giovedì 9 giugno 2011

l’Unità 9.6.11
«Voto alle 10 di mattina
E fatelo tutti: contro gli imbrogli del premier»
Le ragioni del segretario Pd «Altro che inutile: sul nucleare il decreto del governo lascia loro mani libere per fare tutte le centrali che vogliono...»
di Simone Collini


«Io vado a votare alle 10 di domenica mattina», dice Pier Luigi Bersani invitando dirigenti, militanti e simpatizzanti del Pd a fare altrettanto. È chiaro che il dato sull’affluenza alle urne dato dai tg dell’ora di pranzo sarà determinante per il raggiungimento del quorum. «È molto importante incoraggiare tutti ad andare a votare, noi dobbiamo dare un segno immediato di fiducia nella partecipazione».
Nonostante siano 16 anni che non si raggiunge il quorum? «È arduo, siamo i primi a saperlo, ma ne abbiamo già superate di prove ardue».
Si vince facile, come disse di Milano?
«L’obiettivo può essere raggiunto, innanzitutto per il merito dei quesiti. Si toccano temi su cui c'è una straordinaria sensibilità. A partire dalla questione nucleare». Berlusconi dice che è un voto inutile, visto che il governo col decreto omnibus ha già bloccato il piano. «Si tratta di un imbroglio, smascherato dalla Cassazione. Nella sentenza c’è scritto che la pezza che hanno cercato di mettere per evitare il referendum leggo “in realtà amplia le prospettive e i modi di ricorso alle fonti nucleari”. Una conferma di quella norma lascerebbe al governo mani libere, senza limite di numero di centrali e di criteri per l’individuazione dei siti».
Dice che interessi ai cittadini anche abrogare il legittimo impedimento? «Dico che per la prima volta gli italiani hanno la possibilità di affermare che la legge è uguale per tutti. Le norme in vigore già prevedono di ovviare a problemi di impedimento reale ad andare in un tribunale, non c'è nessuna ragione per inventarsi scorciatoie per chicchessia». Parliamo dei quesiti sull’acqua: dal centrodestra la accusano di aver cambiato idea sulla privatizzazione. «Questa gente confonde il concetto di privatizzazione con quello di liberalizzazione. La norma Ronchi obbliga la privatizzazione. Costringe a vendere, quindi a svendere perché quando si è costretti il prezzo lo fa chi compra, le società pubbliche. Tutte le pratiche di liberalizzazione che ho fatto io, dall’energia alle ferrovie, non hanno mai previsto l’obbligo di privatizzare. A me le gare vanno benissimo, non vedo cosa c’entri questo con l’obbligo di privatizzare. Sapendo anche che il privato non trasforma l’acqua in vino. Non sono d’accordo però neanche con chi sostiene il contrario».
Ci sarà una manifestazione a Piazza del Popolo: lei sarà sul palco? «Sarò sotto al palco, ora c’è bisogno del protagonismo della società. È importante che milioni di persone diano un ulteriore segno che il vento è cambiato, e il Pd come ha fatto in questi mesi deve mettersi al servizio della riscossa civica, deve dare una mano e dare la mano ai movimenti». Che ne pensa dei ministri che annunciano che non andranno a votare? «Ne penso tutto il male possibile. Chi assume responsabilità di governo, chi giura sulla Costituzione, ha anche dei doveri civici».
Però saranno anche liberi di dare al loro elettorato indicazioni di comportamento, non crede? «Penso che non pochi elettori di centrodestra vogliano esprimersi, e veder valere il loro voto».
Questo referendum secondo lei avrà conseguenze politiche? «Ce n’è già di avanzo perché questo governo vada a casa. Certamente, se c'è una grande partecipazione verrà confermata un'esigenza di cambiamento. Per quanto ci riguarda, anche se Berlusconi continuerà ad esercitarsi in tecniche di sopravvivenza, noi chiederemo le dimissioni di questo governo. Come stiamo facendo da qualche mese a questa parte». Dice che anche il vertice notturno tra Berlusconi, Bossi e Tremonti punti a tecniche di sopravvivenza? «Non sarà un vertice notturno a risolvere problemi che per mesi hanno negato. Non hanno messo mano a nessuna riforma in grado di promuovere la crescita. E invece sento Berlusconi parlare di allargare i cordoni della borsa, di abbassare delle tasse. Ma di cosa parla?».
E se invece arrivasse veramente in Parlamento una riforma fiscale? «Siamo seri, si può distribuire diversamente il carico fiscale se si vuole maggiore equità e un po’ di crescita. E distribuire equamente vuol dire caricare di più sull'evasione e sulle rendite finanziarie e da patrimonio, e cominciare ad alleggerire il carico su impresa e lavoro. Se si aprisse mai un discorso serio, io sono pronto a sfidare il governo, ad aprire un confronto in Parlamento a partire dalle nostre idee. Ma se vengono fuori palloni miracolistici alla Berlusconi no, non ci faremo prendere in giro. D’altronde, l’esempio di queste ore è il federalismo. I Comuni, come dicemmo mesi fa, stanno applicando sistemi di sovratassazione che derivano dai tagli decisi dal governo». Qualcosa l’inventeranno per rilanciare dopo la sconfitta, non crede? «Veramente per ora il Pdl parla di primarie, di un segretario anziché tre coordinatori, di tutto fuorché dell’Italia. È impressionante il tipo di discussione che fanno. Come può non venirgli in mente di domandarsi se abbiano sbagliato qualcosa, sul piano della democrazia, su quello economico e sociale. Niente. Neanche nella sconfitta riescono a parlare dei problemi della gente».
C’è chi scrive che per Berlusconi Tremonti punta al Colle con i voti del Pd. «Non so se sia vero che attribuisca a Tremonti una cosa così fantasiosa. Pur conoscendo la fantasia del ministro dell’Economia, questa mi sembra francamente troppo».
Dice vendola che è inadeguata la forma partito e che Pd, Sel e Idv dovrebbero dar vita a un soggetto nuovo.
«Il tema di superare la forma partito era di molti anni fa. Il tema di oggi è qual è la nuova forma partito. E noi lavoriamo sul Pd. Dopodiché, ricordo che io un anno fa ho proposto un nuovo Ulivo. Chiamiamolo anche in modo diverso, ma dobbiamo lavorare a un avvicinamento tra le forze di centrosinistra che intendono impegnarsi in una nuova prospettiva di governo, e fare in modo che questo rapporto venga percepito anche come una soggettività. Ma questo non può essere disgiunto dai problemi, quindi dobbiamo rassicurarci che quando parliamo di riforma del fisco, lavoro, precarietà, democrazia, politica estera, stiamo dicendo cose esigibili da chi ci deve votare. Ogni possibile riapertura di cantieri può partire solo da questo, da una credibile e positiva esperienza di governo. Altrimenti, facciamo del politicismo. E il Paese non lo capirebbe».

La pagina Facebook: “dare” un passaggio a chi vuol votare
VAI    Hai bisogno di un passaggio per andare a votare? Nessun problema: un servizio taxi gratuito ti porterà al seggio e riporterà a casa. Sono tantissimi quelli che in tutta Italia hanno aderito all’iniziativa, offrendo la loro disponibilità a tutte quelle persone che altrimenti non riuscirebbero a votare. Per partecipare c’è la pagina Facebook e l’indirizzo mail battiquorum2011@gmail.com.

il Riformista 9.6.11
Nord-Est e Centro trainano il quorum
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/57427285

Repubblica Roma 9.6.11
A tre giorni dalla consultazione, cresce nel centrodestra il fronte dei favorevoli alle urne. Rampelli: "Bocciare l'atomo è un´opportunità"
Referendum, in piazza per il Sì
Domani in piazza del Popolo un concerto lungo nove ore. Ed è record di happening per invitare al voto


Non si ferma la corsa verso il quorum per i referendum di domenica e lunedì. A Roma prosegue la mobilitazione in tutta la città, tra manifestazioni, volantinaggi, cortei e flash mob. Per oggi è prevista una corsa dal Ghetto fino a Montecitorio: la particolarità è che i partecipanti saranno tutti nudi. Domani la chiusura della campagna sarà in piazza del Popolo, con un concerto-evento di 9 ore. Artisti e attori si alterneranno sul palco che, invece, resterà off limits per i politici. «Puntiamo al quorum - affermano gli organizzatori - sarà una grande festa della partecipazione».
Nove ore di concerto, 23 artisti, 9 ospiti tra attori e scrittori, cinque web tv collegate in diretta e 50 tv locali che trasmetteranno l´evento. Sono questi i numeri del concerto che domani, a partire dalle 14.30, segnerà la chiusura della campagna per i referendum del 12 e 13 giugno. Il palco giallo («Rigorosamente a basso impatto ambientale», avvertono gli organizzatori) allestito in piazza del Popolo sarà off limits per i politici. I leader dei partiti che sostengono il Sì ai 4 quesiti resteranno sotto, mescolandosi tra il pubblico. «Questa non è un´iniziativa del centrosinistra - ha spiegato Alessio Pascucci del comitato organizzatore - ma una grande festa della partecipazione». Lo slogan della manifestazione sarà "Io voto". L´obiettivo, infatti, è proprio il raggiungimento del quorum. Obiettivo fallito in tutte le consultazioni dal 1995 in poi e per il quale, nelle ultime settimane si è sviluppata una grande mobilitazione a Roma e in tutta Italia.
Le varie iniziative che continuano anche oggi in città culmineranno tutte con il concertone di domani, ultimo appuntamento prima delle 24 ore di "silenzio" elettorale che precede l´apertura delle urne. Domani si andrà avanti fino alle 23.30. Sul palco si alterneranno 23 artisti: dai Quintorigo ai Velvet, dal Piotta a Teresa De Sio, da Francesco Baccini agli Area, da Eugenio Finardi a Frankie Hi Nrg. E poi, ancora, Nathalie, Nada e gli Zen Circus, i Tetes de Bois, Brusco, Andrea Rivera e gli Yo yo mundi. Tutti hanno dato gratuitamente il loro contributo e così hanno fatto anche gli ospiti che interverranno durante la giornata (gli scrittori Enrico Brizzi e Piergiorgio Odifreddi e Moni Ovadia e le attrici, Amanda Sandrelli e Simona Marchini).
E se il concerto di domani è volutamente «apartitico», in questi giorni le forze politiche si sono spese per la campagna elettorale. Sia a sinistra che a destra, sono state numerose le iniziative per invitare a votare Sì ai quesiti. Come hanno fatto ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli e il deputato del Pdl Fabio Rampelli. Una "strana coppia" che ha volantinato per il Sì davanti a Montecitorio. La convergenza è stata trovata solo su 3 quesiti: quello sul nucleare e sui due per l´acqua pubblica. Messo da parte, invece, quello sul legittimo impedimento. E, a sorpresa, voteranno Sì al referendum sull´atomo, anche Luca Malcotti, assessore regionale, Roberta Angelilli, eurodeputata e i giovani dell´"Officina futura". Tutti del Pdl.

Repubblica 9.6.11
La virtù contagiosa del dissenso
di Nadia Urbinati


Qualcosa sta probabilmente cambiando nella politica italiana, e un assaggio di questo mutamento lo si è avuto con le elezioni amministrative. Abbiamo già messo in luce la grande novità rappresentata dall´uso dei media online per aggirare il macigno delle reti televisive e del loro silenzio censorio sui problemi e le condizioni della società italiana. Si tratta non soltanto di un mutamento negli strumenti, ma anche nello stile della politica.
Dalle roboanti e rozze abitudini dei politici a usare la parola come arma di offesa e a praticare il killeraggio sistematico della personalità dell´avversario, a un modo incivile di fare politica al quale questa maggioranza ci aveva abituato, a questi fenomeni di imbarbarimento della comunicazione pubblica i cittadini hanno risposto con una girate di spalle. Preferendo leader che parlano poco e quasi sottovoce, campagne elettorali sobrie e senza teatralità, focalizzate sui contenuti invece che sulle frasi fatte. Mentre i leader della maggioranza riempivano il teatro della politica coi loro faccioni sorridenti a rassicurare del futuro, i cittadini andavano alla ricerca di quei candidati che finalmente parlassero di loro, dei problemi del loro quotidiano, dalla disoccupazione, al degrado delle periferie, alla solitudine dei più deboli. Il voto ha rovesciato un ordine del linguaggio e ha messo in luce uno scollamento radicale tra la politica politicata e la politica ordinaria e vissuta. Non contro la politica, quindi, ma contro la politica in uso presso la classe dirigente ufficiale e di governo. Il voto é stato un formidabile atto di disobbedienza: un NO fragoroso a tutto quanto é stato propagandato dall´ufficialità. Una disobbedienza al messaggio politico e ai disvalori della maggioranza. Un´espressione di dissenso forte e radicale tanto quanto radicale é apparso essere il bisogno di moderazione dei toni e dello stile dei politici. E il referendum si appresta ad essere, c´è da giurarsi (e da augurarsi), un secondo round, un altro tassello di questa opera di ricostruzione della dignità della politica. L´uso del diritto di voto come un arma potente per ricordare a chi lo avesse dimenticato dove sta la fonte della legittimità democratica.
La virtù del dissenso, forse la sola virtù che la democrazia coltiva, tende a essere contagiosa e può travalicare i confini dell´opposizione, nella quale si trova più naturalmente accasata. Questo mutamento di clima e l´apertura di nuove possibilità sono un segno di come l´opinione nella democrazia possa variare e mettere in discussione posizioni ideologiche e lealtà a leader e a partiti. Un voto, scriveva Engels, é come "un sasso di carta", un´arma non violenta che riesce a mandare al tappeto l´avversario. È la registrazione inconfutabile della mutabilità dell´opinione, un aspetto che non piace ai conservatori ma che dá il senso del gioco sempre aperto che la democrazia garantisce. Il dissenso é figlio della sovranità del giudizio individuale; non ha solo una funzione negativa, come reazione al potere della maggioranza, ma anche positiva, come affermazione di dignità e autonomia. Ancorché corrodere i sentimenti sociali, rafforza la solidarietà e la cooperazione tra i cittadini poiché come tutti ben sappiamo, discutiamo e ci appassioniamo (e quindi anche dissentiamo) per cose che amiamo e alle quali siamo legati da vincoli profondi.
È probabile che questo spirito di libertà e di dissenso filtri oltre le fila dell´opposizione. A giudicare dalle frenetiche dichiarazioni del dopo voto seguite da una foga riorganizzativa molto eloquente del clima di crisi che si respira al di là della cortina che sigilla le istituzioni dalla società si direbbe che la stessa maggioranza sia stata investita dal vento del dissenso. Pdl e Lega si sono interrogati sulla posizione da tenere circa i referendum, molti di loro hanno messo in conto di poter andare a votare, e si sono spesi perfino in considerazioni su come votare per alcuni dei referendum, e in particolare quello contro l´installazione delle centrali nucleari. Se l´inquilino di Palazzo Chigi ripete che sono referendum inutili e senza senso (proprio perché di senso ne hanno tanto, e non solo simbolico visto che tra i quesiti c´è quello sulla famigerata legge che istituisce il legittimo impedimento) molti dei suoi alleati sono meno certi di lui e sembra anzi che considerino importante andare a votare. Anche questi sono segni eloquenti che qualcosa sta cambiando, malgrado l´assicurazione del nuovo responsabile Pdl che nulla cambia e che tutto si rinsalda, come prima, più di prima. Ma così non pare che sia se é vero che nemmeno le televisioni riescono a mettere sotto silenzio l´informazione sul diritto sovrano che si eserciterà il 12 e 13 giugno. Questi sfilacciamenti del regime di consenso-obbedienza sono un segno degli effetti salutari del dissenso-disobbedienza; dell´importanza che esso svolge nel tenere sveglia la consapevolezza della forza della cittadinanza, capace di mettere in serissima discussione maggioranze che si pensavano granitiche.

Corriere della Sera 9.6.11
Riforma all’ungherese La mossa di Bersani per sedurre i leghisti «Sistema elettorale misto» . Veltroniani scettici
di Monica Guerzoni


ROMA — «L’Italia non può permettersi altri due anni così, provare ad agganciare Bossi per sganciarlo da Berlusconi è un obbligo...» . Enrico Letta è da tempo, tra i democratici, il teorico dell’asse con la Lega, ma con un pizzico di sano realismo il vicesegretario del Pd ammette che «il pertugio è stretto» e che «grandi margini di manovra non ce ne sono» . Eppure i vertici del Pd sono determinati a giocarsela, presentando a tempo di record una proposta di riforma della legge elettorale. E se è vero che, il 2 giugno al Quirinale, Roberto Maroni avrebbe confidato a Bersani di esser pronto ad archiviare il berlusconismo in caso di sconfitta ai referendum... Di questo discuteranno oggi stesso i big del Pd al coordinamento delle 9.30. Sul tavolo delle riforme ci sarà la bozza di Gianclaudio Bressa per la modifica del «porcellum» , il sistema attualmente in vigore per le elezioni politiche. «È un sistema uninominale a doppio turno con recupero proporzionale — spiega l’onorevole —. Un sistema misto in cui il maggioritario è prevalente» . Qualcuno lo ha chiamato modello ungherese, ma Bressa smentisce: «Quello ungherese è solo uno dei tanti sistemi misti che esistono, dal Messico alla Russia» . Ungherese o no, il sistema allo studio è un punto di svolta per il Pd, rimasto a lungo in bilico tra il maggioritario alla francese deliberato dall’assemblea nazionale e il proporzionale alla tedesca, caro a Massimo D’Alema. Ora, però, il quadro è cambiato e l’urgenza del Pd è scovare un sistema gradito a Bossi e non sgradito a Casini. «Con il francese il governo si decide prima del voto, mentre con il tedesco gli accordi si fanno dopo — spiega il costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti —. L’ungherese è una via di mezzo, ma se dovesse pendere verso il tedesco si aprirebbe un problema politico» . I veltroniani sono scettici. Walter Verini ricorda che «la via maestra è battere il governo con una proposta alternativa» . E Salvatore Vassallo dubita che il Pd possa lanciare un sistema che ricordi, sia pure alla lontana, quello in vigore in Ungheria: «È noto per essere il più complicato del mondo, ha avuto esiti bizzarri e imprevedibili...» . Il dibattito è aperto, ma Beppe Fioroni lo giudica prematuro. Per l’ex ministro, con Veltroni e Paolo Gentiloni uno dei leader della minoranza di Modem, legge elettorale e riforma della giustizia sono temi per il dopo— Berlusconi: «Stiamo attenti, la legge elettorale rischia di essere lo strumento con cui si consente al governo di sopravvivere. Discuterne con il centrodestra è sbagliato» . Walter Veltroni rilancerà la sua proposta di primarie obbligatorie per legge, depositata in Parlamento a marzo. E la discussione — presenti tra gli altri D’Alema, Franceschini, Letta, Bindi, Finocchiaro, Violante— si annuncia animata. Francesco Boccia, deputato vicino a Letta, è convinto che la strada di un abboccamento con la Lega vada percorsa fino in fondo: «La modifica della legge elettorale sarebbe l’unica vera prova di una svolta del Carroccio, ma ci sono anche altre battaglie che si possono fare assieme» . La proposta di Reguzzoni di regionalizzare l’Anas non dispiace al Pd e anche tanti emendamenti leghisti al decreto sviluppo sono, a detta di Boccia, «condivisibili» . Sul fronte alleanze, il problema del Pd si chiama Nichi Vendola, che sul Corriere ha lanciato il partito unico tra Pd e Sel. «Narrazione surreale» , boccia l’idea il senatore Marco Follini. E Fioroni, che pure giura di non avere pregiudizi su Vendola, rinvia la questione: «Di laboratorio si può parlare, ma non c’è urgenza» . Sempre oggi, alle Officine Farneto di Roma, Bersani e Letta incontrano gli studenti al convegno «Italia 110. La nuova Italia nasce all’università» .

Repubblica 9.6.11
Bersani premier
Marini boccia anche riedizioni dell’Unione: fu un incubo. Ma fa autocritica sulle primarie e rilancia la patrimoniale
"Abbiamo vinto, non torniamo indietro no alla fusione Pd-Sel, restiamo riformisti"
Bersani è  il candidato giusto per la premiership, con lui abbiamo fatto passi avanti. L´ha detto anche Di Pietro
di Giovanna Casadio


ROMA - «Per me è un incubo ripensare al 2005-2006: vincemmo le regionali e poi ci fu la "finta" vittoria delle politiche. Perciò quando sento che c´è chi vuole di nuovo confondere le acque in liste uniche con Vendola e Di Pietro o in un partito di Democratici più Sel, mi chiedo perché dovremmo rigirare la testa all´indietro proprio ora che il Pd finalmente c´è e abbiamo vinto un primo round». Franco Marini nel 2006 era presidente del Senato quando Prodi era al governo con l´Unione. Non è disposto a concedere a quella stagione nessun rimpianto.
Presidente Marini, le amministrative sono state il segnale di una riscossa civile. Se il Pd si chiude non rischia di arretrare?
«Chi ci ha votato non ci ha sentito chiusi. Dobbiamo certo intercettare il cambiamento e coltivare la riscossa civile. Uno vecchio come me è del tutto convinto che dobbiamo stare con i giovani. Però non posso dimenticare l´esperienza dell´Unione, messa insieme in modo poco chiaro, con un programma fatto di gentilezze e di cedimenti reciproci. Non dobbiamo tornare indietro dall´idea e dalla fatica di un partito riformista».
Ha vinto il Pd in questa tornata di voto locale o ha perso Berlusconi?
«È stato dato vero riconoscimento al nostro lavoro. Chi ha cercato di sminuire la nostra vittoria è stato tacitato. È stata una vittoria politica anche perché Berlusconi ha avuto l´imprudenza di dire: "Contiamoci". Il Pd è una filosofia nuova nella storia politica italiana. E nel momento in cui ci sono da affrontare una crisi economica difficile, una condizione giovanile insostenibile, una crescita insufficiente, noi dovremmo abbandonare il partito riformista per tornare a una sinistra per di più inquadrata nella gloriosa - lo dico senza ironia - socialdemocrazia europea? È una posizione bizzarra. O il segno di una leggerezza del pensiero politico che ha toccato pure noi».
E quindi lei è preoccupato?
«Solo in parte. Perché Bersani nella riunione della direzione è stato chiaro. Il Pd non è il centro più la sinistra: noi siamo il centrosinistra tutto unito, la ricerca di una cultura nuova. Abbiamo vinto: la perdita di amore per la destra è anche merito nostro. E io, che non amo i personalismi, devo dire che il merito è largamente di Bersani. In giro per l´Italia ho visto un partito che ha la capacità di darsi una struttura e che ha aperto un dibattito sulle questioni che interessano gli italiani. Non è che abbiamo fatto miracoli, ma passi avanti sì».
È vero che senza il Pd il centrosinistra non vince. Però senza Pisapia a Milano e Zedda a Cagliari, entrambi vendoliani, oltre a De Magistris di Idv a Napoli, avreste perso.
«Ma la larga maggioranza di amministratori con cui abbiamo vinto sono del Pd. Per Milano riconosco che non avevamo capito subito che Pisapia era il candidato più forte. Bisognerebbe che il Pd alle primarie fosse meno innamorato del candidato di bandiera. De Magistris e Napoli sono un caso particolare: lì occorreva qualcuno che mostrasse grande decisione e desse il segnale della rottura con il passato».
Viva le primarie, quindi?
«Le primarie non mi piacevano, faccio un po´ di autocritica: si sono mostrate uno strumento importante che funziona, occorrono regole chiare».
Allora anche Bersani dovrà confrontarsi in primarie per la premiership del centrosinistra?
«Agli altri partiti direi: tranquilli, Bersani è il candidato giusto e vedo che Di Pietro l´ha detto a metà. Comunque se la coalizione vorrà, non mi metterei di traverso»
In definitiva lei a quali alleanze pensa?
«Il Pd deve fare le sue alleanze ovviamente a partire dallo schieramento di opposizione, sia con chi sta alla nostra sinistra che con chi sta al centro, ma senza restringere il proprio ambito di rappresentatività. Rivolgendosi quindi a tutte le aree della composita società italiana. Costruendo un programma in dieci cartelle con impegni precisi e operativi. Le priorità sono la difesa del lavoro, specie per i giovani, e il sostegno alle industrie. Per questi obiettivi, sul piano personale, sarei favorevole anche a una patrimoniale».

La Stampa 9.6.11
Santa Maria Capua Vetere
Scontri tra immigrati e polizia. Centro di accoglienza in fiamme
Versioni discordanti sugli incidenti all’interno del Cie


Scontri, feriti, tende incendiate. Caos e devastazione, martedì notte, al Centro di identificazione ed espulsione di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Fatti «gravi» in virtù dei quali la Procura ha disposto il sequestro probatorio dei luoghi dove sono avvenuti gli incidenti.
Un’inchiesta, quella aperta, che vuole far luce su quanto accaduto e identificare, così, i responsabili. Una notte lunga, quella al Cie di Santa Maria Capua Vetere. Piena di tensioni. Una notte che viene ricostruita in maniera diametralmente opposta dalla polizia, da un lato, e dall’Arci e dalla Rete antirazzista campana, dall’altro. Secondo la polizia nel centro qualcuno dei circa 90 immigrati attualmente ospiti, avrebbe appiccato il fuoco ad alcune tende e con i supporti in ferro delle stesse avrebbe tentato di fuggire forzando il blocco delle forze dell’ordine. Negli scontri, ricostruiti dal questore di Caserta, Guido Longo, sono rimasti contusi e feriti cinque tra poliziotti e carabinieri. Feriti anche alcuni immigrati. E poi le fiamme, che hanno distrutto circa 10 tende e i servizi igienici.
Altra versione invece quella fornita dalla Rete antirazzista e dall’Arci. Secondo loro, e soprattutto secondo quanto denunciato da otto immigrati tunisini al numero verde per richiedenti e titolari di protezione internazionale dell’Arci, gli scontri sarebbero nati dalla protesta di un ragazzo. Un tunisino a cui è stata negata la possibilità di uscire dal centro per tornare in Tunisia dopo aver appreso della morte del fratello. Gli immigrati avrebbero protestato e la polizia avrebbe reagito con il lancio di lacrimogeni che avrebbe, poi, incendiato le tende. Non solo. Sempre secondo quanto denunciano l’Arci, la Rete antirazzista e anche alcuni sindacati, diversi immigrati si sono resi vittime di atti di autolesionismo, ingerendo pezzi di vetro e candeggina. Quel che è certo, e il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, lo conferma in pieno, è che il centro è ora devastato. Il sequestro probatorio servirà ad acquisire elementi e tracce dei reati commessi. Ora resta da capire se gli immigrati resteranno ospiti nel Cie o se, in seguito a quanto avvenuto, saranno trasferiti altrove.

il Fatto 9.6.11
Ma quale Stato sociale
In tre anni i principali capi di spesa del welfare tagliati del 78 per cento
di Salvatore Cannavò


“Non abbiamo messo le mani in tasca agli italiani”, ha sempre detto Silvio Berlusconi. “Non è assolutamente vero”, dice invece il “Rapporto sui diritti globali”, presentato ieri mattina dalla Cgil e redatto assieme a un nutrito gruppo di associazioni come Arci, Gruppo Abele, Legambiente, ActionAid e altre. In tre anni i dieci principali ambiti di spesa pubblica sociale hanno avuto tagli complessivi del 78,7 per cento, passando da 2.5 miliardi di euro del 2008 ai 538 milioni del 2011. Il Fondo per le politiche sociali tra il 2009 e il 2010 è passato da 435 a 380 milioni. E perderà ancora perché il suo ammontare è previsto in 44 milioni nel 2013. Il governo più amato dal Vaticano, per fare ancora un altro esempio, ha ridotto il Fondo per la famiglia dai 346,5 milioni del 2008 ai 185,3 milioni del 2010.
IL FONDO per l'inclusione sociale degli immigrati, varato nel 2007 dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Così come non sono stati più finanziati gli interventi straordinari per i servizi socioeducativi per la prima infanzia: avevano avuto 446 milioni nel triennio 2007-2009 ma dal 2010 non ci sono più. I non autosufficienti, infine, che avevano il Fondo nel 2007, finanziato con 300 milioni nel 2008 e 400 milioni nel 2009, non lo trovano più. Tagli drastici anche per il Fondo di sostegno all'affitto: attivo dal 1998 e amministrato dai Comuni, ha avuto un taglio del 70% tra il 2001 e il 2010 e nel 2011 è stato ridotto a 33 milioni. Gran parte di questi tagli sono passati tramite i Comuni e le Regioni e forse questo c’entra con la sconfitta alle ultime amministrative. Le manovre finanziarie di 14,3 miliardi per il 2011 e 25 del 2012 saranno pagate dagli Enti locali al 40 per cento nel 2011 e al 34 nel 2012. E mentre i Comuni vedono ridotti i trasferimenti dello Stato sono costretti ad applicare addizionali Irpef o utilizzare i tributi locali che infatti sono aumentati del 13 per cento tra il 2004 e il 2008.
Nel Rapporto Diritti globali trova spazio anche l'emergenza casa. Se l’Italia ha il primato dei proprietari di case, che sono l’81,5 per cento delle famiglie, è anche vero che i mutui sono diventati più pesanti. All'inizio del 2010 ne sono stati sospesi 10.281 che a settembre sono diventati 30.868. Notevole anche l'incidenza degli affitti sul reddito: tra il 1991 e il 2009, l'incremento dei canoni di mercato in città è stato del 105 per cento e l’affitto per la casa incide ormai, mediamente, per il 31,2% sul reddito. E se nell’Unione europea per la casa si investe in media il 2,3 per cento della spesa sociale in Italia è lo 0,1. Su famiglia e maternità l’Italia spende il 4,7 contro l’8 per cento nella Ue. Male anche nel sostegno alla disoccupazione: 1,8 in Italia contro il 5,1 per cento della spesa sociale investito in Europa.
MA NON è che l’Europa stia semplicemente bene, anche lì si taglia e anche nella Ue cresce il senso di insicurezza, la paura di perdere il lavoro, la disoccupazione e la riduzione dei servizi sociali. Tanto che gli estensori del rapporto ne ricavano una conclusione drastica: “C’è crisi per tutti e gli Stati europei stanno semplicemente cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli, da una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali e oggi ritenuti un fardello”. Una ristrutturazione radicale del welfare “dopo la quale nulla sarà come prima”. Anche perché – è l’allarme –, si sta affermando la rottura della concezione universalistica del welfare con la convinzione che non ne possano fruire soggetti “non meritevoli”, ma che occorra fare una selezione. Il che comporterà ancora tagli se non si interviene a invertire la tendenza.

Corriere della Sera 9.6.11
Il dialogo difficile tra musulmani e copti per salvare la rivoluzione (e le minigonne)
Egitto al bivio: dalle nuove tensioni interreligiose al cambio dei costumi sessuali
di Sergio Romano


Il 1 gennaio, 24 giorni prima dell’inizio della rivoluzione egiziana, un terrorista suicida si è fatto saltare in aria di fronte alla chiesa dei Santi, in Alessandria, dove si celebrava con il rito copto l’arrivo dell’anno nuovo. L’esplosione ha provocato 21 morti e 70 feriti. Nei giorni seguenti i copti del Cairo hanno dimostrato di fronte alla cattedrale di San Marco, sede del loro capo spirituale, e inscenato una manifestazione contro i rappresentanti del governo che erano venuti a presentare le loro condoglianze a papa Shenuda III. Vi sono stati violenti scontri con la polizia, il presidente Mubarak è apparso alla televisione per denunciare la presenza di «mani straniere» nell’attentato di Alessandria ed esortare alla concordia le due maggiori confessioni religiose del Paese. Poco più di tre settimane dopo, parecchie migliaia di giovani copti e musulmani hanno accolto l’invito, ma lo hanno ritorto contro Mubarak per chiedere insieme la fine del suo regime. Abbiamo assistito da allora, in piazza Tahrir, ad alcune promettenti manifestazioni di riconciliazione religiosa. È apparso un nuovo simbolo: una croce iscritta all’interno di una mezzaluna. Sono stati creati piccoli spazi in cui i fedeli delle due religioni potevano fare le loro devozioni. Abbiamo intravisto un Egitto in cui la minoranza copta (il 10%della popolazione secondo stime ufficiali, fra il 15 e il 20%per coloro che accusano il governo di sottostimarne l’importanza) avrebbe gli stessi diritti civili della maggioranza musulmana, fra cui quello di costruire liberamente le proprie chiese. Ma dal momento in cui la piazza si è svuotata, il clima è andato progressivamente peggiorando. Il 7 maggio alcuni scontri fra copti e musulmani nel quartiere cairota di Imbaba hanno provocato una dozzina di morti, quasi duecento feriti e due chiese in fiamme. L’ 8 maggio i copti hanno formato «gruppi di autodifesa» e organizzato un sit-in di fronte al ministero degli Interni. Il 14 maggio, dopo qualche sparo d’incerta provenienza, copti e musulmani si sono dati nuovamente battaglia e hanno lasciato sul selciato 55 feriti. All’origine di questi scontri vi sono spesso le solite infamie di cui due gruppi religiosi si accusano a vicenda quando vogliono venire alle mani: un bambino rapito, una donna cristiana convertita e trattenuta a forza in una chiesa. Potremmo liquidarli come pretesti di fazioni fanatiche se la caduta del regime di Mubarak non avesse scoperchiato la pentola in cui bollivano vecchi rancori e pregiudizi. I copti si considerano discendenti dei cristiani evangelizzati dall’apostolo Marco durante i suoi soggiorni ad Alessandria, quindi molto più egiziani dei loro connazionali musulmani. E questi trattano i copti, per molti aspetti, nel modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei nelle province polacche dell’impero russo: una combinazione di odio religioso e di invidia per i loro innegabili successi economici. Con un prudente dosaggio di colpi al cerchio e colpi alla botte, il «sistema Mubarak» era riuscito ad accontentare i musulmani senza troppo scontentare i copti. Oggi, in attesa di nuove regole, l’integralismo musulmano riparte all’attacco e l’orgoglio copto si batte in difesa. Le autorità— i militari e il vertice della Chiesa copta — hanno fatto del loro meglio per calmare gli animi. Alla vigilia di Pasqua un generale, in rappresentanza del Consiglio supremo militare, ha visitato solennemente la cattedrale di Santa Maria nel quartiere di Giza e ha stretto calorosamente la mano dei preti e dei notabili copti che lo attendevano di fronte alla Chiesa. Due settimane dopo, mentre copti e musulmani si combattevano di fronte al ministero degli Interni, papa Shenuda ha esortato i suoi fedeli a disperdersi e a tornare a casa. Fra coloro che si sono maggiormente prodigati per la pacificazione degli animi, in questi ultimi tempi, vi è Ahmed El Tayeb, Grande Imam dell’Università di Al Azhar. Lo avevo conosciuto qualche anno fa, quando era rettore dell’Università e vestiva un abito scuro di taglio occidentale. Ora veste un lunga tunica nera e ha il capo coperto da un berretto bianco non diverso da quello di un qualsiasi imam sunnita nell’esercizio delle sue funzioni. Ma è la principale autorità religiosa della più autorevole istituzione accademica dell’Islam, una carica che conferisce alle sue posizioni un prestigio pari a quello del grande Ayatollah iraniano nel mondo sciita. Anche El Tayeb, nei giorni di piazza Tahrir, è stato bersaglio di qualche contestazione dai giovani che gli rimproveravano, tra l’altro, di essere stato nominato, come i suoi predecessori, dal presidente Mubarak. Ma non sembra che quei colpi di spillo abbiano deturpato la sua immagine. È certamente conservatore, ma troppo intelligente per ignorare che negli scontri fra religioni il numero degli sconfitti è sempre superiore a quello dei vincitori. La sua risposta al clima sovraeccitato degli scorsi mesi è una iniziativa ecumenica. Mi dice di avere costituito con papa Shenuda e altri esponenti religiosi una «Casa della famiglia» , in cui si lavora a creare le condizioni per una migliore convivenza fra musulmani e cristiani. Sono state istituite commissioni per eliminare dai manuali e dai programmi scolastici tutto ciò che può incitare all’odio interreligioso. Vengono programmate trasmissioni televisive in cui i rappresentanti delle diverse fedi religiose confrontano le loro letture dei testi sacri. Gli chiedo se la sua politica si scontri con la resistenza dell’oltranzismo islamico, della Fratellanza musulmana, dei gruppi salafiti che sono usciti dall’ombra e si stanno organizzando. Mi risponde prudentemente ed ecumenicamente che con la Fratellanza è possibile dialogare e che anche tra i salafiti vi sono i buoni e i cattivi. Ma ho l’impressione che il suo maggiore problema non sia soltanto quello di tenere a bada gli estremismi religiosi in un Paese surriscaldato. La «rivoluzione » di piazza Tahrir è stata opera di giovani rispettosi della loro fede, ma molto più laici dei loro genitori. Ricordo al Grande Imam alcuni dati statistici sulle ultime generazioni arabe rilevati recentemente da uno studioso francese, Emmanuel Todd. Secondo Todd le ultime ricerche registrano il declino di una vecchia pratica endogamica, tipica delle società conservatrici: il matrimonio fra cugini. Il dato segnala che la famiglia sta perdendo la capacità di condizionare con le scelte matrimoniali il futuro dei figli. Ahmed El Tayeb non commenta i dati ma osserva che il suo matrimonio fu organizzato dalla famiglia e che la sua vita matrimoniale è stata felice. Riconosce che i suoi figli hanno scelto liberamente le loro mogli, ma aggiunge che i loro matrimoni sono stati un po’ più complicati del suo. Qualche ora dopo, in albergo, sto ripensando alle parole del Grande Imam quando qualcuno mi suggerisce di dare un’occhiata alla sala da ballo dove si sta festeggiando un matrimonio. La musica assordante e l’illuminazione lampeggiante sono quelle di una discoteca. Al centro della sala un centinaio di giovani coppie hanno formato un cerchio e ballano freneticamente intorno agli sposi. Una telecamera montata su una grande gru ritrae la scena dall’alto e la proietta su un grande schermo. I ragazzi hanno eleganti abiti scuri, camicie bianche, occhi di velluto, capelli impeccabilmente spettinati. Le ragazze hanno gonne molto corte, vestitini attillati, braccia nude, generose scollature e capelli al vento. Ai tavolini disseminati lungo la sala sono seduti signori e signore che, a giudicare dall’età, sono i padri e le madri dei ballerini. Quasi tutte le madri hanno la testa avvolta in un foulard che scopre soltanto l’ovale del viso. Ma una di esse ogni tanto si alza e accenna un passo di danza. A nessuna di esse passava per la mente di dire a sua figlia che avrebbe dovuto vestirsi diversamente. Forse è questa la vera rivoluzione egiziana. (2-continua. La prima puntata è stata pubblicata il 6 giugno)

Repubblica 9.6.11
Un saggio di Rizzi consigliato dal grande intellettuale per interpretare i fatti di oggi
Il libro che ci fa capire le rivoluzioni arabe
di Predrag Matvejevic


Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, saremo costretti a costruire uno sguardo nuovo sui Paesi del sud del Mediterraneo

In questi ultimi mesi abbiamo avuto l´occasione di leggere e di ascoltare innumerevoli testimonianze sugli eventi che, dall´inizio di quest´anno, sconvolgono i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, con la sorprendente partecipazione della società civile.
Tuttavia la qualità della maggior parte di questi interventi resta a dir poco discutibile o superficiale. Tra i testi dedicati a questi fenomeni, legati tra di loro da un «effetto domino», c´è l´uscita di un libro particolarmente valido ed originale a firma di Franco Rizzi, Mediterraneo in Rivolta, con la prefazione di Lucio Caracciolo (Edizioni Castelvecchi RX). L´autore è riuscito ad analizzare gli eventi che stanno scuotendo il Mediterraneo ponendoli in una prospettiva storica, offrendo così al lettore una chiave di lettura ben articolata e di grande spessore.
Franco Rizzi dirige "Unimed" (Unione delle Università del Mediterraneo) che ha fondato venti anni fa e a cui partecipano ottantuno atenei delle due rive. Questa è una delle poche istituzioni che è riuscita, non senza difficoltà, a perseguire ed a sviluppare la sua attività, nonostante il supporto da parte delle autorità italiane, universitarie e ministeriali si sia rivelato a dir poco ingeneroso.
Rizzi è anche professore ordinario presso l´Università di Roma Tre dove insegna Storia dell´Europa e del Mediterraneo. Tra i libri che completano la sua vasta bibliografia emerge, tra gli altri, L´Islam giudica l´Occidente che, pubblicato nel 2009, preannuncia in maniera sorprendente e lucida alcune delle cause che hanno scatenato le rivolte arabe. Malgrado tutto, l´Unione delle Università del Mediterraneo ci ha permesso di dibattere nella capitale italiana con esperti di prim´ordine, europei, arabi, israeliani e non solo, le cui prese di posizione e strategie di ricerca sono strettamente legate al nostro mare: Mohammed Arkoun, Abdelmajid Charfi, Franco Cardini, Raphael Vago, Vassila Tamzali e altri.
L´autore di Mediterraneo in rivolta si chiede e si interroga, lontano da ogni pedanteria universitaria: «Allora, quali sono i criteri per analizzare quello che sta avvenendo? Un assordante silenzio si è udito… E tutto ciò perché non sapevamo cosa dire, perché quello che stava accadendo in Paesi importanti della riva Sud del Mediterraneo ci rinviava alle nostre contraddizioni, alla nostra incapacità, in quanto europei, di elaborare una corretta politica mediterranea… Siamo sicuri che ormai nulla sarà come prima». Il libro comincia con la Tunisia, il primo paese del Sud del Mediterraneo a concludere un accordo di "associazione euro-mediterranea" con Bruxelles. Prosegue con l´Egitto, il cui capitolo presenta una viva riflessione sul panarabismo ed evoca con forte realismo la nazionalizzazione del Canale di Suez, la guerra di Suez e le sue conseguenze, servendosi di riferimenti tanto arabi ed egiziani quanto occidentali e soprattutto europei. Dalla Tunisia e l´Egitto, si passa poi al territorio libico e precisamente al giorno 25 febbraio 2011: «Nessuno avrebbe immaginato che anche Gheddafi, un uomo cinico, brutale e violento, avrebbe dovuto fare i conti con una rivolta… Tutti i governi, invece, amici e nemici, hanno subito intuito che nel caso della Libia lo scontro sarebbe stato più cruento».
Scritto con un erudizione eccezionale e in una lingua accattivante, l´autore riesce a fare tesoro delle sue personali esperienze di viaggi e di rapporti. Non meno interessanti sono i capitoli dedicati a Marocco, Algeria, Bahrein, ai vari rapporti del mondo arabo con l´Europa, l´Unione europea e l´Occidente. Mediterraneo in rivolta non è il primo libro di Franco Rizzi che ci allontana dall´immagine degli Arabi visti come la gente che passa il suo tempo a «pregare cinque volte al giorno col culo in aria» (Oriana Fallaci).
Le conclusioni di Rizzi si spingono ancora più a fondo: «Per decenni è sembrato che la Storia si fosse fermata nel mondo arabo, pietrificata sotto l´egida di regimi dittatoriali la cui legittimità veniva sostenuta dall´influenza occidentale… Abituati agli stereotipi con cui abbiamo sempre guardato questo mondo, ora saremo costretti a ricostruire uno sguardo nuovo».
Il libro di Franco Rizzi ci offre la piattaforma per un vero "sguardo nuovo". Ne avevamo bisogno da tempo.

Corriere della Sera 9.6.11
Ecco la portaerei cinese Pechino si lancia sui mari
I Paesi vicini temono le nuove ambizioni militari
di  Marco Del Corona


Non è ancora pronta. Tuttavia l’esistenza di una portaerei cinese è stata ammessa dal capo di stato maggiore dell’Esercito Popolare di Liberazione, Chen Bingde. Se ne parlava dall’anno scorso e fotografie sono apparse anche sui media: la nave coagula l’orgoglio di una nazione ormai consapevole del proprio ruolo ma anche i timori dei Paesi vicini e degli Usa, finora unica vera potenza egemone del Pacifico. Tuttavia non si tratta di un prodotto genuino della cantieristica militare cinese. A Dalian si sta lavorando infatti sulla portaerei sovietica Varyag (della classe Kuznetsov), acquistata dall’Ucraina nel 1998 da una società di Hong Kong che dichiarò di volerne fare un casinò a Macao. Invece, dopo 600 giorni in mare, la Varyag finì alla marina di Pechino. Gli Stati Uniti nei mesi scorsi non hanno voluto drammatizzare la notizia della portaerei cinese, e non solo perché occorrerà tempo prima che sia completamente operativa. Come ha ribadito il segretario alla Difesa, Robert Gates, al vertice sulla sicurezza a Singapore, gli Usa ci sono, e prendono a cuore la libertà di navigazione, c’è però la realistica presa d’atto che la Repubblica Popolare sia destinata a diventare un attore sempre più intraprendente. Dal canto suo, Pechino cerca di rimarcare la propria diversità: «E’ impossibile che manderemo la nostra portaerei nelle acque di altri Paesi. L’America non è in grado di capire cosa sia una società armoniosa» , ha dichiarato Qi Jianguo, un altro alto ufficiale. L’incontro di Singapore è servito alla Cina per cercare di mostrarsi non aggressiva, anche se parla di «pressioni» subite nelle acque che la circondano, stretto di Taiwan incluso. Il potenziamento della capacità militare cinese, comunque, muta le percezioni e gli atteggiamenti dei Paesi che contendono alla Cina arcipelaghi, e idrocarburi, del Mar Cinese Meridionale (le isole Paracel e Spratly). Domenica scorsa vietnamiti urlanti hanno marciato verso l’ambasciata cinese ad Hanoi, mentre le Filippine hanno appena contestato gli «abusi» di Pechino. Il mare testimonia il rarefarsi della ritrosia cinese rispetto al dogma diplomatico della «non ingerenza» . Emblematica la partenza delle navi da guerra cinesi alla volta della Somalia nel dicembre 2008, per unirsi alla flotta internazionale antipirateria. E se un editoriale recente ammoniva che «non interferire non significa starsene fuori» , uno studioso dell’Accademia di Scienze sociali, Xue Li, ha portato ad esempio lo Stretto di Malacca, cruciale canale tra l’isola indonesiana di Sumatra e la Malaysia, «da dove transita l’ 80%del greggio che importiamo» . Ebbene, ha dichiarato sul Global Times Xue, la Cina deve riuscire a dire la sua, cooperare, intervenire nella gestione dello stretto. «Offrire imbarcazioni, fondi, formare personale. La Cina lo sa fare» . E ancora il caso Somalia è servito a spostare ancora più avanti la barriera una volta invalicabile della «non interferenza» quando un paio di settimane fa Chen Bingde ha dichiarato che per essere «efficace» , la lotta contro i pirati deve includere attacchi militari alle loro basi sulla terraferma «per distruggerle» . Assumersi responsabilità significa assumersi rischi. La portaerei cinese sarà una responsabilità ingombrante, forse un ingombrante rischio.

l’Unità 9.6.11
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi


Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».

Corriere della Sera 9.6.11
Se le riviste dettano la scienza Il peso di editor e referee su scelte e destino dei ricercatori
di Giuseppe Remuzzi


«Non ho più lacrime, dopo tutto quello che abbiamo fatto, a che serve tutto? A niente. E dove va la scienza? Il mio futuro dipende da questo lavoro, mi sento già senza forze... non voglio leggere, sarà domani» . Chi scrive è Carlos, un giovane medico argentino, la lettera che lui non ha il coraggio di leggere è quella dell’editor (da noi si dice direttore) di un grande giornale di medicina. Per capire bisogna conoscere le regole della scienza e quelle che governano le pubblicazioni scientifiche da cui però dipende tutto: carriera, soldi per poter lavorare, successo e molto d’altro. Vediamo: finiti gli esperimenti si prepara un rapporto di quanto è stato fatto e si comincia a pensare al giornale che potrebbe essere interessato a pubblicare i tuoi dati. Ma i giornali non sono tutti uguali. Dei giornali di medicina il Lancet pubblica il 6%dei lavori che riceve, il New England Journal of Medicine poco più del 4%. Ma come fanno i direttori dei giornali a decidere cosa accettare e cosa no? Per grandi giornali — Nature e Science, per esempio, e poi per la biologia e la medicina Cell, PNAS, JAMA— la prima decisione la prende il comitato editoriale. La metà dei lavori sottomessi non supera nemmeno questo primo vaglio. Quelli che resistono vengono mandati a esperti del settore, li chiamano «referee» proprio come gli arbitri del calcio. Sono loro che suggeriscono cosa si può pubblicare e cosa no. La chiamano revisione tra pari, chi oggi giudica domani è giudicato. E più si restringe il campo meno esperti ci sono che possano giudicare con cognizione di causa, in certi casi tutto si riduce a una decina di persone che rivedono l’uno il lavoro dell’altro. Più che tra pari è una revisione fra persone in competizione fra loro, protetti da un rigoroso anonimato. È un sistema molto criticato ma siccome nessuno ha saputo inventare niente di meglio si va avanti così. Adesso però le cose potrebbero cambiare. Hidde Ploegh, un grande immunologo olandese che lavora al Mit a Boston, ha avuto il coraggio di scrivere su Nature quello che tutti pensano. Ploegh non ha dubbi, «invece di entrare nel merito di quello che hanno davanti i referee chiedono nuovi esperimenti che non servono quasi mai a cambiare la sostanza del lavoro» . Per i giovani è un disastro, i nuovi esperimenti posso richiedere un anno di lavoro e anche di più, chi deve arrivare alla tesi di dottorato aspetta, chi è vicino a trovare un lavoro lo perde e ne va di mezzo anche la carriera dei professori. «Così non va— scrive Ploegh —, dobbiamo istruire i referee a criticare quello che hanno di fronte e dare suggerimenti per migliorare, ma non a chiedere agli autori di fare un secondo lavoro» . C’è persino il rischio che ci sia qualcosa di perverso in questi comportamenti, anche i referee sono autori e anche a loro succede di incontrare qualcuno che gli chiede un sacco di lavoro in più per niente. E allora perché continuano a farlo? Mah forse perché «così fan tutti» o per togliersi la soddisfazione di infliggere agli altri quello che hanno patito loro. Così però si uccide la scienza e si fa un pessimo servizio agli ammalati. E gli editor dei giornali dove sono? Se c’è differenza di opinioni invece di prendere loro una posizione mandano il lavoro a altri referee, si arriva a quattro o cinque dice Ploegh (anche sei o sette dico io, ma come si fa a mettere d’accordo sei persone?). E gli autori dei lavori? La parola d’ordine è compiacere i referee, sempre e comunque. Sono soldi sprecati e tempo perso, ma guai a dirlo. La settimana dopo Nature risponde con grande fair play: «Abbiamo tutti una lezione da imparare dalle accuse di Ploegh» . A Carlos, il ragazzo dell’inizio di questa storia, sembrava essere andato tutto bene: tre referee di un grande giornale, tutti e tre favorevoli. Uno però vuole introdurre certe sofisticazioni statistiche, eleganti ma di poco interesse pratico. Sono sei mesi di lavoro senza che le conclusioni dello studio cambino di una virgola, ma il manoscritto è più elegante adesso. Carlos è raggiante. Ma ha fatto i conti senza l’oste (o meglio senza l’editor). Che si è molto compiaciuto del lavoro fatto, ma poi ha sentito altri referee, diversi da quelli di prima. La lettera che Carlos non voleva leggere subito dice: «Questo lavoro è bello, e anche importante per gli ammalati ma la statistica è troppo complicata, non lo possiamo proprio pubblicare, sorry» .

Corriere della Sera 9.6.11
Quel che resta del marxismo
di Giuseppe Galasso


L a caduta dei regimi del «socialismo reale» , come pudicamente si definivano quelli comunisti dell’Europa orientale, ha comportato la pratica scomparsa delle idee marxistiche dal dibattito culturale e politico culturale degli ultimi anni, benché quei regimi non avessero più nel marxismo che una generica referenza. Nessuno credeva più alle predizioni marxiane sul fatale avvento del proletariato industriale alla guida della società e sul connesso, mitologico passaggio dalla società borghese e capitalistica alla libera società senza classi, senza proprietà e senza Stato, che il comunismo avrebbe inaugurato. Ciò ripropone un dilemma che solo pochi si sono posti. L’enorme ruolo del marxismo dipese dal fatto che Marx con le sue idee suscitò i formidabili movimenti politici e sociali che ne presero il nome, o fu l’adozione del pensiero di Marx come propria ideologia da parte di questi movimenti a determinare l’importanza del marxismo in un secolo e mezzo di storia mondiale? Per noi, è più vero il secondo punto di questa alternativa. Resta, poi, certo, la questione del perché i movimenti politici e sociali del tempo abbiano adottato le dottrine di Marx. Certo, non sarà stato perché quello di Marx era un socialismo che si autodefiniva «scientifico» . Di molto più probabile è che abbia agito in modo decisivo la suggestione della prospettiva marxiana di vittoria del proletariato, della sua assunzione dittatoriale del potere, della sua storica e fatale missione di trasformare la società portandola all’ultimo e più alto stadio del suo sviluppo, ossia non solo a un regime di uguaglianza materiale oltre che giuridica, ma, soppressi Stato e classi, anche alla pace universale. Così, la «scienza» del marxismo si risolveva in una utopia addirittura più completa e più chiusa di quella dei socialismi, che esso considerava utopistici. Come si sa, molto prima del fallimento politico del marxismo, gli studi di economia e di storia e le discipline politiche e sociali lo hanno vivisezionato e mal ridotto, in quanto presunta scienza dello sviluppo economico e sociale dell’umanità dall’alba dei tempi alla perfetta società comunista. L’ultima parola è poi toccata, com’era naturale, alla politica, che ne ha sancito il tramonto come ideologia di partiti che pretendevano di arrivare alla libertà attraverso la pratica del suo contrario, ossia il totalitarismo. «N on dovrebbe, però, essere messo in dubbio neppure che nel marxismo potevano esservi semi e frutti di una riflessione fondata e feconda. Oltre tutto, è improbabile che una dottrina sorta in una delle stagioni più creative del pensiero europeo, e in assidua discussione con le altre maggiori voci del suo tempo, non abbia nulla assorbito e trasmesso di quella stagione. Così, infatti, era, e così si spiega pure la parte cospicua e innovativa del marxismo nella cultura europea tra il XIX e il XX secolo. Una parte rilevante in specie per la storiografia, nella quale l’influenza del marxismo portò a una nuova e più organica e dialettica considerazione dei cosiddetti «fattori realistici» della storia: economia e relativi interessi, configurazione sociale della struttura economica, classi e lotte di classe, intrecci e convergenze o divergenze fra struttura politica del potere e struttura economico sociale. Anche l’inaccettabile e pedestre stratificazione marxiana tra struttura reale (economico-sociale) e sovrastruttura formale o ideologica (politica, istituzioni, cultura, religione, idee etc.) poteva, in qualche caso, servire a storici e sociologi. Il naufragio dottrinario del marxismo è stato, invece, più completo di quello politico. Un effetto, tra i molti, ne è che anche di nozioni fondamentali, come quelle di classe e di lotte di classe, quasi nulla venga più ricordato nella dialettica politica e sociale e nel mondo della cultura, compresa la storiografia. Poi, certo, il tempo sarà un buon medico, come in tutto, ma le odierne analisi dei problemi sociali come problemi che non presuppongano condizioni strutturali materiali e sociali hanno tutto l’aspetto di favole ideologiche. Alla irrealtà marxiana della società definita dall’economia e ferreamente determinata dalle sue presunte leggi di sviluppo si è sostituita l’irrealtà di una società invertebrata, risolta tutta nel gioco della produzione e del mercato, giudici inesorabili, ma anche medici pietosi. Ma come l’irrealtà marxiana sfociava nel totalitarismo e nella perenne formazione di una «nuova classe» , così l’irrealtà della società invertebrata sfocia fatalmente, prima o poi, in crisi tremende, sempre impreviste e spesso sovvertitrici. Forse tra le due irrealtà c’è maggiore solidarietà concettuale di quanto si pensi, ed è questo ad aprire alle libere democrazie il vastissimo spazio storico della loro azione politica e sociale, come la storia del Novecento ha già ampiamente dimostrato.

Corriere della Sera 9.6.11
Finkelkraut e la Shoah
Una memoria per il futuro
di  Dino Messina


Non si può «elevare la Shoah a paradigma politico» . «Nel ricordo del male assoluto paradossalmente rischiamo di separarci dal passato e di crederci superiori a tutte le generazioni precedenti» . Lo scopo di Alain Finkielkraut, filosofo e saggista ebreo francese che ha appena finito di curare L’interminable écriture de l’extermination (l’interminabile scrittura dello sterminio), volume edito da Stock, non è scagliarsi scandalisticamente contro «L’industria dell’Olocausto» come aveva fatto nel 2002 da New York un altro studioso figlio di deportati, Norman Finkelstein, suscitando con il suo libro la reazione sdegnata in molte comunità ebraiche. L’obiettivo di Finkielrkraut, come appare dall’intervista a Marie-Françoise Masson pubblicata da La croix e ieri da Avvenire, è fare in modo che le generazioni future continuino a parlare di quel che è successo anche quando saranno scomparsi gli ultimi sopravvissuti allo sterminio. Ma per conservare la memoria bisogna evitare alcuni errori, a cominciare dalla semplificazione, pericolo indicato da Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Finkielkraut parla di una «memoria pudica e che accetti di affrontare la complessità delle cose» . Per quanto riguarda l’attualità, il pericolo è usare la Shoah non solo come unica e tragica misura di un passato più lungo e complesso, ma come metro politico per valutare la situazione in Medio Oriente. Un «paradigma politico» che porta a spiegazioni aberranti del tipo «le vittime di ieri sono i carnefici di oggi» . Invece di storicizzare, «spesso si cede— dice il filosofo francese — a una mancanza di ritegno della memoria» . E a una concorrenza con le altre memorie, dal colonialismo allo schiavismo... «La Shoah è diventata l’unità di misura della sofferenza e oggi regna una concorrenza sfrenata fra le vittime. L’unica maniera di finirla è che il discendente di una vittima non è una vittima. Mio padre è stato un deportato, io non sono un deportato» .

l’Unità 9.6.11
Addio a Jorge Semprún lo scrittore e partigiano sceneggiatore di Costa-Gavras
È morto martedì scorso a Parigi, all’età di 88 anni, lo scrittore spagnolo Jorge Semprún. Fu anche militante clandestino. resistente, uomo politico e sceneggiatore di Resnais e Costa-Gavras. Ci lascia una ventina di testi.
di Anna Tito


«Tutta la sua vita è stata un romanzo, quindi come potrebbe diventare uno scrittore?» si chiedeva ieri un sito d’Oltralpe annunciando la scomparsa, avvenuta martedì sera a Parigi di Jorge Semprún. Ma fu anche militante clandestino, resistente, uomo politico e sceneggiatore di film di successo.
Nato a Madrid nel 1923, figlio di un diplomatico repubblicano spagnolo, lasciò la Spagna con tutta la numerosa famiglia al termine della guerra civile, nel 1939, per stabilirsi a Parigi. Figlio della guerra civile spagnola, fu fin da adolescente resistente al nazismo nella rete dei Franchi Tiratori e Partigiani, e poi irriducibile dirigente dal 1953 del Partito comunista spagnolo clandestino; vent’anni dopo, ministro della cultura (1988-1991) della nuova Spagna guidata da Felipe Gonzáles. Una vita piena per giunta «bello come un matador!», hanno ricordato su un blog spagnolo alcune sue compagne di clandestinità al centro delle sue opere, una ventina (in francese e in spagnolo), in cui i momenti decisivi della sua esistenza appaiono come frammenti di cronologia, senza mai offrirci un racconto davvero autobiografico.
In Adieu vive clarté... (1996), forse il più intenso e commovente fra i suoi romanzi e purtroppo non tradotto in italiano, narra «la scoperta dell’adolescenza e dell’esilio, i misteri di Parigi, del mondo, delle donne, e dell’appropriarsi della lingua francese». Nuestra guerra, come la chiamavano in famiglia «forse per distinguerla da tutte le altre guerre della storia», era perduta, Jorge aveva 16 anni, e pensava ai «suoi», in senso lato, dispersi, umiliati, maltrattati; e in un piovoso giorno di marzo del 1939 davanti a un titolo di Le Soir che annunciava la caduta di Madrid, decise di far sparire ogni traccia di lingua spagnola dalla propria pronuncia. Se in breve tempo riuscì a confondersi nell’anonimato grazie a una perfetta pronuncia del francese, restò per sempre un «rosso spagnolo».
Il grande viaggio (1963) narra essenzialmente dei cinque giorni di viaggio fra Parigi e Buchenwald, dopo l’arresto avvenuto nel 1943. Tornò sull’esperienza della deportazione nel 1994, con l’altrettanto sconvolgente La scrittura o la vita, quasi un esercizio di psicanalisi sull’impossibilità di scrivere sul blocco mentale che lo colse al ritorno da Buchenwald. In Federico Sanchez vi saluta (1992), dal nome scelto negli anni della militanza clandestina nel Partito comunista spagnolo Semprún lascia trapelare una certa delusione nei confronti della nuova Spagna che l’aveva chiamato al governo. In Autobiografia di Federico Sanchez (1978), invece, ritroviamo la rottura con il leader Santiago Carrillo che gli valse l’esclusione dal Partito.
L’incontro con registi impegnati come Alain Resnais e Constantin Costa-Gavras «mi ha permesso di guadagnare tre anni» dirà in seguito l’ex militante. In particolare Resnais, commissionandogli la sceneggiatura di La guerra è finita (1966), storia tormentata di un antifranchista, «mi ha aiutato a cambiare pelle», permettendogli di vivere un’esperienza che considerava come il suo «Purgatorio», poiché lo riavvicinanò alla narrativa. Seguirono fra gli altri, con Costa-Gavras, Z. L’orgia del potere (1969), vincitore di due premi Oscar, e La confessione (1970).
Une tombe au creux des nuagesb (2010) è la sua ultima opera: una raccolta di riflessioni sul nazismo, la riunificazione della Germania, l’emancipazione dei Paesi dell’Est Europa, gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, e le radici spirituali dell’Europa che definisce «il laboratorio» di un secolo che, dopo essere stato minacciato dal totalitarismo, è diventato quello dell’«emancipazione».

La Stampa 9.6.11
Semprún le battaglie del ’900
di Mario Baudino


Nel settembre del 1936 la famiglia Semprún sbarca da un peschereccio a Bayonne, sotto gli occhi «non ostili, ma indifferenti» dei villeggianti francesi. È composta da un padre repubblicano, una matrigna e cinque figli, in fuga dalla Spagna. Tra loro Jorge, che diventerà un protagonista del suo secolo, tra letteratura e politica. È morto l’altro giorno nella sua grande casa parigina, a 87 anni, dopo una vita che lo ha visto in prima fila, dalla lotta nella clandestinità contro Franco alla critica del totalitarismo comunista, che gli costò nel ’64 l’espulsione dal Pc spagnolo, il più filorusso d’allora; dai libri sulla sua deportazione nel Lager alla stagione come ministro della Cultura in Spagna, nel governo di Felipe González, tra l’89 e il ’91. Senza dimenticare i rapporti col cinema. È sua la sceneggiatura di ZeMissing , i capolavori del regista greco Costa Gavras, suo grande amico.
Jorge Semprún ricorda in uno dei suoi libri più belli, Adieu clarté , che proprio quando le truppe di Franco presero Madrid una panettiera parigina lo definì, riconoscendolo dall’accento, come «uno degli spagnoli sconfitti». Quelle parole furono come uno schiaffo. Decise che avrebbe imparato meglio la lingua dell’esilio, e soprattutto fece un giuramento: «Non dovevo mai dimenticare di essere uno spagnolo rosso, non avrei mai cessato di esserlo». Rosso sì, ma senza cadere da un totalitarismo all’altro. Ha mantenuto entrambi gli impegni, sia per i libri (in gran parte scritti in francese), sia per le grandi battaglie della vita, cominciate a vent’anni quando fu arrestato dai nazisti e deportato a Buchenwald.
La sua esperienza è simile a quella di Primo Levi. Ma per poterne scrivere volle «il tempo di dimenticare». Solo ne ’63 pubblicò, tra autobiografia e invenzione, Il grande viaggio (Einaudi). Resta la sua opera più famosa, seguita dall’ Autobiografia di Federico Sánchez (per Sellerio; Sánchez era il suo nome di battaglia durante la lotta clandestina in Spagna) e Letteratura o vita (Guanda), ancora su Buchenwald. Teorizzò che, per narrare l’indicibile, erano necessari i ricordi ma anche l’invenzione, e su questi temi fu protagonista di una dura polemica con Claude Lanzmann, il regista di Shoah . E la deportazione fu sempre, per lui, «la sola cosa che veramente mi definisce».

Corriere della Sera 9.6.11
Il mondo saluta Semprún «Un testimone del secolo»
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — «Un testimone straordinario del XX secolo» , per il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel della Letteratura. «Un uomo di una perfetta onestà intellettuale» , per il regista Costa Gravas. «Una figura di spicco tra gli intellettuali impegnati del XX secolo» , per il presidente francese, Nicolas Sarkozy. «Uno dei più grandi democratici d’Europa» , per il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero. «Un fantastico ministro della Cultura» , per l’ex primo ministro socialista, Felipe Gonzalez, che lo volle nel suo governo. E, come uomo politico, «una fonte di ispirazione per il progetto europeo» , secondo il presidente del Parlamento europeo, ed ex dissidente polacco, Jerzy Buzek. Il mondo della cultura, della politica e delle istituzioni cerca le parole per descrivere Jorge Semprún, scrittore, intellettuale, testimone e coscienza di un secolo, scomparso l’altra notte a Parigi, all’età di 87 anni (i funerali si svolgeranno domenica e sarà sepolto a Garentreville, 50 chilometri a sud di Parigi). Ma neanche i professionisti delle lettere riescono a sintetizzare in poche parole che cosa abbiano rappresentato la sua vita e il suo impegno nella società spagnola e francese, alle quali è appartenuto. E, soprattutto, che cosa rappresenti ora la sua perdita. Se Spagna e Francia possono contendersi il primato, nel suo cuore e nel suo passaporto, come patria di nascita e di adozione, e se gli editori francesi possono dimostrare con i loro cataloghi come Semprún prediligesse l’idioma transalpino, l’Italia ha riservato moderate attenzioni all’autore, sopravvissuto al lager di Büchenwald, scampato alla repressione franchista e agli anni più barbari del secolo scorso. Alle atrocità commesse sui prigionieri, ma anche tra i prigionieri. Nelle sue autobiografie raccontava come salvò la vita nei campi di sterminio per un equivoco nella trascrizione della sua professione: stuccatore (ovvero utile manodopera) anziché studente (quindi, un pericoloso sovversivo). Ma soltanto una parte della sua enorme produzione letteraria è stata tradotta e pubblicata in italiano nel corso degli anni; mentre Semprún, superato il dolore per la sua espulsione dal partito comunista spagnolo (per dissensi con il leader Santiago Carrillo e con «la pasionaria» , Dolores Ibarruri), si convertiva in una figura di riferimento per la letteratura e la politica europea.

La Stampa 9.6.11
iCloud
Ci stiamo smaterializzando
di Marco Belpoliti


Da Baudrillard a Vattimo a Virilio, ma il vero profeta è stato Lyotard negli Anni 80

“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», ha scritto Karl Marx e, come si sa, stava parlando dei movimenti rivoluzionari nati dalla borghesia a metà dell’Ottocento. Una previsione in anticipo sui tempi, senza dubbio, ma che coglie perfettamente il senso del cloud computing , la nuvola dove si addenseranno nel prossimo futuro le parole, le idee, i pensieri che produciamo ogni giorno attraverso le nostre tecnologie informatiche.
La tecnologia cloud in realtà è la realizzazione di un’altra previsione, quella di Jean Baudrillard che negli Anni Settanta aveva previsto l’evoluzione del capitalismo industriale dalla produzione di oggetti e merci alla produzione d’immagini, segni, in particolare sistemi di segni, perché tali sono gli smartphone che possediamo, affollati di icone o, come oggi si dice, di application . Paul Virilio in Estetica della sparizione (1980) aveva attribuito alle nuove tecnologie, allora ai primi passi, la smaterializzazione in corso del mondo e soprattutto la derealizzazione dell’esperienza. Anche Gianni Vattimo alla fine di quel decennio, segnato dal crollo del Muro, aveva celebrato in La società trasparente il dissolversi della pesantezza del mondo e la sua transizione in un universo alleggerito che oggi possiamo sintetizzare nell’immagine della nuvola gassosa gonfia d’informazioni e bit che galleggerà in modo virtuale sulle nostre teste.
Ma il vero profeta dell’universo informatico che abitiamo ogni giorno il nostro Paradiso e insieme l’Inferno del presente è Jean-François Lyotard che nel 1985 organizza al Beaubourg la mostra «Les Immatériaux»: un allestimento di reti metalliche, trasparenze leggerissime, tutto in grigio, in cui viene mostrata la fine della distinzione tradizionale tra materia ed energia, entità che si possono continuamente scambiare tra loro. Il denaro, non più ancorato all’oro da molti decenni, sta già migrando anche lui verso l’immaterialità pura, divenendo, sotto forma d’impulsi, parte sostanziosa del cloud ; la comunicazione è la parte centrale della blogosfera, come viene chiamata, sempre più simile alla nuvola di cui lo storico dell’arte Hubert Damisch ha dato una descrizione in Teoria della nuvola . Di più: ciascuno di noi è oggi una entità evanescente, dai profili cangianti, a tratti grigia a tratti rosseggiante, o azzurra, che si collega con tutti gli altri senza più transitare per lo stato solido, il contatto fisico face to face . Dal solido al gassoso, come diceva Marx, passando per quello liquido, descritto da Zygmunt Bauman. A questi stati dobbiamo aggiungerne un altro, il plasma, possibile nuova metafora della ionizzazione dell’universo stesso.
La nuvola sostituisce perciò la metafora della «piattaforma», dominante fino a che la tecnologia ha avuto ancora bisogno di forme lamellari per rendere ragione della propria forma. Si può ben immaginare che questa entità gassosa, fusa o in stato continuo di sublimazione, ondeggi nell’aria creando un doppio del nostro mondo, un suo riflesso, un Alien, che farà di noi delle creature virtuali, copie di copie che fluttuano nell’Ultra-Web come tanti Truman Burbank che, invece di sbattere contro il fondale di cartone dello show in onda, lievitano alla ricerca della propria identità personale restituita, se tutto va bene, in tempo reale da un aggregato di bit.

l’Unità 9.6-11
Sabina Guzzanti: «Salviamo la cultura: No alla Sala giochi»
L’attrice è tra gli occupanti dell’ex Cinema Palazzo nello storico quartiere romano di San Lorenzo «Lotto con i cittadini, manca una politica sensata»
di Marco Guarella


Puntare sulla cultura. Basterebbe questo gioco di parole per raccontare una storia significativa: un quartiere di Roma mobilitato contro l’apertura di un Casinò-Sala da gioco. Siamo a San Lorenzo storico quartiere della capitale per raccontare due mesi di occupazione dell’Ex Cinema Palazzo, un luogo storico della cultura, di inizio secolo, dedicato al teatro e al cinema dove tra gli altri calcarono le scene anche Ettore Petrolini e Romolo Balzani. Molte storie di siti culturali assomigliano alle vicende di questo spazio: il cinema non esiste più da trent’anni, poi, a lungo, una sala biliardo e ancora dieci anni fa lo stabile fu ristrutturato per ospitare una Sala Bingo, progetto che fallì dopo poco. Pochi mesi fa, l’ingresso da parte di una società per la gestione del casinò, con slot machine e video poker. Un pasticcio in quanto il piano regolatore non ammette sale giochi, viene chiesto un condono non concesso e risulta chiaro come si possa fare solo attività culturale.
Dentro questa «storia all’italiana» si inserisce il business della quasi liberalizzazione del gioco di azzardo che viene di fatto facilitata dal decreto Abruzzo del 2008. Ma il quindici aprile alcuni centri sociali, il comitato di quartiere assieme a singoli cittadini decidono di occupare l’ex cinema per dire «No al casinò»: le firme raccolte a sostegno di chi si oppone alla nascita della Sala da gioco sono più di seimila. In quei giorni in seguito alla morte a Gaza di Vittorio Arrigoni, gli occupanti intitoleranno la Sala al cooperante italiano. Da allora si svolgono proiezioni di film, spettacoli teatrali, serate musicali . Il vecchio ex cinema si affaccia su Piazza dei Sanniti, usata spesso come parcheggio selvaggio, in una San Lorenzo radicalmente trasformata.
Oggi il taglio dei fondi per le attività culturali a Roma stride con il probabile acquisto, per la cifra di 12 milioni di euro, del centro sociale neofascista Casa Pound da parte della giunta capitolina. Se in circa due mesi si è svolto un numero di eventi forse superiore a quello delle ultime stanche formule di «Estate Romana», è probabile che la «dote» di questo connubio tra politica e arte, ipotecando la fine dell’era Alemanno, proverà a proporsi come modello e strategia per una futura gestione della cultura a Roma.
Incontriamo Sabina Guzzanti come occupante e macchina artistica dell’ex cinema Palazzo. Come sei entrata in questa esperienza a San Lorenzo?
«Un po’ per caso perché ci abito, sono da anni una sanlorenzina acquisita. Questo spazio, che negli ultimi anni era rimasto chiuso o sfitto, però lo conoscevo già in passato, avevo provato in qualche modo a interessarmene ma era tutto troppo complicato o oscuro. Poi c’è stata questa iniziativa di varie associazioni e comitati di quartiere; ho ascoltato come si era arrivati all’occupazione e così già dal primo giorno, rifiutando l’idea che il quartiere avesse bisogno di una Sala da Gioco-Casinò, ho stabilito un rapporto diretto con gli occupanti. È un’iniziativa in un quartiere che negli ultimi anni ha subito un continuo degrado: sporcizia, spaccio, furti. San Lorenzo luogo storico della memoria e della cultura popolare a Roma è peggiorato, smarrito la sua identità anche per questo sto occupando la Sala Vittorio Arrigoni».
Pensi esista anche un degrado del consumo culturale, in questo quartiere e nella città? «Trovo (sorride Sabina) ovvia questa domanda, una politica sensata manca da anni e con Alemanno le cose sono addirittura peggiorate. Credo che in questa città gli spazi culturali siano limitati, come modello virtuoso vedo solo Auditorium, ma più che vedere mega-eventi penso esista una grandissima sete di espressione e partecipazione. Questo è lo spirito di questa occupazione: quando questo spazio è stato aperto abbiamo cominciato, senza fatica e con molte persone, attività e iniziative riqualificando il tessuto urbano a differenza di luoghi dove si può solo bere e i giovani sono coinvolti in una dimensione asociale. Sembrerà paradossale ma è proprio questo dialogo che favorisce “l’ordine pubblico” cioè una politica culturale non sporadica, capace di rendere possibile esperienze e ricerche». Allargando questo discorso all’Italia, valutando positivamente il plurievocato “vento di cambiamento” in importanti città, pensi esista la possibilità di fermare l’involuzione antropologica di questo Paese?
«Credo siano facilonerie..(Sabina non sorride) questo desiderio di cambiamento è stato possibile grazie al fatto che dopo tanto tempo ci fossero candidati finalmente votabili...Ma questo contrasta con un mio forte pessimismo sull’uscita dal buio culturaleci vorranno anniche rimarrà ancora per molto tempo, soprattutto se questo governo resterà come temo fino al 2013. Sono io che torno a parlarti di pratica culturale. Pur continuando il mio lavoro sto trovando nell’ex Cinema Palazzo, un’esperienza che porta felicità e mette in moto relazioni importanti: un luogo tenuto con cura dove le persone che partecipano alla gestione dello spazio sono molteplici. Dopo una naturale diffidenza reciproca, dovuta all’eterogeneità della composizione sociale, la situazione gradualmente, grazie ad una “democrazia diretta”, piena è diventata, ai fini delle attività, efficiente. Un “lavoro” divertente in un clima positivo, costruttivo con una grande attenzione sul fatto che questo non venga vissuto come il “classico” centro sociale».
Pensi che tutto questo possa essere o diventare un modello per la città? «Credo di sì, le trattative con il Comune sono a buon punto e si spera in un accordo anche con la proprietà, ma anche se questa formula dovesse terminare, oggi sarebbe stata una scommessa vincente. Dovrebbe divenire un luogo per fare cultura eripetonon solo luogo di eventi e spettacoli da fruire. Vi è una grande attività che produce e dimostra che si possono fare teatro e cinema in questo modo. Ma anche immaginare cose diverse: dal torneo di tressetteorganizzato da Elio Germanoai seminari filosofici nelle attività pomeridiane. Esperienza analoghe si stanno mettendo insieme e stanno provando, come abbiamo discusso in un recente convegno all’università, ad ipotizzare dei nuovi modelli di gestione culturale».

Repubblica 9.6.11
Filippo Timi: ora divento pedofilo ma nella vita sono un giocherellone
La cattiveria va cercata e trovata dentro di sé, i mostri vanno resi umani


ROMA - Filippo Timi ha prestato lo sguardo scuro a personaggi negativi come il giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio e il traditore di Vallanzasca nel film di Michele Placido. In Ruggine, di Daniele Gaglianone, ambientato nella Torino anni ‘70, incarna il ruolo di un pediatra che si scopre pedofilo e assassino. L´attore lo definisce «il male assoluto, il peggiore dei cattivi, colui che infrange il tabù più grande. Anche per ciò che rappresentava il medico per le famiglie italiane di quarant´anni fa».
Come ci si avvicina a un personaggio così odioso?
«Il teatro aiuta. Shakespeare insegna che non devi pensare al male come qualcosa di distante, devi rendere umano il mostro. Perfino affezionartici, anche se non puoi giustificarlo. È stato un lavoro complicato, ma affascinante, l´occasione di sperimentare sentimenti e visioni, aprire degli squarci orrendi dell´animo che ringraziando Dio poi, nel quotidiano, non ho. Nella vita sono un giocherellone scemo. Ma qualcosa dentro ti resta: a me è successo con il Mussolini di Bellocchio. Uscire dal personaggio, dopo averne esplorato pulsioni come il senso di onnipotenza e la sete di potere, è stato difficile».
Perché a lei offrono i ruoli da cattivo?
«Un regista mi spiegava che la mia generazione di attori ha più difficoltà a interpretare il cattivo. Venuti al mondo in un clima tranquillo, dobbiamo fare un lavoro più profondo per non recitare la cattiveria, ma invece per trovarla dentro di noi, provando a cambiare faccia».
Conta anche il fisico?
«Sì. Ci sono attori perfetti per interpretare il ragazzo della porta accanto, non è il mio caso. Ma i cattivi non sono tutti uguali: torno dal set a Budapest del nuovo Asterix, sono un perfido centurione romano, un malvagio da ridere. Nel prossimo spettacolo teatrale invece sarò Satana in persona, per parlare del male contemporaneo».
(a.fi.)

Linkiesta 8.6.11
Cosa succede quando un estremista rosso guida Milano?
Alessandro Marzo Magno

qui segnalazione di Francesco Troccoli
http://www.linkiesta.it/cosa-succede-quando-un-estremista-rosso-guida-milano#ixzz1OieDfG5c

Terra 9.6.11
«Epidemia killer, così eviteremo la prossima»
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/57400404

Terra 9.6.11
Angelopoulos, ritorno alla tragedia greca
di Alessia Mazzenga

qui

Lettera 43 5.6.11
Personaggi
Nichi, cuore di mamma
Ritratto di Antonietta, la madre pasionaria di Vendola.
di Bruno Giurato

La madre è la chiave per capire il politico, governatore della Puglia Nichi Vendola, che nelle ultime amministrative, con il suo partito ha raccolto belle soddisfazioni. Fu lei a presentarsi all'anagrafe di Terlizzi (Bari) nell'agosto del 1958 e a decidere che il figlio si chiamasse Nicola, come Krushev, ma anche come il santo di Bari.
Fu lei a custodire le polemiche sociali del figlio contro Babbo Natale. Fu lei a dire a Nichi di mettersi l'orecchino. La signora Antonietta è una donna di  parole e fatti, una donna del Sud che ha saputo trasmettere valori, ideali, umanità ai figli ai quali ha detto: «Non sono contenta per quello che siete diventati, ma per come siete rimasti».
l’articolo integrale è qui
http://www.lettera43.it/attualita/17757/dio-matria-e-partito.htm

Libero 8.6.11
Vendola e 'la Cosa': per Pd, Sel e Udc un unico abbraccio
Il governatore vuole creare il mostro: la Cosa centrista

qui
http://www.libero-news.it/news/756713/Vendola_e__la_Cosa___per_Pd__Sel_e_Udc_un_unico_abbraccio.html

il Giornale 8.6.11
Vendola tenta di cannibalizzare Bersani e il Pd: "Dobbiamo unirci in un nuovo soggetto politico"
di Andrea Indini

qui
http://www.ilgiornale.it/interni/adesso_vendola_tenta_cannibalizzare_pd_fondiamoci_nuovo_soggetto_politico/08-06-2011/articolo-id=528103-page=0-comments=1