alloggi - precisa Marco Corradi, responsabile Acer di Reggio Emilia - e i risultati sono positivi: nei condomini più problematici il carico è stato alleggerito del 25%».
Dall´edilizia pubblica a quella privata. «La formula può essere impiegata per riqualificare quartieri difficili - spiega Matteo Sassi, assessore alle politiche sociali - perché una volta fotografata la situazione il pubblico può intervenire recuperando alloggi da destinare a studenti o giovani coppie. O ancora si possono prevedere quote di edilizia agevolata o si può agire sui costruttori affinché realizzino appartamenti di taglio diverso e quindi destinati ad acquirenti differenti».
Sorride l´architetto Pier Luigi Cervellati, da una parte contento che ci sia ancora chi sogna città ideali e si misuri con le utopie urbanistiche, ma preoccupato che le nuove strategie finiscano con il dare carburante all´edilizia. «Qualsiasi strategia deve partire dal recupero degli immobili esistenti, non da altri mattoni. Se l´operazione di Reggio Emilia va in questa direzione non può che essere encomiabile. Le nostre città devono tornare ad avere una regia pubblica che governi il mercato e non che lo assecondi». Fermo restando che per quanto perfetta, nessuna formula matematica pacificherà un´assemblea condominiale: giovani o anziani, italiani o stranieri, single o con prole, l´attaccabrighe del piano di sotto è destinato a restare l´inevitabile costante.
La Repubblica 26.11.2011
Termini Imerese, il governo in campo
Oggi vertice da Passera con sindacati e Fiat. Dal Lingotto altri 4-5 milioni per la soluzione. Il vescovo di Palermo: chiusura della fabbrica aiuta la mafia. Il Pd: è un allarme fondato
di Paolo Griseri
ROMA - Il governo anticipa i tempi e sblocca la trattativa sul futuro di Termini Imerese. Il nuovo ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, convoca alle 10 i sindacati e alle 12 la Fiat per superare lo scoglio degli incentivi alla mobilità. Trapela l´ipotesi che il Lingotto sia disposto a mettere sul tavolo più denaro di quello che si ipotizzava contribuendo così a risolvere la situazione. Le indiscrezioni di ieri sera parlavano di un aumento di 4-5 milioni della cifra che il Lingotto sarebbe disposto a spendere per le incentivazioni.
La mossa potrebbe chiudere già oggi la partita. Vediamo perché. Dei 1.567 dipendenti Fiat di Termini Imerese, 511 hanno i requisiti per andare in pensione entro sei anni. Altri 130 possono farlo sommando i contributi per il lavoro in Fiat ad altri contributi maturati precedentemente. In totale si tratta di 650 lavoratori che, dopo due anni di cassa integrazione e sei di mobilità, potrebbero arrivare alla pensione. Nell´ipotesi più costosa, quella in cui tutti i 630 dipendenti avessero bisogno di tutti i quattro anni di mobilità per raggiungere la pensione, gli incentivi, secondo le tabelle presentate dalla Fiat, costerebbero circa 20 milioni (31 mila euro per lavoratore). Nelle scorse riunioni la Fiat si era detta disposta a mettere sul piatto 17 milioni. Ne mancavano 3 e a quel punto la Regione Sicilia ha annunciato, provocando non poche polemiche, che avrebbe provveduto lei. Ma nell´ultimo incontro si è avuto un colpo di scena: la Fiat ha annunciato che dei 17 milioni messi sul tavolo, 7 non sarebbero serviti per gli incentivi ma per i costi di chiusura tombale dei rapporti di lavoro (mancato preavviso, clausole di rinuncia a rivalse ecc.). A questo punto mancavano all´appello 10 milioni. Nelle ultime ore, dopo contatti informali tra Passera e Torino, la situazione si sarebbe modificata: la Fiat metterebbe oltre 21 milioni, più che sufficienti secondo il calcolo originario, ancora insufficienti in base ad un secondo calcolo con i costi di chiusura proposto dalla Fiat. Oggi la trattativa servirà a chiudere i conti. Tra i costi che sopporterà la Fiat c´è anche la cessione gratuita dello stabilimento e, forse, di una parte degli impianti.
Intanto in Sicilia la situazione continua ad essere molto tesa. Parlando alla Radio Vaticana il vescovo di Palermo, Paolo Romeo, ha chiesto che la politica non sia indifferente perché «la chiusura di Termini Imerese rischia di far aumentare la criminalità organizzata nel Sud» (parole condivise da Ignazio Marino, Pd). I dipendenti dello stabilimento continuano a presidiare i cancelli impedendo l´uscita delle bisarche con le ultime Y prodotte l´altro ieri.
La realtà della cassa integrazione non riguarderà nei prossimi mesi i soli dipendenti dello stabilimento siciliano. Una conferma viene dal sito Linkiesta che ieri ha stimato in 300 mila le vetture che verranno tagliate negli stabilimenti Fiat nel 2012 rispetto alle previsioni di 12 mesi fa.
Il Corriere della Sera 26.11.2011
Vertice «segreto» con i tre leader Imbarazzo nei partiti, Idv all'attacco
di Monica Guerzoni
ROMA — La storia del vertice notturno, del tunnel sotterraneo che collega Palazzo Madama a Palazzo Giustiniani e dei tre leader, Alfano, Bersani e Casini, che lo percorrono in gran segreto per incontrare il premier, ha fatto imbufalire Antonio Di Pietro. E non solo. Nei partiti cresce l'imbarazzo per le modalità di «consultazione» al vertice, c'è chi lamenta l'esclusione e chi teme ricadute negative sul piano della comunicazione. Perché non incontrarsi alla luce del sole, rivendicando il sostegno all'esecutivo? Perché alimentare, sia pure involontariamente, ricostruzioni con contorni da spy story, rischiando che la «diplomazia del tunnel» appanni lo smalto del presidente? Come dice Paolo Gentiloni, Pd, Monti dovrà «trovare il modo di interloquire con le forze politiche senza dare l'idea che esistano supergabinetti segreti». Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli alla Camera, invita i leader «a non nascondersi dietro bizantinismi» e, da destra, Giuliano Ferrara è ancor più drastico. Sul Foglio il direttore satireggia una «maggioranza tripartita che si vergogna di esserlo».
Il «giallo» del summit segreto, intanto, può dirsi svelato. Giovedì sera il premier ha incontrato i leader di Pdl, Pd e Terzo polo per parlare di misure economiche e di sottosegretari, ma una giornata di smentite ufficiali e conferme ufficiose ha acceso la polemica. «Non ci sono vertici, c'è il vertice che è il premier», scrive Casini su Twitter e spiega di essere stato «contattato singolarmente» dal professore. E come il leader dell'Udc smentiscono vertici sia Alfano che Bersani. Ma Stefano Menichini, direttore di Europa, annota su Twitter: «La brutta notizia del vertice, non perché l'hanno fatto ma perche si sono nascosti». Finché a sera l'ufficio stampa di Palazzo Chigi conferma «contatti continui» con i partiti, che avvengono «ogni giorno e in varie forme». Lo sa bene Di Pietro, che è rimasto fuori dal portone di Palazzo Giustiniani e scatena i suoi contro il rendez-vous dell'«inedita maggioranza». Massimo Donadi: «Ciò che non è tollerabile è la segretezza, che offende il Parlamento e i partiti». Silvana Mura: «Monti chiuda la vicenda». Quale sia il nodo lo spiega Felice Belisario, quando contesta «omertà e inciuci» e avverte: «L'Idv ha votato la fiducia a un governo tecnico. Se fosse confermato che si lavora a una maggioranza politica, arrivederci e grazie...».
Il Corriere della Sera 26.11.2011
Il Papa «avverte» i cristiani in politica: la fede sia solida
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — «A volte ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell'economia risultasse più incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede». Benedetto XVI chiede «una testimonianza trasparente», ai fedeli impegnati nella pólis. Il Papa, che ha più volte invocato una «nuova generazione» di cattolici in politica, esige autenticità. Come quando in Germania a settembre, e il mese dopo ad Assisi, aveva elogiato gli «agnostici» che «a motivo della questione su Dio non trovano pace» e «sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine».
Tanto più che «la crisi che stiamo vivendo oggi» è «di significato e di valori, prima che economica e sociale», ha spiegato ieri nell'udienza al pontificio Consiglio per il laici. Il tema è quello dell'eclissi di Dio, specie nella «vecchia Europa», la priorità del suo pontificato: la crisi, ha detto Benedetto XVI, nasce perché «una mentalità che è andata diffondendosi nel nostro tempo, rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l'umano». Riflessioni riprese dal cardinale Angelo Bagnasco, ricevuto dal Papa come vicepresidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee: «Se l'economia, la politica, la vita sociale perdono la connessione con l'etica, si sfalda tutto, anche la composizione dello Stato». E il cardinale di Budapest Péter Erdö, presidente dei vescovi europei, in tema di crisi: «Si è perso il senso della dignità del lavoro che è fondata sulla stessa dignità umana della persona». Non a caso, su Termini Imerese, Radio Vaticana ha titolato: «Chiude la Fiat in Sicilia. Urgente la presenza dei cattolici in politica». Fra i cattolici, del resto, continua ad esserci fermento. Tra il «clerico-moderatismo» a destra e «blocco conservatore» a sinistra, il Movimento cristiano lavoratori chiede a Casini di «sciogliere l'Udc» e lavorare a una nuova forza politica. Mentre Mimmo Delle Foglie, già coordinatore del Family Day, su Radio Vaticana diceva che «si sta preparando il manifesto di Todi per rimodulare la vita economica dell'Italia tra Stato, mercato ed economia civile».
Di certo, è significativo che la Chiesa abbia voluto fare della beatificazione di Giuseppe Toniolo un evento nazionale: Benedetto XVI ha disposto che l'economista cattolico (1845-1918) sia proclamato beato domenica 29 aprile 2012 e la cerimonia — anziché a Pisa — si svolga a Roma nella basilica di San Paolo fuori le mura. È il segno che la Cei lo indicherà come figura esemplare dell'impegno sociale e dello stile di un fedele: una «guida» verso quella «religio del bene comune» cara a Bagnasco.
Il Corriere della Sera 26.11.2011
La città ideale di Platone femminista ma non troppo
Prospettando nella sua Repubblica uno stato ideale, Platone affida il potere a un gruppo di «guardiani» della costituzione, abolendo la famiglia e la proprietà. Le donne, scrive, devono essere comuni a tutti, i figli devono essere comuni, i genitori non devono sapere chi sono i loro figli, i figli chi sono i loro padri (Resp., V, 457 d). Le donne, liberate dal loro ruolo familiare, devono essere inserite nella città e collaborare con gli uomini alla gestione del progetto politico. Devono essere educate come i maschi, utilizzate nella polis allo stesso modo degli uomini, svolgendo compiti identici: possono essere medici o «amanti della sapienza» e, come gli uomini, possono essere «guardiane» (Resp., V, 451 c-457 b, 466 e-467 a). Un progetto — si è detto — che concedeva alle donne le stesse opportunità degli uomini: Platone era dunque un femminista ante litteram. Un'opinione, a dire la verità, a dir poco discutibile. Limitiamoci a una delle tante citazioni, sempre dalle opere del nostro autore, che svelano quello che egli pensava del sesso femminile. Nel Timeo leggiamo che «l'uomo che vive bene il tempo che gli è stato assegnato, tornato nell'astro dal quale proviene, vi condurrà una vita: ma chi fallisce in questo, nella seconda nascita cambia la sua natura in quella di una donna. E se ancora persevera nella sua malvagità, a seconda del modo della sua corruzione assume ogni volta la natura di una qualche fiera» (Tim., 42 b-c39). Più precisamente: «Quelli che, essendo nati uomini, sono stati codardi e ingiusti, probabilmente nella seconda generazione hanno assunto natura di donne, secondo il progetto di quelli che ci crearono», i quali «sapevano che dagli uomini sarebbero nate le donne e gli altri animali». (Tim., 76 e; Tim., 90 e).
Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
A domanda rispondo: Milano e il fascismo che torna
di Furio Colombo
Caro Furio, ti scrivo per mettere te e chiunque sia utile al corrente della nuova provocazione del Pdl lombardo a proposito dell’appoggio a gruppi neofascisti. Il 3 dicembre a Palazzo Isimbardi, una delle sedi ufficiali della Provincia di Milano, è organizzato un convegno con l’organizzazione neofascista Casa Pound e il capogruppo in Provincia del Pdl. Già il mese scorso a Milano, in pieno centro, abbiamo assistito a un presidio di Forza Nuova contro “il complotto giudaico massonico”. È forse il momento di non essere più disattenti.
Leon
Ho voluto pubblicare questa lettera perché mi sembra indispensabile che la notizia sia conosciuta subito in modo da non fornire alibi a chi vorrebbe o avrebbe voluto fare qualcosa, ma non lo sapeva. Qualcosa significa prima di tutto che le istituzioni pubbliche di una città come Milano non possono diventare circolo culturale di gruppi che fanno aperta dichiarazione di radici, provenienza ed eredità fascista. Come è già accaduto in passato, la crisi economica, che appare anche a causa del cattivo governo che abbiamo avuto, una crisi della democrazia, sia un ottimo pretesto per dare nuova e sfacciata visibilità all’idea fascista come via d’uscita. E il dramma che l’Europa sta vivendo viene definito, senza più residuo pudore, “giudaico-massonico”. I nuovi (purtroppo antichi) predicatori si rendono conto che si può ottenere qualche deviata attenzione anche a sinistra chiamando in causa l’antisemitismo, usando la vecchia formula fascista, che ha portato violenza e strage. Nessuno vuole sopravvalutare i militanti di Casa Pound, che non hanno, per fortuna, né forza né testa. Nessuno si meraviglia del comportamento di esponenti del Pdl. Non avevano forse accolto il peggio del fascismo marginale nelle liste della Casa della libertà al tempo delle ultime elezioni? Ma la Storia ci ha insegnato (pensate ai tempi prenazisti della Repubblica di Weimar) che personaggi marginali, fortemente indottrinati e debitamente facilitati, hanno a volte un ruolo importante per chi si tiene pronto e a distanza. Per questa ragione la lettera di Leon è stata indirizzata anche a Emanuele Fiano, il deputato Pd che a Milano è tra i leader più attivi e vigili sul problema del fascismo che torna. Leon rappresenta persone giovani e giovanissime, università e scuole medie. Hanno fiducia e non dobbiamo deluderli.